Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/04/2016
Sono forse
le 28 pagine di maggior valore nella storia degli Stati Uniti. L’arte non
c’entra: ci sono in ballo soldi veri, interessi concreti, 30 miliardi di
dollari di commesse militari, 750 miliardi di investimenti sauditi negli Usa,
un volume di scambi nel 2015 di oltre 40 miliardi di dollari, più o meno in equilibrio (quasi 20 miliardi
di esportazioni americane e 22 miliardi di esportazioni saudite). Senza contare
l’intreccio di interessi finanziari che fanno da trama alle dietrologie sulle
connivenze tra la famiglia Bush e la famiglia reale saudita.
I dati
sono tutti approssimati alla cifra tonda. Ma danno un’idea di perché quelle 28
pagine che contengono informazioni sul coinvolgimento dei sauditi negli attacchi
all’America dell’11 Settembre 2001 sono rimasti chiusi in una stanza del
Campidoglio di Washington per 15 anni, senza mai essere resi pubblici.
E non è affatto
detto che stiano per esserlo, nonostante la pressione crescente di senatori e
deputati – loro, a quelle 28 pagine, hanno accesso, ma non possono divulgarle
-. C’è la volontà dell’opposizione repubblicana d’imbarazzare l’Amministrazione
democratica. Ma non è tutto qui: Hillary Clinton è favorevole a pubblicarle; Bernie
Sanders pure, anche se precisa di non averle lette pur potendolo fare.
La
questione è cresciuta di tono in parallelo con i passi avanti di una legge che
permetterà, se sarà mai approvata, ai cittadini statunitensi di perseguire per
danni un Paese straniero coinvolto in attacchi terroristici sul territorio
americano o contro gli interessi americani: una legge su cui la Casa Bianca
potrebbe porre il veto e che non piace neanche allo speaker della Camera, il repubblicano
Paul Ryan. Il rischio boomerang è che cittadini stranieri si rivalgano poi
sugli Stati Uniti per danni loro causati – e Washington non lesina missili,
bombe e droni, con tutto il loro tragico corredo di ‘danni collaterali’ -.
Le 28
pagine hanno aleggiato, più pesanti di un macigno, oltre che più preziose che diamanti,
sulla missione che il presidente Barack Obama, ora a Londra, ha appena compiuto
a Riad e nel Golfo.
Le
relazioni tra Stati Uniti e i tradizionali alleanti delle monarchie sunnite del
Golfo non sono mai stati così turbolenti e contrastati. A Riad, dove ha incontrato
re Salman, Obama voleva sanare il ‘vulnus’ dell’avere definito, in
un’intervista, i sauditi degli alleati “scrocconi” – in buona compagnia, con
mezza Europa -.
E le due
parti volevano, ha detto ad Arab News il segretario del Consiglio di Cooperazione
del Golfo Abdullatif Al-Zayani, “dimostrare l’inviolabilità delle relazioni tra
gli Stati del Golfo e gli Usa e cementare la cooperazione”, sullo sfondo
dell’accordo sul nucleare con l’Iran che lascia l’amaro in bocca ai sunniti e
delle turbolenze nella Regione.
A leggere
le dichiarazioni ufficiali, tutto bene, perché il collante dell’azione
anti-terrorismo induce a fare finta di non vedere differenze e ambiguità: nei
testi concordati, viene ribadito il massimo impegno contro la minaccia
jihadista e c’è l’assicurazione che gli Stati uniti proteggeranno sempre i loro
alleati.
Me le divergenze
vi sono, sul coinvolgimento dell’Iran e dei suoi alleati contro il Califfato,
sul futuro della Siria, sulla gestione del petrolio. Saleh Al-Khathllan, vice-presidente
a Riad della Società nazionale per i diritti umani, sostiene che tutto il gran
parlare del disaccordo tra sauditi e americani è un’esagerazione: i due Paesi,
spiega, “hanno bisogno l’uno dell’altro”, perché “la sicurezza della Regione si
regge sul sostegno americano” e perché “non si può combattere lo Stato islamico
senza il supporto logistico dell’Arabia Saudita”.
Ma gli
elementi di incomprensione che diventano diffidenza pesano. Il fallimento a
Doha, all'inizio della settimana, del vertice sul petrolio tra i Paesi
esportatori, attribuito a beghe per il potere fra principi sauditi, può
lasciare relativamente indifferente l’America. Ma Obama ha l’obbligo di
lanciare appelli per le riforme e mostrare corruccio per la situazione dei
diritti umani in Arabia saudita.
Se il
presidente si muove fra alleanze di cristallo, che possono incrinarsi al minimo
urto, re Salman ha le sue preoccupazioni, interne e con i vicini, e ha
strumenti per farle pesare, “se l’America si tira indietro” precisa Turki al
Faisal, un membro della famiglia reale, ex ambasciatore a Washington. Riad può
deviare verso Gran Bretagna e Francia commesse militari normalmente destinate
agli Stati Uniti; e potrebbe disinvestire in America, temendo un congelamento
dei suoi beni, anche se la mossa innescherebbe una crisi di sfiducia verso i
capitali sauditi.
Alla fine, forse, non succederà nulla, perché Arabia Saudita e Stati Uniti “non possono andare avanti senza una partnership strategica”, dice Al-Zayani. Le 28 pagine resteranno segrete, la legge non passerà, Riad continuerà a comprare armi a Washington e i capitali rimarranno dove sono. Americani e sauditi condannati dall'intreccio di interessi a essere alleati, senza fidarsi gli uni degli altri.
Alla fine, forse, non succederà nulla, perché Arabia Saudita e Stati Uniti “non possono andare avanti senza una partnership strategica”, dice Al-Zayani. Le 28 pagine resteranno segrete, la legge non passerà, Riad continuerà a comprare armi a Washington e i capitali rimarranno dove sono. Americani e sauditi condannati dall'intreccio di interessi a essere alleati, senza fidarsi gli uni degli altri.
Nessun commento:
Posta un commento