Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 31/05/2015
domenica 31 maggio 2015
Usa 2016: morto di tumore figlio vice-presidente Joe Biden
Usa 2016: democratici, O'Malley sfida Hillary e le 'dinastie'
Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 31/05/2015
Finalmente, una notizia che viene dai democratici: Martin O’Malley, ex governatore del Maryland, sfida Hillary Clinton per la nomination alla Casa Bianca. O'Malley è considerato un avversario più credibile, e più temibile, del ‘socialista’ Bernie Sanders, il senatore del Vermont finora unico avversario dell’ex first lady. L’ex governatore ha annunciato la candidatura in un parco di Baltimora, la città dove cominciò la sua carriera politica, prima come consigliere comunale e poi come sindaco per due mandati. La sua campagna parte nello Iowa, lo Stato che per primo assegnerà a gennaio del 2016 i delegati alla convention, e prosegue nel New Hampshire. Nel discorso con cui s’è candidato, O’Malley, ex fedelissimo di Bill e Hillary, ha detto che la presidenza degli Stati Uniti "non è una corona che si passa tra due famiglie reali", riferendosi ai Clinton, ma anche ai Bush. Se sarà presidente, lui punta immancabilmente sulla rinascita del "sogno americano, che è stato appeso a un filo", e su una “nuova politica” per l'uguaglianza di tutti i cittadini, la creazione di posti di lavoro con salari più alti e una riforma dell'immigrazione completa. O’Malley denuncia i "potenti interessi" –noi diremmo i poteri forti- che hanno cospirato per riempire le tasche dei ricchi, lasciando indietro un gran numero di cittadini americani, nonostante la presidenza di Barack Obama. "Il nostro sistema economico e politico è rovesciato", sostiene l’ex governatore, "é ora di cambiare". La strada per lo sfidante di Hillary s’annuncia in salita: un primo sondaggio di RealClearPolitics dà un distacco tra i due abissale. Ma O’Malley guarda a una nuova generazione di elettori, soprattutto delle classi sociali più basse, prospettando loro un futuro migliore. Con tre candidati –e nessun altro alle viste-, il campo democratico continua a essere sguarnito rispetto a quello repubblicano, dove a sfidarsi sono già in otto, in attesa che Jeb Bush e Rick Perry –e magari altri- sciolgano la riserva: in ordine alfabetico, Ben Carson, Ted Cruz, Carly Fiorina, Mike Huckabee, Rand Paul, George Pataki, Marco Rubio, Rick Santorum. (fonti varie – gp)
Finalmente, una notizia che viene dai democratici: Martin O’Malley, ex governatore del Maryland, sfida Hillary Clinton per la nomination alla Casa Bianca. O'Malley è considerato un avversario più credibile, e più temibile, del ‘socialista’ Bernie Sanders, il senatore del Vermont finora unico avversario dell’ex first lady. L’ex governatore ha annunciato la candidatura in un parco di Baltimora, la città dove cominciò la sua carriera politica, prima come consigliere comunale e poi come sindaco per due mandati. La sua campagna parte nello Iowa, lo Stato che per primo assegnerà a gennaio del 2016 i delegati alla convention, e prosegue nel New Hampshire. Nel discorso con cui s’è candidato, O’Malley, ex fedelissimo di Bill e Hillary, ha detto che la presidenza degli Stati Uniti "non è una corona che si passa tra due famiglie reali", riferendosi ai Clinton, ma anche ai Bush. Se sarà presidente, lui punta immancabilmente sulla rinascita del "sogno americano, che è stato appeso a un filo", e su una “nuova politica” per l'uguaglianza di tutti i cittadini, la creazione di posti di lavoro con salari più alti e una riforma dell'immigrazione completa. O’Malley denuncia i "potenti interessi" –noi diremmo i poteri forti- che hanno cospirato per riempire le tasche dei ricchi, lasciando indietro un gran numero di cittadini americani, nonostante la presidenza di Barack Obama. "Il nostro sistema economico e politico è rovesciato", sostiene l’ex governatore, "é ora di cambiare". La strada per lo sfidante di Hillary s’annuncia in salita: un primo sondaggio di RealClearPolitics dà un distacco tra i due abissale. Ma O’Malley guarda a una nuova generazione di elettori, soprattutto delle classi sociali più basse, prospettando loro un futuro migliore. Con tre candidati –e nessun altro alle viste-, il campo democratico continua a essere sguarnito rispetto a quello repubblicano, dove a sfidarsi sono già in otto, in attesa che Jeb Bush e Rick Perry –e magari altri- sciolgano la riserva: in ordine alfabetico, Ben Carson, Ted Cruz, Carly Fiorina, Mike Huckabee, Rand Paul, George Pataki, Marco Rubio, Rick Santorum. (fonti varie – gp)
venerdì 29 maggio 2015
Usa 2016: repubblicani, c'è pure Santorum; democratici, si vede Sanders
Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 29/05/2015
Usa 2016: repubblicani, una folla, si candida Santorum, si
prepara Trump
Ennesimo candidato alle primarie repubblicane per la Casa Bianca: è sceso in campo pure Rick Santorum, con un evento a Cabot, in Pennsylvania, Stato di cui fu senatore per due mandati dal 1995 al 2007. Santorum, 57 anni, avvocato, cattolico integralista, tenta per la seconda volta: nel 2012, fu l’avversario più pericoloso dell'ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, poi battuto alle urne da Barack Obama. Santorum è il settimo repubblicano ufficialmente in corsa, dopo, in ordine alfabetico, Ben Carson, Ted Cruz, Carly Fiorina, Mike Huckabee, Rand Paul e Marco Rubio. E non ci si ferma qui: a questi, potrebbero aggiungersi entro giugno Jeb Bush, ex governatore della Florida, Rick Perry, ex governatore del Texas, e forse George Pataki, ex governatore dello Stato di New York, oltre che Donald Trump, l’eccentrico miliardario che prepara un annuncio il 16 giugno. . In campo democratico, si è fermi a due: Hillary Clinton,e il senatore del Vermont, Bernie Sanders. Aprendo la sua campagna, Santorum ha promesso di restituire il potere economico alla classe media. "Take back America" è stata, non a caso, la colonna sonora di un discorso centrato sulle attese e sui bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie, i colletti blu "lasciati indietro" –dice Santorum- dall’Amministrazione democratica e dalle grandi aziende. Trump, 68 anni, magnate immobiliare e star dei reality, non ha invece svelato i contenuti della sua sortita del 16 giugno, ma ha recentemente affermato di essere "l'unico a poter fare tornare grande l'America" e ha criticato la politica estera dell'Amministrazione Obama, che avrebbe fatto perdere agli Stati Uniti "il rispetto del mondo". (fonti varie – gp)
Usa 2016: democratici, Sanders parte in campagna, promette rivoluzione
Per quasi un mese, la sua candidatura alla nomination democratica alla Casa Bianca è stata silente. Ora, Bernie Sanders, 73 anni, senatore “socialista” –la definizione è sua e ci tiene- del Vermont, ha formalmente avviato la sua campagna per la Casa Bianca, promettendo niente meno che una "rivoluzione". Anche lui, come molti candidati, di qualsiasi estrazione, intende “riprendersi l’America”, ostaggio –dice- dei miliardari di Wall Street. Ma il suo problema, per ora, è prendersi la nomination, strappandola a Hillary Clinton, che è, nei sondaggi e nella considerazione della gente, la grandissima favorita. "Il gap tra i molto ricchi e tutti gli altri è il più ampio registrato dagli Anni Venti –dice Sanders-. La questione della ricchezza e delle diseguaglianze è la grande questione morale del nostro tempo ed è la grande questione politica del nostro tempo", ha affermato davanti ad una folla di sostenitori a Burlington, città di cui è stato sindaco. Sebbene non possa minacciare la Clinton nella corsa alla nomination, Sanders potrebbe condizionare i toni della campagna elettorale, spostando a sinistra il dibattito. Con un impatto non positivo sulla presa al centro del ‘campione’ democratico. (Agi – gp)
Ennesimo candidato alle primarie repubblicane per la Casa Bianca: è sceso in campo pure Rick Santorum, con un evento a Cabot, in Pennsylvania, Stato di cui fu senatore per due mandati dal 1995 al 2007. Santorum, 57 anni, avvocato, cattolico integralista, tenta per la seconda volta: nel 2012, fu l’avversario più pericoloso dell'ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, poi battuto alle urne da Barack Obama. Santorum è il settimo repubblicano ufficialmente in corsa, dopo, in ordine alfabetico, Ben Carson, Ted Cruz, Carly Fiorina, Mike Huckabee, Rand Paul e Marco Rubio. E non ci si ferma qui: a questi, potrebbero aggiungersi entro giugno Jeb Bush, ex governatore della Florida, Rick Perry, ex governatore del Texas, e forse George Pataki, ex governatore dello Stato di New York, oltre che Donald Trump, l’eccentrico miliardario che prepara un annuncio il 16 giugno. . In campo democratico, si è fermi a due: Hillary Clinton,e il senatore del Vermont, Bernie Sanders. Aprendo la sua campagna, Santorum ha promesso di restituire il potere economico alla classe media. "Take back America" è stata, non a caso, la colonna sonora di un discorso centrato sulle attese e sui bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie, i colletti blu "lasciati indietro" –dice Santorum- dall’Amministrazione democratica e dalle grandi aziende. Trump, 68 anni, magnate immobiliare e star dei reality, non ha invece svelato i contenuti della sua sortita del 16 giugno, ma ha recentemente affermato di essere "l'unico a poter fare tornare grande l'America" e ha criticato la politica estera dell'Amministrazione Obama, che avrebbe fatto perdere agli Stati Uniti "il rispetto del mondo". (fonti varie – gp)
Usa 2016: democratici, Sanders parte in campagna, promette rivoluzione
Per quasi un mese, la sua candidatura alla nomination democratica alla Casa Bianca è stata silente. Ora, Bernie Sanders, 73 anni, senatore “socialista” –la definizione è sua e ci tiene- del Vermont, ha formalmente avviato la sua campagna per la Casa Bianca, promettendo niente meno che una "rivoluzione". Anche lui, come molti candidati, di qualsiasi estrazione, intende “riprendersi l’America”, ostaggio –dice- dei miliardari di Wall Street. Ma il suo problema, per ora, è prendersi la nomination, strappandola a Hillary Clinton, che è, nei sondaggi e nella considerazione della gente, la grandissima favorita. "Il gap tra i molto ricchi e tutti gli altri è il più ampio registrato dagli Anni Venti –dice Sanders-. La questione della ricchezza e delle diseguaglianze è la grande questione morale del nostro tempo ed è la grande questione politica del nostro tempo", ha affermato davanti ad una folla di sostenitori a Burlington, città di cui è stato sindaco. Sebbene non possa minacciare la Clinton nella corsa alla nomination, Sanders potrebbe condizionare i toni della campagna elettorale, spostando a sinistra il dibattito. Con un impatto non positivo sulla presa al centro del ‘campione’ democratico. (Agi – gp)
giovedì 28 maggio 2015
Heysel: 30 anni dopo; fuori quei cadaveri allineati, e dentro la partita
Scritto per La Presse il 28/05/2015
Tanti cadaveri così, non li avevo mai visti. E non li avrei neppure mai più visti dopo, io che non sono stato a Sebrenica, o in Iraq, sui luoghi degli eccidi tribali, etnici, religiosi dei tempi nostri. Erano distesi sulla spianata d’asfalto antistante lo Stadio, allineati l’uno accanto all’altro: schiacciati, soffocati, senza segni di violenza sul corpo, sul viso. “Sono tutti morti”, mi disse il vigile del fuoco che sbarrava l’accesso a quell’obitorio a cielo aperto, in una sera che c’era ancora un filo di luce e che l’aria era insolitamente mite per Bruxelles.
