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giovedì 31 marzo 2016

Terrorismo: Europa, uniti siamo pià sicuri, più forti, più liberi

Intervista a Gian Mario Ricciardi de Il Nostro Tempo del 31/03/2016

Dopo il dolore e il terrore, Junker e Valls in strada per il minuto di silenzio, che cosa rimane a Bruxelles?

Sangue, dolore, lacrime. E parole. Gli attacchi terroristici che hanno colpito e ferito la capitale del Belgio e dell’Unione hanno innescato il pianto pubblico di Federica Mogherini e un profluvio di dichiarazioni, magari dovute, certo ripetitive: una sequela di ‘bisogna’, ‘mai più’, ’sia fatta piena luce’ e imperativi categorici, che i leader dei 28 e delle Istituzioni ci hanno dispensato. Decisioni e risposte concrete, per ora, nulla: neppure la riunione ovviamente straordinaria dei ministri dell’Interno e della Giustizia dei Paesi dell’Ue ha sortito altro che impegni alla collaborazione fra forze dell’ordine e allo scambio d’informazioni fra intelligence, scontati e generici.

Però, tra impacci della polizia e imprecisioni nelle indagini – almeno queste le prime impressioni -, Bruxelles e i suoi cittadini di tutta Europa hanno offerto al Mondo intero una grande prova di dignità, orgoglio e coraggio: il giorno dopo le stragi, le scuole erano aperte, la metro circolava, gli uffici funzionavano: i belgi hanno fatto bene quello che sanno fare meglio, il loro dovere ogni giorno: un eroismo del quotidiano che è la risposta più giusta e nel contempo più difficile alla minaccia jihadista, non farsi prendere dalla paura, non rinunciare alla propria vita.

2) Anche dopo Parigi si chiese una sola intelligence. Ora di nuovo. C’è speranza che la solita passerella lasci il passo a qualche decisione: stessa intelligence, una procura europea?

Prendo a prestito parole e concetti del professor Roberto Castaldi, un federalista. Oltre a esprimere cordoglio per le vittime, è importante che i governi dei Paesi dell’Ue rispondano a due semplici domande: “Contano di più le vite delle persone o le gelosie tra i vari servizi segreti nazionali?; e gli Usa sarebbero più sicuri senza apparati di sicurezza federali, cioè, per intenderci, senza l’Fbi o, a livello d’intelligence, l’Nsa, ma contando solo su quelli dei singoli Stati membri?”.

E’ un modo efficace di porre il problema della mancanza d’una politica di sicurezza europea, oltre che estera e di difesa ed estera. Una prima minima risposta ‘federale’ agli attacchi in atto sarebbe la creazione di una polizia federale europea, che, sull’esempio del Secret Service degli Stati Uniti, tuteli le Istituzioni che rappresentano – direttamente, come il Parlamento o il Consiglio – o indirettamente – come la Commissione - 500 milioni di cittadini europei.

E un’ulteriore, forse decisiva, risposta sarà il rafforzamento della cooperazione, di polizia, giudiziaria, culturale, senza ulteriori cedimenti agli egoismi nazionali. La procura europea è già in fieri. Il resto andava già fatto e va ora fatto presto. Deciderlo non costa nulla, a parte un esercizio di volontà politica, senza compiacimenti verso populismi e protagonismi.

Uniti siamo più sicuri; e più forti; e più liberi. E – non suoni irrispettoso per le vittime degli ultimi 15 mesi e per le centinaia che le hanno precedute nel sacrificio- persino più ricchi, perché a mettere insieme le risorse si guadagna in efficienza e si risparmia.

3) Che cosa aspettiamo a muoverci?, che i giornali titolino “Il califfo a Bruxelles”?

Beh, in realtà già lo possono scrivere e, infatti, lo scrivono. A Bruxelles, con una passeggiata di mezz’ora, massimo 40’, camminando sempre in linea retta, si va dalla capitale dell’Europa, al Rond Point Schumann o a Maelbeek, alla capitale del Belgio, di fonte al Palazzo Reale o sulla Grand’ Place, e alla capitale della jihad, a Molenbeek: una passeggiata come dal Comunale a piazza Castello alla Gran Madre.

Il Califfo e i suoi accoliti non devono arrivare: già ci sono, nati in Francia o in Belgio o altrove in Europa; cresciuti nelle nostre città; spinti al radicalismo da cattivi maestri e dalla mancanza di prospettive. Proprio come, negli Anni Settanta, in Italia, i brigatisti non dovevano arrivare in fabbrica, a Mirafiori o all’Italsider, perché già c’erano.

