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domenica 17 maggio 2015

Usa: pena di morte; Boston, condanne capitali federali, esecuzioni impossibili

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/05/2015

Per le sue vittime, la morte, inattesa, improvvisa, incompresa, fu un baleno. E un boato. Per lui, sarà un’agonia di anni, senza speranza, senza alternativa, ma lentissima e contorta: quasi un’agonia, che talora i condannati cercano d’abbreviare ‘tagliando’ gli appelli. Uscire vivi dal braccio della morte è privilegio da graziati. Uscirne ammazzati è un iter interminabile. Ma farla in barba alla giustizia, specie quando è ingiustamente inumana, una tortura, non è facile.

Dzhokhar Tsarnaev, uno dei due autori della strage alla maratona di Boston nel 2012 –tre i morti, fra cui un bambino, 260 i feriti-, è stato condannato a morte. I giudici l’hanno deciso all'unanimità, dopo 15 ore di camera di consiglio. La giuria, 7 donne e 5 uomini, aveva già decretato il giovane -21 anni, d’origine cecena- colpevole di tutti e 30 i capi di accusa (17 passibili della pena capitale).

La tesi della difesa, che Dzhokhar sarebbe stato ‘plagiato’ dall’altro terrorista, il fratello maggiore Tamerlan, ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia, non ha fatto breccia. Per l’accusa, e per la giuria, il giovane è “un terrorista”: merita d’essere la morte per avere provocato una carneficina.

La pena capitale non è popolare nel Massachusetts dove nessuno era più stato condannato a morte dal 1947. Ma questo è un processo federale davanti a una corte federale per un delitto federale: non valgono gli usi dello Stato. E se c’è in ballo una condanna a morte, la legge prevede che i giurati non possano essere contrari per principio alla pena capitale.

Alla lettura del verdetto c’erano superstiti e parenti delle vittime, anche i genitori di Martin Richard, il bambino di 8 anni ucciso. La sentenza è stata definita “adeguata” dal ministro della Giustizia federale, Loretta Lynch, una nera da poco in carica.

Per Dzhokhar, la condanna sarà eseguita con un’iniezione letale. Forse. E non si sa quando. Ci sarà il ricorso in appello, quasi scontato. E c’è la lentezza delle procedure: su 80 condanne a morte pronunciate da tribunali federali dal 1988, da quando cioè la pena capitale è stata reinserita nel codice penale federale, solo tre sono state eseguite.

Tra cui quella di Timothy McVeigh, un veterano della Guerra del Golfo, un supremazista bianco condannato per l’attentato contro un edificio federale di Oklahoma City, il 19 aprile 1995: morirono 168 persone –fa cui molti bimbi d’un asilo nido-. Per finirla in fretta, McVeigh rinunciò agli appelli: fu messo a morte nel giugno del 2001, in un carcere federale di Terre Haute, Indiana.

Con il giovane ceceno, sono 62 i condannati a morte in attesa di esecuzione federale. Oltre la metà da almeno un decennio, una decina da oltre 15 anni. E le cose non paiono potersi accelerare nel breve termine, perché in questo momento è in atto una moratoria delle esecuzioni federali disposta dal dipartimento di Giustizia per riesaminare le procedure d’attuazione dell’iniezione letale, contestatissima da medici e attivisti dei diritti umani.

E se pure la revisione dovesse confermare le attuali procedure, rimane il problema dei farmaci da usare per l’iniezione letale.  Anche le camere della morte federali, come quelle degli Stati che praticano la pena capitale, non hanno più dosi di alcuni farmaci usati per il cocktail letale: l’Ue ne blocca l’export proprio per impedire che vengano usati per le esecuzioni.

Gli Stati tornano ai vecchi metodi, la sedia elettrica, o addirittura il plotone d’esecuzione; oppure, ricorrono a farmaci alternativi, come il midazolam, sotto accusa perché provocherebbe la morte dopo atroci sofferenze. La Corte Suprema Usa sta vagliando la legittimità dell’uso del midazolam. Per Dzhokhar e gli altri 61 condannati federali, il boia non sta ancora preparando l’ago.

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