Scattata all'alba di lunedì, l’offensiva su Mosul è destinata
a essere, nelle intenzioni di chi la conduce, l’attacco finale al sedicente
Stato islamico e la spallata decisiva all'autoproclamato Califfo. Esercito
iracheno e peshmerga curdi, con l’appoggio dell’aviazione Usa, tentano di
scardinare le linee di difesa degli jihadisti.
Le prime notizie sull'offensiva anti-integralisti hanno
avuto il ritmo incalzante d’una guerra
lampo. Ma tutti sanno bene che l’azione sarà lunga, lenta, cruenta. Aleppo in
Siria e Sirte in Libia danno la misura di come prendere una città sia
complicato e sanguinoso. Com'è stato per Falluja in Iraq.
All'attacco coordinato, partecipano 30.000 uomini circa,
fra cui commando delle forze speciali Usa. Washington avverte: per la conquista
ci vorranno settimane o mesi. L'Onu considera a rischio l’intera popolazione
dell’area urbana, un milione e mezzo di persone, e denuncia il possibile ricorso
ai civili come scudi umani.
Fattori etnici e religiosi s’intersecano e aggiungono
ferocia allo scontro: le unità irachene sono sciite, gli jihadisti
asserragliati sunniti, i curdi che avanzano più speditamente non dovrebbero
entrare in città per evitare d’attizzare la reazione popolare. A Mosul, si calcola che i miliziani siano
3/4.000: troppo pochi per controllare una città così popolosa, se non avessero
il sostegno o almeno la condiscendenza d’una buona parte degli iracheni
residenti, fra cui vi sono migliaia di ex ufficiali dell’esercito di Saddam
Hussein – quello sciolto dopo l’invasione americana – e almeno 100 mila ex
militari.
Gli errori e gli orrori compiuti dall'Amministrazione Bush,
l’invasione immotivata, l’approssimativa gestione del dopo Saddam, le torture
inflitte in carcere ai resistenti catturati, continuano a stingersi sulla
situazione in Iraq e ad alimentare risentimenti anti-americani e
anti-occidentali, che vanno ad aggiungersi e ad intrecciarsi a secolari
diatribe etnico-religiose.
Proprio il ginepraio degli interessi e delle alleanze, che
riproduce - senza ricalcarlo esattamente - quanto avviene in Siria, induce alla
prudenza sull’andamento e l’esito dell’azione militare. Peshmerga a parte,
l’efficienza e la determinazione degli attaccanti va verificata; e i miliziani
potrebbero anche decidere d’evitare scontri impari e di fondersi piuttosto alla
popolazione, o mischiarsi ai civili in fuga, ricompattandosi poi altrove al più
presto.
Non è neppure escluso che la battaglia di Mosul alzi la
soglia di rischio d’attentati in America e, soprattutto, in Europa: ad agire,
potrebbero essere integralisti provenienti dall'area bellica oppure ‘lupi
solitari’ o cellule locali ansiosi di vendicare i loro ‘martiri’. Ovunque, i
servizi d’intelligence sono sul chi vive.
Il dato di fondo è che, rispetto a un anno fa, l’autoproclamato
Califfato sta perdendo ovunque territori: l’esercito iracheno controlla
Falluja, Ramadi, Tikrit; e, in Siria, ‘lealisti’, curdi e ribelli anti-Assad,
pur mossi da istanze diverse, erodono le aree gestite dal sedicente Stato
islamico.
Più religiosamente simbolica che militarmente significativa
è stata la presa di Dabik, in Siria, fatta dagli insorti turcomanni con
l’appoggio turco: poco più di un villaggio, Dabiq è il luogo in cui una
profezia sunnita colloca lo scontro finale tra i musulmani e i ‘romani’, cioè i
‘crociati’, e ha rilievo nella propaganda del Califfo – la patinata rivista
jihadista s’intitola proprio ‘Dabiq’ -.
Il parallelo con la tradizione giudaico-cristiana è
Armageddon, luogo della battaglia finale tra Bene e Male. La profezia musulmana
è nell’Hadith, un racconto della vita e delle opere di Maometto e dei suoi
seguaci. Al versetto 6924, si legge che “l’ultima ora suonerà quando i romani
giungeranno a Dabiq: allora, verrà da Medina un esercito per contrastarli”,
che, alla fine, vincerà e conquisterà Roma, che, all’epoca – VII secolo –
significava Costantinopoli, la capitale dell’Impero romano d’Oriente.
L’offensiva su Mosul è partita quasi nel momento in cui
Matteo Renzi s’imbarcava per Washington,
per una visita di Stato di due giorni, con colloqui ufficiali nello
Studio Ovale e cena di gala – l’ultima della presidenza Obama -. Non c’è chiaramente
nesso di ‘causa effetto’ tra i due eventi, il viaggio del premier e i prodromi
della riconquista della capitale del Califfato in Iraq. Ma è un fatto che
l’Italia è oggi presente militarmente ai vertici del triangolo di crisi
dell’Occidente – e Obama, ricevendo Renzi, ha lodato il lavoro d’addestramento
delle forze irachene affidato ai carabinieri.
Nei pressi di Mosul, a una trentina di chilometri dalla
città, un contingente italiano di 500 uomini sta completando il proprio
schieramento a protezione di una grande diga, la cui ristrutturazione è
affidata a una ditta italiana, la Trevi. In Libia, 300 uomini tra militari in
armi e medici e para-medici hanno appena allestito un ospedale da campo
sull'aeroporto di Misurata, che è la base di partenza della riconquista di
Sirte non ancora ultimata. E, infine, sul fronte della nuova Guerra Fredda, 140
soldati stanno per andare a integrare un avamposto della Nato ai confini con la
Russia in Lettonia.
Atti di coinvolgimento che hanno componenti d’interesse
nazionale, in Libia, ed economico / commerciale in Iraq, ma che sono anche
pegni d’alleanza offerti agli Stati Uniti. Specie il drappello di uomini in
Lettonia, che appare in contraddizione con la linea del dialogo con la Russia
portata avanti dall’Italia. Renzi, a Washington, se n’è fatto forte, evitando
di approfondire le ambiguità e le opacità, in ottica atlantica, tra Roma e
Mosca.
Il Cremlino, intanto, annuncia che risponderà, “anche in modo asimmetrico”, ad eventuali sanzioni decise da Usa ed Ue per Aleppo, la città che, agli occhi di al-Assad e di Putin, è una Mosul siriana non degli jihadisti – quella è Raqqa -, ma dell’opposizione al regime.
Il Cremlino, intanto, annuncia che risponderà, “anche in modo asimmetrico”, ad eventuali sanzioni decise da Usa ed Ue per Aleppo, la città che, agli occhi di al-Assad e di Putin, è una Mosul siriana non degli jihadisti – quella è Raqqa -, ma dell’opposizione al regime.
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