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giovedì 22 maggio 2014

Ue: elezioni: lo sbarco dei dibattiti in tv sul pianeta Europa

Pubblicato da AffarInternazionali il 22/05/2014

Avete presente i dibattiti presidenziali negli Stati Uniti, quelli che dal 1960 decidono quasi sempre chi andrà alla Casa Bianca?, la tensione dei candidati?, la maniacale minuta precisione di regole e  conduttori?, le decine di milioni di spettatori, che solo il SuperBowl ne fa di più negli Usa? Bene: qui è un’altra cosa.

I dibattiti presidenziali nell’Unione europea non sono -per ora- nulla di tutto questo: share dell’audience da prefisso telefonico, diffusione confinata su reti minori, gestione dei tempi a volte un po’ caotica, l’intreccio delle lingue a complicare il tutto. Se li fai in inglese, penalizzi chi, come il greco Alexis Tsipras, non si sente a suo agio in quella lingua; se li fai che ciascuno parla la sua, devi affidarti agli interpreti, la voce che arriva al pubblico non è l’originale, le frasi perdono fluidità, la percezione dei personaggi non è né immediata né piena.

Eppure, con tutti i loro limiti, i dibattiti in diretta tv, corollario delle candidature alla presidenza della Commissione europea, sono stati la vera novità mediatica di questa campagna elettorale europea, anche se i protagonisti non hanno mostrato l’aggressività dialettica che, spesso, fa la forza dei confronti americani. Assente, pure, la retorica positiva in stile Usa: “Non voglio un’Europa che sogna”, sono state le prime parole del Ppe Juncker. In America, gli avrebbero spento le tv in faccia; qui non è successo, anche perché di televisori accesi ce n’erano pochi.

Difficile dire quanto i dibattiti abbiano pesato sui pronostici di questa vigilia. L’ultimo rilevamento comparato europeo, diffuso il 20 maggio, dà i popolari -217- in calo rispetto al Parlamento uscente, ma in vantaggio d’una quindicina di seggi sui socialisti -201, in leggerissima ascesa. La terza forza sono la galassia degli ‘euro-scettici’ di destra, xenofobi, anti-euro, separatisti, che però a Strasburgo non faranno massa unica. Poi, i liberali, la sinistra radicale euro-critica, i conservatori. Ppe e Pse insieme avranno la maggioranza dei 751 seggi.

Nell’arco dei tre dibattiti, il primo da Maastricht il 28 aprile –regia EuroNews-, il secondo da Firenze il 9 maggio –regia RaiNews-; il terzo da Bruxelles il 15 maggio –regia Eurovisione e audience molto maggiore degli altri-, il migliore è stato l’ex premier belga Guy Verhofstadt, liberale, federalista, che rivendica alla Commissione un ruolo pilota dell’integrazione europea e contesta il presidente uscente Manuel Barroso per l’abitudine di telefonare a Berlino ed a Parigi prima di decidere che fare.

A Maastricht, Verhofstadt aveva vinto di misura e senza convincere, un 6 pieno, con un 6- agli altri. A Firenze, aveva vinto a mani basse: in termini ciclistici, visto che è in corso il Giro d’Italia, era già sotto la doccia quando sono arrivati gli altri. A Bruxelles, s’è limitato a controllare.

I due favoriti, il popolare Jean Claude Juncker, ex premier lussemburghese ed ex presidente dell’Eurogruppo, e il socialista Martin Schulz, attuale presidente del Parlamento europeo, sono stati soprattutto attenti a non farsi male l’un l’altro e a non inciampare in qualche gaffe: federalismo, eurobond, solidarietà erano parole per loro scivolose. Impegnati a marcarsi a vicenda e preoccupati di non sciorinare le differenze, Schulz e Juncker si sono spesso impelagati nei tecnicismi più ostici della costruzione europea (il ‘modello comunitario’ contrapposto al ‘sistema inter-governativo’, l’intreccio dei poteri delle Istituzioni, i vincoli dei Trattati).

Così, mentre Schulz e Juncker traccheggiavano, badando a non inciampare e a non farsi l’un l’altro lo sgambetto , Verhofstadt tirava diritto, in sella al cavallo di battaglia di una Commissione europea che non sia segretariato del Consiglio dei Ministri dell’Ue, cioè cane da riporto dei Governi dei 28, ma che guidi il processo d’integrazione, come avveniva ai tempi, ormai mitici, di Jacques Delors (e un pochino pure sotto la presidenza di Romano Prodi).

Forte di una sua linea, e di una legittimità conferitagli dall’indicazione popolare e dall’investitura del Parlamento, il presidente dell’Esecutivo di Bruxelles dovrebbe guidare l’Unione a rilanciare crescita e occupazione, sfruttando a pieno la dimensione europea nei settori dei trasporti, dell’energia, della banda larga, della difesa, specialmente della difesa; dotando l’Ue di risorse; e seppellendo, così, nazionalismi e populismi, sotto la “nuova ondata” di un’integrazione concreta ed efficace, che profitti ai cittadini.

Quanto agli outsiders, i verdi Ska Keller –al primo e al terzo- e José Bové –al secondo- hanno fatto la loro parte, portando lei freschezza e lui aggressività. All’ultimo giro, ha esordito Tsipras, campione della sinistra euro-scettica, che ha (un po’) sparigliato le carte, senza, però, fare il botto. E il terzo dibattito è stato il più moscio: a parte la relativa spregiudicatezza di chi parte battuto e ha poco da perdere, la melassa delle banalità ha prevalso.

Tsipras, l’unico senza cravatta, strizza l’occhio al voto italiano: chiama in causa Juncker, che c’era, per il vertice di Cannes dove, dice, dietro le quinte furono rovesciati due governi democraticamente eletti, il greco e l’italiano –un’eco delle polemiche sul complotto di questi giorni-; e cita l’impegno dei giudici contro la mafia.

Ma se c’è un po’ d’Italia nel dibattito europeo, è pure merito, anzi demerito, di Silvio Berlusconi: con la sua campagna anti-tedesca e anti-Schulz, diventa l’ ‘uomo nero’ del primo confronto. Dove tutti lo evocano e lo criticano, tranne Schulz che può permettersi d’ignorarlo. Juncker tradisce l’imbarazzo dei popolari per quell’alleato scomodo e invadente, che però non cacciano perché, senza Forza Italia, non sarebbero più la prima forza del Parlamento europeo.

Su un punto sono tutti d’accordo: la scelta del presidente della Commissione dovrà avvenire nell’ambito dei candidati, dal cappello a cilindro dei capi di Stato o di governo dell’Ue non potrà uscire un nome a sorpresa. Persino Juncker, di gran lunga il meno spericolato, dice: “Se non sarà uno di noi, nel 2019 non andrà più a votare nessuno, perché gli elettori si sentiranno presi in giro”.

Recitano un copione?, o sono davvero convinti? Intanto, è già chiaro che non saranno brevi i tempi di decisione sul presidente della Commissione europea, dopo le elezioni del 25 maggio. E anche i giochi che parevano già delineati potrebbero riaprirsi, nell’Unione e pure in Italia.

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