Provai a contarli, ma mi dovetti riprendere più volte: 12, 13, ma ne portavano ancora degli altri. Alla fine, le vittime di quella strage risulteranno 39, 32 gli italiani.
Dalla tribuna stampa, dove ero arrivato per tempo, per seguire la finale della Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, non si era avuta subito la percezione della gravità di quanto era accaduto all’improvviso nel settore Z, alla nostra sinistra: uno spicchio di spalti prevalentemente juventino, che gli ‘animals’, i tifosi del Liverpool, assiepati lì accanto, avevano aggredito e invaso, travolgendo la sottile inerme inadeguata intercapedine dei 9 agenti messi a separare le due tifoserie.
A seguire l’evento, era arrivato il gotha del giornalismo sportivo italiano: da lontano, vedemmo ondeggiare la folla; e gente abbandonare gli spalti, cercare scampo sulla pista d’atletica, fare gesti spaventati e disperati. In Italia, la gente ne sapeva più di noi: le telecamere avevano già zoomato sulla scena.
“Vado a vedere che cosa succede”, dico all’inviato, che annuisce: io ero il corrispondente, dovevo occuparmi del contorno, non del match. In quel momento, il caporedattore chiama sul telefono fisso della postazione sportiva: la voce è concitata, “La Reuters dice che ci sono dei morti, parecchi”.
Scendo, esco fuori dallo stadio, un impianto vecchio, nelle curve fatiscente, anche se ospitava tutte le partite della nazionale belga. E mi imbatto nel pompiere, nei cadaveri allineati, nei familiari e negli amici, in persone terrorizzate. La partita, intanto, è iniziata: si capisce dai boati che arrivano da dentro. La gente che la segue, i tifosi juventini nella curva di fronte a quella della tragedia non sanno della gravità di quanto accaduto, del numero dei morti: da casa, nessuno può allora avvertirli coi telefonini.
Lì, nella curva dove non è successo nulla, c’è pure mio padre, con un mio amico: restano insieme fino alla fine, quando, conclusa la partita, celebrata la coppa (che molti non sanno insanguinata), tornati a casa, finalmente mi telefonano, per dirmi che stanno bene e per chiedermi che cosa sia mai successo. Da dove stavano, non s’era capito granché.
Fuori dallo stadio, raccolgo le informazioni che posso, qualche nome, qualche testimonianza. Poi, decido di lasciare lo stadio: bisogna chiamare al lavoro i colleghi, organizzare il giro degli ospedali e contattare la gendarmeria, i vigili del fuoco, il consolato. Rientrando in centro, incrocio le colonne di mezzi delle forze dell’ordine che raggiungono l’Heysel per garantire il deflusso separato delle due tifoserie, dopo la partita: una misura tardiva, quando il danno ormai è fatto.
Per tutta la notte, in ufficio, raccolgo e mando notizie: ci sono colleghi nei principali ospedali, uno al Ministero dell’Interno. Il bilancio delle vittime continua a salire. E, per tutta la notte, continuano ad arrivare in ufficio, spaventati, stravolti, stanchi, spesso dopo avere camminato ore e ore, gruppi di tifosi che non trovano più un amico, un familiare. Uno cerca il figlio: lo troverà all’alba, già dimesso da un ospedale, pronto a tornare a casa. Un altro impallidisce, scorrendo l’elenco delle vittime che avevamo già dato: l’amico che cercava era uno di quelli che non ce l’avevano fatta.
Tanti cadaveri così, non li avevo mai visti. E non li avrei neppure mai più visti dopo, io che non sono stato a Sebrenica, o in Iraq, sui luoghi degli eccidi tribali, etnici, religiosi dei tempi nostri. Erano distesi sulla spianata d’asfalto antistante lo Stadio, allineati l’uno accanto all’altro: schiacciati, soffocati, senza segni di violenza sul corpo, sul viso. “Sono tutti morti”, mi disse il vigile del fuoco che sbarrava l’accesso a quell’obitorio a cielo aperto, in una sera che c’era ancora un filo di luce e che l’aria era insolitamente mite per Bruxelles.
Provai a contarli, ma mi dovetti riprendere più volte: 12, 13, ma ne portavano ancora degli altri. Alla fine, le vittime di quella strage risulteranno 39, 32 gli italiani.
Dalla tribuna stampa, dove ero arrivato per tempo, per seguire la finale della Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, non si era avuta subito la percezione della gravità di quanto era accaduto all’improvviso nel settore Z, alla nostra sinistra: uno spicchio di spalti prevalentemente juventino, che gli ‘animals’, i tifosi del Liverpool, assiepati lì accanto, avevano aggredito e invaso, travolgendo la sottile inerme inadeguata intercapedine dei 9 agenti messi a separare le due tifoserie.
A seguire l’evento, era arrivato il gotha del giornalismo sportivo italiano: da lontano, vedemmo ondeggiare la folla; e gente abbandonare gli spalti, cercare scampo sulla pista d’atletica, fare gesti spaventati e disperati. In Italia, la gente ne sapeva più di noi: le telecamere avevano già zoomato sulla scena.
“Vado a vedere che cosa succede”, dico all’inviato, che annuisce: io ero il corrispondente, dovevo occuparmi del contorno, non del match. In quel momento, il caporedattore chiama sul telefono fisso della postazione sportiva: la voce è concitata, “La Reuters dice che ci sono dei morti, parecchi”.
Scendo, esco fuori dallo stadio, un impianto vecchio, nelle curve fatiscente, anche se ospitava tutte le partite della nazionale belga. E mi imbatto nel pompiere, nei cadaveri allineati, nei familiari e negli amici, in persone terrorizzate. La partita, intanto, è iniziata: si capisce dai boati che arrivano da dentro. La gente che la segue, i tifosi juventini nella curva di fronte a quella della tragedia non sanno della gravità di quanto accaduto, del numero dei morti: da casa, nessuno può allora avvertirli coi telefonini.
Lì, nella curva dove non è successo nulla, c’è pure mio padre, con un mio amico: restano insieme fino alla fine, quando, conclusa la partita, celebrata la coppa (che molti non sanno insanguinata), tornati a casa, finalmente mi telefonano, per dirmi che stanno bene e per chiedermi che cosa sia mai successo. Da dove stavano, non s’era capito granché.
Fuori dallo stadio, raccolgo le informazioni che posso, qualche nome, qualche testimonianza. Poi, decido di lasciare lo stadio: bisogna chiamare al lavoro i colleghi, organizzare il giro degli ospedali e contattare la gendarmeria, i vigili del fuoco, il consolato. Rientrando in centro, incrocio le colonne di mezzi delle forze dell’ordine che raggiungono l’Heysel per garantire il deflusso separato delle due tifoserie, dopo la partita: una misura tardiva, quando il danno ormai è fatto.
Per tutta la notte, in ufficio, raccolgo e mando notizie: ci sono colleghi nei principali ospedali, uno al Ministero dell’Interno. Il bilancio delle vittime continua a salire. E, per tutta la notte, continuano ad arrivare in ufficio, spaventati, stravolti, stanchi, spesso dopo avere camminato ore e ore, gruppi di tifosi che non trovano più un amico, un familiare. Uno cerca il figlio: lo troverà all’alba, già dimesso da un ospedale, pronto a tornare a casa. Un altro impallidisce, scorrendo l’elenco delle vittime che avevamo già dato: l’amico che cercava era uno di quelli che non ce l’avevano fatta.
