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lunedì 30 settembre 2013

Italia/Ue: coesione, Fondi da spendere, non miliardi a perdere

Scritto per il Corriere del Mezzogiorno del 30/09/2013

Siamo 25imi. Uno chiede: “Su quanti?”. Su 27, perché la Croazia, appena entrata, è fuori concorso. Dietro di noi, abbiamo solo Bulgaria e Romania, nella classifica della capacità d’utilizzo dei fondi di coesione dell’Unione europea, soldi che devono contribuire allo sviluppo delle aree più arretrate o ad attenuare situazioni di disagio sociale. L’inefficienza dell’Italia non è una novità: negli Anni 80 e 90, arrancavamo dietro Grecia, Portogallo e Spagna, altri grandi beneficiari dei fondi Ue regionale e sociale; poi, dopo l’allargamento a Est, le somme a noi destinate si sono ridotte e non è migliorata la nostra capacità di usufruirne bene e tempestivamente.

Quella classifica era un cruccio per Fabrizio Barca, ministro per la Coesione territoriale fino all’inverno scorso, che, in 15 mesi, aveva tentato “un cambio di grammatica istituzionale”, aprendo su internet il portale Open Coesione, dov’era possibile verificare l’utilizzo locale dei fondi europei. Un balzo in avanti in termini di trasparenza, che ha dato risultati in termini di efficienza.

Ci vogliono programmi, progetti, impegni di spesa tempestivi, messe in pratica pronte. Per discutere come farlo nel modo migliore, EurActiv.it, portale d’informazione europea, organizza, il 4 ottobre, venerdì, a Roma, un convegno cui saranno presenti i vice-presidenti della Commissione e del Parlamento europei Antonio Tajani e Gianni Pittella, l’ex ministro Barca, il presidente della Regione Abruzzo Giovanni Chiodi e numerosi altri.

I dati più aggiornati del Ministero della Coesione territoriale, validati dalla Ragioneria generale dello Stato, dicono che la spesa certificata a Bruxelles per l’attuazione dei programmi finanziati dai fondi comunitari 2007-2013 ha raggiunto il 40% della dotazione totale, superando, quindi, l’obiettivo nazionale del 38,8%. L’Italia ha speso 10,8 miliardi di euro: 7,4 del Fondo regionale e 3,4 del Fondo sociale, senza calcolare il cofinanziamento nazionale.

Fare ancora meglio non è impossibile, anche se sarà difficile battere i ‘campioni’ dell’Est dell’Ue, Polonia, Paesi Baltici, Slovenia, anche Slovacchia. L’utilizzo inadeguato dei fondi disponibili è una delle tare che frenano la ripresa nell’Ue e non è fenomeno solo italiano: quando il Vertice europeo lanciò – giugno 2013 - il Patto per la Crescita, mettendo sul tavolo 120 miliardi di euro circa d’investimenti, i tre quarti di essi erano soldi già stanziati ma non ancora utilizzati dai governi e che rischiavano d’andare perduti (e circa 9 miliardi, la somma maggiore per un singolo Paese, erano nostri).

Per il ministro degli Affari europei, Enzo Moavero Milanesi, “l'Europa metterà a disposizione dell’Italia circa 45 miliardi da qui al 2020”: 16 circa quelli che resteranno da spendere a fine anno, cui se ne aggiungono una trentina a valere sul periodo 2014-2020.

Di qui a dicembre, servirà però un’accelerazione per non perdere risorse. Il prossimo obiettivo prevede di arrivare al 31 dicembre avendo utilizzato il 46% dei fondi. Che, in termini concreti, significa raggiungere i 12,8 miliardi di investimenti, due in più rispetto all'ultimo rilevamento. Circa 500 milioni devono essere spesi dal Fondo sociale, mentre lo sforzo più grande viene chiesto alle regioni, che devono impegnare un tesoretto di quasi 1,5 miliardi complessivi. C’è un rischio, purtroppo concreto, di perdere delle opportunità, perché quanto non risulta effettivamente speso e certificato alla Commissione entro il 31 dicembre viene automaticamente disimpegnato.

Spulciando i bilanci del Ministero per analizzare i risultati raggiunti finora, emergono situazioni regionali decisamente preoccupanti: Sicilia e Puglia devono ancora riuscire a investire oltre 200 milioni di euro, la Calabria quasi 125, il Lazio un centinaio. Tutti quei soldi sembrano una manna, possono diventare una maledizione, se li perdi.

Il problema non riguarda solo le regioni, ma anche vari fondi gestiti a livello centrale. Il programma operativo nazionale ricerca e competitività, ad esempio, negli ultimi nove mesi è avanzato a passi lentissimi. E, per raggiungere gli obiettivi fissati dalla Commissione, entro fine anno dovrà passare da 1,3 miliardi di euro a quasi 1,8 miliardi. Il programma attrattori culturali, tra quelli messi peggio con appena il 23% della spesa certificata, dovrà quasi raddoppiare i suoi impieghi, passando da 120 milioni di euro fino a 222 milioni.

Ancora più impegnativa la situazione che dovremo affrontare dall’anno prossimo. Entro il 2015, infatti, bisognerà arrivare a spendere 27,9 miliardi complessivi: 6,9 dal Fondo sociale europeo e circa 21 dal Fondo di sviluppo regionale. Cui vanno aggiunti 21,5 miliardi di cofinanziamento con fondi nazionali. Nel giro di due anni, esiste il rischio concreto di bruciare una somma che si aggira, secondo le proiezioni del Ministero, tra i 5 e i 10 miliardi di euro di fondi europei. Senza contare che, intanto, bisognerà affrontare la programmazione del 2014-2020: il convegno di EurActiv.it, venerdì, mira proprio a meglio attrezzarci per riuscirci.

domenica 29 settembre 2013

Visti dagli Altri: El Pais, la crisi e il secondo fiasco di Napolitano

Scritto per il blog de Il Fatto il 29/09/2013

Abbiamo fatto la prima pagina dei siti di mezzo mondo, almeno quelli di cui sono in grado di capire quel che scrivono. “Silvio Berlusconi fa ripiombare l’Italia nella crisi politica”, titola Le Monde; ed è una sintesi largamente condivisa, dal WSJ all’FT, dalla stampa spagnola a quella tedesca. Il NYT scrive che lo “showdown” italiano potrebbe “scuotere la stabilità politica” in tutta l’Unione, rimettendo in forse la tenuta dell’euro – e sarebbe un guaio, non solo per noi –.

Da un media estero all’altro, il racconto della crisi è analogo: “Il Cavaliere – prendiamo la versione del Figaro- rischia di essere escluso dal Senato dopo la condanna per frode fiscale e, in una corsa contro il tempo, fa esplodere il governo di coalizione con le dimissioni di 5 ministri del suo partito”. E il Pd, prosegue il giornale, reagisce con vigore in un quadro politico “fortemente degradato”:

Sullo sfondo di questo panorama sostanzialmente uniforme, colpisce l’analisi di El Pais. Resta fermo che il “colpo di grazia”  al governo è stato inferto dal Cavaliere, e che Enrico Letta è stato messo in crisi dall’ “alleato rivale”. Ma il quotidiano spagnolo chiama in causa senza giri di parole il presidente della Repubblica. Per El Pais, questo è “il secondo fiasco” di Giorgio Napolitano, che si confronta di nuovo con il boicottaggio di Berlusconi, com’era già successo per il governo tecnico di Mario Monti.

“Tutto questo disastro –scrive il giornale- incomincia il 22 aprile”, proprio il giorno della rielezione di Napolitano, sulle macerie del Pd di Bersani, uscito sconfitto e dilaniato dalle presidenziali molto più nettamente di quanto non lo fosse stato alle politiche. Letta – nota El Pais - è il secondo premier insediato al governo dal presidente, “che fallisce nel tentativo di costruire un Paese moderno e affidabile”. “Lo scoglio, sempre lo stesso”, è certamente Berlusconi. Ma le tattiche del Quirinale non riescono ad evitare che la nave Italia vi si schianti contro.

