Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 17/03/2016, riprendendo anche post per blog de Il Fatto Quotidiano di ieri e pezzo de Il Fatto Quotidiano di oggi
I
repubblicani escono male dalla raffica di voti in Florida, Illinois, Missouri,
North Carolina, Ohio, che riducono a tre il lotto degli aspiranti alla
nomination, ma acuiscono le tensioni. E, per prima cosa, salta il dibattito sulla
Fox di lunedì dallo Utah causa mancanza di ‘quorum’.
Sono ore di
apprensione fra i conservatori ‘per bene’, tradizionali e moderati, che si
rendono conto di essersi persi per strada uno ad uno i loro campioni (magari
mal scelti, bisogna ammettere): i ‘figli della Florida’ sono usciti di scena l’uno
dopo l’altro in meno d’un mese, prima l’ex governatore Jeb Bush, ritiratosi a
febbraio senza essere mai riuscito a fare decollare la sua campagna, e ora il
senatore Marco Rubio, il più giovane fra i 17 complessivamente scesi in lizza,
indotto a lasciare dalla sconfitta in casa subita martedì.
E sono ore
d’agitazione pure per Donald Trump, il battistrada showman, che vince a raffica
– senza per altro convincere tutto il suo campo -, ma che resta esposto al
rischio d’arrivare fino alla convention di luglio senza la maggioranza assoluta
dei delegati. Invece, fra i democratici, Hillary Clinton viaggia spedita verso
la soglia di delegati che le garantisce la nomination, mentre Bernie Sanders
spera ancora nel Missouri per evitare il cappotto.
La ‘convention
aperta’ è evento rarissimo ed è un po’ uno spauracchio per tutti: significa
sciorinare davanti all’elettorato divisioni e incertezze. Del resto, l’establishment
repubblicano pare non fidarsi a pieno, come anti Trump, neppure del governatore
dell’Ohio John Kasich, che martedì ha vinto nel suo Stato, ma che non ha finora
avuto altri acuti nella sua campagna. E il terzo candidato, il senatore del
Texas Ted Cruz, iper-conservatore ed evangelico, non è meglio di Trump, dal
punto di vista del partito: populista come lui, ma meno popolare e poco
simpatico.
Così, si rovista
nei cassetti del 2012: lì, ci sono Mitt Romney, candidato battuto dal
presidente Obama, che s’espone in campagna contro Trump, ma non scende in campo,
e il suo vice, oggi speaker della Camera, Paul Ryan, che, chiamato in causa da
John Boehner, si tira indietro, “non mi candido”. Gli ‘assi nella manica’, o i ‘cavalli
di razza’, sono merce rara.
Trump
avverte aria di fronda e fa la voce grossa, prospettando disordini nelle strade
se non otterrà la nomination – il che rafforza le preoccupazioni dei moderati
nei suoi confronti - e chiamandosi fuori dal prossimo dibattito, il 21 marzo,
perché – dice – “ne abbiamo già fatti troppi” (il che, magari, è vero). Kasich
replica subito che, se non c’è Trump, non ci sarà neppure lui: che senso
avrebbe stare a scannarsi con il senatore Cruz, mentre lo showman si tiene in
disparte? E così la Fox cancella l’evento, che sarebbe diventato un ‘one man
show’.
Per Donald
Trump, la convention aperta rischia di diventare un’ossessione; e, se ci cade
dentro, una trappola. Per questo, cerca di forzare i tempi e di indurre il partito
a seguirlo mostrando una forza che, in termini di delegati, non ha. E il
calendario non aiuta: il mese davanti ha voti radi, specie per i repubblicani,
e in Stati non determinanti, così che è probabile che i rapporti di forza
resteranno sostanzialmente inalterati, fino alle primarie di New York, il 19
aprile.
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