mercoledì 27 maggio 2015
Usa 2016: Hillary, vita da candidata, gaffes, impicci, scandali (3)
Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 27/05/2015
La campagna elettorale di Hillary Clinton prosegue indisturbata, lato democratico, dove il suo finora unico rivale, il senatore Bernie Sanders, si mantiene estremamente discreto; e tumultuosa, lato mediatico, ancor più che repubblicano, perché la polemica sulle mail private, quand’era segretario di Stato, e sui finanziamenti esteri alla Clinton Foundation non accennano a placarsi. “Cerco lavoro”: s’iscrive a Linkedin – Hillary s’è iscritta a LinkedIn, social network specializzato in relazioni professionali. "Forse ne avete sentito parlare, sta cercando un nuovo lavoro", ha scritto su twitter , dove circolano le notizie, il suo staff. L'ex first lady ha dedicato la prima sortita su Linkedin alla sua ricetta per aiutare le piccole imprese: "Oggi è ancora troppo difficile avviare un'attività, il duro lavoro non basta più per garantire opportunità, è troppo difficile ottenere credito, troppi requisiti normativi sono incerti". Tra le proposte della Clinton, "ridurre la burocrazia che frena le piccole imprese e gli imprenditori, facilitare l'accesso al capitale, fornire sgravi fiscali e semplificare la fiscalità per le piccole imprese, agevolare l’accesso ai nuovi mercati". E affida a una fan l’account twitter – Hillary ha concesso un privilegio unico a una sua sostenitrice: gestire per un giorno il suo profilo twitter ufficiale e scrivere messaggi per i suoi oltre tre milioni e mezzo di followers. "Benvenuti a Portsmouth", ha esordito Mary Jo Brown, imprenditrice del New Hampshire, allegando una foto del suo ufficio nell'azienda 'Brown Co Design', fondata 23 anni or sono. Mary Jo ha poi 'postato' la foto di una torta con una grande 'H' al centro, in onore di Hillary, e ha raccontato la sua vita di ogni giorno. Il tormentone delle email – La scorsa settimana è partita l'operazione trasparenza del Dipartimento di Stato, che ha diffuso una prima ondata di 296 email sull'attentato del 2012 al consolato Usa di Bengasi in Libia –morirono l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre cittadini americani-, ricevute e inviate dall'account di posta privato di Hillary Clinton. I documenti coprono un "periodo di due anni, dal 1° gennaio 2011 fino al 31 dicembre 2012 e sono relativi alla sicurezza e all'attacco al compound del Dipartimento di Stato a Bengasi e alla presenza di diplomatici degli Stati uniti in Libia e a Bengasi", ha riferito la vice portavoce Marie Harf. Le mail erano state già fornite a un comitato del Congresso che indaga sull'attacco del 2012: per la Harf, "le email ora diffuse non apportano elementi essenziali e non cambiano la nostra comprensione degli eventi avvenuti prima, durante o dopo gli attacchi”. Da esse, piuttosto, emerge che i collaboratori di Hillary erano preoccupati dalla ricaduta degli eventi sull'immagine dell'allora segretario di Stato Usa. A giudizio di giornalisti e specialisti, nelle email non c'è nulla che possa danneggiare la corsa dell’ex first lady per la Casa Bianca, ma si avverte l'apprensione del suo staff per l'impatto mediatico dell'attacco terroristico. La diffusione delle email seguiva l’ordine diramato il 20 maggio dal giudice distrettuale di Washington Rudolph Contreras di diffondere immediatamente, e non all'inizio del 2016 come era stato previsto, le mail di quando la Clinton era a capo della diplomazia Usa, dal 2009 al 2013. La controversia esplose all'inizio dell'anno, quando si scoprì che Hillary, da segretario di Stato, ha sempre ed esclusivamente usato una mail privata (hdr22@clintonemail.com ) e non una certificata e protetta dell'Amministrazione statunitense. Inoltre, solo dopo l'inizio delle polemiche la Clinton ha fornito al Dipartimento di Stato 30.000 email esclusivamente selezionate dal suo staff, considerando le altre private e quindi non divulgabili. (fonti varie – gp)
La campagna elettorale di Hillary Clinton prosegue indisturbata, lato democratico, dove il suo finora unico rivale, il senatore Bernie Sanders, si mantiene estremamente discreto; e tumultuosa, lato mediatico, ancor più che repubblicano, perché la polemica sulle mail private, quand’era segretario di Stato, e sui finanziamenti esteri alla Clinton Foundation non accennano a placarsi. “Cerco lavoro”: s’iscrive a Linkedin – Hillary s’è iscritta a LinkedIn, social network specializzato in relazioni professionali. "Forse ne avete sentito parlare, sta cercando un nuovo lavoro", ha scritto su twitter , dove circolano le notizie, il suo staff. L'ex first lady ha dedicato la prima sortita su Linkedin alla sua ricetta per aiutare le piccole imprese: "Oggi è ancora troppo difficile avviare un'attività, il duro lavoro non basta più per garantire opportunità, è troppo difficile ottenere credito, troppi requisiti normativi sono incerti". Tra le proposte della Clinton, "ridurre la burocrazia che frena le piccole imprese e gli imprenditori, facilitare l'accesso al capitale, fornire sgravi fiscali e semplificare la fiscalità per le piccole imprese, agevolare l’accesso ai nuovi mercati". E affida a una fan l’account twitter – Hillary ha concesso un privilegio unico a una sua sostenitrice: gestire per un giorno il suo profilo twitter ufficiale e scrivere messaggi per i suoi oltre tre milioni e mezzo di followers. "Benvenuti a Portsmouth", ha esordito Mary Jo Brown, imprenditrice del New Hampshire, allegando una foto del suo ufficio nell'azienda 'Brown Co Design', fondata 23 anni or sono. Mary Jo ha poi 'postato' la foto di una torta con una grande 'H' al centro, in onore di Hillary, e ha raccontato la sua vita di ogni giorno. Il tormentone delle email – La scorsa settimana è partita l'operazione trasparenza del Dipartimento di Stato, che ha diffuso una prima ondata di 296 email sull'attentato del 2012 al consolato Usa di Bengasi in Libia –morirono l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre cittadini americani-, ricevute e inviate dall'account di posta privato di Hillary Clinton. I documenti coprono un "periodo di due anni, dal 1° gennaio 2011 fino al 31 dicembre 2012 e sono relativi alla sicurezza e all'attacco al compound del Dipartimento di Stato a Bengasi e alla presenza di diplomatici degli Stati uniti in Libia e a Bengasi", ha riferito la vice portavoce Marie Harf. Le mail erano state già fornite a un comitato del Congresso che indaga sull'attacco del 2012: per la Harf, "le email ora diffuse non apportano elementi essenziali e non cambiano la nostra comprensione degli eventi avvenuti prima, durante o dopo gli attacchi”. Da esse, piuttosto, emerge che i collaboratori di Hillary erano preoccupati dalla ricaduta degli eventi sull'immagine dell'allora segretario di Stato Usa. A giudizio di giornalisti e specialisti, nelle email non c'è nulla che possa danneggiare la corsa dell’ex first lady per la Casa Bianca, ma si avverte l'apprensione del suo staff per l'impatto mediatico dell'attacco terroristico. La diffusione delle email seguiva l’ordine diramato il 20 maggio dal giudice distrettuale di Washington Rudolph Contreras di diffondere immediatamente, e non all'inizio del 2016 come era stato previsto, le mail di quando la Clinton era a capo della diplomazia Usa, dal 2009 al 2013. La controversia esplose all'inizio dell'anno, quando si scoprì che Hillary, da segretario di Stato, ha sempre ed esclusivamente usato una mail privata (hdr22@clintonemail.com ) e non una certificata e protetta dell'Amministrazione statunitense. Inoltre, solo dopo l'inizio delle polemiche la Clinton ha fornito al Dipartimento di Stato 30.000 email esclusivamente selezionate dal suo staff, considerando le altre private e quindi non divulgabili. (fonti varie – gp)
martedì 26 maggio 2015
Ue: Polonia, un voto di sfiducia, una pugnalata alll'Europa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/05/2015
E’ uno dei
Paesi che ha tratto maggiore beneficio dall’adesione all’Unione europea. Ma in
Polonia come altrove nell’Europa ex comunista entrata nell’Ue, il pendolo della
politica oscilla in fretta: si sposta da un campo all’altro. Tra un voto e
l’altro. E così, cinque anni dopo la tragedia di Smolensk, il 10 aprile 2010,
che s’era portata via in un incidente aereo, e tra molti interrogativi, il
presidente euro-scettico Lech Kaczynski, la Polonia torna a darsi un presidente
conservatore e nazionalista, Andrzej Duda.
All’Unione,
i polacchi, che sono fuori dall’euro, non rimproverano le scelte economiche,
non contestano l’accento sull’austerità invece che sulla flessibilità. Le
rimproverano di non essere abbastanza anti-russa nella vertenza ucraina, come
se i 28 potessero andare oltre le sanzioni a Mosca e gli aiuti a Kiev,
dovessero ‘fare la guerra’ ai russi e fornire armi e dare una prospettiva
d’adesione agli ucraini.
Difficile
trovare un minimo comune denominatore nei risultati delle ultime elezioni europee,
spesso contraddittorie: il successo di Podemos in Spagna può apparentarsi a
quello di Syriza in Grecia (ma le regionali spagnole non avevano confermato
questa tendenza); e il voto in Polonia di domenica ha l’euro-scetticismo in
comune con quello britannico del 7 maggio; mentre il referendum in Irlanda
suona anelito libertario.
In Italia,
Matteo Renzi tenta di esibire la primogenitura del progetto di una forza di
sinistra “nuova” alla guida di un grande Paese Ue: "I venti della Grecia e
della Spagna e quello della Polonia –dice- non soffiano nella stessa direzione,
soffiano in direzione opposta. Ma tutti questi venti dicono che l'Europa deve
cambiare e io spero che l'Italia potrà portare forte la voce per il cambiamento
dell'Europa". In Germania, Angela Merkel fa buon viso a cattivo gioco: scrive
a Duda, mentendo, che “le relazioni polacco-tedesche sono oggi, a 70 anni dalla
fine della guerra, cordiali e fiduciose come non mai. Siamo partner di Ue e
Nato, stiamo lavorando per rafforzare la pace in Europa e trovare una soluzione
alla crisi ucraina”.
Ma il voto polacco, come per motivi diversi quello
spagnolo, crea ansia e timore a Bruxelles, dove l’ex premier polacco Donald
Tusk, divenuto presidente del Consiglio europeo, rischia di trovarsi
all’opposizione nel proprio Paese. I segnali di disgregazione non dissuadono,
però, Mattarella dall’andare a Belgrado ieri e a Podgorica oggi a offrire a
Serbia e Montenegro l’appoggio dell’Italia per l’adesione all’Ue, lontana
almeno cinque anni.
Con il 51,55% dei suffragi, Duda ha vinto al ballottaggio e presidenziali
contro il capo dello Stato uscente centrista Bronislaw Komorowski. Se le
legislative d’autunno dovessero confermare la svolta nazionalista della
politica polacca, al governo potrebbe tornare Jaroslaw Kaczynski, gemello di
Lech, leader del partito conservatore ed euro-scettico Diritto e Giustizia.
Duda, 43
anni, è un avvocato di Cracovia: figlio di intellettuali, suo suocero è uno
scrittore ebreo molto noto, Julian Kornhauser. Finora, rappresentava al
Parlamento europeo il partito di Kaczynski, sedendo nello stesso gruppo dei
conservatori britannici. In campagna, ha denunciato la corruzione del partito
al potere, la Piattaforma dei Cittadini, e ha puntato sulla ‘polonizzazione’ di
banche e grande distribuzione: l’Europa non ha più paura, come dieci anni or
sono dell’idraulico polacco, ma l’idraulico polacco ha lui paura d’essere
fagocitato dal mercato unico e dalla globalizzazione.
lunedì 25 maggio 2015
Usa 2016: Hillary, che grafomani i Clinton!, pure Chelsea
Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 25/05/2015
Che grafomani, i Clinton. E che
chiacchieroni: si è appena saputo che Bill e Hillary guadagnano 25 milioni di
dollari l’anno con i loro discorsi, ecco un altro libro della prolifica
famiglia. Dopo la biografia di Bill, il padre, il 42° presidente degli Stati
Uniti (1993-2001), e il libro-verità di Hillary, la madre, ex first lady, ex
senatore dello Stato di New York, ex segretario di Stato e ora candidata alle
primarie democratiche, con riedizione da nonna, ora tocca a Chelsea, la figlia.