I media esteri vedono le istituzioni impegnate in “ una corsa contro il tempo” e pochi si azzardano ad anticipare come andrà a finire, perché –ormai l’hanno capito- la sorpresa, qui da noi, è sempre dietro l’angolo. Anche se i jolly del mazzo sembrano esauriti e gli assi a questo punto bisogna averli nella manica.

Iran: la molla delle sanzioni fa scattare la telefonata Rohani-Obama

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/09/2013

Una (storica) telefonata con il presidente Usa Obama, dopo la (storica) stretta di mano tra i ministri degli esteri Kerry e Zarif, può ben valere un lancio di scarpe in segno di sprezzo al ritorno a casa: forse, il presidente iraniano Rohani l’aveva pure messo in conto. La sua missione a New York, all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, fa ripartire il dialogo tra Usa e Iran e anche il negoziato sul nucleare, ma suscita inquietudini fra i conservatori. Eppure, ad avere fretta, paiono soprattutto gli iraniani: vogliono attuare l’intesa entro un anno, dicono. Cerchiamo di capire perché.

Le aperture iraniane hanno pure facilitato l’accordo nel Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione, adottata all'unanimità, per lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano. E con il coinvolgimento di Teheran ha più consistenza la prospettiva d’una nuova conferenza di pace per la Siria, Ginevra2. Sui gas da distruggere, c’è una roadmap che il regime di Damasco deve rispettare; però, il ricorso alla forza da parte della comunità internazionale, in caso di inadempienze, non è automatico.

Il ritorno dell’Iran ai tavoli che contano e i passi verso un superamento del conflitto siriano sono fiori all'occhiello della diplomazia internazionale, a margine dell’annuale kermesse di leader e incontri al Palazzo di Vetro. Ma non tutti in patria prendono bene la morbidezza di Rohani con gli Usa e pure con Israele: all'aeroporto, un centinaio di contestatori gli lancia scarpe contro l’auto, prende a calci una guardia del corpo e intralcia il percorso del corteo presidenziale, improvvisando una preghiera in strada e gridando “mote all'America, morte a Israele”.

Sul piano politico, la commissione parlamentare per la politica estera e la sicurezza nazionale invita il ministro Zarif a presentarsi martedì al Majlis, il Parlamento, per spiegare perché Rohani abbia avuto una conversazione telefonica con Obama.  Zarif dovrà anche motivare i suoi colloqui con Kerry e con il britannico Hague e illustrare, in dettaglio, le posizioni espresse a New York.

Dunque, non tutti in Iran sono contenti. La stampa, però, accoglie con favore la fine del gelo con gli Usa, che definisce “un vecchio tabù”. E ai contestatori dell’aeroporto si contrappongono centinaia di giovani che scandiscono “Grazie, Rohani”. Del resto, la sua elezione, in giugno, pareva preludere –con la benedizione della guida suprema Khamenei- a un allentamento delle tensioni con Washington e l’Occidente, anche se il Congresso americano, non casualmente, aveva fatto coincidere con il suo insediamento un inasprimento delle sanzioni contro l’Iran.

Spesso trascurate nei loro effetti, proprio le sanzioni possono essere una molla del cambio d’atteggiamento dell’Iran, al di là del gioco delle parti tra moderati e conservatori. Le misure dell’Onu, dell’Ue, soprattutto degli Usa mettono da tempo alla prova l’economia e le finanze iraniane e innescano contraccolpi sociali, ma avrebbero ora intaccato gli interessi dei pasdaran, guardiani della rivoluzione sì, però attenti al loro tornaconto. Di qui la voglia e la fretta d’uscirne.


Rispetto a Rohani, Obama ha meno problemi. "Storica" è l'aggettivo più comune sulla stampa Usa per la loro telefonata. E i commenti sono un mix d’ottimismo e di cautela: tutti concordano che parole e strette di mano devono ora essere seguite dal fatti. “I leader dei due Paesi – nota il WSJ - si sono parlati direttamente per la prima volta dal 1979": "L'avvio dei colloqui mostra quanto l'Iran voglia un allentamento delle sanzioni economiche". E il NYT riconosce, in un editoriale, la tempra di leader dei due presidenti, anche se non è chiaro chi dei due abbia alzato la cornetta per primo.

sabato 28 settembre 2013

Presidenza italiana Ue: sondaggio per individuare priorità

Scritto per EurActiv il 27/09/2013, su materiale del Cime

Un sondaggio per tastare il polso dell’Italia che guarda all’Europa, verso il semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dei Ministri dell’Ue, dal 1.o giugno al 31 dicembre 2014.

Lo lancia il Comitato italiano del Movimento europeo, Cime, che ha già organizzato, sotto il titolo di “Officina 2014, l’Italia in Europa”, una serie di seminari specifici, uno per ciascuna formazione del Consiglio dei Ministri dell’Ue (Affari generali, Ecofin, Competitività, Agricoltura e Pesca, Interni e Giustizia, etc.). Obiettivo: delineare il quadro delle proposte prevedibilmente all’attenzione del Consiglio al 1.o luglio 2014 e individuare le priorità e le possibili iniziative italiane.

Il sondaggio, il primo di questo tipo realizzato in Italia, è stato invece progettato per valutare e analizzare il coinvolgimento dei portatori di interessi con sede in Italia nella dimensione europea della governance ed in particolare per approfondire le aspettative rispetto al semestre di presidenza di turno italiana.

Il questionario, piuttosto corposo, è composto da due parti. La prima, più generale, mira a verificare il livello di partecipazione dei diversi soggetti alle politiche europee. La seconda, automaticamente inviata a coloro che risponderanno alla prima, sarà calibrata in funzione dei settori per i quali è stato espresso un interesse particolare. In essa viene pure data l’opportunità di scegliere dossier strategici e di formulare proposte al governo italiano che ne potrà così tenere conto per l’identificazione delle priorità da perseguire durante il semestre di presidenza.

Il Cime precisa che il target di riferimento prioritario del sondaggio sono le associazioni o gli enti con più di 3.000 iscritti/soci, le organizzazioni di 2°/3°livello, le imprese con più di 250 dipendenti, nonché gli enti di ricerca.

Il questionario, di cui EurActiv.it è media partner, sarà distribuito a margine dell’evento organizzato da EurActiv.it il 4 ottobre a Roma, ‘Fondi Ue 2014-20’20: I programmi per crescere e per contare in Europa’, presenti, fra gli altri, i vice-presidenti della Commissione e del Parlamento europei Antonio Tajani e Gianni Pittella, l’ex ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca, il governatore dell’Abruzzo Giovanni Chiodi –Scuderie di Palazzo Altieri, via di Santo Stefano del Cacco 1, ore 09.00/13.00- .

venerdì 27 settembre 2013

Visti da Lontano: Mr B fa crollare il castello di carte di Letta l’Americano

Scritto per il blog de Il Fatto il 27/09/2013

Con tempismo sospetto, Silvio Berlusconi ha fatto crollare il castello di carte di Letta l’Americano: il premier aveva appena finito di suonare la campanella dell’avvio di seduta alla borsa di Wall Street e di raccontare, agli investitori americani e dal podio dell’Onu, un’Italia “stabile” e destinata a crescere per i prossimi 12 mesi che ha dovuto precipitarsi a Roma per rimettere insieme i cocci della coalizione e cercare di salvare capra e cavoli, cioè il posto e il governo.

Della sortita americana, già segnata dalle ‘bombe a frammentazione’ di Telecom e Alitalia, a Letta resta solo il ‘satisfecit’ di Marchionne, dopo una cena a quattro –c’erano pure l’ambasciatore d’Italia a Washington Claudio Bisogniero e la ad di Ibm Ginni Rometty-, a le Cirque, un ristorante di Manhattan dietro Saint Patrick che piace tanto agli italiani che contano nella Grande Mela. “E’ una persona forte –dice Mr Fiat del premier-, spero che continui”.

Il ritorno a casa di Letta con un diavolo per capello –ma l’espressione gli s’addice poco- suscita ironie e giochi di parole sulla stampa internazionale. Un attimo dopo aver assicurato agli investitori di Wall Street che l'Italia è "giovane, virtuosa e credibile", commenta il Financial Times con britannico sarcasmo, il premier deve correre a Roma, dove i pretoriani di Mr B, che resta “il maestro burattinaio” di quest’Italia –la definizione è di The Economist-, minacciano dimissioni di massa dal Parlamento se la Giunta del Senato votasse la decadenza del Cavaliere.

