Scritto per il blog de Il Fatto ed EurActiv il 10/05/2014
La prima volta, a Maastricht, il 28 aprile, aveva vinto di
misura e senza proprio convincere, un 6 pieno, con un 6- agli altri. Questa
volta, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, ha vinto a mani
basse: in termini ciclistici, visto che è appena cominciato il Giro d’Italia, era
già sotto la doccia quando sono arrivati gli altri, un Martin Schulz scialbo,
un Jean-Claude Juncker imbarazzante -a tratti, farfugliava-, un José Bové che
pare uscito da una pubblicità del Parc Astérix nelle stazioni della
metropolitana a Parigi.
Guy Verhofstadt, liberale, fiammingo, ex premier belga, federalista
convinto, presidente del gruppo liberale e democratico al Parlamento europeo, è
stato il più bravo su tutti i fronti, dialettici e sostanziali, nel secondo
dibattito fra i candidati alla presidenza della Commissione europea –ancora
assente Alexis Tsipras, il leader di Syriza, il campione della sinistra
euro-critica, che ci sarà al terzo e ultimo dibattito, a metà mese.
Rispetto all’esordio, migliore l’allestimento e anche la
conduzione del dibattito di RaiNews, meno frenetica e confusa di quella di EuroNews.
E pubblico d’eccezione in sala: il presidente Napolitano, cardinali, ministri, una
folla, passato e presente più che futuro.
Mentre Schulz e Juncker, i favoriti, traccheggiavano,
badando a non inciampare e a non farsi l’un l’altro lo sgambetto , Verhofstadt tirava
diritto, in sella al cavallo di battaglia della sua campagna, una Commissione europea
che non sia segretariato del Consiglio dei Ministri dell’Ue, cioè un cane da
riporto dei Governi dei 28, ma che guidi il processo d’integrazione, come
avveniva ai tempi, ormai mitici, di Jacques Delors (e un pochino pure sotto la
presidenza di Romano Prodi).
Forte di una sua linea, e di una legittimità conferitagli
dall’indicazione popolare e dall’investitura del Parlamento, il presidente
dell’Esecutivo di Bruxelles dovrebbe guidare l’Unione a rilanciare crescita e
occupazione, sfruttando a pieno la dimensione europea nei settori dei
trasporti, dell’energia, della banda larga, della difesa, specialmente della
difesa; dotando l’Ue di risorse; e seppellendo, così, nazionalismi e populismi,
sotto la “nuova ondata” di un’integrazione concreta ed efficace, che profitti
ai cittadini.
Nell’appello finale, il fiammingo Verhofstadt ha sfoderato
un buon italiano e il liberale Verhofstadt ha quasi scippato al socialdemocratico
Schulz e al cristiano-sociale Juncker il tema occupazione: “Le mie tre
priorità? Lavoro, lavoro, lavoro”. Anche sulla flessibilità, rispetto ai
criteri dei vari Patti stretti fra i 28 in tempi di crisi e di rigore, l’ex premier
belga è stato meno cauto dei rivali –ma nessuno intende permettere ai governi
d’allargare a piacere i cordoni della borsa e di fare aumentare il debito-.
Troppo impegnati a marcarsi l’un l’altro, e quasi mai
preoccupati di smarcarsi l’uno rispetto all’altro, Schulz e Juncker hanno
costantemente camminato l’uno sulle orme dell’altro e spesso assorbiti dai
tecnicismi più ostici della costruzione europea (il ‘modello comunitario’
contrapposto al ‘sistema inter-governativo’, l’intreccio dei poteri delle
Istituzioni), temi non facili per gran parte dei cittadini.
Molto probabilmente Verhofstadt non sarà presidente della
Commissione, anche perché i liberali usciranno indeboliti dal voto –e, in
Italia, la lista che l’appoggia resta, nei sondaggi, sotto la soglia del 4%-. A
meno che l’equilibrio dei seggi tra socialisti e popolari non favorisca
l’elisione di Schulz e Juncker e una soluzione di compromesso. Ma, a giudicare
dai dibattiti, un Esecutivo Verhofstadt avrebbe più grinta e più idee: sarebbe
di stimolo ai Governi, proverebbe a dare risposte ai cittadini, potrebbe
risvegliare l’Europa e rilanciare l’integrazione.
Giudizi provvisori. La prossima settimana, si replica, con
Tsipras in campo.
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