Sta per uscire l’opera prima, "It's your world": la pubblicazione non
è proprio imminente, ma è già stata strategicamente annunciata per il 15
settembre 2016, cioè poche settimane prima che gli americani si rechino al voto
per le elezioni che alcuni ritengono consacreranno la prima donna presidente
Usa (Hillary, appunto). Certo, di qui ad allora può accadere di tutto, ma la
scommessa editoriale può valere il rischio. Con il sottotitolo
"informarsi, trarre ispirazione e andare avanti", l'opera di Chelsea –da
poco a sua volta mamma di Charlotte- non è un romanzo, ma un saggio che
affronta questioni come la povertà, la fame, l'uguaglianza di genere, l'accesso
all'istruzione, il cambiamento climatico, le specie in via d’estinzione.
Chelsea passa in rassegna alcune soluzioni, attraverso storie di giovani che
sono al lavoro per migliorare la propria comunità e il pianeta. "La mia
speranza è che questo libro ispiri i lettori a capire che possono iniziare a
fare la differenza ora, a modo loro, per la loro famiglia, la loro comunità e
il nostro mondo", spiega con linguaggio molto americano Chelsea. A
pubblicarlo sarà la Penguin Young Readers: il libro uscirà simultaneamente
negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Irlanda, Australia, Nuova Zelanda e Canada.
Unica figlia di Bill e Hillary, Chelsea à stata un’adolescente defilata alla
Casa Bianca, una studentesse da Ivy League con laurea a Stanford e dottorato a
Oxford, una corrispondente speciale per la Nbc dal 2011 al 2014 per 600 mila
dollari l'anno –non lo stipendio di una praticante-. Sposata a Mark Mezvinsky, 35
anni, mamma da un anno, ora Chelsea è vice-presidente della Clinton Foundation,
finita di recente al centro delle polemiche per il possibile conflitto di
interessi tra i suoi donatori internazionali e Hillary, quand’era a capo della
diplomazia statunitense. (Agi - gp)
domenica 24 maggio 2015
Ue: Grecia/immigrazione, una settimana corta, ma critica
Scritto per La Presse il 24/05/2015
L’Ue ha di fronte una settimana corta, ma critica per i negoziati su Grecia e Agenda per l’Immigrazione: corta, perché lunedì è giorno di festa nel Nord dell’Europa (il Lunedì della Pentecoste, un bis del Lunedì di Pasquetta); critica perché i nodi potrebbero finalmente venire al pettine, specie se la Grecia confermerà di non potere rimborsare a inizio giugno le rate del debito con l’Fmi “perché non ci sono i soldi”. Da Atene, però, giungono dichiarazioni contraddittorie, come le ultime del ministro delle Finanze Varoufakis, prima “abbiamo già fatto la nostra parte”, poi “l’uscita dall’euro sarebbe una catastrofe”.
I colloqui e gli incontri a margine del Vertice di Riga, giovedì e venerdì scorsi, non hanno portato passi avanti concreti né sul fronte greco, né su quello dell’immigrazione,. Per la Grecia, i negoziati proseguono, senza che sia fissata una riunione straordinaria dell’Eurogruppo, che non è però esclusa. Per l’immigrazione, il prossimo appuntamento a livello ministeriale è imminente, ma sarà interlocutorio: il Consiglio dei Ministri dell’Ue sulla cooperazione, martedì 26.
La Grecia all’ora delle decisioni – Per la Grecia, al di là delle genericità tipo “sì al compromesso, ma non sia irragionevole” –una frase a Riga del premier Tsipras-, si avvicina l’ora delle decisioni,. Dopo quattro mesi di trattative inconcludenti, la Germania e altri Paesi della zona euro danno ormai l’impressione di non considerare più l’ipotesi dell’uscita della Grecia dall’euro un tabù.
Sia che parli la cancelliera Merkel sia che parli il ministro dell’Economia Schaeuble, la Germania insiste che l’intesa non è affatto vicina. E sollecita la Grecia a fare la propria parte, per le riforme ed i conti pubblici. E la Merkel alza la barra politica, segnalando che potrebbe consultare il Bundestag su eventuali nuovi aiuti ad Atene.
Secondo fonti a Bruxelles, le questioni “in sospeso” più rilevanti rimangono le pensioni, i tassi dell'Iva, l'avanzo primario ed il mercato del lavoro. Il tempo stringe e i toni, invece d’ammorbidirsi, s’inaspriscono: può pure essere una strategia negoziale, ma la sensazione è di correre sul filo.
L’economia va meglio, la trattativa peggio - Quasi per assurdo, il migliorato clima economico generale diventa un handicap per Atene, perché l’euro zona è sollecitata dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi a fare “progressi importanti sulle riforme strutturali”, approfittando del fatto che le prospettive di crescita non sono mai state così positive dal 2008. L’effetto del QE, che spinge consumi e investimenti in misura più potente del previsto, non deve indurre i governi a dare colpi di freno.
E l’accelerazione delle riforme rischia di accrescere le distanze tra la Grecia e i partner, anche se Draghi, parlando nei giorni scorsi a Washington e a Lisbona, ha insistito che “la flessibilità deve essere parte del dna della zona euro” e che, dove il debito è elevato, i conti vanno corretti “anche con misure pro-crescita”. Nel contempo, il presidente della Bce chiede ai governi di “non abbassare la guardia sulla governance”: “Dall'inizio della crisi –dice-, abbiamo fatto progressi notevoli, ma c’è un ritardo pericoloso nel completamento dell’Unione economica”.
Immigrazione, la Commissione rifà i compiti – Sull’Agenda dell’Immigrazione, invece, la parola è tornata alla Commissione europea, che deve riformulare le proposte, specie per quanto riguarda la distribuzione in quote dei rifugiati, dopo l’accoglienza negativa o comunque critica di 12 Paesi, fra cui Gran Bretagna, Polonia, Francia e Spagna, all’ipotesi iniziale.
Dopo Riga, il premier Renzi stima che si sia spazio per un’intesa, che potrebbe maturare a giugno. E la Commissione ritiene che l’Agenda nel suo complesso “non sia a rischio”. Le quote non sono l’unica questione in sospeso. Anche la missione navale anti scafisti schiavisti va definita, tenendo conto della risoluzione in discussione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Un impatto sulla vicenda potrebbe avere la visita a Bruxelles martedì e mercoledì del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.
sabato 23 maggio 2015
Usa/Ue via Is: qui Ws, Obama al cambio di strategia (l'ennesimo)
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/05/2015
Il
suo potere è anche ‘hard’ –è il comandante in capo del più micidiale apparato
militare mai esistito-, ma lo esercita -si sarebbe detto una volta- alla Sor
Tentenna: tra il dialogo e la guerra, spesso esitante il primo, mai
determinante la seconda. Per il
presidente Usa Barack Obama, i cambi di strategia sono all’ordine del giorno e
il prossimo deve essere imminente, se persino l’Italia gli chiede apertamente
una verifica: segno che ormai è stata decisa. Anche
se Obama tiene fermo un punto: non vuole mandare truppe in campo.
Davanti
all'avanzata parallela dei miliziani jihadisti in
Iraq e in Siria, il governo italiano –afferma a Riga il ministro degli esteri
Gentiloni- "è preoccupato” e considera “fondamentale” una verifica “della
strategia che stiamo attuando". L’occasione sarà un incontro a Parigi il 2
giugno, dove il segretario di Stato Usa Kerry e rappresentanti dei 60 Paesi
alleati faranno il punto sulla lotta al Califfato.
Che, per il momento, non dà tregua: sul
terreno, all’esercito iracheno e ai ‘lealisti’ di al Assad; e nell’etere, con
un assillante minacciosa propaganda anti-occidentale. Daqib,
la rivista in inglese degli integralisti, affida al suo giornalista di
riferimento, John Cantlie, il reporter britannico ostaggio, divenuto una stella
mediatica jihadista, la minaccia di un attacco senza pari contro l’America,
agari un attentato nucleare.
In un pezzo intitolato "La tempesta
perfetta", come il film diretto da Wolfgang Petersen nel 2000 –ma qui la
tempesta è l’avvento del Califfato-, Cantlie esalta la capacità di
coordinamento degli integralisti a livello globale in tempo reale, così che “la
potenzialità per operazioni mai viste cresce esponenzialmente". Questo nel
web o per azioni terroristiche in campo avverso.
Sul terreno di guerra, strategie e dinamiche sono più
tradizionali. Negli ultimi otto giorni, dopo settimane di
bombardamenti aerei della coalizione internazionale e attacchi letali dei droni
Usa contro alcuni capi-, i miliziani hanno conquistato Ramadi, capitale della
provincia irachena sunnita di al-Anbar, e Palmira, nel deserto siriano, oltre
al valico di frontiera di al Tanaf, a Sud.
Ora, il regime di al-Assad ha perso il
controllo di metà del territorio nazionale e di tutti e tre i passaggi di
frontiera con l'Iraq: Bukamal era già in mano agli jihadisti; e a Nord al Jarrubia
è gestito dalle forze curde. Nelle ultime ore, gli integralisti sono ancora
avanzati nella provincia centrale di Homs, alla frontiera con l'Iraq, occupando
impianti di gas.
Rispetto all’avvio della campagna aerea
lanciata lo scorso autunno dalla coalizione internazionale a guida americana, e
nonostante disfatte nei mesi scorsi al confine tra Turchia e Siria e in Iraq,
specie a Tikrit, i miliziani hanno allargato il territorio da loro controllato
nei due Paesi. Le forze di Baghdad, da quando il sostegno iraniano s’è ridotto,
non reggono il confronto con gli jihadisti; e i lealisti di al Assad paiono
quasi in rotta, come se avvertissero scricchiolii nel regime, non più in grado di
proteggere chi lo sostiene.
Ce n’è quanto basta per mettere sotto accusa
una strategia inefficace sia a sconfiggere il nemico sia a tenere uniti gli
alleati. Mentre Washington cerca di coinvolgere Teheran in Iraq, gli iraniani
aprono un fronte anti-sunnita nello Yemen e le monarchie del Golfo, alleate
degli Stati Uniti, si coalizzano con l’Egitto contro gli insorti sciiti in quel
Paese. Non a caso, mentre ciò accade, l’avanzata dei miliziani ritrova slancio.
