A chi sostiene che il lascito dell’Amministrazione Obama in politica estera sarà, a mandati esauriti, poca cosa, Lapo Pistelli, vice-ministro degli Esteri, buon conoscitore della scena internazionale, risponde che, a renderlo positivo, basterebbe il fatto di avere sdoganato tre Paesi a lungo esclusi (ed auto-esclusisi) dalla comunità internazionale, la Birmania –un dato del primo mandato-, Cuba e, se sarà fatto, l’Iran.
Il ‘se sarà fatto’
dipende, in larga misura dall’esito dei negoziati nucleari fra Teheran e i ‘5 +
1’, cioè i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la
Germania – si noti, seppur per inciso, l’assenza dell’Italia, fra i maggiori
partner economici e commerciali dell’Iran -. Le trattative, negli ultimi
giorni, hanno compiuto "importanti progressi", ma “il lavoro
prosegue”, avverte il vice-ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi, capo
della delegazione dei negoziatori, all’arrivo a Vienna per quello che dovrebbe
essere l'ultimo round: come dire che nulla è ancora deciso. La scadenza fissata
per un'intesa che concretizzi quella di massima delineatasi a fine marzo e
salutata con ottimismo un po’ disinvolto dalla diplomazia internazionale come
se fosse già buona è il 30 giugno: c’è tempo per colpi di scena,
drammatizzazioni e soluzioni (o no).
L’esito positivo dei
complessi negoziati continua a essere contrastato da Israele, il cui premier
Benjamin Netanyahu sostiene che l’accordo non impedirà a Teheran di avere
l'arma nucleare, aggiungendo che molti Paesi arabi condividono la sua
preoccupazione. Il che è vero, perché un
Iran di nuovo ammesso a pieno titolo nella comunità internazionale e non solo
sgravato delle sanzioni, ma coinvolto, come di fatto lo è già, nei tentativi di
risolvere i problemi regionali, non piace all’Arabia Saudita e alle monarchie
del Golfo.
Gli Stati Uniti,
invece, cercano di esercitare la loro influenza sui loro alleati, Israele e i
sauditi, in senso inverso. Da una parte, provano a rassicurare Israele che si
può fidare della loro amicizia. Il capo di Stato Maggiore Usa, generale Martin
Dempsey, ha incontrato il suo omologo israeliano, Gadi Eisenkot, e il ministro
della Difesa Moshe Yaalon: "Israele - ha insistito Dempsey - non ha amico
migliore sulla faccia della terra che le Forze Armate Usa".
La visita di Dempsey
era stata preceduta da una missione “segreta” –fin quando la stampa israeliana
non l’ha resa pubblica- del capo della Cia John Brennan, che avrebbe incontrato
il capo del Mossad, Tamir Pardo, e lo stesso Netanyahu. Oggetto dei colloqui,
proprio l’impatto di un eventuale accordo nucleare, oltre che le "attività
sovversive" di Teheran nella regione –il linguaggio è israeliano-.
Israele non si
rassegna all’idea che l’Iran possa normalizzare le proprie relazioni con gli
Stati Uniti e la comunità internazionale. Le autorità svizzere hanno appena aperto
un'inchiesta su presunti casi di cyber-spionaggio avvenuti negli hotel di
Ginevra teatro, tra gennaio e marzo,
delle trattative. Naturalmente, i sospetti si sono subito appuntati su
Israele, nonostante le smentite. E s’è saputo che anche in Austria ci sono
indagini e controlli sul Palais Coburg Hotel di Vienna, attualmente la sede dei
colloqui tra i ‘5 + 1’ e l’Iran. E’ stata
l'agenzia di sicurezza informatica Kaspersky a scoprire l'offensiva
cibernetica, individuando un virus così sofisticato che “deve essere stato
creato da un governo”. Sia Kaspersky che l’analoga agenzia Symantec sostengono
che il ‘virus di Ginevra’ ha tratti in comune con un software di spionaggio
chiamato Duqu, che gli esperti ritengono creato dagli israeliani.
Ma non sarà Netanyahu
e neppure un virus a bloccare le trattative, che hanno nemici ‘interni’ insidiosi
e potenti sia a Washington che a Teheran. A Washington, nel Congresso, dove sono
maggioranza, i repubblicani condividono le preoccupazioni di Israele e
intralciano l’Amministrazione democratica del presidente Obama. Almeno uno dei 15
candidati conservatori alla nomination
per Usa 2016, il senatore della South Carolina Lindsey Graham, fa del no
all’intesa con l’Iran un cavallo di battaglia della sua campagna. Se non si
chiudono ora, i negoziati rischiano d’entrare nel frullatore delle
presidenziali statunitensi e di uscirne maciullati.
