Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 03/03/2016 e poi ripreso da www.GpNewsUsa2016.eu
Adesso che Donald Trump e Hillary Clinton sono (quasi)
certi di ottenere le rispettive nomination alla Casa Bianca, sembra giunto il
momento di esplorare i programmi di quelli che possono davvero diventare il
prossimo presidente degli Stati Uniti, la persona più potente al Mondo nel
quadriennio 2017-2021. Anche se nulla è ancora scritto né fatto: fra i
democratici e i repubblicani, le partite stanno sul 3 a 0 e siamo a mezz'ora
dalla fine, ma - si sa -, nel calcio e pure nel football americano, le sorprese
sono sempre possibili.
Adesso, più che gli avversari, Donald deve temere il
coniglio che potrebbe saltare fuori dal cilindro dei notabili del partito, che
proprio non lo vogliono come candidato, perché non li rappresenta e perché –
dicono – farebbe loro perdere le elezioni (ma l’ipotetica mossa Mitt Romney non
sembra avere una forza dirompente). E Hillary deve schivare lo scheletro che
potrebbe caderle addosso aprendo uno dei suoi armadi ben forniti, senza
sottostimare l’effetto dell’ ‘emailgate’, lo scandalo dell’uso dell’account di
posta privato quand’era segretario di Stato – c’è un’inchiesta dell’Fbi -.
Nel Super Martedì delle primarie 2016, i repubblicani
votavano in 13 Stati, i democratici in 11, oltre che nel territorio delle Isole
Samoa (e all’estero, anche in Italia): i delegati in palio erano
rispettivamente 595, quasi la metà dei 1.237 necessari per garantirsi la nomination,
e 865, ben oltre un terzo dei 2.382 necessari.
La Clinton s’è imposta in Alabama, Arkansas (lo Stato
dove iniziò la saga politica familiare), Georgia, Massachusetts (il primo
successo nel New England ‘liberal’, dove il suo antagonista Bernie Sanders è
più forte), Tennessee, Texas, Virginia, oltre che nel territorio delle isole
Samoa. Trump ha vinto in Alabama, Arkansas, Georgia, Massachusetts, Tennessee,
Vermont e Virginia.
Ai loro rivali, restano le briciole. Fra i democratici,
il senatore Sanders conquista il suo Vermont e pure Oklahoma, Minnesota e
Colorado: tutti Stati dove la popolazione è prevalentemente bianca. Fra i repubblicani,
il senatore Ted Cruz vince nel suo Texas – il terzo Stato dell’Unione – e nell’Oklahoma
lì vicino, oltre che in Alaska – segno che Sarah Palin, che appoggia Trump,
conta ormai poco-, mentre il senatore Marco Rubio vince finalmente in uno Stato,
il Minnesota. Troppo poco perché le loro speranze appaiano fondate. Gli altri
due aspiranti conservatori, Ben Carson, guru nero, e John Kasich, governatore
dell’Ohio, non lasciano quasi traccia.
I discorsi della vittoria sono stati pronunciati a Miami,
perché entrambe le campagne sono già proiettate sulla prossima tappa, il 15
marzo, quando si voterà in Florida e in Ohio, due stati cruciali in chiave
Election Day, dove vige la regola che il primo prende tutto.
La Clinton e Trump compiono entrambi virate al centro.
Hillary, che ha un po’ deviato l’alveo della campagna per sottrarre spazio a
sinistra a Sanders il ‘socialista’, si riposiziona al centro nel segno della
continuità con Barack Obama, che è ciò che la maggioranza degli elettori
democratici le domanda.
Il sito dell’ex first lady, Hillary for America,
contiene le risposte a molte più delle domande che vorreste farle: ci sono 112
(e oltre) ragioni per votarla, ci sono i risultati maggiori da lei conseguiti
nella sua attività pubblica (“ed è solo l’inizio”), ci sono soprattutto in
bella evidenza il piano economico per la classe media (alzare i redditi dei lavoratori)
e il piano per la giustizia razziale, che va incontro ai desideri di equità dei
neri e dei ‘latinos’, le due ‘costituencies’ che sono suoi serbatoi di voti e
di consenso.
Trump lascia intravvedere una svolta moderata (“Sono
un unificatore, aumento il bacino di voti repubblicano”) perché, come candidato
presidente, avrà bisogno di persuadere elettori di centro e indipendenti. Ma il
suo slogan aggressivo ‘Make America Great Again’ è il suo programma: sul suo
sito, le priorità sono meno strutturate di quelle della Clinton e le singole
posizioni meno dettagliate. Al primo posto ci sono le relazioni commerciali
Usa-Cina; seguono misure per i veterani, il taglio delle tasse, la riforma
dell’immigrazione (a furia di muri), la conferma del diritto al possesso delle
armi, la limitazione del diritto d’ingresso dei musulmani negli Usa.
Diversissime, nei toni e nelle parole, le politiche estere: muscolare e ‘putiniana’ quella di Trump, diplomatica e ‘obamiana’ quella di Hillary. Che, però, non è tipo da porgere l’altra guancia. E, in questo, assomiglia a Donald.
Diversissime, nei toni e nelle parole, le politiche estere: muscolare e ‘putiniana’ quella di Trump, diplomatica e ‘obamiana’ quella di Hillary. Che, però, non è tipo da porgere l’altra guancia. E, in questo, assomiglia a Donald.
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