In Siria, ieri, dopo un mese di assedio, i governativi hanno lasciato ai ribelli islamisti siriani, stavolta qaedisti del Fronte al-Nusra, un ospedale appena fuori Jisr al-Shughour, nella provincia di Idlib (siamo già in area alauita, la roccaforte di al Assad). E c’è stato pure il sequestro di un religioso, padre Jacques Mourad, priore del monastero di Mar Elian, rapito da un commando sotto la minaccia delle armi. Il sacerdote appartiene alla comunità di Mar Musa El Habashi, fondata dal gesuita italiano padre Paolo Dall'Oglio, sequestrato il 29 luglio 2013 e di cui non si hanno notizie.
In Siria, ieri, dopo un mese di assedio, i governativi hanno lasciato ai ribelli islamisti siriani, stavolta qaedisti del Fronte al-Nusra, un ospedale appena fuori Jisr al-Shughour, nella provincia di Idlib (siamo già in area alauita, la roccaforte di al Assad). E c’è stato pure il sequestro di un religioso, padre Jacques Mourad, priore del monastero di Mar Elian, rapito da un commando sotto la minaccia delle armi. Il sacerdote appartiene alla comunità di Mar Musa El Habashi, fondata dal gesuita italiano padre Paolo Dall'Oglio, sequestrato il 29 luglio 2013 e di cui non si hanno notizie.
Usa/Ue via Is: qui Riga, Merkel in cattedra tra Putin e Tsipras
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/05/2015
Il suo potere è tutto ‘soft’, ma lo esercita -si sarebbe
detto una volta- con un pugno di ferro dentro un guanto di velluto. Al Vertice
di Riga tra i leader dell’Ue e i loro vicini dell’Europa orientale, Angela
Merkel riesce a evitare il peggio (con la Russia) e a tenere insieme i fili dei
negoziati che s’intrecciano fra i 28, per la Grecia e sull'immigrazione. Certo,
dal Vertice non esce nulla, ma non c’è neppure la smagliatura d’una polemica (troppo)
sopra le righe.
In un’occasione analoga, a Vilnius, 18 mesi or sono, la
precipitazione dell’Unione nell’assecondare la presidenza di turno lituana fu
la miccia che fece deflagrare il conflitto tra Russia e Ucraina. Questa volta,
tutti sono avvertiti e la Merkel tiene sotto controllo la presidenza di turno
lettone, ancora più oltranzista della lituana nei sentimenti anti-russi.
Per l’Agenda dell’Immigrazione proposta dalla Commissione
europea, con le quote di ripartizione dei rifugiati e missioni navali anti
scafisti schiavisti, e per la trattativa con la Grecia perché rispetti gli
impegni e faccia le riforme, non è qui l’ora delle decisioni. Ma la
cancelliera, tra plenaria e bilaterali, evita esasperazioni e si mostra
convinta che l’intesa alla fine si troverà.
Senza cedimenti, però. Alla Russia, non glielo manda a dire
che il G8 anche quest’anno sarà un G7, se nella crisi ucraina Putin continuerà
a non rispettare il diritto internazionale. Di tutte le sanzioni, questa è
quella che fa meno male, pur facendo un sacco di rumore. La Merkel ne aveva già
informato il Bundestag, giovedì: il ritorno della Russia nel Gruppo dei Grandi
è "inimmaginabile", fin quando Mosca non agirà nel rispetto della
democrazia e dello stato di diritto.
Il Vertice si svolge a giugno a Elmau, in Baviera, sotto la
presidenza di turno tedesca: "Gli sviluppi in Ucraina sono la ragione per
cui ci incontreremo in 7 e non 8", spiega la cancelliera. Se "il G7 è
una comunità di valori, che lavora insieme per la libertà, la democrazia, lo
stato di diritto", per farne parte bisogna “rispettare le leggi degli
Stati e la loro integrità territoriale": “Quel che fa la Russia in Ucraina
non è compatibile con tutto ciò".
Sono toni fermi, ma misurati. Della Russia, l’Unione –specie
Italia e Germania- ha bisogno per gli approvvigionamenti energetici e –specie
l’Italia- perché non si metta di traverso all’Onu sull’idea d’una missione
navale anti-scafisti schiavisti (nel Consiglio di Sicurezza, Mosca ha diritto
di veto).
La strategia dell’immigrazione non è in agenda a Riga. Ma la
Merkel continua a giocarsi il jolly della solidarietà, senza no alla
suddivisione dei rifugiati –la Germania, del resto, ne prende già più di tutti-:
sarà che da lei non ci sono elezioni davvero importanti –ma in Turingia e in
Brandeburgo s’è appena votato-, la cancelliera evita qualsiasi accenno
populista. E Francia e Spagna, le cui levate di scudi anti quote avevano stupito,
precisano: non sono contro il principio, ma contro i criteri. L’Esecutivo
rifarà i compiti, in vista del prossimo round, già martedì 26.
E la Merkel si conferma assolutamente centrale nella
trattativa con la Grecia, che, come era già successo ad aprile, esclude di
nuovo l’Italia: la cancelliera vede il premier Tsipras con il presidente
francese Hollande e senza esponenti delle Istituzioni Ue (l’assenza del
presidente della Commissione Juncker è un ‘mini-giallo’).
La trilaterale dura due ore e mezza, in una suite dell’Hotel Radisson: all’uscita, volti sorridenti, ma bocche cucite. La Grecia e i suoi creditori hanno di fronte una settimana di fuoco: stipendi e pensioni da pagare, crediti da restituire e poca liquidità. A fine Vertice, Tsipras, sempre ottimista, parla di “toni costruttivi”, la Merkel avverte che resta da fare “molto lavoro”. E tutti partono sereni, senza accordi, ma senza litigi.
La trilaterale dura due ore e mezza, in una suite dell’Hotel Radisson: all’uscita, volti sorridenti, ma bocche cucite. La Grecia e i suoi creditori hanno di fronte una settimana di fuoco: stipendi e pensioni da pagare, crediti da restituire e poca liquidità. A fine Vertice, Tsipras, sempre ottimista, parla di “toni costruttivi”, la Merkel avverte che resta da fare “molto lavoro”. E tutti partono sereni, senza accordi, ma senza litigi.
venerdì 22 maggio 2015
Is: le milizie prendono Ramadi, sbriciolano Palmira
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/05/2015
La Casa Bianca è
“profondamente preoccupata”. E Barack Obama assicura all’America e al Mondo che
“non stiamo perdendo” la guerra contro il Califfato. Eppure, le notizie che
vengono dai fronti del conflitto fanno pensare esattamente il contrario: dopo Ramadi
in Iraq, le milizie jihadiste prendono Palmira in Siria. E avanzano suscitando il
consenso delle popolazioni sunnite locali, nonostante gli orrori esecrabili di
cui si rendono responsabili, decapitazioni e vandalismi.
Questo è un
conflitto che va a folate: gli integralisti, che parevano inarrestabili, hanno poi
incassato alcune sconfitte, hanno perso città e territori che parevano loro
acquisiti; da qualche settimana, sono di nuovo all'offensiva, nonostante i
droni di Obama abbiano colpito e ucciso alcuni loro capi.
Il Pentagono
ammette “lo stallo”, che con la caduta di Palmira può divenire una disfatta:
bisogna rivedere la strategia e, alla Casa Bianca, si riunisce un ‘consiglio di
guerra’. Mentre gli europei, riuniti a Riga con i partner dell’Est, fra cui
l’Ucraina, cercano di evitare d’approfondire il solco delle tensioni con la
Russia: di Mosca, c’è diplomaticamente bisogno nel Grande Medio Oriente; e c’è
pure bisogno all’Onu, perché non metta i bastoni tra le ruote all’azione nel
Mediterraneo contro gli scafisti schiavisti.
Di fatto, il sedicente Stato islamico
controlla ormai più della metà del territorio siriano, una vasta area desertica
su cui insistono nove province, 95mila kmq –quasi un terzo dell’Italia-,
comprese zone petrolifere con una sessantina di pozzi. Palmira, la 'perla del
deserto’, un gioiello archeologico ma anche un centro strategico, è ormai
caduta interamente nelle mani degli jihadisti.
La città dista appena 210 chilometri da
Damasco e sorge sull'autostrada che taglia il Paese da ovest a est: decine di
soldati di al Assad sarebbero stati uccisi e su twitter circolano foto di cadaveri
senza testa, militari e civili decapitati.
Come nel centro e nel nord dell’Iraq,
anche qui gli jihadisti hanno la complicità delle popolazioni e delle tribù
sunnite. I miliziani, dopo una violenta battaglia andata avanti per ore e che
avrebbe fatto decine di vittime, hanno imposto il coprifuoco e hanno preso il
controllo del carcere, lasciandone fuggire i detenuti, dell'ospedale,
dell'aeroporto e del quartier generale dell'intelligence. Tutte queste
informazioni non sono verificate: ta tv del regime, al Ekhbariya, che trasmette
da Damasco, assicura che la maggior parte degli abitanti s’è allontanata prima
dell'arrivo degli integralisti.
L'area monumentale dell’antica Palmira,
con rovine romane con oltre mille colonne e torri funerarie incluse nella lista
del Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco, è a rischio: con barbarie iconoclasta,
i miliziani hanno già provocato danni ai siti archeologici, secondo fonti
ufficiali. E la città attuale, Tadmur, è
stata colpita a più riprese dai raid del regime.
Il controllo di Ramadi in Iraq e di Palmira
in Siria avvicina il Califfato alle capitali dei due Stati che sta
ingurgitando. Nel timore di distruzioni e danneggiamenti nel sito archeologico,
l'Unesco avverte che sarebbe "un'enorme perdita per l'umanità”. E, a nome
dell’Ue, Federica Mogherini denuncia "un crimine contro l'umanità".
