Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/08/2016
Se le signore Maria, la russa, e Teresa,
l’americana, fossero mai gelose dei rispettivi illustri mariti, il ministro
degli esteri russo Serghei Lavrov e il segretario di Stato Usa John Kerry,
tutti questi incontri potrebbero finire con l’insospettirle: Lavrov e Kerry si sentono
praticamente tutti i giorni e si sono visti decine di volte, a Washington, a
Mosca, a Ginevra, a Vienna, a margine di Vertici, funerali e celebrazioni. E
non ne è mai venuto fuori nulla di decisivo, per il conflitto siriano. Anzi, in
un’analisi ben articolata di Max Fisher, il New York Times esplicita il
paradosso siriano: perché la guerra va di male in peggio e non c’è verso che le
cose migliorino.
No, la colpa non è – tutta – di Serghei e
John: loro s’incontrano davvero, non si coprono l’un l’altro, anche se John
qualche rancore nei confronti della moglie potrebbe nutrirlo. Quella donna di
mondo, nata in Mozambico, portoghese di nazionalità, poliglotta per lavoro – interprete
all’Onu -, straricca per matrimonio – il primo, con il re del ketchup John
Heinz III, senatore come Kerry, morto nel ‘91 in un incidente aereo -, gli
costò una fetta di presidenza nel 2004: lui era il candidato democratico contro
il presidente repubblicano George W. Bush, ma l’America post 11 Settembre non
era pronta a eleggere un politico del New England molto compassato e con una first
lady troppo cosmopolita.
Quindi, Serghei e John ce la mettono
tutta, anche ieri, nel faccia a faccia, l’ennesimo, a Ginevra, dove l’obiettivo
non era la pace, e neanche una soluzione politica al conflitto civile, e
neppure l’avvio d’una trattativa finalmente seria, ma solo una tregua per
potere distribuire aiuti umanitari, partendo dalla disponibilità di Mosca a
sospendere per 48 ore i combattimenti ad Aleppo.
E non sarebbe manco giusto affermare che i
due ministri, che s’intendono meglio dei loro boss, i presidenti Putin e Obama,
molto diffidenti l’un l’altro, non hanno mai cavato un ragno dal buco, Siria a
parte: l’accordo con l’Iran sul nucleare è anche farina del loro sacco, ad
esempio. Ma la Siria è un cubo di Rubik irrisolto: loro annunciano intese,
innescano negoziati; ma, a conti fatti, le vittime - e i rifugiati -aumentano; al-Assad
resta dov’è, cioè al potere: la pace non s’avvicina. Sono 66 mesi e mezzo
milione di morti che ‘sta storia va avanti.
Gli esperti sentiti dal NYT spiegano che
il conflitto siriano è un caso “davvero difficile”, che rende improponibili i paralleli
storici. Barbara F. Walter, una docente dell’Università di San Diego, elenca
numerosi fattori del paradosso siriano: le radici affondano in un Paese che non
è una nazione, dove convivono – anzi, si fanno la guerra – etnie e fedi diverse
e dove s’intrecciano interessi ed influenze geo-politiche ed economiche
diverse.
Il conflitto appare inesauribile, perché
tutte le parti in causa, anche i miliziani jihadisti del sedicente Stato
islamico, hanno chi li sostiene dall'esterno, essendo Usa e Russia, Iran e le
monarchie saudite, la Turchia e i curdi senza patria di supporto all'una o
all'altra fazione. E, se nessuno può perdere, nessuno può vincere, in una sorta
di stallo alla ‘1984’, dove i rapporti di forza, quando paiono alterati
definitivamente, si riequilibrano.
La struttura del Paese e del conflitto
incoraggia le atrocità sui civili, cui i combattenti si mescolano, e alimenta
la paura delle conseguenze d’una disfatta, che fa preferire lo statu quo. Le
fazioni in lotta sono votate a combattere, più che a vincere; e le potenze
internazionali, specie Stati Uniti e Russia, un cui deciso e coordinato
intervento metterebbe fine alla guerra, temono un altro Afghanistan o Iraq, non
essendoci chi possa credibilmente fare da peacekeeper sul terreno e non essendo
loro pronte a farlo insieme. Peggio di tutto il prevalere d’una parte sull’altra
potrebbe incendiare tutta l’area, tra euforia da successo e voglia di rivalsa:
una ricetta per il disastro.
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