Ted Cruz saluta e se ne va. ‘Uff!, scampato pericolo’ è la reazione di molti conservatori moderati e ‘laici’, all’annuncio della decisione del senatore del Texas, uno che “non sta simpatico a nessuno, nemmeno a sua moglie” – la definizione, se mai ne dubitaste, è di Donald Trump, che non le manda mai a dire -. Perché l’idea che questo politico di origine cubana, ultra-conservatore e ultra-religioso, prima scelta del Tea Party e degli evangelici della ‘cintura della Bibbia’, potesse davvero diventare il candidato repubblicano alla Casa Bianca era, per molti, persino più inaccettabile del pensiero che lo diventi Trump, che avrà tutti i difetti di questo mondo, ma che, almeno, sa stabilire un contatto con chi gli sta intorno.
L’annuncio di
Cruz arriva subito dopo la disfatta nell’Indiana, che era diventato la prova
del nove della sua capacità di sopravvivenza e riscatto, dopo le sconfitte
brucianti d’aprile sulla Costa Est, dallo Stato di New York alla Pennsylvania. Il
senatore decide che è il momento di riconoscere che “gli elettori hanno scelto
un’altra strada” e annuncia: “Sospendo la campagna, ma non la mia lotta per la
libertà, la difesa della Costituzione, i valori cristiani”. Cruz lo dice avendo
accanto la moglie Heidy e tutta la famiglia e pure Carly Fiorina, presentata
solo pochi giorni fa come candidata vice, nel tentativo di giocare la carta
femminile.
Alla vigilia del
voto, c’era stato l’ennesimo scontro al calor bianco tra Trump e Cruz: lo
showman aveva sostenuto che il padre del senatore, un esule cubano, era stato in
qualche modo coinvolto nell’assassinio del presidente Kennedy, un’affermazione
destituita di ogni fondamento. Eppure, Trump e Cruz avevano rispettato una
sorta di patto di non belligeranza per quasi tutti i dibattiti dell’estate e dell’autunno
scorso fra gli aspiranti alla nomination repubblicana - a un certo punto erano
addirittura 17 -. I due sapevano che non sarebbero state meteore della campagna
e preferivano disfarsi dei comprimari, prima di sbranarsi.
Le cose
cambiarono con l’inizio delle primarie e, soprattutto, con la vittoria di Cruz
nello Iowa. Trump capì che di lì poteva venire un pericolo, perché il senatore
del Texas, senza fare il campione dell’anti-politica come lui, si rivolgeva in
parte allo stesso elettorato: populisti, qualunquisti, delusi, gente che non va
a votare ma ce l’ha con chi è eletto.
Da allora, Cruz
divenne uno dei bersagli degli attacchi, delle ironie e delle frottole dello
showman, da lui definito un “bugiardo seriale”; anzi, fu il bersaglio
preferito, man mano che gli altri rivali potenzialmente più pericolosi lasciavano
campo libero, prima Jeb Bush, uno ‘mai pervenuto’, poi Marco Rubio, l’unico del
lotto più giovane di qualche mese del senatore texano, che ha compiuto 55 anni
a dicembre.
Trump contestò a
Cruz il diritto di diventare presidente degli Stati Uniti, in quanto nato in
Canada da padre cubano, divenuto poi cittadino americano – ma i giudici hanno
poi stabilito che la madre, cittadina americana, gli trasmise alla nascita la
cittadinanza come richiesto dalla Costituzione -.
E i due s’attaccarono
a vicenda sulle mogli, uno dei momenti più bassi finora di questa campagna: lo
showman minacciò di tirare fuori storie poco edificanti sul rapporto tra
l’ambizioso Ted e Heidy costretta a lasciare un lavoro alla Casa Bianca per
seguirlo ad Austin, Texas. E a New York è stato scontro aperto sui ‘valori
neworchesi’: Cruz li attaccò per fare emergere il Trump ‘liberal’; e mal gliene
incolse, perché gli elettori lo relegarono all’ultimo posto di quelle primarie.
Una batosta da cui
Cruz non s’è più ripreso. E il tentativo di corteggiare il voto femminile
pescando come vice Carly Fiorina, ex ad di HP e unica donna aspirante alla
nomination, prima di ritirarsi causa modesti riscontri, è stato un fallimento: Carly
ha l’idiosincrasia per le campagne elettorali, appena ne prova una la perde.
Ora esce di scena, definitivamente, con Cruz. Pochi li rimpiangeranno: gli
ultra-conservatori si consoleranno con Trump; i fondamentalisti ringrazieranno,
come sempre, il loro dio.
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