In un’intervista
a ‘The Atlantic’, Obama parla di “un arretramento
tattico" della forze lealiste, una delle formule dietro cui, da sempre, i
bollettini di guerra mascherano le ritirate o le disfatte. Ramadi, spiega, era
da tempo “vulnerabile”, perché le forze di sicurezza irachene non erano adeguatamente
“addestrate o rafforzate" -come dire che, lasciati da soli, gli iracheni
si squagliano-. Palmira non poteva più essere tenuta: i lealisti si
riorganizzano su una linea di difesa migliore. Ma il Califfo sogna di riaprire
i suoi palazzi, un millennio dopo, a Baghdad e a Damasco.
giovedì 21 maggio 2015
Usa 2016: i pentiti dell'Iraq, Letterman chiude, la calata dei governatori
Scritti per www.GpNewsUsa2016.eu il 21/05/2015
Iraq: 12 anni dopo, il pentimento dei candidati
I candidati di punta alle nomination 2016 democratica e repubblicana sono tutti pentiti dell’Iraq. Hillary Rodham Clinton, che all’epoca della gratuita invasione del Paese di Saddam Hussein era senatrice dello Stato di New York e che votò a favore di quella guerra, dice, oggi, di avere sbagliato. E Jeb Bush, fratello del presidente che intraprese quel conflitto, adducendo informazioni false fornitegli dall’intelligence sul possesso di armi di distruzione di massa da parte di Baghdad e pure su connivenze con il terrorismo integralista islamico, dice che con le informazioni oggi disponibili mai e poi mai avrebbe scatenato il conflitto. Insomma, 12 anni dopo l’attacco all’Iraq continua a fare discutere: nessuno se l’appunta sul petto come una medaglia al merito. Dei repubblicani, Bush è l’unico ad essere implicato, se non personalmente almeno familiarmente, in quella vicenda, perché gli altri, all’epoca, o non erano in politica o, comunque, non erano in Congresso. Invece, sia la Clinton sia il suo finora unico antagonista democratico, il senatore ‘socialista’ del Vermont Bernie Sanders, erano nel 2003 in Congresso –Sanders stava alla Camera e la Clinton al Senato- e portano in qualche misura le stimmate di quel conflitto. (gp)
Iraq: 12 anni dopo, il pentimento dei candidati
I candidati di punta alle nomination 2016 democratica e repubblicana sono tutti pentiti dell’Iraq. Hillary Rodham Clinton, che all’epoca della gratuita invasione del Paese di Saddam Hussein era senatrice dello Stato di New York e che votò a favore di quella guerra, dice, oggi, di avere sbagliato. E Jeb Bush, fratello del presidente che intraprese quel conflitto, adducendo informazioni false fornitegli dall’intelligence sul possesso di armi di distruzione di massa da parte di Baghdad e pure su connivenze con il terrorismo integralista islamico, dice che con le informazioni oggi disponibili mai e poi mai avrebbe scatenato il conflitto. Insomma, 12 anni dopo l’attacco all’Iraq continua a fare discutere: nessuno se l’appunta sul petto come una medaglia al merito. Dei repubblicani, Bush è l’unico ad essere implicato, se non personalmente almeno familiarmente, in quella vicenda, perché gli altri, all’epoca, o non erano in politica o, comunque, non erano in Congresso. Invece, sia la Clinton sia il suo finora unico antagonista democratico, il senatore ‘socialista’ del Vermont Bernie Sanders, erano nel 2003 in Congresso –Sanders stava alla Camera e la Clinton al Senato- e portano in qualche misura le stimmate di quel conflitto. (gp)
Lo ‘show dei presidenti’ chiude:
David Letterman se ne va
Con una parata di presidenti e di stelle di Hollywood , il
decano della tv americana, una vera e propria leggenda televisiva, David
Letterman ha calato il sipario dopo 33 anni sul suo "Late Show".
L'ultimo numero dello spettacolo divenuto un'istituzione culturale,
appuntamento fisso per milioni di telespettatori e fonte d’ispirazione per
generazioni di comici, è stato un evento pirotecnico. Fin dall'apertura con il
botto: una carrellata (filmata) di ex presidenti, George H. e George W. Bush,
padre e figlio, insieme a Bill Clinton, oltre all'attuale inquilino della Casa
Bianca Barack Obama hanno ripetuto uno dopo l'altro: "Il nostro incubo è
finito" e "Letterman va in pensione". E' stata tutta una
successione di applausi euforici, standing ovation e risate a spese del
conduttore, tra ospiti dal vivo e flashback di momenti-cult. Alec Baldwin,
Steve Martin, Bill Murray, Jim Carrey e altri hanno elencato "le 10 cose
importanti che avrei sempre voluto dire a Dave": battute omaggio all'umore
caustico e a volte irritante del leggendario comico. "Grazie e buona
notte", ha detto Letterman, chiudendo lo show, il numero 6.028 della sua
carriera iniziata sulla Nbc nel 1982. (Agi
– gp)
Repubblicani: dopo la calata dei
senatori, gli ex governatori
Dopo la calata dei senatori, è
l’ora dei governatori, anzi degli ex governatori. Mike Huckabee, un ex
dell’Arkansas, lo Stato da cui venne Bill Clinton, s’è candidato alla
nomination repubblicana un po’ in sordina –non è la prima volta che il pastore battista
ci prova: non ha mai sfondato, ma ha sempre fatto bene-; Rick
Perry, un ex del Texas, scioglierà la riserva in un evento a Dallas il 4 giugno
-lui, nel 2012, fu un flop-; Jeb Bush, un ex della Florida, si mantiene al
coperto, ma è generalmente ritenuto il favorito, prima ancora di scendere in
campo. Oltre ai tre ex governatori, ci sono in lizza i senatori Ted Cruz
(Texas), Rand Paul (Kentucky), Marco Rubio (Florida), il neuro-chirurgo
afro-americano Ben Carson e la manager Carly Fiorina. Sul fronte democratico,
siamo fermi a due: Hillary Rodham Clinton e Bernie Sanders. Huckabee, 59 anni,
su posizioni conservatrici, ha lanciato la sua campagna da Hope, la città di
Clinton, denunciando “la mancanza di leadership” nell’Unione, chiedendo che gli
jihadisti siano trattati “come serpenti velenosi” ed esprimenso sotegno a
Israele e la volontà di congelare i negoziati con l’Iran sul nucleare. (varie fonti - gp)
mercoledì 20 maggio 2015
Immigrazione: Boldrini, facciamo la pace in Libia, non la guerra in mare
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/05/2015 e, in altra versione, per La Presse
“L’Italia
dovrebbe proporre una conferenza di mediazione internazionale sulla Libia e
dovrebbe prendere la guida dello sforzo di soluzione della crisi libica a
livello politico e diplomatico, organizzare una conferenza di pace che abbia
come obiettivo la formazione in Libia d’un governo d’unità nazionale”,
piuttosto che guidare un’operazione militare dai contorni tuttora troppo
incerti per poterne al momento valutare la fattibilità, l’efficacia, l’impatto.
Lo dice,
in un’intervista a Il Fatto Quotidiano, Laura Boldrini, oggi presidente della
Camera, dopo una vita in prima linea per affrontare i drammi dei rifugiati: da
Lampedusa alla Giordania, dall’Albania all’Afghanistan, la Boldrini conosce
bene il problema e le sue sfaccettature -dal 1998 al 2012, è stata portavoce
dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr)-.
Il giorno
dopo la prima discussione a Bruxelles fra ministri europei sull’Agenda
dell’Immigrazione messa a punto la settimana scorsa dalla Commissione Juncker,
la Boldrini promuove il piano, che, nel suo insieme, “è stato impostato bene”:
“spero che rappresenti l’inizio di una europeizzazione dell’asilo, che darebbe
anche un segnale di ripresa del processo d’integrazione europea”.
Ma su
aspetti dell’Agenda come le quote di ripartizione dei rifugiati, l’accordo fra
i 28 non c’è -anzi, molti si defilano-. Mentre, per valutare la missione navale
che mira a ridurre le vittime in mare rendendo inutilizzabili i barconi,
“bisogna prima conoscerne bene i termini operativi e i limiti fissati dalle
Nazioni Unite e bisogna essere consapevoli che c’è bisogno della collaborazione
giudiziaria e di polizia delle autorità locali e del lavoro di intelligence che
va fatto prima di ogni cosa”.
E, in
Libia, “ci troviamo di fronte un Paese che non ha un’autorità unica. Qualsiasi
intervento d’appoggio e di sostegno, dall’ ‘institutional building’ alla
cooperazione, ha come presupposto che si arrivi a un governo di unità
nazionale”. Altrimenti, il rischio è quello di azioni ostili, come il
bombardamento la scorsa settimana di una nave turca.
“Qui, ognuno
gioca una partita e l’importante è non lasciarcisi intrappolare … I proclami
che arrivano di laggiù, dicendo che i terroristi del Califfato viaggiano sui
barconi servono a spingerci verso una decisione muscolare … Noi dovremmo essere
abbastanza maturi per capirlo”.
La
Boldrini è chiaramente preoccupata dei potenziali “danni collaterali”
d’un’azione di forza, cioè delle vittime fra migranti e profughi. Lei, che
conosce percorsi, sofferenze, incognite dei ‘viaggi della disperazione’, si
chiede: “Quando parte, il mezzo navale è pieno di gente. Come si può
intervenire? Non so come s’intenda fare, non mi pare che sia stato ancora prospettato
un modus operandi… Io la vedo molto difficile… In Albania, dove c’era un
governo, era molto diverso…”.
La
presidente della Camera non dà giudizi su una missione i cui piani vanno ancora
delineata, ma insiste sulla necessità di “collaborazione” con le autorità
locali, “ché altrimenti si rischia di fare grossi errori”. Il passaggio in
Consiglio di Sicurezza dell’Onu “è importante”: “un atto di garanzia”. “Spero ne
venga fuori un piano attuabile”.
Ma la
Boldrini insiste sulla “soluzione politica”: c’è un inviato del segretario
generale dell’Onu, Bernardino Leon, che “è lì per trovarla”. “Noi abbiamo il
dovere di sostenere questo sforzo e anche d’allargare il discorso ad ambiti di
collaborazione ulteriori… Una scelta diversa apre prospettive molto incerte… Un
intervento nelle acque territoriali libiche sarebbe un atto di ostilità … E
Tripoli non ha nessuna intenzione di collaborare”.
Perché c’è
uno iato tra consapevolezza dei problemi e decisioni sulle soluzioni? “Il capo
dello Stato, il presidente Mattarella, ha ieri detto che la soluzione in Libia
è politica. Solo così si può arrivare alle radici del problema, in Siria, in
Somalia, in Eritrea… Se non risolviamo le crisi subsahariane, è una pia
illusione pensare che non ci saranno più migrazioni”.
Bisogna
“aprire una prospettiva” per i rifugiati, per i migranti: “L’85% dei rifugiati
vive nel sud del Mondo; in Europa e in tutti i Paesi sviluppati ci sono solo il
14% dei rifugiati riconosciuti. Ci sono Paesi come la Giordania e il Libano
che, con pochi milioni di abitanti, ospitano un milione e più di profughi
siriani, mentre noi l’anno scorso abbiamo avuto 170 mila arrivi (e solo 70 mila
sono rimasti). Quanto ai migranti, i 20
milioni e mezzo che vivono nell’Unione europea sono meno del 10% dei 232
milioni di migranti globali… Non possiamo non prendere atto di questa realtà: se
guardiamo solo al nostro cortile, perdiamo di vista il fenomeno e le dimensioni”.
