Galleggia su un mare di petrolio la speranza di pace
in Siria: alleati diffidenti contro il Califfo, divisi sulla sorte del regime
di Assad, Russia ed Arabia saudita trovano l’intesa, se non proprio l’amicizia,
quando si parla d’affari. Di fronte al calo dei prezzi e all’incerta situazione
economica internazionale, i due maggiori produttori mondiali concordano di
congelare la produzione ai livelli di gennaio “per stabilizzare i mercati”, spiega
il ministro del Qatar Mohammed Saleh al-Sada, che partecipa con i colleghi
saudita, russo e venezuelano a un incontro a quattro a Doha.
Il patto vale solo se gli altri grandi produttori
mondiali lo faranno proprio. Gli operatori restano diffidenti: l’oro nero
risale sopra i 34 dollari al barile, ma scende in serata sotto i 30 a New York.
L’Iran spiega che vuole mantenere la propria quota del mercato petrolifero, ma
lascia aperti “spazi per discutere” un tetto alla produzione. Superate le
sanzioni, Teheran vive un delirio d’affari: consegna in Europa quattro milioni
di barili – i primi, da tre anni in qua –; riapre la via della Seta con la Cina;
e s’appresta ad acquistare armi alla Russia per 8 miliardi di dollari.
Ciò che Assad divide, il petrolio, e gli affari,
uniscono; ma la tensione tra Ankara e Mosca non si sopisce. L'Onu intende oggi
portare aiuti umanitari alle città siriane assediate: l’annuncia l'inviato Staffan
De Mistura dopo un incontro a Damasco col ministro degli Esteri siriano Walid
al Mualem. "E' dovere del governo siriano raggiungere ogni cittadino, ovunque
si trovi, e consentirci di portare aiuti umanitari, specie dopo tutto questo
tempo", è la tesi del diplomatico italo/svedese.
La polemica sui sanguinosi bombardamenti, lunedì, di
scuole e ospedali, di cui nessuno s’è assunto la responsabilità, resta viva,
mentre un passo indietro turco allontana la possibilità di un’operazione di
terra congiunta turco-saudita in territorio siriano – per Damasco, una vera e
propria invasione -.
In un gioco di scaricabarile, l’opposizione siriana e
la Turchia accusano la Russia; Mosca rileva come alcune delle aree colpite
siano sotto tiro delle artiglierie turche, che martellano Azaz per il quarto
giorno consecutivo; la Siria chiama in causa gli Stati Uniti, che ammettono di
avere fatto raid, ma altrove, su Raqqa e in Iraq. Nel bailamme, i curdi, che i
turchi giudicano “non affidabili”, continuano a combattere gli jihadisti:
conquistano una roccaforte del Califfo a 30 km da Aleppo, mentre i lealisti
riprendono la centrale elettrica della seconda città del Paese. Il Cremlino
dichiara d’avere colpito a tutt’oggi 1593 obiettivi ‘terroristi’, afferma che
il regime ha ripreso 800 kmq, mentre 500 miliziani sarebbero entrati in Siria
dalla Turchia per combattere i curdi.
Intanto, Ankara, dopo avere minacciato l’invio di truppe
in Siria, insieme all’Arabia saudita, frena: ciò avverrà solo "al fianco
dei nostri alleati": o i partner della coalizione, Usa compresi,
partecipano all’attacco di terra, essenziale -secondo Ankara- per porre fine al
conflitto; oppure, non se ne farà nulla. In sostanza, vuol dire che il progetto
resta congelato.
De Mistura, a Damasco, cerca d’ottenere l'impegno siriano
al rispetto del cessate-il-fuoco concordato da Usa e Russia; e mantiene
l'obiettivo di riunire di nuovo il 25 febbraio, se non prima, a Ginevra le
parti, per riprendere il negoziato sulla transizione cominciato alla fine di
gennaio. Secondo fonti governative, Damasco è "prontissima" a tornare
alla trattativa "senza precondizioni, per rimanere lì tutto il tempo
necessario".
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