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venerdì 30 settembre 2011

SPIGOLI: Mr B 75, i regali della stampa estera

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/09/2011

Quanti regali, sulla stampa estera, per i 75 anni di Silvio Berlusconi. I più generosi sono i media britannici. La Bbc gli dedica un quiz sul sito: 10 domande a risposta multipla perché i suoi lettori possano rendersi conto di quanto (poco?) sanno del premier italiano “da più tempo in carica nel dopoguerra” (e secondo solo a Mussolini per longevità al potere nella storia d’Italia). Certo, il quiz è un percorso fra le gaffes, i vizietti e gli inghippi del Cavaliere, più che tra i suoi successi politici. L’Economist, invece, offre a Mr B un sondaggio: chiede se Berlusconi resterà in carica fino al 2013. Due lettori su tre hanno finora risposto di no. E il settimanale rende più ulcerante il risultato commentando la "discesa nell'oscurità" del premier. Un dispaccio dell’Ap va forte su Chicago Tribune e San Francisco Chronicle: “Berlusconi celebra il 75.o compleanno con ben poco da festeggiare tra processi, scandali sessuali e politici e problemi economici”. Le Figaro vede un “triste compleanno” per il Cavaliere “sempre più isolato”, ricordando la condanna della Chiesa (lo fanno pure, autorevolmente, Le Monde e NYT). Più banali, invece, Telegraph, Daily Mail, El Pais, Abc, El Mundo, El Economista, Nouvel Obs e molti altri, che dedicano a Berlusconi chicche sessuali o giudiziarie (un po’ come portare vasi a Samo, si sarebbe detto un tempo): dalle confessioni della Began, al la rivolta della Wintour, agli sviluppi dei processi.

Ue: Germania libera tutti, sì Bundestag piano salva Stati

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/09/2011

E la nave dell’euro va. Magari non a gonfie vele, un po’ sbilenca perché il vento della tempesta è forte e il timone non è retto da mani sempre solide e qualche sartia s’è strappata e qualche tela s’è lacerata, ma va. Il Parlamento tedesco, ieri, ha dato via libera a larga maggioranza al rafforzamento del cosiddetto ‘fondo salva Stati’: la maggioranza della cancelliera Angela Merkel regge da sola e i voti dell’opposizione danno al sì una dimensione plebiscitaria, ma non sono necessari.

Non è l’ultimo passaggio, per il varo del fondo, perché altri nove Paesi devono ancora ratificare l’accordo –e in Slovacchia c’è qualche scricchiolio-, ma è un passaggio fondamentale. La Merkel è “sollevata”: “Mezzo mondo aveva gli occhi puntati sulla Germania”. Il presidente francese Nicolas Sarkozy, che oggi riceverà a Parigi il premier greco Giorgio Papandreu, si rallegra con lei “per il passo fatto al servizio della stabilità della zona euro”

Il sì del Bundetsag, il giorno dopo quello pure cruciale del Parlamento finalndese, “è una buona notizia” e dimostra che “le cose vanno avanti” è il commento, misurato e non trionfalista, della Commissione europea. L’obiettivo resta quello di concludere il processo di ratifica degli accordi scaturiti dal Vertice europeo del 21 luglio entro la metà di ottobre, quando i capi di Stato e di governo dei 27 si riuniranno di nuovo a Bruxelles.

L’ok tedesco giunge nel giorno in cui gli ispettori della troika dell’Ue sono tornati in Grecia, accolti da tensioni sociali e forti proteste, con i ministeri occupati dai dipendenti pubblici. Eppure, la visita prelude all’ok dell’Ue a versare una fetta di otto miliardi di euro degli aiuti già promessi ma condizionati a misure di rigore da adottare.

Una situazione d’emergenza che solo l’Italia in Europa sembra faticare a comprendere, col governo che, appena uscito dalle secche della manovra, torna a incagliarsi sulla scelta del governatore di BankItalia, facendosi un autogol quando ci sarebbe da sfruttare, in termini di riscatto d’immagine, l’ascesa di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea. Quella banca che, ha ieri rivelato il Corriere della Sera, ha chiesto e quasi dettato all’Italia, con una lettera riservata, dure misure strutturali anticrisi: una lettera frutto, nota il vice-presidente del Parlamento europeo Gianni Pittella, del vuoto di governante economica italiana ed anche europea. E gli effetti del diktat continuano a fari sentire. Ieri, Giulio Tremonti ha annunciato un piano di privatizzazioni: dalla cessione di immobili pubblici, spera di ricavare 25/30 miliardi di euro e dalla cessione dei diritti di emissione di CO2 10 miliardi.

Il voto del Bundestag è una boccata di di fiducia per l’euro e per i 17 Paesi della moneta unica, ma anche per tutta l’Ue e i suoi 27 Paesi. Le borse europee la salutano con chiusure positive: non a caso, vanno giù solo Atene, dove la tensione resta alta, e Londra, dove l’euro piace di più quando va male che quando va bene. Infatti, il ministro degli esteri britannico William Hague si associa, con un giorno di ritardo, alle critiche all’Europa del presidente americano Barack Obama: “L’euro è un edificio in fiamme, senza vie d’uscita”.

Come le chiede in un articolo su FT Mario Monti, la Germania “fa il suo dovere e salva” la moneta unica: una decisione ‘europeista’, ma anche nell’interesse nazionale –spiega Monti-. Adesso, anche altri Paesi, fra cui l’Italia, “devono dare prova più convincente del proprio impegno”. E Berlino, che non fa deragliare il processo, può ora fare percepire ai partner in modo più stringente i loro impegni.

