Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/05/2014
L’Unione europea, che s’è presa un febbrone da cavallo da
euro-scetticismo, è ora scossa da brividi da referendum: una parola che evoca
incubi del passato e suona foriera di disastri futuri; una specie di tabù che,
oggi, dopo le elezioni europee di domenica scorsa, infrangono in tanti. Marine
Le Pen, leader del Front National,
uscito dal voto in Francia come primo partito, dice che, se diventerà
presidente, organizzerà “un referendum per chiedere ai francesi se vogliono
uscire dall'Ue".
Oggi però è un po’ diverso: Marine è quasi sola sulla scena
politica francese; il presidente Hollande ha portato i socialisti al loro
minimo storico; e i gollisti sono lacerati dalle dimissioni del loro leader
Copé, per una vicenda di false fatture. Da Juppé a Chirac, da Sarkozy a Copé,
il partito della destra non è nuovo a scandali giudiziari. Ma, questa volta,
s’intrecciano disorientamento politico, regolamenti di conti personali e
contestazioni giudiziarie.
I referendum, in questa Unione che cerca di raccapezzarsi,
dopo l’uragano elettorale, appaiono come la medicina di tutti i mali. In
Austria, gli euro-scettici ne chiedono uno sull’euro.
In Gran Bretagna, il premier conservatore Cameron lo
prevedeva per il 2017 –dopo le politiche-, ma potrebbe anticiparlo, per
rispondere alla bufera Ukip, il movimento anti-Ue vincitore delle europee, che,
intanto, lancia l’operazione ‘Brexit’ per l’uscita dall’Unione. I laburisti,
invece, vedono “il futuro della Gran Bretagna dentro l’Ue, non fuori” e
giudicano il referendum “non una priorità”.
In Italia, ci sono le iniziative della Lega.
E l’obiezione che i trattati internazionali non sono materia di referendum ha
un valore più giuridico che politico: difficile ignorare un no popolare, quale
che sia la Costituzione.
Poi, ci sono, i referendum indipendentisti in Scozia –già
fissato per il 18 settembre- e in Catalogna: sono problemi nazionali, per Gran
Bretagna e Spagna, ma possono diventare un rompicapo europeo perché Scozia e
Catalogna, se divenissero indipendenti, dovrebbero poi rinegoziare l’adesione
all’Unione.
I referendum fanno spesso male all'Europa. Per due volte, la Norvegia negoziò la
propria adesione e, per due volte, un referendum rese quei negoziati carta
straccia, nel ‘72 e nel ‘94; e un referendum, nel 1985, decise l’uscita della
Groenlandia dall'allora Cee –caso finora unico di ‘recessione’-.
Il Trattato di Maastricht, che, agli inizi degli Anni 90,
segnò la nascita dell’Unione e il rilancio dell’integrazione, fu bocciato da un
referendum in Danimarca nel 1992 –modificato, venne poi approvato-; allo stesso
modo, vennero superati i no popolari irlandesi ai Trattati di Nizza nel 2001 e
di Lisbona nel 2008. Sempre, l’intoppo del referendum ritardò l’entrata in
vigore degli accordi.
Letali al progetto di Costituzione europea furono, invece,
il 29 maggio e il 1° giugno 2005, i no popolari di Francia e Olanda: il
documento finì in un cassetto senza più uscirne. Di quello shock, è frutto il
Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° novembre 2009.
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