E lei come
se ne fa carico? “Cerco di dare il mio contributo a una questione molto
complicata”, ma non è come quando si sta sul campo e si lavora con degli
obiettivi da raggiungere. “Cerco di aprire
la mente su una questione tanto complicata, dando una presentazione del
problema non prettamente su scala nazionale”.
Ma le sue
competenze sono utilizzate, Gentiloni, la Mogherini la consultano? “Federica
dimostra sensibilità e consapevolezza, ma non ho con lei rapporti costanti.
Però, il piano della Commissione recepisce i principi di solidarietà e di
condivisione e lei ne è stata uno degli attori più dinamici… Con Gentiloni, il rapporto
è dialogante e sereno, non manca il confronto… E la linea del governo è ragionevole,
rispetto alle affermazioni iniziali”, quando il premier Renzi e i suoi ministri
avevano toni decisamente interventisti.
martedì 19 maggio 2015
Immigrazione: Ue, ok a battaglia navale contro scafisti schiavisti, ma su quote è zuffa
Scritto per Il Fatto Quotidiano e, in altra versione, per Metro del 19/05/2015
L’Unione europea ridimensiona le
ambizioni militari contro la Libia e mette tra parentesi, almeno per ora,
l’esercizio di solidarietà interna sollecitato dall’Esecutivo di Bruxelles. A questo prezzo, c’è l’ok dei ministri
degli Esteri e della Difesa dei 28 alla missione navale contro i nuovi
schiavisti, i trafficanti di migranti: obiettivo, impedirne i torbidi affari,
metterne fuori uso i mezzi (in mare, non a terra). L’Italia ottiene il comando
delle operazioni: il quartier generale sarà a Roma.
Ma l’Ue resta divisa sulla ripartizione in quote dei rifugiati: il
fronte della riluttanza, anzi, s’allarga, quello della solidarietà si
restringe. Se ne riparlerà il 27 maggio, dopo il Vertice di Riga del 21 e 22:
l’immigrazione, lì, non è all'ordine del giorno, ma i leader dei 28 ne discuteranno
di sicuro.
I risultati delle riunioni di ieri a Bruxelles hanno sfaccettature
diverse: riducendo la portata dell’uso della forza contro gli schiavisti, l’Ue
allarga il livello di consenso interno e si rende quasi autonoma dal via libera
delle Nazioni Unite, che, a questo punto, non sarà però difficile da ottenere,
e può fare a meno del consenso libico, perché i suoi interventi avverranno
fuori dalle acque territoriali libiche.
Tempi e ritmi paiono segnare l’avvento di un decisionismo europeo:
a un mese dall’ultima grande tragedia mediterranea, a meno di un mese dal
Vertice straordinario del 23 aprile che ne seguì, l’Unione trasforma “i minuti
di silenzio in azioni concrete e comuni”, dice con frase ad effetto Federica
Mogherini, capo della diplomazia europea. L’obiettivo è “di completare la
pianificazione nelle prossime settimane e di lanciare le operazioni a giugno”.
In poche settimana, l’Ue ha affrontato "l'aspetto del
salvataggio in mare, rafforzando Triton”, i cui fondi e mezzi sono stati
triplicati e l’area d’intervento ampliata, e ha deciso una missione navale
‘umanitaria’, ma ‘offensiva’. Delle azioni a breve dell’Agenda per
l’immigrazione presentata mercoledì scorso dalla Commissione europea, resta in
sospeso la condivisione della responsabilità dell'accoglienza: proprio quella
che più darebbe all’Italia il segnale d’una solidarietà europea.
Sono in gioco forza e credibilità dell’Ue nella gestione internazionale
dell'emergenza immigrazione. Condivisione dell’accoglienza e lotta agli schiavisti
sono due facce della stessa medaglia: si
rischia la “figuraccia”, avverte il ministro degli Esteri Gentiloni, se alle
parole non corrisponderanno i fatti. Vallo a spiegare, però, a chi dice
no perché ha diritto di chiamarsi fuori, Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, e
al ‘blocco dell’Est’ compatto nell’egoismo, su fino ai Baltici. La Francia è
reticente e la Spagna giudica i criteri delle quote “ingiusti”. Il fronte della
solidarietà s’è già sbrecciato.
A dargli un’ulteriore picconata, ci pensa il segretario generale
della Nato Jens Stoltenberg, norvegese, che torna ad agitare il drappo della
paura e ripete che terroristi e jihadisti potrebbero mescolarsi ai migranti sui
barconi che salpano dalla Libia: “La Nato –dice Stoltenberg- sta agendo alle
radici del problema (l'immigrazione di
massa clandestina, ndr) e collabora” con i suoi partner sia in Medio
Oriente che in Nord Africa “per aiutarli ad aumentare la loro capacità di
creare stabilità". Cioè, ci sta bene
il ritorno dei satrapi se tengono sotto controllo gli integralisti (e
condannano a morte un po’ di Fratelli Musulmani, magari pure un presidente
illegittimamente deposto). Eppure, secondo Frontex e persino secondo il
ministro dell’Interno Alfano, non c’è traccia di terroristi su barconi.
Un avallo alla linea meno muscolare dell’Ue verso la Libia, rispetto all’interventismo garibaldino di Renzi e dei suoi subito dopo la tragedia nel Mediterraneo, viene da Tunisi, dov’è il presidente della Repubbica Mattarella: in Libia "occorre una soluzione politica e non militare per fare un governo d’unità nazionale e creare le condizioni di un Paese funzionante”, dice, in sintonia con il collega tunisino Essebsi. Intesa fra Italia e Tunisia anche su immigrazione e lotta al terrorismo: "E' una lotta comune a difesa della civiltà e della pacifica convivenza, vogliamo stipulare un patto di civiltà".
Un avallo alla linea meno muscolare dell’Ue verso la Libia, rispetto all’interventismo garibaldino di Renzi e dei suoi subito dopo la tragedia nel Mediterraneo, viene da Tunisi, dov’è il presidente della Repubbica Mattarella: in Libia "occorre una soluzione politica e non militare per fare un governo d’unità nazionale e creare le condizioni di un Paese funzionante”, dice, in sintonia con il collega tunisino Essebsi. Intesa fra Italia e Tunisia anche su immigrazione e lotta al terrorismo: "E' una lotta comune a difesa della civiltà e della pacifica convivenza, vogliamo stipulare un patto di civiltà".
domenica 17 maggio 2015
Usa 2016: democratici; hillary, vita da candidata, gaffe, impicci, scandali (2)
Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 17/05/2015
E’ segnato dalle polemiche il percorso elettorale di
Hillary Rodham Clinton, candidata (quasi) unica alla nomination democratica per
Usa 2016. A volte sono polemiche stucchevoli, come lo scalpore, dettato più che
altro dall’invidia, suscitato dal fatto che lei e Bill, il marito, presidente
Usa dal 1993 al 2001, hanno guadagnato 30 milioni di di dollari negli ultimi 16
mesi, gran parte dei quali, circa 25 milioni, frutto degli oltre 100 discorsi a
pagamento tenuti in vari eventi. Nessun illecito, nessuna truffa: le cifre sono
state pubblicate dallo staff di Hillary. Ma non è mica colpa sua, né del
marito, se c’è chi paga, e bene, per un loro speech. Più spinosi, invece, alcuni discorsi gratis,
come quello che l’ex segretario di Stato farà in settimana in Congresso. I
repubblicani la chiamano a testimoniare su Bengasi - La Clinton si presenterà
in settimana a testimoniare sull'attacco al consolato degli Usa a Bengasi che, l’11 settembre
2012, fece quattro vittime americane, l’ambasciatore Chris Stevens e tre
marines –all’epoca dei fatti, la Clinton era a capo della diplomazia
statunitense-. Lo scorso anno, la Camera aveva deciso di creare una commissione
d’inchiesta sull'attacco: con una lettera del suo avvocato David Kendall,
Hillary ha risposto all’istanza di audizione emanata a marzo e ha accettato di
comparire e testimoniare. Le mail non
finiscono mai – Componenti della Commissione vogliono pure chiedere conto all’ex first lady dell'utilizzo della
propria mail privata per trattare questioni ufficiali, quand’era appunto
segretario di Stato. Finora la commissione aveva solo chiesto di esaminare i
messaggi della Clinton, che, però, a fine marzo, ha definitivamente cancellato
tutto il contenuto del suo account privato. A darne notizia è stato un deputato
repubblicano, Trey Gowdy, riferendo un’altra comunicazione sempre dell’avvocato
Kendall: "Abbiamo appreso dal suo legale che la Clinton ha unilateralmente
deciso d’eliminare tutte le mail dal suo server personale". Clinton
dribbla domande su presunto conflitto interessi, Fondazione ammette errori –
Poi c’è il possibile conflitto di interessi tra la sua candidatura alla Casa
Bianca e alcune attività nella Fondazione Clinton. Rispondendo a domande di
giornalisti a Keene nel New Hampshire, Hillary era stata elusiva: "Sono oggetto
di tutti i tipi di distrazioni e di attacchi … Noto che i repubblicani paiono
interessati a parlare di me. So, purtroppo, che questo fa parte del lavoro,
sono preparata". Ma l’attenzione dei media e l’uscita del libro "Clinton
Cash" di Peter Schweizer, un ex consigliere di George W. Bush, sulle
donazioni giunte alla Fondazione da finanziatori collegati a governi esteri, quando
la Clinton era segretario di Stato, ha suggerito maggiore trasparenza: la
Fondazione, creata da Bill e da cui Hillary s’è dimessa candidandosi alla Casa
Bianca, ha ammesso “errori” nell’elenco delle donazioni ricevute da governi
stranieri. L'amministratore delegato ad interim Maura Pally ha affermato:
"Tutte le nostre entrate totali sono state riportate accuratamente sui
moduli (per le tasse, ndr) di ogni
anno ... I nostri errori hanno riguardano l’avere mischiato i contributi dei governi
con altre donazioni … Stiamo intervenendo rapidamente per porvi rimedio" Il
16 aprile, la Fondazione Clinton ha annunciato che d’ora in poi avrebbe accettato
fondi solo dai governi di sei Paesi: Canada, Australia, Gran Bretagna, Germania,
Olanda e Norvegia. Nel necrologio chiede “non votate Hillary
Clinton” - “Al mio funerale
non voglio fiori, ma una promessa, non votate Hillary Clinton nel 2016”: è stato
questo l'ultimo desiderio di Larry Darrell Upright, morto a 81 anni nella North
Carolina, riferito dalla famiglia nel necrologio. Moltissimi i commenti ‘postati’
da parenti e amici e dalla comunità online sul sito dell'emittente Nbc12, che
ha dato la notizia, e su quello dell'agenzia funebre. Qualcuno ha scritto:
"Non voteremo per Hillary neanche se fosse l'unica a correre". (fonti varie – gp)
Usa: pena di morte; Boston, condanne capitali federali, esecuzioni impossibili
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/05/2015
Gli Stati tornano ai vecchi
metodi, la sedia elettrica, o addirittura il plotone d’esecuzione; oppure,
ricorrono a farmaci alternativi, come il midazolam, sotto accusa perché
provocherebbe la morte dopo atroci sofferenze. La Corte Suprema Usa sta
vagliando la legittimità dell’uso del midazolam. Per Dzhokhar e gli altri 61
condannati federali, il boia non sta ancora preparando l’ago.
