Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/06/2014
Siamo ai saldi
di fine stagione dei fondi di magazzino dell’Amministrazione Bush: piuttosto
che rischiare di ritrovarsi militarmente impantanato in Iraq, Barack Obama
pensa di disfarsi di quello che ritiene il principale responsabile dello
sgretolamento dello Stato davanti all’avanzata jihadista.
Sul banco degli
accusati, il premier iracheno Nuri al Maliqi di cui la cosa più lesta che si
ricorda è la prontezza con cui schivò la scarpa lanciata da un giornalista iracheno
contro il presidente Usa George W. Bush, in una conferenza stampa al termine
della visita di commiato a Baghdad.
Secondo il New
York Times, da giorni sono in corso colloqui e contatti per individuare un
sostituto del premier, ormai sgradito anche agli Stati Uniti. Nei suoi
discorsi, Obama non lo ha apertamente scaricato, ma non gli ha neppure espresso
sostegno parlando della necessità di una leadership che tenga insieme tutte le
anime di un Paese diviso tra sciiti, sunniti, curdi.
E giorni fa il
Washington Post aveva scritto che Washington sta pensando a un nuovo governo
senza al Maliki, cui viene rimproverato di non avere promosso l’unità nazionale
e di avere anzi attuato politiche settarie, esasperando i contrasti tra
maggioranza sciita e minoranza sunnita, che Saddam Hussein aveva tenuto al
potere per un quarto di secolo. E, intanto, i curdi rafforzavano l’autonomia –
e adesso vogliono tenersi Kirkuk, loro capitale storica, al centro di una selva
di pozzi di petrolio -.
L’idea è quella
di un maggiore coinvolgimento di sunniti e curdi, per dare al governo e allo
Stato maggiore stabilità. Il NYT fa tre nomi per il ‘dopo al Maliki’, tutti
sciiti. Ma la presenza nella terna di Ahmed Chalabi, accanto ad Abdul Mahdi e
Bayan Jaber, suscita molti dubbi. Chalabi, oppositore in esilio, era l’uomo che,
nei disegni di Bush, doveva guidare l’Iraq dopo Saddam. Ma gli iracheni non gli
diedero mai fiducia.
L’uscita di
scena di al Maliki, insieme alla fine della presidenza in Afghanistan di Hamid
Karzai - si attende di conoscerne il successore al termine d’uno spoglio che fra
brogli e sangue durerà un mese, dopo che la giornata di ballottaggio aveva
fatto oltre 250 vittime - segnano il tramonto dei dirigenti che
l’Amministrazione Bush aveva in qualche modo insediato nei due Paesi dove aveva
combattuto la guerra al terrorismo.
Né al Maliki né
Karzai sono riusciti a conquistare “i cuori e le menti” dei loro popoli,
prigionieri delle logiche etniche e religiose, oltre che della corruzione e
dell’inefficienza.
Le notizie
delle manovre per rimpiazzare al Maliki arrivano mentre le notizie dal fronte
segnalano una ripresa dell’offensiva delle milizie jihadiste, che hanno
attaccato la maggiore raffineria irachena, a nord di Baghdad, e hanno ucciso
una trentina di soldati regolari al confine con la Siria.
l’atteggiamento
degli Stati Uniti delude l’Iran, che è un grande protettore del regime sciita:
Teheran accusa Washington di “non volere combattere il terrorismo”. Il
presidente Rohani vuole difendere, anche con i Guardiani della Rivoluzione, i
luoghi santi sciiti, mentre il presidente Obama s’accontenta di mandare 275
uomini a difendere l’ambasciata americana.
Iran e Usa hanno discretamente parlato di Iraq a Vienna, a margini dei negoziati sul nucleare che riprendono il 2 luglio. Forse, hanno pure discusso del ‘dopo al Maliki’: Chalabi non sarebbe sgradito a Teheran, Jaber è uno sciita ‘duro’, Mahdi ha già mostrato un buon seguito elettorale. Ma il premier in carica non vuole mollare: ad aprile, ha vinto le elezioni, ma ha solo 98 seggi su 328 e non riesce a mettere insieme una maggioranza. Né in Parlamento, né nel Paese, né sul campo di battaglia.
Iran e Usa hanno discretamente parlato di Iraq a Vienna, a margini dei negoziati sul nucleare che riprendono il 2 luglio. Forse, hanno pure discusso del ‘dopo al Maliki’: Chalabi non sarebbe sgradito a Teheran, Jaber è uno sciita ‘duro’, Mahdi ha già mostrato un buon seguito elettorale. Ma il premier in carica non vuole mollare: ad aprile, ha vinto le elezioni, ma ha solo 98 seggi su 328 e non riesce a mettere insieme una maggioranza. Né in Parlamento, né nel Paese, né sul campo di battaglia.
Nessun commento:
Posta un commento