Scritto per AffarInternazionali.it e pubblicato lo 05/09/2016
Un’ecatombe!, pareva dovesse essere un’ecatombe! E
invece sono rimasti tutti al loro posto e, probabilmente, continueranno a
restarvi. ‘Ercolini sempreinpiedi’ dell’Unione? Manco tanto, perché a buttarli
giù nessuno ci ha davvero provato. A conti fatti, fra i pezzi da novanta
dell’Ue la Brexit ha finora fatto un’unica vittima: il sì britannico a uscire dall'Unione
europea ha indotto a dimettersi Jonathan Hill, già responsabile dei Servizi
finanziari nell'Esecutivo comunitario.
Al suo posto, perché un commissario britannico v’ha
da essere, fin quando il Regno Unito non sarà proprio fuori dall’Ue – e la
Commissione Juncker sarà nel frattempo giunta a fine mandato -, ecco sir Julian
King, sorta di commissario dimezzato: è responsabile della sicurezza
dell’Unione (il che suona bene, ma suona pure vuoto, perché la sicurezza è
responsabilità degli Stati); e deve agire “sotto la guida” del vice-presidente
vicario Frans Timmermans e “a supporto” del commissario all'Immigrazione e agli
Affari Interni Dimitris Avramopoulos. “Un commissario junior”, come l’ha
definito senza cortesie diplomatiche il presidente della Commissione Esteri del
Parlamento europeo Elmar Brok.
L’esito del referendum ha invece riportato in primo piano sullo scacchiere
europeo Michel Barnier, ex ministro degli Esteri francese – solo per dirne una
– ed ex uomo forte al Mercato interno durante la Commissione Barroso, nominato
capo negoziatore per l’Esecutivo comunitario. Barnier, ovviamente, entrerà in
scena all’avvio della trattativa, quando Theresa May, premier britannica, farà
scattare il negoziato per l’uscita dall’Ue, come previsto dall’articolo 50 del
Trattato. Prima, nulla si muoverà; forse, perché una teoria in voga a Bruxelles
è che i britannici apriranno la trattativa solo quando avranno già avuto
assicurazioni su dove si andrà a parare.
Lo
stormire di foglie della stampa tedesca
A innescare l’ipotesi di sommovimenti nelle
Istituzioni comunitarie, era stata la stampa tedesca: ennesima dimostrazione
della sudditanza psicologica dalla Germania dell’Europa tutta. La Faz e poi Die
Welt avevano giudicato “inadeguato” il presidente della Commissione europea
Jean-Claude Juncker, che pure era stato voluto a quel posto in primis dalla
cancelliera Merkel. E siccome, a fine anno, ci sarà da rinnovare il mandato del
presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, che è nell’infelice
posizione di non essere in sintonia con il suo governo, e neppure con i Grandi
dell’Unione, e del Parlamento europeo, dove il tedesco Martin Schulz giunge al
termine del suo secondo mandato, erano subito partite voci d’ogni genere: fra
le più accreditate, una prevedeva Schulz al posto di Juncker – e del resto Schulz
era il candidato socialista a quel posto, nel 2014 -.
Il ‘valzer delle poltrone’ non è neppure durato il
tempo di un’estate bruxellese, che spesso coincide con una settimana di luglio.
Juncker ha chiarito di non avere intenzione di dimettersi; alcuni governi gli
hanno offerto un sostegno non entusiastico ma solido, magari per assenza di
alternmatve (per Sandro Gozi, sottosegretario italiano agli Affari europei,
Juncker “va sostenuto, non attaccato”) e popolari e socialisti al parlamento
europeo si sono messi a lavorare all’ipotesi di una conferma di Shultz alla
guida dell’Assemblea – soluzione avallata dallo stesso Juncker -.
Insomma, la Brexit non sconquassa gli organigrammi
istituzionali; e neppure i calendari, tranne che la Gran Bretagna esce dalla rotazione
delle presidenze di turno del Consiglio dell’Unione - funzione che doveva assumere il 1° luglio
2017, quando, presumibilmente, il negoziato per l’uscita sarà stato almeno avviato.
Il vuoto sarà riempito dal Belgio, Paese di sicura militanza ed esperienza
europee, che non suscita né gelosie né sospetti e i cui costi d’esercizio si
riducono al minimo: Bruxelles ha avuto la presidenza di turno semestrale per
l’ultima volta nel 2010, quando seppe condurla senza inconvenienti nonostante
il governo gestisse solo gli affari correnti, nella più lunga crisi politica di
una democrazia occidentale dei tempi moderni, ben 535 giorni.
Il
giro di valzer italiano tra politica e diplomazia
Il rientro dalle vacanze europeo non è dunque
contrassegnato da volti nuovi. Uno dei pochi può ancora essere considerato il
rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue, ambasciatore Maurizio
Massari, che ha assunto l’incarico il primo giugno e che ha quindi giusto
giusto esaurito quelli che erano i tre mesi del tradizionale rodaggio.
Diplomatico di grande esperienza,
abituato alle sedi importanti e difficili – è stato a Mosca ed a
Washington e, come ultimo incarico, era ambasciatore al Cairo nei giorni
drammatici e non superati dell’omicidio Regeni -, buon conoscitore dei media –
è stato capo del servizio stampa e informazione e portavoce del ministro -,
Massari, arrivando a Bruxelles, ha sanato l’anomalia creatasi, a gennaio, con la
nomina di un politico, e non di un diplomatico, a rappresentante dell’Italia
presso l’Ue – era quasi mezzo secolo che l’Italia non ricorreva più ad
ambasciatori politici -.
Quando Carlo Calenda prese il posto di un eccellente
ambasciatore, e profondo conoscitore dell’Ue, Stefano Sannino, lo scossone fu
forte: più alla Farnesina che al Berlaymont, a dire il vero. La scelta
dell’allora vice-ministro allo Sviluppo economico fu – scrisse Stefano Feltri,
un giornalista che segue bene le vicende europee - “una mossa drastica del
governo italiano per dare all'Esecutivo Juncker un interlocutore con forte
legittimità politica, nel momento del massimo scontro tra Italia e Bruxelles”.
E poco importa che quella stagione di pugni sul tavolo e di voci grosse, in cui
Juncker era “un burocrate”, fosse ad uso e consumo dell’opinione pubblica
interna: prova ne sia il fatto che, oggi, il ‘brocrate’ “va sostenuto, non
attaccato”.
A sanare l’anomalia è poi venuto, nel giro di
quattro mesi, il richiamo di Calenda a Roma come ministro dello Sviluppo, poco
dopo la pubblicazione delle ‘previsioni economiche di primavera’ della
Commissione, che avevano sancito una tregua di almeno sei mesi tra Italia e
Bruxelles in tema di conti pubblici. La memoria corta della stampa italiana era
un colpo di spugna alle contraddizioni tra le decisioni di gennaio e di maggio.
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