Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/10/2015
Il ‘grande vecchio’ della diplomazia americana, e mondiale, alza la vice si fa sentire, adesso che l’influenza degli Stati Uniti in Medio Oriente non è forse mai stata così bassa. Henry Kissinger afferma, sul Wall Street Journal, che la situazione attuale "è l'ultimo sintomo della disintegrazione del ruolo Usa nello stabilizzare l'ordine in Medio Oriente emerso dopo la guerra del 1973", l’anno in cui lui otteneva con Le Duc Tho il Nobel per la Pace per la fine della guerra in Vietnam (che sarebbe in realtà finita solo nel 1975).
Kissinger, 92 anni, consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato durante le presidenze Nixon e Ford dal 1969 al 1976, l’uomo della ‘diplomazia del pingpong’ con la Cina e della politica del disgelo con la Russia (l’Atto di Helsinky è del 1975), sostiene che gli Stati Uniti hanno bisogno in Medio Oriente di una nuova strategia e di nuove priorità, perché la presenza della Russia in Siria scombussola una struttura geo-politica durata per decenni.
Difficile dargli torto, nel momento in cui il presidente Obama e la diplomazia statunitense paiono incapaci di esercitare un’influenza sia sugli israeliani che sui palestinesi per stemperare l’incubo dell’ ‘Intifada dei coltelli’, mentre, sui fronti contrapposti anti-Califfo e anti-Assad, subiscono l’iniziativa della Russia di Putin più spregiudicata sul piano militare e con priorità più definite.
Kissinger non è una figura adamantina: le complicità degli Usa nel colpo di Stato in Cile del 1973 appannano il giudizio storico nei suoi confronti. Ma è indubbio che la sua politica estera, brillante e innovativa, a tratti spregiudicata, gli valse, nella prima metà degli Anni Settanta, grande prestigio e portò risultati agli Usa.
Nessun segretario di Stato americano del dopoguerra è entrato nella leggenda della diplomazia, neppure – solo per citarne alcuni dei più noti - George Schulz, James Baker, Madeleine Albright, Colin Powell, Condoleeza Rice. Hillary Clinton potrebbe meritare un discorso diverso: se diventerà presidente degli Stati Uniti sarà il primo segretario di Stato a compiere il percorso.
Ora – dice, da grande guru - bisogna “trovare una via per evitare il collasso del Medio Oriente”: "Gli Stati Uniti devono decidere il ruolo che avranno nel 21o Secolo e il Medio Oriente sarà il test più immediato e probabilmente più difficile. In gioco non c'è la forza dell'America, ma la sua determinazione a capire e a gestire il nuovo mondo".
E, nell’immediato, c’è la capacità di tenere a freno le tensioni che sono ormai riesplose tra israeliani e palestinesi: arrivando a Milano, dove ieri è stato all’Expo, esaltando il rapporto Usa-Italia, “mai così forte”, il segretario di Stato John Kerry ha chiamato i leader palestinese Abu Mazen e israeliano Benjamin Netanyahu, sollecitando il ritorno alla calma. Un invito che le cronache hanno subito coperto di sangue.
Kerry vedrà Netanyahu in Germania la prossima settimana e intende recarsi presto nella Regione, per cercare di frenare l’escalation delle violenze: "Cercherò di vedere se c’è modo di riavviare il negoziato e di evitare il precipizio". Ma il deterioramento della situazione nasce dall’intreccio delle frustrazioni di israeliani e palestinesi verso gli Stati Uniti: Netanyahu si sente ‘tradito’ da Obama, da ultimo per l’accordo sul nucleare con l’Iran; e i palestinesi avvertono distrazione e disattenzione nei loro confronti.
Il tempo gioca contro Obama: gli restano 16 mesi alla Casa Bianca e il suo peso negoziale s’assottiglia giorno dopo giorno. Israeliani e palestinesi possono pure aspettare il suo successore: ci saranno vittime, ma nessun vuole svendere la pace a un presidente svalutato.
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