Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/03/2016
La stragrande maggioranza dei cittadini americani
pensa che il presidente Barack Obama abbia tutto il diritto di designare un
nuovo giudice alla Corte Suprema, dopo l’improvvisa scomparsa a febbraio di
Antonin Scalia, un italo-americano, iper-conservatore. E una maggioranza di
americani condivide la scelta di Merrick Garland, persona integra e profilo bipartisan,
un nome d’esperienza e garanzia.
Ma i repubblicani, che sono maggioranza sia al Senato
che alla Camera, non la pensano così: e si preparano a cercare di sabotare, o
almeno frenare, la ratifica della nomina, continuando nell’azione di disturbo
al presidente che ha una valenza pure elettorale – l’embargo a Cuba, le
sanzioni all’Iran, la riforma dell’immigrazione, la piena attuazione della
riforma sanitaria sono altri fronti aperti -.
In realtà, il fronte del no a Garland, o meglio
dell’inazione – la prima scelta repubblicana – è già incrinato: ci sono stati
contatti con il giudice designato e almeno due senatori repubblicani sono ora pronti
a votarlo. Ma il capo della maggioranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell
non intende avviare la procedura di ratifica. C’è l’impressione che i leader
conservatori vogliano fare della nomina merce di scambio con l’Amministrazione
democratica e, magari, trarne pure vantaggio nella campagna, se non altro
impedendo a Obama di battersi a fondo per il campione democratico, quando sarà
stato scelto.
La Corte Suprema, che è composta di nove membri,
nominati a vita, conta attualmente quattro giudici designati da presidente
repubblicani e quattro da presidenti democratici. L’equilibrio, però, è solo
apparente, perché Anthony Kennedy, il decano del consesso, indicato da Reagan
nel 1988, ha progressivamente assunto posizioni più liberali e, nella Corte con
Scalia, costituiva spesso l’ago della bilancia.
Gruppi di pressione si sono già formati, specie fra i
conservatori, ma anche fra i ‘liberal’. Dietro, ci sono sempre grossi interessi
finanziari e spesso guru della politica, manager, strateghi di campagne come
Matt Rhoades, un uomo di Mitt Romney, o l’ancora potente Karl Rove, che fu braccio
destro alla Casa Bianca di George W. Bush.
La grana, del tutto imprevista, della Corte Suprema
turba la politica americana, mentre le primarie per le nomination democratica e
repubblicana sono nel pieno. Fra i repubblicani, Donald Trump è nettamente
avanti, ma il partito non si rassegna all’idea d’averlo come candidato e cerca
alternative, senza per ora trovarle. Fra i democratici, la battistrada Hillary
Clinton, che ha l’appoggio dell’apparato, è reduce da una batosta: ha perso 3 a
0 nei Western Caucuses – Alaska, Hawaii, Stato di Washington. Il suo rivale
Bernie Sanders s’è così rifatto del cappotto di metà marzo, uno 0 a 5 tra
Florida, Illinois, Missouri, North Carolina, Ohio.
Nonostante i risultati nettissimi –Sanders oltre il
70%, la Clinton sotto il 30%-, le ultime assemblee non modificano i rapporti di
forza tra la battistrada e il rivale, anche perché i delegati in palio erano
meno di 150. Ma il senatore del Vermont intacca il vantaggio dell’ex first lady
e, soprattutto, ne mette in ulteriore risalto alcune debolezze, come la scarsa
presa fra i giovani e là dove l’elettorato presenta meno diversità etnica. La
Clinton, inoltre, patisce la formula dei caucuses, congeniale, invece, a
Sanders.
Nessun commento:
Posta un commento