L’America è sempre l’America: accennatelo sul ritornello di ‘Domenica è sempre Domenica’ sigla di successo del Musichiere, Mario Riva, Paolo Bacilieri e Lucia Bongiovanni, un’Italia in bianco e nero che non c’è più. O che c’è ancora: negli anni fedele all’alleanza con gli Stati Uniti e sempre tentennante tra il fare - quel che vuole Washington - e l’ammetterlo. E così mentre il premier Renzi e i suoi ministri s’arrampicano sugli specchi, senza bisogno, per i droni al decollo da Sigonella verso la Libia, a fare la guerra al Califfo, scoppiano altre due grane sull’asse del Grande Alleato.
Proprio perché ’l’America è sempre l’America, che il
presidente sia Eisenhower o Clinton o Bush II o Obama: attenta a tutelare i
propri cittadini e a chiedere agli alleati il rispetto delle proprie regole,
anche quando sono discutibili. Per il sequestro Abou Omar, noi abbiamo graziato
gli agenti Cia responsabili di quella ‘extraordinary rendition’, ma la Corte di
Strasburgo ci condanna ora a pagare i danni per avere violato il diritto dell’imam
a non essere torturato. E, in un rigurgito di Wikileaks, si apprende che la Nsa,
la National security agency spiava l’allora premier Berlusconi poco prima della
sostituzione al governo nel novembre 2012, con la Merkel e Hollande che lo
avvertivano “o fai qualcosa o l’Italia salta come un tappo di champagne”. Saltò
lui, che adesso grida al complotto.
Il fatto è che, se l’America vuole qualcosa dall’Italia, la
ottiene; e se l’America vuole fare qualcosa, in genere la fa. Valgono pure i
precedenti dei giudizi sulla tragedia del Cermis o sull’uccisione di Calipari a
Baghdad. Chi ci sia alla Casa Bianca cambia poco: anche Obama, presidente del
dialogo che esita a ricorrere alla forza, tutela gli interessi americani ed i
suoi uomini, pure quando, come gli agenti della Cia nel caso Abou Omar, hanno
agito violando principi da lui affermati, ma osservando le leggi federali.
Adesso che sta per concludere il proprio mandato, Obama annuncia che chiuderà
il carcere di Guantanamo – una promessa del 2008 -, ma per convincere il
Congresso usa l’argomento del bilancio – “Costa troppo” -, non quello della
giustizia, anche se ammette che quella prigione “appanna l’immagine
dell’America”.
Sui droni in Libia, dopo le rivelazioni del Wall Street
Journal, noi italiani, che sbanderiamo all’Onu e altrove la volontà di
“assumere la leadership di una missione internazionale”, prima diciamo che
possono decollare da Sigonella solo per missioni difensive, poi Renzi afferma
che il via libera viene dato caso per caso, la Pinotti sostiene che non sono
mai partiti e Gentiloni assicura che il loro uso non è preludio a un intervento
militare. Una cacofonia di voci che non fa chiarezza, mentre il governo viene
sollecitato dalle opposizioni a riferire in Parlamento.
Renzi, che vede “segnali di speranza” per la Siria, dove
venerdì dovrebbe scattare la tregua, dice che la Libia sta vivendo “ore
decisive”. Ma, a Tobruk, il Parlamento rinvia ancora una volta il voto sul governo
d’unità nazionale del premier designato al-Sarray: manca il numero legale, se
ne riparlerà la prossima settimana. L’esecutivo posticcio perde i pezzi prima
d’insediarsi: un ministro, el Amary, si dimette per il via libera dato alle
operazioni a Bengasi, ufficialmente condotte contro miliziani jihadisti. “Non
sto in un governo – dice – che legalizza i bombardamenti di civili, è fiero di
uccisioni e si rallegra della demolizione d’abitazioni”. Il premier ‘in
pectore’ al Sarray va al Cairo, mentre, alla Sirte, gli integralisti manifestano
la loro presenza lapidando tre libici accusati d’apostasia: non c’è un drone a
fermarli, da dovunque venga.
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