Per le sue vittime,
la morte, inattesa, improvvisa, incompresa, fu un baleno. E un boato. Per lui,
sarà un’agonia di anni, senza speranza, senza alternativa, ma lentissima e
contorta: quasi un’agonia, che talora i condannati cercano d’abbreviare
‘tagliando’ gli appelli. Uscire vivi dal braccio della morte è privilegio da
graziati. Uscirne ammazzati è un iter interminabile. Ma farla in barba alla
giustizia, specie quando è ingiustamente inumana, una tortura, non è facile.
Dzhokhar Tsarnaev,
uno dei due autori della strage alla maratona di Boston nel 2012 –tre i morti,
fra cui un bambino, 260 i feriti-, è stato condannato a morte. I giudici
l’hanno deciso all'unanimità, dopo 15 ore di camera di consiglio. La giuria, 7
donne e 5 uomini, aveva già decretato il giovane -21 anni, d’origine cecena- colpevole
di tutti e 30 i capi di accusa (17 passibili della pena capitale).
La tesi della difesa,
che Dzhokhar sarebbe stato ‘plagiato’ dall’altro terrorista, il fratello
maggiore Tamerlan, ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia, non ha fatto
breccia. Per l’accusa, e per la giuria, il giovane è “un terrorista”: merita
d’essere la morte per avere provocato una carneficina.
La pena capitale non
è popolare nel Massachusetts dove nessuno era più stato condannato a morte dal
1947. Ma questo è un processo federale davanti a una corte federale per un
delitto federale: non valgono gli usi dello Stato. E se c’è in ballo una
condanna a morte, la legge prevede che i giurati non possano essere contrari
per principio alla pena capitale.
Alla lettura del
verdetto c’erano superstiti e parenti delle vittime, anche i genitori di Martin
Richard, il bambino di 8 anni ucciso. La sentenza è stata definita “adeguata”
dal ministro della Giustizia federale, Loretta Lynch, una nera da poco in
carica.
Per Dzhokhar, la
condanna sarà eseguita con un’iniezione letale. Forse. E non si sa quando. Ci
sarà il ricorso in appello, quasi scontato. E c’è la lentezza delle procedure:
su 80 condanne a morte pronunciate da tribunali federali dal 1988, da quando
cioè la pena capitale è stata reinserita nel codice penale federale, solo tre
sono state eseguite.
Tra cui quella di
Timothy McVeigh, un veterano della Guerra del Golfo, un supremazista bianco
condannato per l’attentato contro un edificio federale di Oklahoma City, il 19
aprile 1995: morirono 168 persone –fa cui molti bimbi d’un asilo nido-. Per
finirla in fretta, McVeigh rinunciò agli appelli: fu messo a morte nel giugno
del 2001, in un carcere federale di Terre Haute, Indiana.
Con il giovane
ceceno, sono 62 i condannati a morte in attesa di esecuzione federale. Oltre la
metà da almeno un decennio, una decina da oltre 15 anni. E le cose non paiono
potersi accelerare nel breve termine, perché in questo momento è in atto una
moratoria delle esecuzioni federali disposta dal dipartimento di Giustizia per
riesaminare le procedure d’attuazione dell’iniezione letale, contestatissima da
medici e attivisti dei diritti umani.
E se pure la revisione
dovesse confermare le attuali procedure, rimane il problema dei farmaci da
usare per l’iniezione letale. Anche le
camere della morte federali, come quelle degli Stati che praticano la pena
capitale, non hanno più dosi di alcuni farmaci usati per il cocktail letale:
l’Ue ne blocca l’export proprio per impedire che vengano usati per le
esecuzioni.
sabato 16 maggio 2015
Ue: immigrazione e Grecia; negoziati avanti, decisioni non imminenti
Scritto per La Presse il 16/05/2015
Sui due suoi fronti più caldi, l’immigrazione e la Grecia, si profila per l’Unione europea un’altra settimana d’intensi negoziati senza decisioni definitive. Il Vertice di Riga a fine settimana, pur dedicato ad altri temi, offrirà l’occasione ai leader dei 28 d’affrontare anche queste spinose questioni.
Fronte Grecia, proseguono le trattative tra il governo di Atene e le Istituzioni finanziarie internazionali competenti e non si esclude un Eurogruppo straordinario entro fine mese.
Sui due suoi fronti più caldi, l’immigrazione e la Grecia, si profila per l’Unione europea un’altra settimana d’intensi negoziati senza decisioni definitive. Il Vertice di Riga a fine settimana, pur dedicato ad altri temi, offrirà l’occasione ai leader dei 28 d’affrontare anche queste spinose questioni.
Fronte Grecia, proseguono le trattative tra il governo di Atene e le Istituzioni finanziarie internazionali competenti e non si esclude un Eurogruppo straordinario entro fine mese.
Fronte immigrazione, il Consiglio dei Ministri degli Esteri
di lunedì a Bruxelles discuterà l’Agenda messa a punto mercoledì della
Commissione europea, che prevede fra l’altro quote di ripartizione vincolanti
dei rifugiati fra i 28, alcuni dei quali però si sono già chiamati fuori,
esercitando il diritto di ‘opting out’ (Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca),
mentre altri si sono detti non disponibili.
Per quanto riguarda le azioni contro gli scafisti schiavisti, l’Italia stessa ha dato un colpo di freno all’ipotesi di azioni militari, in attesa che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si pronunci –una bozza di risoluzione potrebbe emergere proprio lunedì-, mentre i governi libici –ve ne sono almeno due- se ne mostrano insofferenti.
Tra Tobruk e Tripoli, c’è volta a volta chi mostra disponibilità a collaborare e chi agita la minaccia delle infiltrazioni di terroristi sui barconi, di cui però l’intelligence europea non ha finora trovato “alcuna traccia”.
Fronte Grecia, i negoziati tra Bruxelles e Atene proseguono in un clima che alterna ottimismo e pessimismo. Le notizie delle ultime ore alimentano più timori che speranze. L’agenzia di rating Fitch conferma la valutazione CCC del debito greco –spazzatura- e avverte che il rischio default è reale. Il governo di Atene ha pagato a metà maggio stipendi e pensioni per mezzo miliardo di euro, ma la notizia che, per farlo, avrebbe raschiato le disponibilità delle ambasciate all’estero desta apprensione.
Le stesse autorità greche ammettono che sarà più difficile pagare stipendi e pensioni a fine mese, così come rimborsare a giugno i prestiti internazionali. Nel contempo, il governo di Atene continua a respingere “misure capestro”. E l’Fmi, che è parte delle trattative, e respinge l’accusa d’esserne “il poliziotto cattivo”, o di volersene sfilare, come scrive la stampa greca, ammette che i progressi fatti sono pochi.
Eppure, i mercati restano fiduciosi, i protagonisti delle trattative alternano ottimismo e pessimismo. Il controverso ministro dell’Economia greco Yaris Varoufakis sostiene che “c’ l’intesa su gran parte dei punti controversi”, ma aggiunge: “Non faremo promesse solo per ottenere aiuti” che a fine mese potrebbero divenire urgenti. E infatti l’obiettivo resta di chiudere entro maggio.
La Grecia ha offerto ai suoi creditori internazionali la vendita del porto del Pireo, chiedendo offerte per una quota di maggioranza nel porto. Nonostante la mossa conciliante, la Bundesbank non dà segno di voler allentare la sua linea dura e Jens Weidmann critica la Bce per avere erogato finanziamenti di emergenza ad Atene.
Per quanto riguarda le azioni contro gli scafisti schiavisti, l’Italia stessa ha dato un colpo di freno all’ipotesi di azioni militari, in attesa che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si pronunci –una bozza di risoluzione potrebbe emergere proprio lunedì-, mentre i governi libici –ve ne sono almeno due- se ne mostrano insofferenti.
Tra Tobruk e Tripoli, c’è volta a volta chi mostra disponibilità a collaborare e chi agita la minaccia delle infiltrazioni di terroristi sui barconi, di cui però l’intelligence europea non ha finora trovato “alcuna traccia”.
Fronte Grecia, i negoziati tra Bruxelles e Atene proseguono in un clima che alterna ottimismo e pessimismo. Le notizie delle ultime ore alimentano più timori che speranze. L’agenzia di rating Fitch conferma la valutazione CCC del debito greco –spazzatura- e avverte che il rischio default è reale. Il governo di Atene ha pagato a metà maggio stipendi e pensioni per mezzo miliardo di euro, ma la notizia che, per farlo, avrebbe raschiato le disponibilità delle ambasciate all’estero desta apprensione.
Le stesse autorità greche ammettono che sarà più difficile pagare stipendi e pensioni a fine mese, così come rimborsare a giugno i prestiti internazionali. Nel contempo, il governo di Atene continua a respingere “misure capestro”. E l’Fmi, che è parte delle trattative, e respinge l’accusa d’esserne “il poliziotto cattivo”, o di volersene sfilare, come scrive la stampa greca, ammette che i progressi fatti sono pochi.
Eppure, i mercati restano fiduciosi, i protagonisti delle trattative alternano ottimismo e pessimismo. Il controverso ministro dell’Economia greco Yaris Varoufakis sostiene che “c’ l’intesa su gran parte dei punti controversi”, ma aggiunge: “Non faremo promesse solo per ottenere aiuti” che a fine mese potrebbero divenire urgenti. E infatti l’obiettivo resta di chiudere entro maggio.
La Grecia ha offerto ai suoi creditori internazionali la vendita del porto del Pireo, chiedendo offerte per una quota di maggioranza nel porto. Nonostante la mossa conciliante, la Bundesbank non dà segno di voler allentare la sua linea dura e Jens Weidmann critica la Bce per avere erogato finanziamenti di emergenza ad Atene.
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