Nonostante la pesantissima concorrenza nella settimana dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, Letta, a New York, aveva ottenuto qualche attenzione. Il WSJ gli ha pure fatto una robusta intervista, dandogli spazio sul concetto che l’Europa deve spostare l’enfasi dalla crisi alla crescita. Ma il colpo di mano di Mr B trasforma la missione in boomerang, anche se, ironia a parte, le critiche per il brusco passaggio dalla calma di vento apparente alla burrasca vanno tutte a Berlusconi e ai suoi.

Ora, tutti s’interrogano, a cominciare dal WSJ, oltre che da Napolitano e Letta, se quella del Cavaliere sia una resa dei conti o un bluff, per tenere gli alleati di governo che sono avversari in politica  sulle spine e, magari, sottrarre a Letta un po’ delle luci della ribalta internazionale.

I media stranieri registrano le contraddizioni di Mr B e del Pdl e s’indignano –Der Spiegel-perché fa perdere all’Italia credibilità e non solo, con la borsa che scivola e lo spread che sale. Ma les Echos gli trova dei meriti, in ottica francese e socialista: “Berlusconi è il miglior alleato di Hollande”, scrive il quotidiano economico, perché –spiega- “i mercati preferiscono le riformette di Hollande all’immobilismo italiano”.

Con altre parole, esprime lo stesso concetto a Bruxelles un portavoce di Olli Rehn: Francia e Italia, entrambi sforano il tetto del 3% nel rapporto deficit /Pil, Parigi d’un botto (va oltre il 4%), Roma d’un soffio, ma Rehn benedice i francesi e i bacchetta gli Italiani. Ma com’è?, chiedono i giornalisti. “Le regole sono le stesse –risponde serafico il portavoce-, ma i Paesi sono diversi”. E dire che Hollande, a New York, non è neppure andato a suonare la campanella di Wall Street.

Iran: Rohani, la rondine che fa svolta, o remake

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/09/2013

Un nuovo capitolo nelle relazioni tra l’Iran e l’Occidente. Oppure, il remake d’un film già visto, quello del riformista alla presidenza, con un’incognita sul finale: cambierà?, o resterà lo stesso? Hassan Rohani, leader dell’Iran da neppure due mesi, è stato il principale protagonista delle fasi d’avvio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York. Lui impegnato a mandare messaggi d’apertura e di ottimismo; i suoi interlocutori attenti a non lasciarli cadere, ma anche decisi ad aspettare di vedere, come ha detto il presidente Usa Obama, “i fatti, dopo le parole”.

E, in realtà, Rohani s’è mosso su un doppio binario, adeguando il linguaggio al proprio pubblico: è stato fermo, sul fronte interno; accomodante, sulla scena internazionale. Anche per questo, è stato ricambiato con un mix di aperture di credito e di diffidenza.

Non è la prima volta che l’Iran uscito dalla rivoluzione khomeinista si dà una guida riformista: l’avvento al potere di Khatami nel ’97, votato da giovani e donne, coincise con una fase di fermento nel Paese. Khatami dovette però confrontarsi, nel secondo mandato, con il clima anti-islamico innescato dagli attentati dell’11 Settembre 2001 e con l’invasione dell’Iraq nel 2003.

Il contesto di scontro favorì, nel 2005, l’ascesa al potere del sindaco di Teheran Ahmadinejad, che riportò l’Iran agli anni di Khomeini e inasprì i rapporti con l’Occidente, specie sul programma nucleare iraniano –esclusivamente civile per Teheran, potenzialmente militare per Washington, e che Israele sente come una spina nel fianco-.

Rohani, ex negoziatore sul nucleare nelle trattative tra l’Iran e i ‘5 – 1’ –i Paesi dell’Onu con diritto di veto più la Germania-, ha messo paletti ben precisi, prima di partire da Teheran per New York: ha chiesto che sia riconosciuto il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio per alimentare le centrali, mentre le forze armate facevano sfilare in parata 30 missili balistici, il numero più alto mai sciorinato in pubblico; e ha additato in Israele la vera minaccia chimica e nucleare della regione, mentre, in Siria, la guerra –ha detto- “deve essere spenta da politica e dialogo”.

Arrivato a New York, il presidente iraniano ha però cambiato registro: l’Iran non è una minaccia per il Mondo e i suoi programmi nucleari sono pacifici -l’accordo si può fare in tre mesi, il pianeta può essere denuclearizzato in 5 anni-; è pronto al dialogo e ad un’ “intesa quadro” con gli Usa; vuole costruire una “coalizione per la pace” e partecipare a una conferenza per la Siria, la Ginevra2; riconosce le violenze del nazismo contro gli ebrei.

L’incontro con Obama, mai previsto, non c’è stato, ma Rohani ha avuto faccia a faccia col francese Hollande, l’italiano Letta e molti altri. A parte Israele, che giudica “cinico” il suo discorso, dove cita un passo del Corano che riprende la Torah, le critiche sono state caute, ma positive: Obama s’è detto “incoraggiato”.


Ma la storia raccontata agli iraniani è tutta diversa: una frase alla Cnn di condanna dell’Olocausto viene corretta dall’agenzia ufficiale;  e la missione del presidente all’Onu è l’occasione per “fare chinare la testa” agli Usa. Il vecchio Khatami, però, lo incalza: libera i detenuti politici, fai respirare agli iraniani una boccata di libertà.

giovedì 26 settembre 2013

Onu: Siria, Iran, Obama, pure Letta, è la 'fiera delle vanità'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/09/2013
E’ forse l’unica settimana di tutto l’anno in cui New York si accorge di ospitare le Nazioni Unite, fuori dai ristretti confini del quartiere onusiano, di fronte al Palazzo di Vetro, sulla First Avenue, più o meno tra la 40.a e la 50.a Street, là dove corre Dustin Hoffman ne ‘Il Maratoneta’: l’apertura dell’Assemblea generale attira migliaia di leader, ministri, diplomatici da tutto il mondo e coincide con una ridda di consultazioni regionali e bilaterali. Quest’anno, le misure di sicurezza, sempre eccezionali dopo l’11 Settembre 2001, hanno subito un giro di vite supplementare: il terrorismo vive sussulti cruenti dal Libano al Corno d’Africa e tra Iraq, Afghanistan e Pakistan, senza contare la strage della Navy Yard a Washington la settimana scorsa.
I critici dell’Onu contestano i costi di questa ‘fiera delle vanità’ diplomatiche, i cui risultati tangibili sono quasi sempre modesti. In realtà, i costi sono distribuiti fra le singole delegazioni nazionali – ciascuna si fa carico delle proprie missioni -; e le spese della sicurezza sono un onere tutto Usa. Sulle Nazioni Unite, l’Assemblea generale pesa relativamente poco.
Per la 68esima edizione, apertasi martedì, sul podio si succedono 131 capi di Stato e di governo e 60 ministri degli Esteri dei 193 Paesi Onu. Con tanta bella gente importante in giro, farsi notare è difficile: bisogna parlare il primo giorno e meglio se fra i primi – il presidente Usa Obama ha preso la parola subito dopo la brasiliana Roussef, cui la tradizione affida il discorso d’apertura -; oppure, per ultimi – martedì prossimo, a chiudere la trafila saranno Santa Sede, Corea del Nord e Israele -. Oppure, fai come il presidente sudanese Bashir, colpito da mandato di cattura internazionale dopo essere stato condannato per crimini di guerra dalla Corte dell’Aja: prima, annunci il tuo arrivo, creando scompiglio – arrestarlo?, o no? -; poi rinunci, se l’aria che tira è brutta.
Il premier Letta, come molti leader Ue, ha parlato ieri – il presidente francese Hollande aveva avuto uno spot il primo giorno -. Ma le parole di Letta dal podio si sono un po’ perse nel vortice delle frasi del premier su Telecom e Alitalia e dei racconti di “un paese virtuoso”, dove la stabilità è “cruciale” e che ha di fronte “12 mesi di crescita” (difficile convincersi che parlasse dell’Italia).
Il segretario dell'Onu Ban mette in cima all'agenda della settimana la Siria: l'intesa tra Russia e Usa per una ‘roadmap’ sull'eliminazione delle armi chimiche siriane deve ora tradursi in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. E di Siria, in effetti, molto si parla: Obama sollecita un testo “forte” e afferma che il principio di rispetto della sovranità “non può fare scudo a tiranni e massacri”.

