Dopo il dolore e il
terrore, Junker e Valls in strada per il minuto di silenzio, che cosa rimane a
Bruxelles?
Sangue, dolore, lacrime. E parole. Gli attacchi terroristici
che hanno colpito e ferito la capitale del Belgio e dell’Unione hanno innescato
il pianto pubblico di Federica Mogherini e un profluvio di dichiarazioni,
magari dovute, certo ripetitive: una sequela di ‘bisogna’, ‘mai più’, ’sia
fatta piena luce’ e imperativi categorici, che i leader dei 28 e delle Istituzioni
ci hanno dispensato. Decisioni e risposte concrete, per ora, nulla: neppure la
riunione ovviamente straordinaria dei ministri dell’Interno e della Giustizia
dei Paesi dell’Ue ha sortito altro che impegni alla collaborazione fra forze
dell’ordine e allo scambio d’informazioni fra intelligence, scontati e
generici.
Però, tra impacci della polizia e imprecisioni nelle
indagini – almeno queste le prime impressioni -, Bruxelles e i suoi cittadini
di tutta Europa hanno offerto al Mondo intero una grande prova di dignità,
orgoglio e coraggio: il giorno dopo le stragi, le scuole erano aperte, la metro
circolava, gli uffici funzionavano: i belgi hanno fatto bene quello che sanno
fare meglio, il loro dovere ogni giorno: un eroismo del quotidiano che è la
risposta più giusta e nel contempo più difficile alla minaccia jihadista, non
farsi prendere dalla paura, non rinunciare alla propria vita.
2) Anche dopo Parigi
si chiese una sola intelligence. Ora di nuovo. C’è speranza che la solita passerella
lasci il passo a qualche decisione: stessa intelligence, una procura europea?
Prendo a prestito parole e concetti del professor Roberto
Castaldi, un federalista. Oltre a esprimere cordoglio per le vittime, è importante
che i governi dei Paesi dell’Ue rispondano a due semplici domande: “Contano di
più le vite delle persone o le gelosie tra i vari servizi segreti nazionali?; e
gli Usa sarebbero più sicuri senza apparati di sicurezza federali, cioè, per
intenderci, senza l’Fbi o, a livello d’intelligence, l’Nsa, ma contando solo su
quelli dei singoli Stati membri?”.
E’ un modo efficace di porre il problema della mancanza
d’una politica di sicurezza europea, oltre che estera e di difesa ed estera. Una
prima minima risposta ‘federale’ agli attacchi in atto sarebbe la creazione di
una polizia federale europea, che, sull’esempio del Secret Service degli Stati
Uniti, tuteli le Istituzioni che rappresentano – direttamente, come il
Parlamento o il Consiglio – o indirettamente – come la Commissione - 500
milioni di cittadini europei.
E un’ulteriore, forse decisiva, risposta sarà il
rafforzamento della cooperazione, di polizia, giudiziaria, culturale, senza
ulteriori cedimenti agli egoismi nazionali. La procura europea è già in fieri.
Il resto andava già fatto e va ora fatto presto. Deciderlo non costa nulla, a
parte un esercizio di volontà politica, senza compiacimenti verso populismi e
protagonismi.
Uniti siamo più sicuri; e più forti; e più liberi. E – non
suoni irrispettoso per le vittime degli ultimi 15 mesi e per le centinaia che
le hanno precedute nel sacrificio- persino più ricchi, perché a mettere insieme
le risorse si guadagna in efficienza e si risparmia.
3) Che cosa
aspettiamo a muoverci?, che i giornali titolino “Il califfo a Bruxelles”?
Beh, in realtà già lo possono scrivere e, infatti, lo
scrivono. A Bruxelles, con una passeggiata di mezz’ora, massimo 40’, camminando
sempre in linea retta, si va dalla capitale dell’Europa, al Rond Point Schumann
o a Maelbeek, alla capitale del Belgio, di fonte al Palazzo Reale o sulla
Grand’ Place, e alla capitale della jihad, a Molenbeek: una passeggiata come
dal Comunale a piazza Castello alla Gran Madre.
Il Califfo e i suoi accoliti non devono arrivare: già ci
sono, nati in Francia o in Belgio o altrove in Europa; cresciuti nelle nostre
città; spinti al radicalismo da cattivi maestri e dalla mancanza di
prospettive. Proprio come, negli Anni Settanta, in Italia, i brigatisti non
dovevano arrivare in fabbrica, a Mirafiori o all’Italsider, perché già c’erano.