A Teheran, gli
oppositori del presidente Hassan Rohani, un riformista, non condividono la
rinuncia alle ambizioni nucleari militari iraniane e bollano come eccessive le
concessioni fatte ai ‘5+1’, nonostante la bozza d’intesa di marzo sia stata
avallata dalla guida suprema, l’ayatollah Khameney, che ne avrebbe anzi
ispirato le linee fondamentali.
Rinunciando formalmente
al disegno, mai ammesso, di dotarsi dell’arma atomica, l’Iran vuole ottenere la
fine delle sanzioni: linfa per l’economia del Paese che ha bisogno
d’ammodernarsi e cui le risorse energetiche non sono più sufficienti a
garantire crescita e miglioramento del tenore di vita della popolazione.
Riammettendo l’Iran nel consesso internazionale, gli Stati Uniti sperano che quella
Repubblica teocratica sciita, che li bollava come Satana, contribuisca a
combattere l’integralismo del Califfo –sunnita- e a rendere più stabile
l’assetto della Regione.
Il che, in parte, già
avviene, suscitando, però, le suscettibilità e le preoccupazioni dei sauditi e,
più in generale, dei sunniti dell’area. Il coinvolgimento militare iraniano,
diretto o indiretto, tramite volontari, è al momento essenziale al regime di
Assad in Siria, per non crollare sotto la pressione delle milizie jihadiste e
dell’opposizione integralista. E, in Iraq, i Guardiani della Rivoluzione guidati
dal generale Soleimani sono stati protagonisti dell’unica offensiva riuscita
contro le bande del Califfo.
Come se l’intreccio
non fosse abbastanza complicato, Teheran ha pure aperto un fronte di conflitto
anti-sunnita a Sud, nello Yemen, suscitando stavolta la reazione militare di Riad,
che ha costruito una coalizione di una decina di Paesi, fra cui l’Egitto, per
reinsediare a Sana’a il presidente Hadi, sunnita e cacciato dalle milizie
sciite Houthi. Così, lo Yemen è il terreno di uno scontro ‘statuale’ tra sciiti
e sunniti, impossibile da combattere in Siria o in Iraq perché li ci sono interessi
occidentali e c’è un nemico comune, il Califfo.
Il gioco è ulteriormente complicato dalla Russia, che conta anche sulle sue influenze su Iran e Siria per restare, o tornare, fra i protagonisti della diplomazia internazionale, mentre la crisi ucraina l'ha un po' confinata in un angolo; e pure dalla Turchia, che, tra occidente, Israele e Paesi vicini, mette in tavola volta a volta carte diverse e alleanza contraddittorie.
Che a Teheran l’antitesi
tra conservatori e riformatori non sia superata, e covi anzi sotto la genere,
lo possono forse indicare due episodi di cronaca di questa settimana. Il figlio
dell'ex presidente Akbar Rafsanjani, Hashemi, 45 anni, riformista come il
padre, è stato condannato a 10 anni per frode, furto e reati fiscali e contro
la sicurezza. Fra le accuse mosse a Rafsanjani jr, pure interdetto dai pubblici
uffici, anche quella di avere partecipato alle proteste contro i brogli nelle presidenziali
2009 vinte dal falco Mahmoud Ahmadinejad e di aver sostenuto il movimento verde
dei riformisti Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi. Hashemi era fuggito in
Gran Bretagna ma era poi rientrato in patria nel settembre 2012.
baqaeiQuasi
contemporaneamente, le autorita' iraniane hanno arrestato, per ragioni non
ancora chiare, l'ex vicepresidente del ‘falco’ Ahmadinejad Hamed Baqaei. L'arresto
di Baqaei segue la condanna a 5 anni inflitta lo scorso gennaio a un altro ex
vice di Ahmadinejad, Mohammad Reza Rahimi, processato per una serie di denunce
di corruzione e atti illeciti da parte di ex funzionari e politici. Secondo gli
analisti, arresti e condanne contro politici vicini all'ex presidente
Ahmadinejad fanno parte di una campagna contro la corruzione lanciata, non
ufficialmente, dall'attuale capo dello Stato Rohani, che ha spesso espresso la
volontà d’estirparla. Cominciando dagli esponenti della fazione a lui avversa.
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