Ma la vera attrazione delle prime battute dell’Assemblea generale è stato il presidente iraniano Rohani, al debutto internazionale. Rohani ha distribuito, dal podio dell’Onu e nei bilaterali, dichiarazioni concilianti, sui programmi nucleari iraniani e su Israele. Obama gli risponde dicendosi “pronto al dialogo”, ma chiede che “Teheran faccia seguire i fatti alle parole” e, per il momento, evita d’incontrarlo. Un po’ di diffidenza talora non guasta: quando Rohani definisce l’Olocausto “un crimine riprovevole dei nazisti contro gli ebrei”, pare una svolta; ma ieri l’agenzia ufficiale iraniana corregge il tiro, mai pronunciate quelle parole, un errore di traduzione.

mercoledì 25 settembre 2013

Innovazione: l’Italia è il Chievo dell’Ue; anzi, no, il Milan

Scritto per gli Appunti di Media Duemila il 25/09/2013

L’Italia è il Chievo dell’innovazione europea. Anzi, a ben vedere è il Milan: non una provinciale che, se la trovi a metà classifica, dici ‘ah, però!, in gamba questi!’, che dovrebbero lottare per evitare la retrocessione; ma una grande che, quando la vedi nella colonna di destra della classifica, fai una smorfia e pensi ‘Come sono caduti in basso!’. Nell’indicatore d’innovazione della Commissione europea, appena creato, l'Italia è al 15° posto nella classifica che analizza le prestazioni dei 28 Paesi Ue.

Sul gradino più alto della classifica, c’è, senza troppe soprese, la Svezia. Seguono la Germania, l’Irlanda e, appena giù dal podio, il Lussemburgo. In coda, invece, troviamo la Lettonia, la Lituania e la Bulgaria: sarebbero le retrocesse, ma qui funziona come nella Nba, chi c’è resta anche se arriva ultimo. 

Piazzata lì a metà classifica, L’Italia è al di sotto della media Ue. “Se fossimo a scuola –scrive Alessandra Flora, che presenta l’indicatore d’innovazione su EurActiv.it-, saremmo a rischio bocciatura o, almeno, esami di riparazione”.

Il nuovo indicatore, a differenza di altri strumenti finora utilizzati dalla Commissione, calcola in che misura le idee provenienti da settori innovativi riescono a raggiungere il mercato e creano competitività e quindi posti di lavoro. Il che non è proprio quello che l'Italia oggi mostra di sapere fare meglio. 

Complementare al quadro di valutazione per l’innovazione e all’indice sintetico dell’innovazione elaborati a Bruxelles finora, il nuovo indicatore si concentra sui risultati dell’innovazione.  I Paesi che vi si distinguono hanno un’economia ad elevata intensità di ricerca, aziende innovative in rapida crescita, molti brevetti e un export competitivo.

Nel confronto con il resto del mondo, l’Ue nel suo insieme se la cava piuttosto bene, senza però eguagliare le economie più innovative che sono il Giappone e la Svizzera. L'Unione europea fa, comunque, match pari con gli Stati Uniti e fa meglio di Islanda, Norvegia e Turchia. 

Il nuovo indicatore si basa principalmente su quattro elementi:
  • innovazione tecnologica misurata in base al numero di brevetti;
  • occupazione in attività ad elevata intensità di conoscenza, in percentuale rispetto all’occupazione totale;
  • competitività di beni e servizi ad elevata intensità di conoscenza, basata sul peso sulla bilancia commerciale dei prodotti ad alta e media tecnologia e sulla quota rappresentata dall’esportazione di servizi ad alta intensità di conoscenza rispetto al totale dei servizi esportati;
  • occupazione nelle imprese in rapida crescita in settori innovativi.

lunedì 23 settembre 2013

Germania: elezioni; Merkel III, per Italia non è 'libera tutti'

Scritto per EurActiv il 23/09/2013

Per l’Unione europea, difficile immaginare un risultato migliore. E, infatti, nessuno a Bruxelles ci prova: vince, anzi stravince, Angela Merkel; non entrano nel Bundestag i liberali, alfieri del rigore, e neppure gli euro-scettici.

Bruxelles saluta Merkel III con fiducia e soddisfazione, anche se ciò può significare l’addio agli eurobond o almeno il congelamento del progetto (“con me, mai”, ha detto Angela la cancelliera).

C’è la certezza, corroborata da nuove dichiarazioni in tal senso, che la Merkel manterrà la linea sull'Europa per una maggiore competitività e la stabilizzazione dell’euro: "La politica europea è sempre stata nel nostro dna, la porteremo avanti con lo stesso spirito", ha assicurato la cancelliera, dopo una riunione di partito oggi a Berlino. Per lei, la vittoria della Cdu rappresenta "un forte voto degli elettori tedeschi per un'Europa unita".

L’Unione che fa della stabilità un totem vede nella Germania una sorta di modello di riferimento. Olli Rehn, il vice-presidente della Commissione europea, responsabile per gli affari economici e monetari, nota che “instabilità politica e difficoltà di fare le riforme sono rischiose per l'Europa", dove, "specie al Sud, esiste un collo di bottiglia, l'eccessiva rigidità delle politiche creditizie". Rehn prende spunto dalla Germania, ma pensa a Italia, Spagna, Grecia: il risultato delle politiche tedesche garantisce  "un livello di continuità molto forte nella politica della Germania e in Europa".

La stessa Merkel giudica “il risultato straordinario” del suo partito garanzia di governo stabile, anche se più di un commentatore fa notare che, quasi per assurdo, i negoziati per la formazione d’una coalizione potrebbero essere più laboriosi del previsto in questa situazione, perché i partner faticheranno a ritagliarsi un qualche spazio. Anche per questo nessuno fissa tempi per l’allestimento del nuovo governo.

Esultano per la vittoria della Merkel i popolari europei, Ma mostrano rispetto anche i socialisti. Ed il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz,  esponente di rilievo dell’Spd, sui congratula con la cancelliera: "I risultati delle elezioni in Germania sono un suo chiaro successo", commenta, sottolineando che l'Europa guarda con "grande interesse all'imminente formazione di un governo" di coalizione in Germania.

Probabilmente, nelle congratulazioni del presidente del Parlamento Schulz alla cancelliera tedesca, c’è un minimo calcolo personale: Schulz è candidato alla presidenza della Commissione europea per il 2014/’19 e ha bisogno della benevola condiscendenza, se non del sostegno, della Merkel. Ma ciò non gli impedisce di ricordare le principali sfide a livello europeo in cui la Germania dovrà giocare un ruolo cruciale: la lotta alla disoccupazione giovanile e la definizione di un programma d’investimenti per rilanciare la crescita, due temi vicini alla sensibilità socialdemocratica, ma non estranei a quella cristiano-sociale.

Del resto, anche un possibile antagonista popolare di Schulz alla presidenza della Commissione, Michel Barnier, è in prima linea nel congratularsi con Angela Merkel: “L’Europa –dice- ha bisogno della sua energia”.

Se per Mario Monti i risultati elettorali, con la Merkel al 41,5% e a sfiorare la maggioranza assoluta dei seggi, testimoniano che l’Europa alla Angela piace ai tedeschi, la reazione piatta di borse e mercati indica che la continuità a Berlino di sicuro non peggiora la situazione, ma neppure migliora le prospettive economiche a breve termine. E l’Italia, avverte Lorenzo Bini Smaghi, non ha certo d’attendersi sconti sugli impegni sottoscritti: Merkel III avrà, forse, meno l’ossessione del rigore rispetto a Merkel II, ma non c’è da sperare che giochi a ‘libera tutti’.

sabato 21 settembre 2013

Italia/Ue: la favola della ripresa versione 'al lupo, al lupo'

Scritto per EurActiv il 21/09/2013 e, in versione diversa, per il blog de Il Fatto il 22/09/2013

Pare la favola dell’ ‘al lupo, al lupo’. Ma al contrario. Qui c’è gente che grida ‘tutto bene, tutto bene’ e, intanto, il lupo continua a sbranarsi le pecore.