4) 4000 terroristi in
giro per il Vecchio Continente sono un’enormità di insicurezza. L’Europa può
fare qualcosa per bloccarli e cosa?
Quello che può fare, e può essere tentata di fare, perché è
relativamente semplice da fare, e oltretutto risponde a pulsioni populiste, ma che
non deve a mio avviso fare, è chiudere le frontiere interne, cancellare la
libertà di circolazione che noi chiamiamo ‘accordi di Schengen’. Questi terroristi,
gli assassini e i kamikaze di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Zaventem e della
stazione di Maelbeek, non arrivano da fuori.
Bisogna, piuttosto, controllare le frontiere esterne, non
per intercettare i terroristi fra i migranti, che non ne troveremo, ma per
verificare chi esce e chi torna, chi va a fare l’università della Jihad tra
Siria e Iraq e torna imbibito di fanatismo e militarmente addestrato. Bisogna
passare al setaccio comunicazioni e messaggi. Bisogna – e l’ho già detto –
creare corpi di sicurezza federali e integrare l’azione di corpi di polizia e
agenzie d’intelligence.
E, soprattutto, bisogna evitare che i figli dei migranti che
accogliamo oggi crescano carichi d’odio e risentimento.
5) Dopo Charlie è
stato un crescendo di attentati che hanno potuto contare su una serie
impressionante di complicità. Che sta succedendo nei quartieri ghetto delle
grandi città in Europa?
Il Francia, il
ministero dell’Istruzione le chiama ‘Zep’, zone di educazione prioritaria.
Coincidono, spesso, con quelle che il ministero dell’Interno chiama ‘Zus’, zone
urbane sensibili: formule ‘soft’, per indicare le aree dove formare i ragazzi è
un’impresa per professori ad alta motivazione, pagati pure meglio, e dove il
rischio di fondamentalismo è più alto. Al cinema, nel 2008, ne ha raccontata
una per tutte, vincendo la Palma d’Oro a Cannes, Laurent Cantet, con La Classe (Entre
le Murs): un insegnante, François Bégadeau, che interpreta se stesso,
ricostruisce la sua esperienza d’un anno scolastico, fra ragazzi di etnie
diverse, che quando parlano fra di loro non si capiscono e quando parlano con
l’insegnante lui non li capisce.
In Francia, ce ne sono 751 di Zus: concentrate intorno a
Parigi e tra l’Ile-de-France e il Belgio, dense intorno a Lilla, Marsiglia,
Grenoble, Bordeaux, presenti anche in Alsazia e Lorena, quasi lungo il confine
con la Germania, sono le banlieus e le città dormitorio delle estati violente –
la più calda di tutte quella del 2005 -. Ci vivono i tre quarti dei musulmani
francesi: 4,5 milioni su circa 6 milioni (la stragrande maggioranza provenienti
dal Maghreb ex francese, marocchini, algerini, tunisini, oltre che maliani e
sub-sahariani).
Ma i ‘mini-Califfati’, quartieri dove non mettere piede, soprattutto
se sei la polizia, non sono prerogativa della Francia e, nemmeno del Belgio,
che pure offre il paradigma di Molenbeek: zone dove la legge è un mix di anarchia
e sharia; dove ci si ritrova indifferentemente in una gang o nella jihad e,
magari, si passa dall'una all'altra; e da dove si parte per fare i ‘foreign
fighters’ e si torna, se si torna, per fare i kamikaze. Ce ne sono in Svezia e
Danimarca, Inghilterra e Spagna, Germania e Balcani.
Sono il frutto di scelte di ghettizzazione che, per
garantire la percezione di sicurezza degli autoctoni, hanno segregato
generazioni d’immigrati neri e arabi, favorendone la radicalizzazione. Che s’è
poi spesso ‘perfezionata’ nelle carceri, sorta di università della jihad.
Accadde anche in Italia: a Torino, coi meridionali negli Anni Cinquanta,
quartieri di casermoni tirati su in fretta, dove la sera in famiglia gli operai
ritrovavano gli usi ‘del paese’ e dove i torinesi non mettevano piede.
Nonostante lingua, religione e nazionale fossero le stesse, ci volle una
generazione e forse la vittoria nei Mondiali dell’ ’82 perché ci si sentisse
non solo tutti italiani, ma pure concittadini. In Europa, il fenomeno è
aggravato dalle differenze di etnia, lingua, religione; e dai fallimenti
dell’integrazione.