4) 4000 terroristi in giro per il Vecchio Continente sono un’enormità di insicurezza. L’Europa può fare qualcosa per bloccarli e cosa?

Quello che può fare, e può essere tentata di fare, perché è relativamente semplice da fare, e oltretutto risponde a pulsioni populiste, ma che non deve a mio avviso fare, è chiudere le frontiere interne, cancellare la libertà di circolazione che noi chiamiamo ‘accordi di Schengen’. Questi terroristi, gli assassini e i kamikaze di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Zaventem e della stazione di Maelbeek, non arrivano da fuori.

Bisogna, piuttosto, controllare le frontiere esterne, non per intercettare i terroristi fra i migranti, che non ne troveremo, ma per verificare chi esce e chi torna, chi va a fare l’università della Jihad tra Siria e Iraq e torna imbibito di fanatismo e militarmente addestrato. Bisogna passare al setaccio comunicazioni e messaggi. Bisogna – e l’ho già detto – creare corpi di sicurezza federali e integrare l’azione di corpi di polizia e agenzie d’intelligence.

E, soprattutto, bisogna evitare che i figli dei migranti che accogliamo oggi crescano carichi d’odio e risentimento.

5) Dopo Charlie è stato un crescendo di attentati che hanno potuto contare su una serie impressionante di complicità. Che sta succedendo nei quartieri ghetto delle grandi città in Europa?

 Il Francia, il ministero dell’Istruzione le chiama ‘Zep’, zone di educazione prioritaria. Coincidono, spesso, con quelle che il ministero dell’Interno chiama ‘Zus’, zone urbane sensibili: formule ‘soft’, per indicare le aree dove formare i ragazzi è un’impresa per professori ad alta motivazione, pagati pure meglio, e dove il rischio di fondamentalismo è più alto. Al cinema, nel 2008, ne ha raccontata una per tutte, vincendo la Palma d’Oro a Cannes, Laurent Cantet, con La Classe (Entre le Murs): un insegnante, François Bégadeau, che interpreta se stesso, ricostruisce la sua esperienza d’un anno scolastico, fra ragazzi di etnie diverse, che quando parlano fra di loro non si capiscono e quando parlano con l’insegnante lui non li capisce.

In Francia, ce ne sono 751 di Zus: concentrate intorno a Parigi e tra l’Ile-de-France e il Belgio, dense intorno a Lilla, Marsiglia, Grenoble, Bordeaux, presenti anche in Alsazia e Lorena, quasi lungo il confine con la Germania, sono le banlieus e le città dormitorio delle estati violente – la più calda di tutte quella del 2005 -. Ci vivono i tre quarti dei musulmani francesi: 4,5 milioni su circa 6 milioni (la stragrande maggioranza provenienti dal Maghreb ex francese, marocchini, algerini, tunisini, oltre che maliani e sub-sahariani).

Ma i ‘mini-Califfati’, quartieri dove non mettere piede, soprattutto se sei la polizia, non sono prerogativa della Francia e, nemmeno del Belgio, che pure offre il paradigma di Molenbeek: zone dove la legge è un mix di anarchia e sharia; dove ci si ritrova indifferentemente in una gang o nella jihad e, magari, si passa dall'una all'altra; e da dove si parte per fare i ‘foreign fighters’ e si torna, se si torna, per fare i kamikaze. Ce ne sono in Svezia e Danimarca, Inghilterra e Spagna, Germania e Balcani.


Sono il frutto di scelte di ghettizzazione che, per garantire la percezione di sicurezza degli autoctoni, hanno segregato generazioni d’immigrati neri e arabi, favorendone la radicalizzazione. Che s’è poi spesso ‘perfezionata’ nelle carceri, sorta di università della jihad. Accadde anche in Italia: a Torino, coi meridionali negli Anni Cinquanta, quartieri di casermoni tirati su in fretta, dove la sera in famiglia gli operai ritrovavano gli usi ‘del paese’ e dove i torinesi non mettevano piede. Nonostante lingua, religione e nazionale fossero le stesse, ci volle una generazione e forse la vittoria nei Mondiali dell’ ’82 perché ci si sentisse non solo tutti italiani, ma pure concittadini. In Europa, il fenomeno è aggravato dalle differenze di etnia, lingua, religione; e dai fallimenti dell’integrazione.

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