Pubblicato da AffarInternazionali lo 04/06/2014
Nell'Unione europea, tutti sono abituati a vedere Angela
Merkel camminare diritta per la sua strada. Invece, sulla vicenda della
presidenza della Commissione europea, la Merkel si muove a zig zag, come
l’automobilista dei film che vuole provare al poliziotto di non avere bevuto: è
difficile capire dove voglia arrivare e se davvero ci arriverà. E l’incertezza
alimenta il chiacchiericcio.
Prima delle elezioni europee, la cancelliera tedesca era stata
fra i leader popolari più freddi all’idea di designare un candidato alla
presidenza della Commissione da sottoporre al vaglio dei cittadini: aveva
accettato che il Ppe, buon ultimo, lo facesse, ma s’era poi data ben poco da
fare per sostenere il campione prescelto, Jean-Claude Juncker, ex premier
lussemburghese per 18 anni, ex presidente dell’Eurogruppo per 7 anni, il più
tedesco e il meglio germanofono dei leader Ue non tedeschi.
Sia i popolari che i socialisti avevano espresso un
candidato alla presidenza della Commissione, rispettivamente Juncker e il
tedesco Martin Schulz, presidente uscente del Parlamento europeo. Anche
liberali, verdi e sinistra radicale avevano loro candidati, ma hanno preso un
quinto dei seggi di popolari e socialisti.
Subito dopo il voto, alla cena dei leader del 28 martedì 27
maggio a Bruxelles, la Merkel e altri, compreso il premier italiano Matteo
Renzi, avevano traccheggiato. Se l’Assemblea di Strasburgo giocava la carta del
rispetto della volontà dei cittadini e portava avanti la soluzione Juncker, i
capi di Stato e di governo prendevano tempo: nessuno mostrava fretta e,
soprattutto, nessuno moriva dalla voglia di scegliere Juncker. Anzi, c’era un
gruppetto, coagulato intorno al premier britannico David Cameron, che di
Juncker non voleva, e non vuole, neppure sentire parlare.
Dalla cena di Bruxelles, si usciva con due plenipotenziari:
Junker, uomo di fiducia del Parlamento, e Herman Van Rompuy, presidente del
Consiglio europeo e voce dei leader, incaricati di sondare il terreno in vista
di una decisione al Vertice europeo del 26 e 27 giugno, ultimo atto della
presidenza di turno greca e prologo di quella italiana.
Tre giorni dopo Bruxelles, la Merkel fa inversione di marcia
e forse spiazza Renzi, che magari sta elaborando (e pregustando) strategie di
mediazione europee. Per la presidenza della Commissione, la cancelliera appoggia
Juncker. Proprio mentre la stampa britannica più autorevole, come il FT, tiene
bordone al premier Cameron e invita i leader dell’Ue a scaricare l’ex premier
lussemburghese perché ci vuole un volto nuovo.
Nell'intervista euro-buonista di sabato 31 maggio a La Stampa e ad altri
prestigiosi quotidiani, Renzi dichiara la Germania un modello e ostenta stima per la Merkel , che “non è un
nemico”. Ma, almeno teoricamente, sul pacchetto delle nomine, Italia e Germania
paiono ora trovarsi in campi diversi. E i socialisti sono più ‘sparpagliati’
che mai: Renzi, il più forte del lotto ora, temporeggia, come Hollande; il
cancelliere austriaco Werner Faymann si schiera con Juncker; i laburisti, che
hanno sempre osteggiato Schulz, sono pure contrari a Juncker.
Quando poi Der Spiegel rivela che Cameron minaccia di serrare
i tempi del referendum sull’uscita dall’Ue della Gran Bretagna, previsto nel
2017, se Juncker diventerà presidente della Commissione, la Merkel non fa
spallucce, ma dà un colpo di freno: vuole stare con Jean-Claude, ma non vuole
rompere con David.
Prossima tappa annunciata, il 9 giugno, quando il premier
svedese Fredrik Reinfeldt intende riunire a Stoccolma un ‘mini-vertice’ con la Merkel , Cameron e
l’olandese Mark Rutte, per portare avanti un’alternativa a Juncker.
