Scritto per il blog de Il Fatto lo 06/09/2013
Un nulla di fatto che meno di così era difficile riuscirci e immaginarlo.
Dopo una discussione a cena –il momento giusto, per parlare dell’invito di papa
Francesco alla pace e al digiuno-, che li ha visti dividersi “quasi in campi
uguali” –la testimonianza è del portavoce del Cremlino Dmitri Peskov-, capi di
Stato o di governo dei Venti Grandi si sono oggi lasciati senza uno straccio di
dichiarazione sulla Siria.
E non hanno manco ripreso la discussione in plenaria, confinandola
all’intreccio di bilaterali più o meno formali. Anche la foto di gruppo l’hanno
sbrigata in quattro e quattr’otto, come se avessero fretta di scappare via e
poca voglia di lasciare una testimonianza di questo loro incontro teso
all’inizio e fiacco in chiusura.
Presentato come un’occasione per salvare la pace, il Vertice di San
Pietroburgo è stato un flop. E non lo
riscattano certo gli accenni di convergenza e cooperazione sui temi economici,
ad esempio contro l’evasione fiscale. Neppure l’uscita dalla crisi è stata
certificata, perché il clima è migliorato e pure l’Ue è fuori recessione, con
l’eccezione dell’Italia, ma la ripresa resta “debole” e “i rischi” persistono.
Questo G20, se l’erano inventato alla fine del XX Secolo, per dare un
contentivo a quelli che non sono Grandi abbastanza da stare nel G8 e per
cercare di gestire meglio quella ‘brutta bestia’ che era la globalizzazione. L’esordio
avvenne nel 1999, come foro di ministri delle finanze e governatori delle
banche centrali; la promozione al rango di Vertice risale al novembre del 2008
a Washington, dopo lo scoppio della crisi economica e finanziaria.
Il G20 rappresenta i due terzi della popolazione e del commercio
mondiali, oltre al 80% del Pil mondiale: ha dunque le carte in regola, ben
più del G8, per discutere i problemi planetari. Nel 2009, gli appuntamenti
furono addirittura due: Londra, ad aprile, e Pittsburgh, a settembre, quando si
decise che il G20 sostituisse il G8 come strumento di concertazione
economica delle nazioni più sviluppate. I seguiti non sono però stati all’altezza
delle premesse: Toronto e Seul 2010, Cannes 2011 e Los Cabos in Messico 2012
sono serviti più a valutare l’andamento della crisi che ad orientarne gli
sviluppi e ad accelerarne il superamento.
Ma mai, forse, un G20 era stato circondato da tanta attesa come questo di San
Pietroburgo, situato allo snodo tra pace e guerra. Un festival dei paradossi.
Primo, il G20, quasi
sorto dalle rovine del G8 dell’Aquila
per affrontare la crisi dell’economia globalizzata, esautorando il Gruppo dei
Grandi, doveva adesso, dopo avere vivacchiato per un lustro senza affermare la
propria leadership, surrogare d’urgenza il G8 su una questione di vita o di
morte, proprio una di quelle che i Grandi s’erano un po’ tenuti come
prerogativa.
Secondo, il clima, almeno tra Usa e Russia, evocava per molti versi evoca
la Guerra Fredda. Ma a parti rovesciate: il buono, quello che non vuole
l’attacco alla Siria, è il russo, Putin; e il cattivo, quello che vuole punire
al-Assad per l’uso dei gas contro i civili, è Obama. Con gli Stati Uniti,
stanno, con vari distinguo, Gran Bretagna, Francia, Turchia e altri; con la
Russia, Cina, Germania, un po’ defilata l’Italia e altri.
Intorno al tavolo di Palazzo Constantin, una sede imperiale, Putin e Obama
non siedono vicini: l’alfabeto cirillico li metterebbe accanto, ma il
protocollo segue quello inglese: ecco frapporsi Arabia Saudita, Sudafrica, Sud Corea,
Turchia e Gran Bretagna. Sedie lontane e posizioni lontane, alla fine come
all’inizio.
L’Onu prova a giocare la carta del negoziato, ma non le bada nessuno. L’Ue
è la solita cacofonia. La voce più forte è quella d’un assente: papa Francesco
chiede “un grido di pace”, lancia un appello a trovare una soluzione che eviti
il massacro. Gli uomini di buona volontà l’ascoltano; ma, al G20, ce ne sono
pochi.
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