Governo, Confindustria, Istituzioni, Palazzi e poteri forti ci martellano da settimane con frasi tipo ‘si vede la luce in fondo al tunnel’, o ‘l’uscita dalla crisi è prossima’, o ‘la ripresa s’avvicina’. Tutte frasi di sconcertante apoditticità, perché ineluttabilmente la fine della crisi si avvicina ogni giorno che passa, indipendentemente da quando essa arriverà.

Poi, ecco le previsioni economiche di Fmi, Ue e dello stesso governo e i dati sono sempre negativi. Gli ultimi, di ieri, vengono dall’Fmi: l’Italia calerà dell’1,8% di Pil quest’anno, più del previsto, e crescerà dello 0,7% l’anno prossimo, meno del previsto; la disoccupazione resterà inaccettabilmente alta e anche la crescita mondiale sarà meno solida dello sperato, un + 2,9% che, comunque, noi ci sogniamo.

Il fatturato dell’industria continua a scendere: a luglio - 0,8%, su base annua - 3,6%; gli ordinativi -0,7%, su base annua -2,2%. Sarà pur vero che la ripresa è in arrivo, visto che lo dicono Draghi e Visco, che dovrebbero saperne cogliere i segnali, ma le rondini di questa primavera economica noi mica le vediamo.

Il governo stesso, nel mettere a punto il Def, aveva appena rivisto al ribasso il Pil per il 2013 (-1,7% da -1,3%) e per il 2014 (+ 1% da + 1,3%), mentre il premier Letta ammette che il rapporto deficit / Pil è risalito sopra il 3%, al 3,1%, rimettendoci, dunque, in linea di collisione con le regole dell’Ue, che ci sventola sotto il naso il drappo rosso della procedura d’infrazione. Per Letta la colpa è (quasi) tutta dell’ “instabilità politica”, che tiene pure su lo spread intorno a 240.

La Commissione europea chiede impegni senza ambiguità sui conti pubblici, ma nega di avere già estratto cartellini gialli per lo sfondamento del tetto del deficit del 3% e giudica positive le ripetute assicurazioni del Governo che i vincoli saranno rispettati: “Contribuiscono a rinsaldare la fiducia dei mercati e costituiscono le fondamenta di una ripresa sostenibile”.

Dopo le polemiche suscitate dalla sortita italiana del vice-presidente Rehn, il suo portavoce O’Connor dice a SkyTg24: "In Italia, c’è confusione su ruolo della Commissione europea, che deve dare consigli e formulare raccomandazioni agli Stati in base a quanto deciso dal Consiglio europeo. Tra le raccomandazioni all’Italia, c’è quella di spostare le imposte dai consumi alle proprietà, anche se l’Ue non tifa Imu". Per Bruxelles, “l’Italia deve curare le sue debolezze con riforme coraggiose e misure forti per recuperare competitività, in netto calo negli ultimi anni, mentre aumenta il debito".

Spostare le imposte dai consumi alle proprietà. Noi, invece, togliamo l’Imu e stiamo ora a litigare sull’aumento di un punto dell’Iva, che –dice il Cgia di Mestre- costerebbe in media alle famiglie 88 euro l’anno, di più al Nord-Est, dove si consuma e si intraprende di più, di meno al Sud. E i Comuni fanno sapere che, senza i 2,4 miliardi del rimborso dell’Imu per la cancellazione della prima rata, non pagheranno gli stipendi di settembre, ricevendo assicurazione che la prossima settimana saranno varati i provvedimenti necessari –per l’eterna serie italica ‘zona Cesarini’-.

Eppure, sempre l’Ue ci fa i conti in tasca e scopre che evadiamo, o comunque non riscuotiamo, 36 miliardi di Iva l’anno, quasi un terzo dell’ammontare teorico, il 2,3% del Pil: nessuno dei Grandi peggio di noi nell’Unione, né in assoluto né in percentuale. Per un’altra nostra serie classica, ‘il tesoretto c’è ed è in casa, a cercarlo nelle tasche giuste’. Non quelle di Pantalone, che paga sempre, ma quelle di Arpagone, che non paga mai.

giovedì 19 settembre 2013

Visti dagli Altri: qualunque cosa accada, Mr B resterà

Scritto per il blog de Il Fatto il 19/09/2013

Lo scrivono tutti, molti quasi con un senso d’angoscia: “Qualunque cosa accada, Silvio Berlusconi resterà in politica “ (Le Monde). E se ce l’hanno loro, il senso d’angoscia, figuriamoci noi! Da tutta la saga del voto in giunta e del video di ieri, la stampa estera ricava soprattutto questo messaggio e fa questa sintesi: il Cavaliere “non getta la spugna e resta” (El Pais, Les Echos, El Mundo, etc etc), anche se la sua espulsione dal Senato è più vicina.

La stampa anglosassone è - come da luogo comune - più fredda e distaccata: “Berlusconi promette di continuare a guidare l’Italia, nonostante la condanna” (FT), dove quel ‘promette’ –lo usano pure The Independent e Bbc - stride come una minaccia; ma “fa un passo indietro sulla crisi di governo”. The Guardian è colpito da “tono di sfida”, The Times dal riferimento alla cospirazione di sinistra.

Il video non piace a nessuno: questione di contenuti e pure di regia, con lo sguardo fisso in camera e un contesto ieratico – solo la Bbc lo giudica “emotivo” -. Però. qualcuno un po’ di propaganda se la beve. Sentite il WSJ, spesso non severo nel giudicare il Cavaliere: “Sempre uomo di spettacolo imprevedibile, Berlusconi utilizza lo strumento televisivo per rivendicare con aria di sfida il suo posto di rilievo al centro della politica italiana. Forse, però, è quello che non ha detto che fa più rumore: non una volta fa menzione della minaccia di fare cadere il fragile governo di coalizione”.

Lo spagnolo Abc giudica che l’ex premier sia “tornato a interpretare il suo miglior ruolo, quello di se stesso” –altre volte, però, l’ha fatto con più efficacia-. Il francese Le Figaro lo considera ancora capace di “infiammare la politica italiana”.

Tutti sono convinti che Berlusconi, alla fine, sarà escluso dal Senato. E quasi tutti ritengono che, nonostante il passo indietro di fronte alla crisi, alla fine la crisi ci sarà. Anzi, Der Spiegel sostiene che “la crisi del governo non è mai finita e una crisi di governo è ancora possibile”: cioè, si litiga sempre e prima o poi si rompe.

mercoledì 18 settembre 2013

Transatlantic Trends: l’Italia ce l’ha più con l’Europa che con l’America

Scritto per AffarInternazionali ed EurActiv del 18/09/2013

Il 16 ottobre, il presidente del Consiglio italiano Enrico Letta sarà ricevuto a Washington, nello Studio Ovale della Casa Bianca, dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Un tempo - non lontano, invero -, visite del genere servivano a ricevere una sorta d’investitura dal “grande amico ed alleato” americano. Oggi, a parte che c’è l’incertezza se la visita sia d’investitura o di commiato, credibilità e appoggio li si va a chiedere prima a Bruxelles che a Washington: lo fece Mario Monti, l’ha fatto Letta.

Ma per l’Italia, e per gli italiani, i rapporti transatlantici restano importanti - magari un po’ scontati, e quindi un po’ noiosi nella loro ovvietà -, come dimostra e conferma l’analisi Transatlantic Trends 2013. Tra noi e gli Usa fila tutto liscio o quasi; e Obama continua a piacerci –non tanto come prima, però-, nonostante la sorpresa, quasi lo shock, di certe sue scelte in politica estera.

