Scritto per il blog de Il Fatto lo 09/07/2014
Il silenzio, ci aveva anestitizzati. E noi, in
fondo, non desideravamo altro: non sentire, non vedere, non sapere, potere
credere che –magari- le cose stessero andando meglio. Era tempo che, dal Medio
Oriente, non venivano più rumori di guerra forti. Per essere sinceri, non
venivano neppure più parole di pace, né bisbigli di pace.
Al massimo, preghiere, come quella che l’8 giugno,
papa Francesco aveva chiamato a fare, insieme, nei giardini del Vaticano, il
presidente uscente d’Israele Shimon Peres, un Nobel per la Pace, e il
presidente palestinese Abu Mazen, con il patriarca di Costantinopoli
Bartolomeo. Ciascuno lì a pregare il suo dio, che essendo per tutti uno, è poi
verosimilmente lo stesso.
Dimenticarsi del conflitto tra israeliani e
palestinesi, potersene dimenticare è una sorta di ‘nirvana della diplomazia’,
visto che, più o meno da vent’anni in qua, occuparsene vuol dire fallire. Quali
che siano i protagonisti e l’approccio. Da parte americana, ci hanno provato il
negoziante Clinton, Bush ‘pugno sul tavolo’, il dialogante Obama; da parte
europea, ci hanno provato tutti per conto loro e, quindi, nessuno.
E non ho certo la pretesa che bastino un post e 3000
battute a descrivere la complessità della situazione e ad individuare vie
d’uscita. Le Primavere arabe e i loro colpi di coda hanno dimostrato, se ce ne
fosse stato bisogno, difficoltà e ritardi dell’intelligence e dell’Occidente a
capire Il Medio Oriente.
Dove, a spezzare l’apparenza d’equilibrio, basta un
atto d’odio, brutale, criminale, ingiustificabile, che innesca una spirale poi
apparentemente impossibile da fermare. Il rapimento e l’uccisione di tre
adolescenti israeliani, studenti rabbinici che facevano – ingenuamente?,
spavaldamente?, a 16 anni ci sta e, comunque, non è una colpa - l’autostop nei
Territori (spariscono il 12 giugno, sono ritrovati cadaveri il 30) fa scattare
la legge del taglione per chi, nel leggere le Sacre Scritture, s’è fermato a
quella pagina e non è arrivato all’ ‘ama il prossimo tuo come te stesso’.
A Gerusalemme Est, il 2 luglio un adolescente
palestinese che andava in moschea alla preghiera del mattino viene caricato a
forza su un’auto e bruciato vivo. Le autorità individuano i responsabili dei
crimini successivi, ma non basta.
La spirale della violenza, della vendetta che chiama
vendetta –anche qui, la pagina del perdono viene dopo- è partita: incursioni
dell’esercito nei Territori, case rase al suolo –per la prima volta da 7 anni-,
raid aerei sulla Striscia di Gaza; tiri di razzi a grappolo sul Sud di Israele
e fin su Tel Aviv; morti, feriti, distruzioni, orrori.
C’è il consueto squilibrio di vittime fatte, forza
sciorinata, danni causati, in un intreccio di sentimenti spesso contraddittori.
E le diplomazie non fanno meglio che riproporre le solite litanie:
riconoscimento del diritto d’Israele all’autodifesa, ma invito alla
moderazione; richiesta di riunioni d’urgenza del Consiglio di Sicurezza
dell’Onu; appelli alla pace; richieste d’intervento internazionale.
Israele utilizza la retorica biblica, “schiacciare
la testa del serpente”, mentre uccide anche donne a bambini. La Palestina cerca
una tregua, ma promette “l’inferno”; e deve prima comporre i contrasti che riaffiorano
tra Fatah e Hamas.
Che fare?, pregare?, che l’accesso di furia passi e
che si torni al silenzio degli ultimi mesi, anni… Odiatevi, ma che noi non lo
sentiamo?
Ma, questa volta, può essere diverso: dalla Mesopotamia,
soffia sull’Islam il vento di un nuovo Califfato, arriva il messaggio jihadista.
Il rischio è che la fiammata diventi rogo. Sfuggendo al controllo di chi magari
crede di potere modulare, e manipolare, l’uso della forza.
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