Niente Caschi Blu, almeno per ora, sul territorio libico: era già scontato, ma ora è pure ufficiale: nessuno li chiede, nessuno li vuole. Non è definitivo, perché i riti del Palazzo di Vetro sono ciclici, non hanno quasi mai la parola fine. Il consulto d’urgenza sulla Libia del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è un dibattito fiume pubblico, seguito da consultazioni riservate: l’inviato in Libia Leon vi interviene in video-conferenza. In parallelo, a Washington. Si svolge un incontro internazionale contro l’estremismo islamico, cui partecipano una sessantina di Paesi.
Anche se i tempi di elaborazione delle Nazioni Unite
sono lunghi, lenti e richiedono mediazioni e ‘digestioni’, è chiaro che l’intervento
armato della comunità internazionale con tutti i crismi della legalità non ci
sarà. L’Egitto che l’aveva inizialmente sollecitato, nelle ultime 48 ore ha
fatto per conto suo, con raid aerei e incursioni terrestri contro obiettivi e
postazioni delle milizie jihadiste. Tutto con l’avallo del premier libico legittimo
al-Thani, la cui sintonia con il rais al-Sisi pare consolidarsi.
Almeno, così si evita di aggiungere un grano al
rosario di missioni dell’Onu in cui i Caschi Blu sono stati testimoni di
massacri senza saperli, o poterli, evitare: perché le Nazioni Unite possono
fare con efficacia del ‘peace keeping’, ma non riescono a fare del ‘peace
enforcing’, cioè a portare la pace dove c’è la guerra.
Lo dicono cinquant’anni e passa di frustrazioni e
morti, spesso inutili, come i caduti di Kindu, italiani, in Congo, nel 1961. Tra
Medio Oriente e Africa, i Caschi Blu sono stati l’anello debole dell’impotenza
internazionale nelle maglie di conflitti intestini feroci e atavici. L’episodio
più emblematico vicino all’Italia, dall’altra parte dell’Adriatico, a Srebrenica,
dove soldati dell’Onu olandesi, armati, ma senza consegna a intervenire,
assistettero passivi e imbelli a uno dei momenti più cruenti della guerra
bosniaca, il massacro di migliaia di musulmani da parte dei serbo-bosniaci.
Al Consiglio di Sicurezza, i Paesi arabi si sono
presentati proponendo una risoluzione per mettere fine all’embargo sulla
vendita di armi al governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale,
come se il problema in Libia fossero che mancano le armi e non che ce ne sono
troppe. Il ministro degli Esteri egiziano Shukry lo ha annunciato prima
dell’inizio della riunione, dopo aver incontrato rappresentanti all’Onu di
altri Paesi islamici.
Dopo l’esecuzione, da parte degli jihadisti, di 21
egiziani copti, il regime del Cairo è in prima linea nella lotta contro le
milizie del Califfato in Libia e dà manforte al premier al-Thani, mentre non si
concretizza, per ora, l’ipotesi di un’alleanza tra gli integralisti e gli
islamisti che hanno roccaforti a Tripoli e a Misurata.
La Giordania, attualmente membro del Consiglio di Sicurezza, altro Paese
arabo molto esposto contro lo Stato islamico, ma sul fronte siriano-iracheno, è
stato latore del testo che chiede che “l’embargo sulle armi sia rimosso per il
governo legittimo, così da permettergli di combattere contro il terrorismo”. Il
documento chiede, inoltre, “maggiori controlli via mare e via aria per
prevenire la consegna di armi ai gruppi militanti” che si battono contro il
governo riconosciuto.
L’Occidente s’era già dichiarato, praticamente unanime, per una
“soluzione politica”, pure auspicata da papa Francesco: “La guerra è la tesi-
aiuta il Califfato, che solo quella sa fare”. Certo, c’è l’impegno a “un cambio
di passo della comunità internazionale”, ma sono parole. Quelle dell’Ue, il cui
ruolo era già stato mortificato dalla vicenda ucraina, neppure si sentono.
L’Italia,
dice in Parlamento il ministro Gentiloni, sa che "il tempo a disposizione
non è infinito e rischia di scadere presto pregiudicando i fragili risultati
raggiunti"; ed "è pronta ad assumersi responsabilità di primo
piano", "a contribuire al monitoraggio del cessate il fuoco, al
mantenimento della pace, all'addestramento militare", ma non vuole
"né avventure né tantomeno crociate".
L’embargo sulla vendita di armi alla Libia risale al 2011, quando, nella
scia delle Primavere arabe, un’insurrezione, appoggiata dai raid aerei di una
coalizione internazionale che forzò il mandato dell’Onu rovescio il regime di
Gheddafi; il Consiglio di Sicurezza lo impose, allora, per impedire che la
Libia diventasse una polveriera. Ma già lo era e gli arsenali del Colonnello
alimentano l’attuale conflitto.
Il dibattito all’Onu s’è svolto sullo sfondo delle notizie che giungono dal
fronte, anzi dai fronti che attraversano la Libia: l’incursione delle forze
speciali egiziane contro Derna, in Cirenaica, roccaforte dell’Is, con oltre 150
caduti e 55 jihadisti presi prigionieri; l’assedio posto dagli islamisti di Misurata
alle truppe dell’Is a Sirte; e i
movimenti di integralisti, del Califfo e di Boko Haram, segnalati verso la
Tunisia, non si sa con quale attendibilità, dal premier al-Thani.
Nessun commento:
Posta un commento