Quest’anno, il rapporto ci rivela un’Italia particolarmente insoddisfatta e diffidente: non degli Usa, ma dell’Ue; e sul chi vive nei confronti della Cina, soprattutto, e pure degli altri Paesi emergenti – due su tre considerano la crescita cinese una minaccia, non un’opportunità -. E’ un’Italia che, come il resto d’Europa, tende a chiudersi su se stessa e a negare solidarietà, magari sentendosela negata. Ed è un’Italia che in generale segue la tendenza espressa dagli altri europei e spesso la estremizza. Ed è un’Italia, infine, che accumula le contraddizioni:

Siamo i più insoddisfatti della politica economica del nostro governo contro la crisi, ma siamo pure molto critici delle scelte dell’Ue e insofferenti di quelle di Angela Merkel. Ma abbiamo più rispetto per il cancelliere tedesco che per i leader dell’Unione e per i politici nostrani, la cui stima è in calo -e questo già lo sapevamo-.

Siamo i più convinti che l’attuale sistema economico va a beneficio di pochi e non contribuisce affatto a un’equa distribuzione delle risorse disponibili: lo pensa il 93% degli italiani intervistati. Pensiamo che sia necessario ridurre la spesa pubblica e siamo fra i più disponibili a tagliare le spese per la difesa, ma siamo ostili a tagliare quelle per il welfare e siamo i meglio disposti ad aumentare gli interventi per i trasporti e le infrastrutture e per la scienza, l’innovazione e l’istruzione.

Dell’euro, abbiamo un’opinione migliore di spagnoli, portoghesi e persino francesi, per non parlare di polacchi, svedesi e britannici, che, infatti, ne sono fuori. Però, tedeschi ed olandesi ci credono, ovviamente, molto più di noi: in tre anni, la percentuale degli italiani che pensano che l’euro sia stato negativo per l’economia è salita dal 46 al 58%, un pessimo viatico per le elezioni europee dell’anno prossimo. E suona tetro pure quel 49% che boccia l’Ue nel suo insieme. Attenzione!, però: le critiche alla moneta unica e all’Unione europea si sprecano, ma di uscirne nessuno o quasi ci pensa davvero (non solo in Italia).

La riluttanza alla solidarietà si misura bene sull'immigrazione: dopo i portoghesi, pure molto segnati dalla crisi, siamo i più preoccupati dagli immigrati irregolari (86%), una tendenza che è però forte in tutto il Mediterraneo; e siano i più inclini a considerare l’immigrazione un problema e non un’opportunità, 82%, alla pari con i polacchi e, anche in questo caso, secondi solo ai portoghesi. Si direbbe quasi che i popoli con una storia d’emigrazione, più o meno recente, siano oggi i più freddi e i meno generosi nei confronti di quanti oggi vivono questa situazione.

martedì 17 settembre 2013

Italia/Ue: dialogo a Trieste, voglia di democrazia diretta

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 17/09/2013 

C’è voglia di elezione diretta del presidente della Commissione europea. Ma c’è pure l’impressione che la voce della gente non sia ascoltata a Bruxelles e nei palazzi dell’Unione. I cittadini europei intervenuti, ieri, a Trieste, a un dialogo con le istituzioni comunitarie, provenienti da Italia, Slovenia, Croazia, Austria, non sono euro-scettici, anzi tendono a essere euro-entusiasti, ma non sono per nulla contenti dell’Ue, delle sue strutture, delle sue politiche.

Mentre a Roma Olli Rehn catechizza il Parlamento italiano, loro le cantano chiare, senza acrimonia, ma con delusione, alla vice-presidente della Commissione europea Viviane Reding e al ministro per gli Affari europei Enzo Moavero.

L’elezione diretta del presidente dell’Esecutivo comunitario appare un antidoto alla lontananza delle Istituzioni. L’idea non spiace affatto alla Reding, che s’immagina magari candidata. Ma verrà buona forse al prossimo giro. Questa volta, se va bene, i partiti politici europei esprimeranno un proprio candidato, in vista del voto di maggio.

Nell’anno della cittadinanza europea, il dialogo di Trieste è l’ultimo di una serie che, in Italia, ha toccato Napoli, Torino, Pisa, Roma, Ventotene, Milano: commissari volta a volta diversi, temi che spaziavano dall’occupazione alla reindustrializzazione, dall’ambiente al clima, dalle prospettive delle elezioni europee del maggio 2014 a quelle di rinnovamento dei Trattati e delle Istituzioni.

Trieste è la sintesi: 500 partecipanti, molti giovani, grandi temi, questioni locali, la certezza che l’Unione fa la forza nell’era della globalizzazione, una diponibilità alla solidarietà che trabocca. La Reding raccoglie l’assist: “La solidarietà è un valore dell’Ue non negoziabile”. Moavero ammette: “E’ normale che le attese sia andate deluse: una Unione sentita come essenzialmente economica avrebbe dovuto rispondere meglio alla crisi economica”. C’è richiesta d’informazione europea e anche d’educazione (civica) europea.

Le domande insistono sulle risorse, che sono poche: il bilancio dell’Unione è l’1% del Pil dell’Ue; quello federale degli Stati Uniti il 25%. Però l’Italia deve migliorare la capacità d’utilizzarle, ammette Moavero, con il 40% appena dei fondi per la coesione spesi allo scadere del programma settennale. E sulla mancanza di trasparenza delle Istituzioni comunitarie: la Bce non è democratica, denuncia uno; l’indipendenza delle banche centrali, come della magistratura, è un pilastro delle nostre democrazie, ribatte la Reding. E sulle politiche, che non sono adeguate. Resta una speranza e un dubbio: l’elezione diretta del presidente della Commissione europea cambierebbe davvero qualcosa?, o ci vuole altro?

Germania: elezioni; Ue, le opzioni 'chi vince chi perde'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/09/2013 e riprodotto su EurActiv il 21/09/2013

A Bruxelles, si sapeva che questo sarebbe stato un settembre anomalo : tutti ai posti di lavoro, come atleti sui blocchi di partenza, ma ben attenti a non muovere un muscolo, finché lo starter non dà il segnale. La presidenza di turno lituana del Consiglio dei Ministri dell’Ue ha evitato riunioni formali, prima delle elezioni tedesche del 22 settembre. E neppure dopo sarà la ‘corsa all’oro’ delle decisioni da prendere : bisognerà vedere i risultati.

Giocando col sistema binario, proviamo a scoprire che cosa accadrà nell’Ue post voto. Tutti sono convinti che, quando il nuovo governo, quasi certamente ancora una coalizione, si sarà insediato a Berlino, l’Unione potrà riprendere l’esame dei temi attualmente ‘congelati’, per ‘caldi’ che siano : la crescita, il lavoro, l’Unione bancaria.

Nessuno, però, s’illude che gli ostacoli tedeschi siano spazzati via dal voto politico : la Corte di Karksruhe, gli ‘ermellini rossi’ della suprema magistratura, hanno ancora la loro da dire sulle tappe dell’integrazione. Anch’essi, come i diplomatici dell’Ue, si sono acchetati per non turbare la campagna. 

Merkel vince / Merkel perde – E’ la prima alternativa, quella fondamentale. L’opzione più probabile, alla luce dei sondaggi e dell’esito del voto di domenica in Baviera, è che la Merkel vinca e s’appresti a governare la Germania per la terza legislatura consecutiva. A Bruxelles, ci s’attende una cancelliera più morbida sul rigore, più condiscendente sulla crescita. Ma attenti a non confondere l’analisi con gli auspici. Il problema, a questo punto, è: «Come vince?».

Escludiamo, perchè i sondaggi non lo contemplano, che la Merkel possa governare da sola e lavoriamo a ipotesi di coalizione, almeno due: la conferma dell’alleanza con i liberali; oppure, il ritorno a una ‘grande coalizione’ con i socialdemocratici. In entrambi i casi, il dossier dell’Unione bancaria potrebbe essere completato entro fine anno. E la Germania di Merkel III potrebbe essere un po’ meno riluttante ad assumere il suo ruolo egemone europeo, rispetto agli ultimi anni. La svolta della salvezza dell’euro e di tutti i Paesi dell’Eurozona appare senza ritorno : lì, non ci saranno ripensamenti. 