Sui nomi, il riserbo è per ora massimo, ma The Telegraph
rimette in circolo Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario
internazionale, francese, ma di destra: la Merkel –pare- avrebbe sondato in
merito il presidente francese François Hollande, socialista, che dovrebbe
‘trangugiare il rospo’. Una scelta da brividi: la Lagarde, un simbolo per ruolo
di troika e rigore, farebbe l’unanimità –contro- di europeisti entusiasti e
tiepidi e di euro-scettici ed euro-critici.
In realtà, le scuole di pensiero sulla presidenza della
Commissione sono almeno tre, dopo che le elezioni hanno prodotto un Parlamento
europeo in cui i popolari sono i più numerosi, davanti ai socialisti, ma dove
né gli uni, che hanno perso quasi 60 seggi, né gli altri, che ne hanno perso
una decina, possono davvero affermare di avere vinto.
C’è il partito del ‘rispetto del voto’, di cui s’è fatto
recentemente alfiere su La Stampa, fra gli altri, Lorenzo Bini Smaghi: gli
elettori sono stati interpellati, anche se magari molti di essi non erano
consci che votavano anche per esprimere una preferenza per il presidente
dell’Esecutivo; e bisogna tenere conto del loro parere.
C’è il partito del “si scelga il meglio”, e né Juncker né
Schulz lo sono, perché al più rappresentano l’usato sicuro di questa Unione.
Tesi suggestiva, anche se, poi, alla prova dei fatti, il meglio è funzione dell’interesse
di ciascuno: così, per i britannici, che s’iscrivono in questo partito, il
meglio è un presidente quanto più scolorito e quanto meno europeista possibile.
E dire che il buon Juncker ha fatto di tutto, in campagna elettorale,
riuscendoci pure perfettamente, ad apparire il più moscio e il meno europeista
possibile.
Infine, c’è il partito che scarta Juncker e Schulz, perché
né l’uno né l’altro hanno vinto le elezioni, e punta a legare tutte le scelte
in un unico pacchetto, sul quale Renzi potrebbe mediare, essendo l’Italia dal
1.o luglio alla presidenza di turno del Consiglio dell’Ue.
E, qui, gli italici macchiavelli ipotizzano vantaggi
probabilmente illusori. Perché, per mediare, l’Italia si troverà in posizione doppiamente
privilegiata: presidente di turno e senza ambizioni perché la presenza di Mario
Draghi alla presidenza della Banca centrale europea sembra escludere che ci
tocchino altre fette della torta europea.
Di qui alla fine dell’anno, di posti da riempire l’Unione
europea ne ha un sacco: c’è il presidente della Commissione, e tutti i membri
dell’Esecutivo, ovviamente anche l’italiano; c’è il presidente del Consiglio
europeo - il belga Van Rompuy va esaurendo il mandato -; e c’è l’alto
commissario per le politiche estera e di sicurezza comuni, con la britannica Catherine
Ashton a fine corsa –si citano Schulz o il ministro degli esteri polacco
Radoslaw Sikorski-; infine, ci sarebbe il presidente dell’Eurogruppo, dove il
ministro olandese Jeroen Dijsselbloem pare avere il fiato corto.
Un discorso a parte è quello del presidente dell’Assemblea
di Strasburgo, che gli eurodeputati eleggeranno alla prima plenaria, all'inizio
di luglio, proprio quando Renzi presenterà al Parlamento il programma della
presidenza italiana.
In attesa dei giochi che contano, l’Italia è, però, per il
momento, ‘zoppa’, senza commissario nell’Esecutivo di Bruxelles: Antonio
Tajani, eletto a Strasburgo, è ormai fuori e va sostituito. Qui, la parola è a
Renzi: può aspettare, tenendosi la mossa in serbo sulla scacchiera delle nomine,
fosse mai che acchiappa qualcosa con uno dei ‘cavalli di razza’ fatti fuori
negli ultimi mesi, come Massimo D’Alema o Enrico Letta; oppure, può tappare la
falla subito, puntando, magari a termine, su una figura esperta ed affidabile.
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