Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 20/06/2015
Il negoziato tra l’Ue e la Grecia non è mai stato così
vicino a una conclusione positiva. Perché non è mai stato così vicino a un
fragoroso fallimento. Fin quando i Paesi dell’euro e Atene negoziavano ‘pro
forma’, convinti gli uni e l’altra che alla fine l’interlocutore avrebbe
mollato, le posizioni sono rimaste lontane: uno stucchevole procedere ‘un passo
avanti e uno indietro’, con più danni che vantaggi (fra i danni, il
deteriorarsi della situazione in Grecia e la perdita di stima e di fiducia, se
mai ce n’erano state, tra Yannis Varoufakis e i suoi colleghi).
Cinque mesi di manfrine e di ‘ammoina’, con il governo
di Alexis Tsipras che prometteva riforme mai presentate, e tanto meno fatte, e
l’Eurogruppo che ne bocciava l’una dopo l’altra le proposte, ma comunque
rinviando o ammorbidendo le scadenze, mentre la Bce concedeva margini di
liquidità necessari a tirare avanti. Che potesse andare avanti così a lungo
s’era capito dalla furbata iniziale: dopo le elezioni greche di fine gennaio e
l’ascesa al potere della forza di sinistra radicale ed euro-critica di Syriza, Atene
non voleva più parlare con la troika? Pronti, d’ora in poi la trattativa
sarebbe stata con le Istituzioni internazionali, la Commissione europea, la
Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, cioè la troika, con
un nome diverso. Ma tutti avevano lasciato credere che qualcosa fosse cambiato.
Affermazioni retoriche come quella di Valéry Giscard
d’Estaing, ex presidente francese, uno dei padri dell’integrazione economica e
finanziaria europea, secondo cui l’Europa senza la Grecia è come un bambino
senza certificato di nascita, alimentavano da una parte e dall’altra la
convinzione che alla fine le cose si sarebbero aggiustate. Il che sarà
probabilmente vero –io ne resto convinto-, ma passando attraverso un negoziato
reale e concessioni concrete, dall’una parte e dall’altra.
Anche le narrative della vicenda stile Davide contro
Golia, o ancora Robin Hood contro lo sceriffo di Nottingham, sono assolutamente
fuorvianti: la Grecia non è arrivata dov’è arrivata per colpa dell’Ue, ma per
colpa di se stessa, conti truccati, riforme non attuate, un’assurda
penalizzazione elettorale del partito che cercava di riparare i danni, i
socialisti, a vantaggio del partito che li aveva provocati, i centristi, prima
di capire che la situazione era seria e quindi di ribellarsi alla cura senza
misura imposta di Bruxelles. Che ha avuto i suoi torti, e non pochi, pretendendo
tutto in una volta da un Paese allo stremo quello che va fatto gradualmente e
quando l’economia gira, non quando è già in panne.
L’alzarsi dei toni, negli ultimi giorni, indica che le
parti hanno capito che devono davvero trattare. E l’arrivo del negoziato, come
inevitabile, sul tavolo dei capi di Stato e di Governo dei 28, che lunedì si
riuniranno in formazione EuroZona –una formazione da consolidare per migliorare
la governance dell’euro,- non lascia spazio di ulteriore appello: bisogna
creare i presupposti perché poi ministri dell’economia e tecnici chiudano
davvero.
Un fallimento non avrebbe effetti economici analoghi
sulle due parti. Il Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro, avrebbe
conseguenze catastrofiche per i cittadini greci: “diventeremo poverissimi”,
avverte il governatore della banca ellenica Yannis Stournaras; e nessuno
farebbe più credito a chi dichiaratamente non paga. Né ci si può illudere che
Mosca possa davvero supplire all’Unione.
Sul resto dell’EuroZona, l’impatto sarebbe molto
minore: la Grecia ne rappresenta appena il 3% circa e il suo debito è ormai
detenuto per l’essenziale dalla Bce e dalla Banche centrali europee. Ma il
Grexit avrebbe comunque contraccolpi sull’euro, riducendone nell’immediato la
forza e a termine la credibilità, e globalmente sul progetto d’integrazione. La
solidarietà ne è componente essenziale: l’Unione deve dimostrarne, verso la
Grecia come sul fronte dell’immigrazione.
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