Come prima, ma meno di prima – La conferma della coalizione con i liberali presuppone che questi superino la soglia di sbarramento del 5%, che in Baviera hanno mancato. E prevede una Merkel più forte rispetto ai suoi alleati, ma pur sempre condizionata lato rigore. Il fronte della crescita avrebbe un’interlocutrice un po’ più morbida, ma non troppo. La tesi di fondo resterebbe quella che Tobias Piller della Faz sintetizza così: «Per uscire dalla crisi, bisogna ritrovare competitività, servono riforme strutturali e tagli a livello nazionale”. 

Cambio di partner – Se cambia la coalizione e tornano al governo i socialdemocratici, sia pure in posizione subordinata, il linguaggio europeo della Germania potrebbe avvicinarsi a quello di Francia, Spagna, Italia, con l’accento su crescita e occupazione più che su rigore e tagli e qualche ulteriore concessione alla solidarietà comunitaria, già fatta balenare alla Grecia dal ministro Schaeuble. Accanto alla chiusura dell’Unione bancaria, è possibile immaginare l’apertura di qualche cantiere europeo istituzionale. Il prof. GianEnrico Rusconi s’attende che la Germania si orienti verso un’Europa federalista. 

L’alternativa senza Angela – La Merkel perde e non è più cancelliera: un’ipotesi astratta. Se vincono i socialdemocratici, la stasi dell’Ue si protrarrebbe: non bisognerebbe più riprendere le discussioni là dove s’erano interrotte, ma farle ripartire con punti di vista nuovi. Illusorio, però, immaginarsi che i socialdemocratici ribaltino il gioco europeo : rimescoleranno un po’ le carte, evitando di passare, agli occhi dei loro elettori, per euro-entusiasti scialacquatori. Che neppure lo sono. 

L’incognita euro-scettica – Su tutto ciò, pesa l’incognita euro-scettica: a destra e a sinistra, sono in lizza movimenti freddi, se non ostili, sull’integrazione europea. Un loro successo potrebbe condizionare la coalizione tedesca prossima ventura, quale che essa sia.

domenica 15 settembre 2013

Siria: c'è la roadmap Usa-Russia, chance di pace e rischio d'orrori

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/09/2013

 La ‘roadmap’, che è una cosa che piace, c’è. Per i risultati, bisogna ovviamente attendere. Il che è una chance e un rischio: una chance per la pace e il negoziato, se Russia e Usa, sullo slancio della ritrovata intesa, proseguiranno la ricerca di una soluzione politica alla crisi siriana; un rischio, se il conflitto continuerà a produrre vittime e orrori –magari convenzionali, non chimici-, senza avvicinarsi a uno sbocco.

In neppure quattro settimane dal 21 agosto della strage al sarin, la comunità internazionale è passata dalla progettata ritorsione americana al gelo del G20 tra Usa e Russia alla ‘roadmap’ di Ginevra, benedetta da capitali prima contrapposte. La Bonino parla di passo nella giusta direzione; Mauro ce ne attribuisce un po’ di merito. Scontenti solo i ribelli siriani, che volevano i raid anti-regime.

Il tandem Lavrov – Kerry non pedala sempre in perfetta sintonia. Sull’autorizzazione dell’Onu all’uso della forza, nel caso che il presidente al-Assad meni il can per l’aia, c’è cacofonia fra i due: Kerry dice che è previsto, Lavrov dice manco per idea. Il problema è come formulare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Nel discorso del sabato agli americani, Obama tiene il punto: se la Siria nicchia, noi siamo pronti ad agire.

Questi i punti salienti degli accordi raggiunti in tre giorni di serrati negoziati: entro una settimana, Damasco deve dare la lista delle armi chimiche; a novembre, gli ispettori dell’Onu saranno in loco; entro la metà del 2014, gli arsenali saranno rimossi e distrutti. E l’Onu veglierà al rispetto dei patti.

L’intesa è dettagliata in due pagine e suggellata da un impegno solenne: “E’ tempo di agire”. L’organizzazione per il divieto delle armi chimiche riceverà, a giorni, indicazioni per adottare “procedure straordinarie” per “distruggere gli arsenali siriani nel modo più veloce e più sicuro possibile” -sarebbero custoditi in 45 siti diversi- e per garantire “meccanismi di verifica stringenti”. L’Iraq, intanto, smentisce d’avere accolto i gas siriani.

Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, ormai il più severo giudice di al-Assad, annuncia che presto darà ”prove schiaccianti” delle malefatte chimiche del regime. Ma, con Lavrov e Kerry, lavora a rilanciare una Ginevra 2, una nuova conferenza di pace internazionale.

giovedì 12 settembre 2013

Italia/Ue: Bonino spezza lancia per Europa federale 'leggera'

Scritto per EurActiv il 12/09/2013

Emma Bonino spezza un’ennesima lancia per un’Europa federale, sia pure ‘leggera’: lo fa intervenendo alla conferenza regionale a Roma del Council of Councils, un gruppo creato dal Council on Foreign relations e che riunisce 20 fra i maggiori think tanks di tutto il mondo.

L’evento regionale è stato organizzato dallo IAI, l’Istituto Affari Internazionali, che - unico think tank italiano - fa parte del Council, e i lavori si sono svolti al Ministero degli Esteri. La giornata conclusiva è stata aperta dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e conclusa dal ministro degli Esteri. Visco ha ha individuato “le chiavi della ripresa nella determinazione condivisa a procedere verso un'Unione europea a tutti gli effetti e nella costruzione di un'Unione bancaria efficace".

Nel suo intervento, la Bonino ha denunciato la debolezza e l’inadeguatezza dell’attuale governance globale, citando ad esempio le vicende dell’Egitto e della Siria, ed ha anche rilevato che l’Europa non è attualmente all’altezza delle attese e dei compiti, anche se “bisogna andare avanti sulla via dell’integrazione istituzionale, perché non c’è altra alternativa agli unilateralismi e ai nazionalismi”.

“C’è chi vede l’Unione come mercato e basta –ha detto il ministro-, chi la vede come Unione intergovernativa, chi la vede come Unione federale. Io la vedo così, come una Federazione ‘leggera’, perché non vedo altro sistema che possa garantire democrazia, efficienza, responsabilità e diversità.”.: una scelta non solo razionale, né tutta emotiva, ma dettata dalla necessità.

La prospettiva è quella di un’Europa federale che abbia fra le proprie competenze anche la politica estera, la difesa e i diritti civili: “Un’Europa del genere sarebbe un attore più solido sulla scena internazionale, e in grado di contribuire alla governance globale in un mondo sempre più interdipendente e multipolare”, ha sostenuto la Bonino. E un’Europa del genere sarebbe pure un antidoto alle spinte, che nascono dalla crisi, a chiudersi in se stessi ed a negarsi alla solidarietà.

Il ministro riconosce le difficoltà nel passare dal dire al fare. Ma trova un motivo d’ottimismo nel constatare che, nonostante l’avanzare dell’euro-scetticismo, anche in Italia, “nessuno, alla prova dei fatti, vuole poi lasciare davvero l’Unione”.

mercoledì 11 settembre 2013

Visti dagli Altri: Le Monde; Concordia e Mr B, relitti d'Italia

Scritto per il blog de Il Fatto l'11/09/2013

Difficile, per la stampa estera, districarsi, in questi giorni, tra cronaca italiana e riferimenti storici. Oggi, Les Echos titola in homepage “Berlusconi e la sindrome dell’11 Settembre”, giocando sull’anniversario dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle (che –ci pare- non c’entra nulla); mentre in realtà questa che viviamo è una sindrome nostrana da 8 Settembre, il tutti a casa del senso di responsabilità, l’ennesimo commedia all’italiana di calabrache e voltafaccia.

Fra i media stranieri, c’è chi crede sia solo “questione di tempo” –il Tagesspiegel-, poi il Cavaliere decadrà. E c’è chi s’accorge che non è solo Mr B a giocare con il tempo: “I suoi avversari puntano sul rinvio” –Sueddeutsche Zeitung-, forse perché se cade Berlusconi cade il governo e “non vi sono previsioni su che cosa succederà alle elezioni” –Der Spiegel-. Che poi ci sono, perché tg e talk show sono la fiera del sondaggio, ma nessuno si fida davvero di quei numeri.

