Per le sue vittime,
la morte, inattesa, improvvisa, incompresa, fu un baleno. E un boato. Per lui,
sarà un’agonia di anni, senza speranza, senza alternativa, ma lentissima e
contorta: quasi un’agonia, che talora i condannati cercano d’abbreviare
‘tagliando’ gli appelli. Uscire vivi dal braccio della morte è privilegio da
graziati. Uscirne ammazzati è un iter interminabile. Ma farla in barba alla
giustizia, specie quando è ingiustamente inumana, una tortura, non è facile.
Dzhokhar Tsarnaev,
uno dei due autori della strage alla maratona di Boston nel 2012 –tre i morti,
fra cui un bambino, 260 i feriti-, è stato condannato a morte. I giudici
l’hanno deciso all'unanimità, dopo 15 ore di camera di consiglio. La giuria, 7
donne e 5 uomini, aveva già decretato il giovane -21 anni, d’origine cecena- colpevole
di tutti e 30 i capi di accusa (17 passibili della pena capitale).
La tesi della difesa,
che Dzhokhar sarebbe stato ‘plagiato’ dall’altro terrorista, il fratello
maggiore Tamerlan, ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia, non ha fatto
breccia. Per l’accusa, e per la giuria, il giovane è “un terrorista”: merita
d’essere la morte per avere provocato una carneficina.
La pena capitale non
è popolare nel Massachusetts dove nessuno era più stato condannato a morte dal
1947. Ma questo è un processo federale davanti a una corte federale per un
delitto federale: non valgono gli usi dello Stato. E se c’è in ballo una
condanna a morte, la legge prevede che i giurati non possano essere contrari
per principio alla pena capitale.
Alla lettura del
verdetto c’erano superstiti e parenti delle vittime, anche i genitori di Martin
Richard, il bambino di 8 anni ucciso. La sentenza è stata definita “adeguata”
dal ministro della Giustizia federale, Loretta Lynch, una nera da poco in
carica.
Per Dzhokhar, la
condanna sarà eseguita con un’iniezione letale. Forse. E non si sa quando. Ci
sarà il ricorso in appello, quasi scontato. E c’è la lentezza delle procedure:
su 80 condanne a morte pronunciate da tribunali federali dal 1988, da quando
cioè la pena capitale è stata reinserita nel codice penale federale, solo tre
sono state eseguite.
Tra cui quella di
Timothy McVeigh, un veterano della Guerra del Golfo, un supremazista bianco
condannato per l’attentato contro un edificio federale di Oklahoma City, il 19
aprile 1995: morirono 168 persone –fa cui molti bimbi d’un asilo nido-. Per
finirla in fretta, McVeigh rinunciò agli appelli: fu messo a morte nel giugno
del 2001, in un carcere federale di Terre Haute, Indiana.
Con il giovane
ceceno, sono 62 i condannati a morte in attesa di esecuzione federale. Oltre la
metà da almeno un decennio, una decina da oltre 15 anni. E le cose non paiono
potersi accelerare nel breve termine, perché in questo momento è in atto una
moratoria delle esecuzioni federali disposta dal dipartimento di Giustizia per
riesaminare le procedure d’attuazione dell’iniezione letale, contestatissima da
medici e attivisti dei diritti umani.
E se pure la revisione
dovesse confermare le attuali procedure, rimane il problema dei farmaci da
usare per l’iniezione letale. Anche le
camere della morte federali, come quelle degli Stati che praticano la pena
capitale, non hanno più dosi di alcuni farmaci usati per il cocktail letale:
l’Ue ne blocca l’export proprio per impedire che vengano usati per le
esecuzioni.
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