Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/06/2014
“Non è per questo che abbiamo combattuto e che i
nostri compagni sono caduti”: parole di reduci sul Washington Post; parole da
un’America turbata e sbigottita. L’avanzata degli jihadisti in Iraq azzera i
risultati del più lungo conflitto mai combattuto dagli Stati Uniti, quello
contro il terrorismo, cominciato con gli attacchi agli Usa dell’11 Settembre
2001, la Pearl Harbour
del XXI Secolo.
Un mese dopo, gli Stati Uniti, con il consenso
della comunità internazionale, attaccarono l’Afghanistan e rovesciarono il
regime dei talebani, che proteggevano al Qaeda, la rete terroristica di bin
Laden, e le avevano permesso di creare i suoi santuari sui monti al confine con
il Pakistan. Nel marzo del 2003, gli Stati Uniti, con azione unilaterale,
invasero l’Iraq e rovesciarono il regime di Saddam Hussein, col doppio pretesto
che proteggeva i terroristi –falso, a priori- e che aveva armi di distruzione
di massa –falso, a posteriori-.
Ora, 13 anni e 6717 americani ammazzati dopo, 2229 in Afghanistan e 4488 in Iraq, senza contare
le centinaia di migliaia di vittime civili afghane e irachene, il bilancio del
conflitto è rosso sangue: gli Usa hanno speso 3.000 miliardi di dollari,
secondo le stime del premier Noble Joseph Stiglitz, ma l’Afghanistan è solo un
simulacro di democrazia, dove i talebani aspettano l’uscita di scena degli
americani e dei loro alleati, entro fine anno, per provare a riprendersi il Paese
e il potere; e parte di Iraq e Siria sono diventati uno Stato qaedista, un Jihadistan,
nel cuore del Medio Oriente.
Siamo (quasi) al paradosso. Barack Obama, il
presidente che ha portato a casa i soldati americani dal pantano Iraq, annuncia
di essere pronto “ad azioni militari”, se “sono
minacciati gli interessi della sicurezza nazionale". Aggiunge:
"Bisognerò a breve condurre in Iraq azioni militari", magari usando i
droni, perché “gli jihadisti non guadagnino terreno". E avverte che il
regime di Baghdad “avrà bisogno di ulteriore assistenza americana e
internazionale” –una richiesta in tal senso è già giunta dal premier al
Maliki-. A Bruxelles, la Nato
si chiama fuori (per ora): “Non abbiamo ruolo”.
In pochi giorni, l'Iraq
ha assistito a una clamorosa avanzata delle milizie dello Stato islamico
dell'Iraq e della Siria (Isis) nel proprio territorio, nelle province di Ninive
e Salah al Din: prese Mosul, Tikrit, Falluja, gli integralisti sono a Udhaim, 90 chilometri dalla capitale,
e chiamano a raccolta tutti i sunniti: "La battaglia arriverà presto a
Baghdad e Kerbala”, anche se l’aviazione manda i caccia a bombardare le zone
sotto il controllo dell’Isis. Gli integralisti, anzi. rivendicano una serie
d’azioni che hanno fatto decine di vittime -15 in un attacco kamikaze
contro una riunione di capi tribali, 13 nell’esplosione di un’autobomba- e
annunciano una nuova campagna terroristica, denominata ‘La Marcia ’.
Il Paese è nel caos. Il
Parlamento, dove i partiti sunniti osteggiano il premier sciita, non ha votato
la proclamazione dello stato d'emergenza proposta dal governo, per mancanza del
quorum. E, intanto, i curdi iracheni
coi guerrieri Peshmerga hanno preso Kirkuk, loro capitale storica, centro
petrolifero, da cui i governativi erano fuggiti di fronte agli jihadisti,
trincerandosi a Khalis.
Il Mondo Arabo segue con ansia il conflitto: l’avanzata jihadista e la proclamazione d’un califfato tra Siria e Iraq possono riscrivere la mappa di tutto il Medio Oriente L'Iran sciita, ben determinato ad arrestare l’offensiva sunnita, promette aiuto all’Iraq, contro cui combatté una guerra costata milioni di morti.
Il Mondo Arabo segue con ansia il conflitto: l’avanzata jihadista e la proclamazione d’un califfato tra Siria e Iraq possono riscrivere la mappa di tutto il Medio Oriente L'Iran sciita, ben determinato ad arrestare l’offensiva sunnita, promette aiuto all’Iraq, contro cui combatté una guerra costata milioni di morti.
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