Barcamenandosi tra le indicazioni contraddittorie della stampa italiana e le dichiarazioni altalenanti di guru e politici, i giornali esteri registrano che il tempo di questa vicenda è dilatabile e capiscono che  quello della giustizia è labile quanto quello della politica –si favoleggia di un mitico congresso del Pd, ma nessuno sa situarlo sul calendario-.

Insomma, i corrispondenti stranieri, molti dei quali erano partiti in ferie fiduciosi di essersi liberati per sempre del Cavaliere, con la sentenza della Cassazione, non nascondono il loro imbarazzo, ora che sono rientrati, dovendo raccontare per l’ennesima volta la stessa storia: i problemi di Berlusconi  “avvelenano la ripresa della vita politica”, Il Pdl minaccia di fare cadere il governo, il Quirinale cerca di salvare capra e cavoli, il Pd litiga con se stesso.

Difficile fare condivide ai lettori europei o americani lo stesso pathos che i cittadini italiani –forse- provano per questa storia: titoli si ritrovano un po’ ovunque, ma per lo più di cronaca, spesso senza scendere nel dettaglio dell’una o dell’altra convulsione politica.

Alcuni giornali prestigiosi tentano l’analisi. Il NYT si chiede se “Berlusconi abbia esaurito le sue vite politiche?”; e constata come sia più capace che mai di “mandare in tumulto” la politica italiana.  Le Monde, invece, lo considera “al crepuscolo della carriera”, ma non fa previsioni su quanto tempo ci vorrà perché il tramonto sia compiuto. E perfidamente osserva: “La Costa Concordia e Mr B, due sfide per l'Italia”, due relitti di cui liberarsi –si accettano scommesse, su chi sarà rottamato prima-.

Siria: Obama-Putin, la strana coppia della pace fredda

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/09/2013

Come in un telefilm di Law and Order, hanno giocato al poliziotto buono e a quello cattivo. A ruoli però invertiti, così il pubblico, magari, ci ha creduto di più: in questa crisi delle armi chimiche siriane, alla fine Obama e Putin si saranno fatti da spalla l’un l’altro. Una pantomima, non si sa quanto consapevole e quanto involontaria, che guadagna tempo alla diplomazia e regala speranze alla soluzione concordata; e forse consentirà alla Casa Bianca d’ottenere più facilmente il via libera dal Congresso all’uso della forza. Perché, tanto, ormai tutti o quasi sono convinti che non ce ne sarà bisogno. E se, invece, al-Assad si facesse di nuovo beffe dell’Onu e degli Usa, allora la scarica di Tomahawk se la sarà proprio meritata.

Quando la ritorsione che poteva incendiare tutto il Medio Oriente, con conseguenze imprevedibili, pareva inevitabile, la svolta matura a cavallo tra lunedì e martedì: Kerry fa una battuta; Lavrov la rilancia sul serio; e Damasco accetta la proposta di mettere i suoi gas sotto controllo internazionale. Anzi, il ministro degli esteri siriano Walid Muallem offre la disponibilità a sciorinare gli arsenali ed a cessare la produzione. E pure l’Iran s’allinea: è una buona strada.

A quel punto, Washington, Londra, Parigi e tutti quanti non possono che vedere se al-Assad ‘bluffa’ o gioca davvero a carte scoperte: priorità alla diplomazia, ma restando sempre sul chi vive. All’Onu, vi sono schermaglie, perché la Francia cerca d’ottenere dal Consiglio di Sicurezza l’avallo in bianco a colpire Damasco in caso di recidiva e la Russia non ci sta.

Gli sviluppi tolgono pathos al discorso alla Nazione di Obama dallo Studio Ovale –il presidente parla alle 21.00, le 3 del mattino in Italia-, dopo che il Congresso ha già deciso di rinviare il voto sull’autorizzazione all’attacco, che non è affatto acquisita. E crescono i no nell’opinione pubblica: quasi due americani su tre non approvano il ricorso alle armi. 

Obama ammette che l’idea di mettere gli arsenali siriani sotto controllo internazionale è buona ed apre a Mosca, dopo i ‘giorni del gelo’ (apparente?) a San Pietroburgo. Ma vuole verifiche e non abbassa la guardia: continua, anzi, a chiedere al Congresso di dargli mano libera, così da essere pronto ad agire se ve ne fosse bisogno.
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Per Emma Bonino, la diplomazia può ora contare su due/tre settimane per sventare l’attacco e cercare una soluzione negoziata: fra una decina di giorni, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York, potrebbe rivelarsi la palestra adatta. Oggi, il premier Letta ne parlerà in Parlamento.

Le partite aperte, quella siriana e quella chimica, sono complesse. Un documento della Cia indica che pure Israele ha i suoi arsenali di gas letali. E gli esperti notano che, per disfarsi di quelli siriani, diverse centinaia di tonnellate di agenti chimici, ci vorrà “almeno una decina d’anni”.

martedì 10 settembre 2013

Ue: Visco, chiave per ripresa costruzione Unione bancaria

Comunicato IAI e articolo EurActiv del 10/09/2013

In Europa, "la ripresa è a portata di mano ma i rischi di ricaduta restano significativi.
 vogliamo cogliere l'opportunità, non possiamo allentare i nostri sforzi” e “dobbiamo continuare ad attuare le riforme strutturali”. E’ la convinzione espressa del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: "La chiave del successo sarà la determinazione condivisa a procedere verso un'Unione europea a tutti gli effetti. Allo stadio attuale, la prova della nostra determinazione è la costruzione di un'Unione bancaria efficace".

Il governatore è intervenuto questa mattina alla conferenza regionale a Roma del Council of Councils, un gruppo creato dal Council on Foreign relations e che riunisce 20 fra i maggiori think tanks di tutto il mondo. L’evento regionale è stato organizzato dallo IAI, l’Istituto Affari Internazionali, che - unico think tank italiano - fa parte del Council, e i lavori si sono svolti, ieri e oggi, al Ministero degli Esteri.

Visco ha notato che “gli strumenti tecnici non possono rimpiazzare gli interventi politici” e ha ricordato che l’Unione europea ha dovuto fronteggiare “due rischi principali: il default di un Paese e la rottura dell’euro”. Bisognava che ciascuno mettesse ordine a casa propria e bisognava pure “mettere in ordine l’Unione”. Sottolineato il ruolo positivo avuto dalla Bce nella crisi, il governatore ha detto che “la fiducia nella irreversibilità dell’euro è la chiave” per “evitare il collasso”.

Nel suo discorso, Visco ha indicato che il contributo dell'Italia ai paesi partner in difficoltà nell’Ue "salirà a più di 60 miliardi di euro nel 2014", ricordando che "tra il 2010 e il 2012 i paesi Ue hanno versato 280 milioni in prestiti ai partner in difficoltà, sia direttamente sia attraverso gli strumenti comunitari. Il contributo dell'Italia è ammontato a 43 miliardi di euro, cifra che, secondo stime ufficiali, salirà a più di 60 miliardi nel 2014".

Nel suo intervento, intitolato ‘The Exit from the Euro Crisis: Opportunities and Challenges of the Banking Union’, il governatore s’è anche soffermato sulla situazione italiana, partendo dalla constatazione che “in Italia la recessione è stata più lunga e più profonda” che altrove e confermando che vi sono segnali che la recessione stia terminando, fermo restando che l’instabilità politica è una minaccia per la ripresa. E, citando l’Istat, ha detto che il Pil è sceso del 2,1% nel secondo trimestre 2013 e la spesa delle famiglie del 3,2%. ''I recenti indicatori –ha affermato Visco- mostrano un graduale miglioramento'' dell'economia e ''il calo della produzione, che nel 2012 è stata quasi del 7% inferiore al 2007, dovrebbe arrestarsi nei prossimi mesi''.

Per il governatore, "l'aggiustamento di bilancio è stato indispensabile nei paesi economicamente più fragili, tra cui anche l'Italia”, per evitare il rischio “di perdere l’accesso al mercato, cosa che avrebbe fatto precipitare la crisi": "gli effetti negativi di breve periodo sull'economia sono stati il prezzo pagato per evitare conseguenze più serie".

Visco s’è poi soffermato sul processo in corso di completamento dell’Unione bancaria, analizzandone l’impatto sul sistema creditizio europeo e in particolare italiano.