Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 16/07/2016
E’ Mike Pence, governatore dell'Indiana, un
ultra-conservatore, il candidato alla vice-presidenza che affiancherà Donald
Trump nella corsa alla Casa Bianca: il candidato repubblicano ha sciolto con un
tweet le sue riserve, dopo settimane d’illazioni e di scrematura delle
alternative a tre (oltre Pence, il governatore del New Jersey Chris Christie e
l’ex speaker della Camera Newt Gingrich). Dunque, il NYT ci aveva azzeccato,
dando fin da giovedì Pence sicuro.
"Ho il piacere di annunciare che ho
scelto il governatore Mike Pence come mio candidato vice": questo il tweet
di Trump, che, anche in seguito alla strage di Nizza, ha rinviato ogni altra
dichiarazione a una conferenza stampa oggi alle 11 ora di Washington, le 17
italiane. Pubblicato, invece, il logo: da paura, molto peggio del ticket.
Fervente cattolico di origini irlandesi, avvocato
di professione, Pence, 57 anni, in carica da tre, è sempre stato un sostenitore
dei Tea Party, l'ala più populista del proprio partito. Vuole intensificare i
controlli alle frontiere per contenere l'immigrazione, è contrario a
riconoscere i diritti di gay e lesbiche e anche alle semplici unioni civili tra
persone di sesso diverso, vuole limitare rigorosamente la spesa pubblica e si
oppone alla chiusura della prigione di Guantanamo, a Cuba. (fonti vv – gp)
Alla fine, erano rimasti in
tre – Erano rimasti in tre per un posto solo:
tutti uomini, anche se donne sono state prese in considerazione. Soprattutto,
tutti conservatori a 18 carati. Uno, addirittura, l'emblema stesso della destra
americana che, dal Congresso, negli Anni 90 sfidò - e in parte influenzò - Bill
Clinton.
Lunedì si apre a Cleveland, nell'Ohio, il cuore
dell'America profonda e contadina, la convention d’un partito repubblicano che
deve ancora finire di digerire la vittoria di Trump alle primarie. L’esito
dell'assise è scontato: ammesso che ci siano state le tanto sussurrate manovre di
palazzo contro il magnate, non c’è aria di ribaltoni dell'ultimo momento. Al
massimo, si potranno contare gli assenti: non ci sarà neppure Sarah Palin,
perché – è l’inverosimile giustificazione – l’Ohio è troppo lontano dall’Alaska
dove vive.
Il nome più conosciuto, all'opinione
pubblica americana come a quella europea, era Newt Gingrich, leader dei
repubblicani vent’anni fa, nello scontro frontale con la Casa Bianca di Bill Clinton.
Contro il presidente fu lanciata la commissione d'inchiesta sul Sexgate, ma era
Hillary la figura più odiata: troppo affermata, troppo femminista.
Lo disse chiaramente Kathleen, l'anziana
madre di Gingrich, in un'intervista del 1995. Le fu chiesto cosa pensasse il
figlio dell'allora first lady. "Tra lei e me, pensa che sia una
cagna", fu la risposta. All'epoca il titolare della definizione (ripresa
in questi mesi dai sostenitori di Trump sui loro blog ed i loro cartelli) era
lo speaker alla Camera, grazie ad una vittoria elettorale ottenuta nel 1994 in
virtù della firma in pubblico di un ‘Contratto con l'America’, il modello cui
si ispirerà Silvio Berlusconi con il suo ‘Contratto con gli Italiani’. Clinton
viene rieletto nel 1996, ma i suoi critici non mancano di sottolineare che il
Crime Bill varato prima della consultazione è più ispirato alla Tolleranza Zero
propugnata dai repubblicani che non alle idee liberal di tanta parte dei
democratici.
Una decina di anni più tardi, Gingrich
lascia il Congresso, superato a destra dal Tea Party, ed entra in una lunga
apnea, con la sola eccezione di un tentativo di candidatura alla Casa Bianca
nel 2012, sulla base di una piattaforma in cui si potrebbero scorgere molti dei
temi cari all'attuale candidato. Con il quale è d'accordo su quasi tutto.
Quasi: certe volte Donald esagera anche per i suoi standard. Il suo apporto
poteva essere quello d’un conservatore radicale sentito come nemico di
Washington, ma che conosce tanto bene Washington da essere considerato parta
dell'establishment egli stesso. Gingrich, però, anche spaventare
definitivamente l'elettorato moderato, che non è tanto, ma tanto spesso è
decisivo. Forse per questo, Trump ha guardato altrove.
Più al centro, anche se in termini
relativi, siede Chris Christie, il governatore del New Jersey, che all'inizio della
campagna correva in proprio. Anzi: per lui Trump era un personaggio
carnevalesco, sempre pronto ad abbaiare (Trump ricambiava la cortesia
ricordando gli scandali finanziari in cui erano coinvolti i collaboratori di
Christie). Ma poi il governatore, fiutando il vento un attimo prima degli
altri, è stato il primo personaggio di prima fila dell'establishment
repubblicano a schierarsi apertamente per il miliardario; ed è scoppiata la
pace.
Molto in linea l'uno con l'altro su temi quali l'islam e il terrorismo,
potevano formare un ticket in cui la novità dell'uno sarebbe stata completata
dall'esperienza dell'altro. Senza trascurare che Christie ha mostrato di sapere
battere in New Jersey un partito democratico particolarmente forte. Ma questo è
stato anche il suo punto debole: la base repubblicana vicina ai Tea Party ha
già difficoltà ad accettare Trump, per le sue origini newyorkesi da liberal
camuffatosi da conservatore. Un'impressione che si rafforzerebbe se il
vicepresidente fosse stato il governatore di uno stato del Nord-Est: troppo
squilibrio geografico e politico.
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