Scritto per La Presse lo 07/05/2015
I risultati delle elezioni politiche in Gran Bretagna sono stati attesi con trepidazione a Bruxelles e nelle capitali dei Paesi dell’Ue: quale ne sia l’esito, questo voto apre una fase cruciale nel rapporto tra il Regno Unito e l’Unione europea, che potrebbe passare per un rinegoziato delle condizioni d’adesione di Londra all’Ue e sfociare, quindi, nel referendum del 2017 sulla permanenza, o meno, della Gran Bretagna nell’Unione.
Un percorso che sarà pero condizionato dagli equilibri di potere a Londra, dove i protagonisti sono, da questa sera, quattro partiti che hanno atteggiamenti diversi verso l’Ue: i conservatori, che i primi exit-poll danno vincitori, sono euro-critici; i liberal-democratici sono europeisti; i laburisti, che sono la seconda forza, euro-tiepidi; mentre i nazionalisti scozzesi possono vedere nel referendum un’occasione per rilanciare l’obiettivo dell’indipendenza.
Se, infatti, gli inglesi decidessero di lasciare l’Unione, gli scozzesi, che vogliono invece restarci, potrebbero riproporre la scelta secessionista per ottenere il doppio risultato di non essere più britannici e di restare europei.
Fuori dai giochi, invece, gli euro-scettici per eccellenza dell’Ukip, che un anno fa avevano avuto una buona affermazione alle Europee, dove vige il sistema proporzionale, ma che sono penalizzati dal sistema uninominale (e che non hanno neppure saputo trasformare i risultati delle Europee in un magnete nazionale).
E mentre a Londra si ipotizzano scenari conflittuali, seppur ‘costituzionali’, se il termine ha senso nel Regno Unito, con il governo uscente che potrebbe restare in carica fino al discorso della regina il 27 maggio, quando ci sarà la conta dei rapporti di forza ai Comuni, a Bruxelles ci si prepara, quasi rassegnati, a una nuova stagione di negoziati con i britannici e di aggiustamenti.
Non sarebbe la prima volta che la Gran Bretagna paralizza il processo d’integrazione: dal 1979 all’ ‘84, Margaret Thatcher, premier conservatore, costrinse l’allora Comunità a concentrarsi solo sul cosiddetto ‘problema britannico’, cioè sul fatto che Londra versava alle casse di Bruxelles una cifra spropositatamente superiore a quanto ne riceveva. Se ne uscì con la concessione alla Gran Bretagna di un rimborso che, seppur ridimensionato, viene tuttora versato.
E, dopo di allora, Londra ha a più riprese rallentato o condizionato l’integrazione, sia restando fuori da alcune politiche sia tenendosi alla larga da strumenti come la libera circolazione delle persone (gli accordi di Schengen) e la moneta unica, l’euro.
Il Brexit, cioè l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, non è un’ipotesi da scartare in assoluto, anche se probabilmente non si verificherà mai. I britannici hanno a cuore il mercato comune, meglio ancora se transatlantico, ma non certo tutti gli altri ammenicoli istituzionali dell’integrazione, che sentono come pastoie e che a loro costano –sono tuttora, com’è giusto, contribuenti netti -.
Molti di loro manco s’accorgerebbero d’essere fuori dall’Unione e di essere di nuovo nello Spazio economico europeo, con Norvegia, Svizzera e Liechtenstein: tutti i vantaggi del mercato integrato, senza i fastidi delle prediche di Bruxelles e dei diktat dei partner. Alcuni dei quali, a loro volta, non sarebbero particolarmente scontenti di liberarsi di interlocutori così puntigliosi nella tutela dei propri interessi.
I risultati delle elezioni politiche in Gran Bretagna sono stati attesi con trepidazione a Bruxelles e nelle capitali dei Paesi dell’Ue: quale ne sia l’esito, questo voto apre una fase cruciale nel rapporto tra il Regno Unito e l’Unione europea, che potrebbe passare per un rinegoziato delle condizioni d’adesione di Londra all’Ue e sfociare, quindi, nel referendum del 2017 sulla permanenza, o meno, della Gran Bretagna nell’Unione.
Un percorso che sarà pero condizionato dagli equilibri di potere a Londra, dove i protagonisti sono, da questa sera, quattro partiti che hanno atteggiamenti diversi verso l’Ue: i conservatori, che i primi exit-poll danno vincitori, sono euro-critici; i liberal-democratici sono europeisti; i laburisti, che sono la seconda forza, euro-tiepidi; mentre i nazionalisti scozzesi possono vedere nel referendum un’occasione per rilanciare l’obiettivo dell’indipendenza.
Se, infatti, gli inglesi decidessero di lasciare l’Unione, gli scozzesi, che vogliono invece restarci, potrebbero riproporre la scelta secessionista per ottenere il doppio risultato di non essere più britannici e di restare europei.
Fuori dai giochi, invece, gli euro-scettici per eccellenza dell’Ukip, che un anno fa avevano avuto una buona affermazione alle Europee, dove vige il sistema proporzionale, ma che sono penalizzati dal sistema uninominale (e che non hanno neppure saputo trasformare i risultati delle Europee in un magnete nazionale).
E mentre a Londra si ipotizzano scenari conflittuali, seppur ‘costituzionali’, se il termine ha senso nel Regno Unito, con il governo uscente che potrebbe restare in carica fino al discorso della regina il 27 maggio, quando ci sarà la conta dei rapporti di forza ai Comuni, a Bruxelles ci si prepara, quasi rassegnati, a una nuova stagione di negoziati con i britannici e di aggiustamenti.
Non sarebbe la prima volta che la Gran Bretagna paralizza il processo d’integrazione: dal 1979 all’ ‘84, Margaret Thatcher, premier conservatore, costrinse l’allora Comunità a concentrarsi solo sul cosiddetto ‘problema britannico’, cioè sul fatto che Londra versava alle casse di Bruxelles una cifra spropositatamente superiore a quanto ne riceveva. Se ne uscì con la concessione alla Gran Bretagna di un rimborso che, seppur ridimensionato, viene tuttora versato.
E, dopo di allora, Londra ha a più riprese rallentato o condizionato l’integrazione, sia restando fuori da alcune politiche sia tenendosi alla larga da strumenti come la libera circolazione delle persone (gli accordi di Schengen) e la moneta unica, l’euro.
Il Brexit, cioè l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, non è un’ipotesi da scartare in assoluto, anche se probabilmente non si verificherà mai. I britannici hanno a cuore il mercato comune, meglio ancora se transatlantico, ma non certo tutti gli altri ammenicoli istituzionali dell’integrazione, che sentono come pastoie e che a loro costano –sono tuttora, com’è giusto, contribuenti netti -.
Molti di loro manco s’accorgerebbero d’essere fuori dall’Unione e di essere di nuovo nello Spazio economico europeo, con Norvegia, Svizzera e Liechtenstein: tutti i vantaggi del mercato integrato, senza i fastidi delle prediche di Bruxelles e dei diktat dei partner. Alcuni dei quali, a loro volta, non sarebbero particolarmente scontenti di liberarsi di interlocutori così puntigliosi nella tutela dei propri interessi.
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