Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/02/2015
Per la sinistra, e per l’Europa, la questione palestinese
è un irrisolto ricorrente dilemma. Non solo per loro, intendiamoci: il
conflitto tra israeliani e palestinesi attraversa tutto il dopoguerra e resta
un capitolo aperto nonostante guerre e accordi, Nobel e attentati, intifade e
ritorsioni. Anche l’America, che s’è sempre schierata con Israele, nei momenti
della verità, quale che fosse il presidente o l’Amministrazione, discute e
spesso si contraddice: regolarmente, il Congresso vota il trasferimento dell’Ambasciata
degli Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e, regolarmente, da anni, quale ne sia il
colore, l’Amministrazione ignora l‘invito.
Da una parte, c’è l’angoscia del presente; dall'altra,
il peso della storia. Spesso intollerabili, l’una e l’altro. La soluzione dei
due Stati, Israele e la Palestina, che vivano entrambi sicuri dentro i propri
confini, in pace l’uno con l’altro, è una formula acquisita da tempo dalla
diplomazia internazionale. Ma, da quando è stata sancita, la sua attuazione non
è mai stata vicina. Così come non lo sono mai state le ripetute risoluzioni
delle Nazioni Unite sul ritorno degli esuli alle proprie case, sul ripristino
dei confini, sugli insediamenti, sull’esercizio del diritto di difesa proporzionato
all’offesa subita o potenziale.
L’ambiguità è un tratto costante della diplomazia mediorientale:
all’Onu, c’è chi vota per la Palestina, ma non è poi scontento quanto il veto
degli Usa ‘salva’ Israele. E, quando c’è di mezzo Israele, l’Ue si spacca
sempre in tre tronconi: chi sì, chi no, chi s’astiene.
Fin quando la questione palestinese era un capitolo
del confronto Est-Ovest, comunismo contro capitalismo, poveri contro ricchi, le
posizioni apparivano disegnate in modo più netto anche sul terreno della
politica nazionale. Ma, dagli Anni Settanta, non è più così: i distinguo si
sono infittiti, il peso dell’Olocausto è stato più condiviso. I partiti di
sinistra sfumavano le loro posizioni pro-palestinesi, perché non volevano
essere anti-israeliani; i partiti di destra che si rifacevano una verginità
accentuavano l’amicizia verso Israele per allontanare il sospetto di anti-semitismo.
La geografia politica dell’Ue sulla questione
palestinese riproduce un po’ gli stessi riflessi. Molti Paesi dell’Unione dal passato
comunista, Polonia, Rep. Ceca, Ungheria, Bulgaria, Romania, oltre a Malta e a
Cipro, hanno riconosciuto la Palestina. All’Ovest, l’ha fatto solo la sempre
neutrale Svezia, campione della difesa dei diritti umani: un atto annunciato il
3 ottobre dal premier Stefan Lovfen e formalizzato il 30 ottobre, suscitando il
plauso del mondo arabo e le prevedibili furiose reazioni israeliane.
In autunno, l’accelerazione è stata evidente. In Gran
Bretagna –a larghissima maggioranza: solo 12 contrari, Francia –di stretta
misura-, Spagna, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo, i Parlamenti nazionali hanno
invitato i loro governi a riconoscere la Palestina. I governi non l’hanno
ancora fatto. Analogo voto, simbolico, venne dal Parlamento europeo il 17
dicembre, con un’amplissima maggioranza: 498 sì, 88 no e 111 astenuti.
Dei Grandi dell’Ue, mancava l’Italia, che s’è oggi
espressa con l’ambiguità dell’ignavia. E manca la Germania. La cancelliera
Angela Merkel il 21 novembre è stata netta: "Un riconoscimento unilaterale
della Palestina non ci porta avanti sulla strada della soluzione dei due
Stati", che, dagli Anni Novanta, è l’opzione europea, poi condivida da
Onu, Usa, Russia, per risolvere la questione palestinese.
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