Il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble quasi ricambia l’apprezzamento di Bruxelles per il voto del Bundestag commentando con soddisfazione l’iniziativa annunciata mercoledì dalla Commissione europea per tassare le transazioni finanziarie (la cosiddetta Tobin Tax): “E’ un passo avanti”, ha detto, assicurando che il governo di Berlino farà di tutto perché la misura sia operativa al più presto.

Parlando al Bundestag prima del voto, Schauble ha riconosciuto che la decisione non era facile “per nessuno”, ricordando che “la stabilità dell’Europa dipende dalla forza della Germania”, soprattutto dell’economia tedesca. Il Fondo europeo di sostegno finanziario (Fesf) rinforzato sarà dotato di 440 miliardi di euro: già opera a favore di Irlanda e Portogallo, mentre il salvataggio della Grecia è affidato a meccanismi precedenti.

giovedì 29 settembre 2011

Spigoli: il 're della Camorra' di Barra benedice la festa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/09/2011

“Cedano il passo, che s’avanza il re … della camorra”: nel giorno in cui il Parlamento italiano conferma la fiducia al ministro Saverio Romano accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, El Mundo dedica un servizio con foto a un episodio che testimonia il radicamento della camorra dentro la società, almeno a Napoli. Lo spunto è un video che “pare una serie sui mafiosi, ma è la cruda realtà”. La scena: domenica, rione Barra, durante la festa dei Gigli in onore di San Paolino, una celebrazione religiosa. Nelle immagini, il giornale spagnolo vede “la prova tangibile dell’accettazione sociale di cui il crimine organizzato gode in buona parte del Sud dell’Italia”, notando che il video provoca proteste e polemiche. Il quartiere riserva un’accoglienza trionfale, sulla colonna sonora quanto mai adatta de Il Padrino, ad Angeli Cuccaro, la cui vettura, “un’imponente Rolls Royce bianca”, avanza sotto un diluvio di coriandoli. Cuccaro, detto ‘il Re’, capo di un dei maggiori clan camorristici, scende dall’auto, saluta la folla, bacia i suoi uomini: lo si aspetta per dare inizio della festa e lui, prima che di avviare la celebrazione, chiede alla gente “un minuto di silenzio per i nostri morti”, che sono i morti della camorra. Solo dopo la canzone ‘Sei Grande’, un classico di Mina, dedicata a Cuccaro, il parroco del rione benedice la festa e la gente. Irene Velasco, corrispondete da Roma de El Mundo, ricorda che, mentre Barra festeggiava il suo ‘re’, la camorra crivellava di colpi in un agguato uccidendolo Ciro Nocerino, un pregiudicato. Magari, anche quei botti erano parte della festa dei Gigli.

Ue: Finlandia, six pack, Tobin Tax, passi avanti euro

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/09/2011

Un ostacolo è sormontato, un altro già si frappone: la strada dell’uscita della zona euro dalla crisi del debito resta terribilmente accidentata. Nel giorno in cui il Parlamento finlandese dà via libera al rafforzamento del Fondo europeo di Soccorso finanziario (Fesf), difficoltà si stagliano all’orizzonte per i voti a venire in Germania, Estonia, dove ci sono dubbi di costituzionalità, e soprattutto Slovacchia, dove il sì è incerto.

A conti fatti, una giornata di notizie tutte apparentemente positive lascia l’amaro in bocca. Mentre Helsinki ratifica il Fesf, il Parlamento europeo in sessione plenaria a Strasburgo approva un giro di vite alla disciplina di bilancio degli Stati membri con sanzioni semi-automatiche per i governi lassisti. E il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso Barroso lancia, con vigore inconsueto, la proposta di una Tobin Tax, apre agli eurobonds e dice con fermezza: “La Grecia è e resterà nell’euro”, pur se “la crisi supera i confini finanziari e investe la politica”.

Ultimo tassello di un puzzle a quattro dimensioni, la troika dell’Ue decide di tornare ad Atene oggi, aprendo la strada al versamento della tranche di aiuti in sospeso di otto miliardi di dollari di cui la Grecia ha assolutamente bisogno per evitare di fallire. A inizio settembre, i negoziatori europei avevano lasciato il tavolo greco, sollecitando ulteriori misure che sono state ora prese.

Eppure, le borse non si soddisfano e vanno giù, dopo un inizio di settimana positivo: una conferma, forse, dell’aleatorietà dei giochi della finanza. E il presidente Usa Barack Obama sceglie proprio questa giornata per rilanciare le sue critiche all’Europa, che –dice- “non sta affrontando la crisi del sistema finanziario e bancario con l’efficacia che sarebbe necessaria”. Obama aveva già denunciato lunedì che la voragine del debito greco, 350 miliardi di euro, “spaventa il Mondo”.

Il sì finlandese non era acquisito al cento per cento, nonostante l’avallo del governo pro-europeo del premier Jyrki Katainen al Fesf: i Veri Finlandesi, una sorta di leghisti nordici usciti vincitori dalle ultime elezioni, ma confinati all’opposizione, sono poco inclini ad allargare i cordoni della borsa per i greci. Alla fine, il margine è stato largo: 103 sì e 66 no; una trentina di parlamentari hanno preferito non essere presenti.

Gli strumenti del Fesf, un fondo creato l’anno scorso per venire in aiuto dei Paesi della zona euro in difficoltà finanziaria, sono stati ampliati dal Consiglio europeo del 21 luglio, ma le modifiche, per entrare in vigore, devono essere ratificate dai Parlamenti dei 17 Paesi della moneta unica: l’obiettivo è riuscirci entro il Vertice straordinario dei 27 il 17 e 18 ottobre. Dieci le ratifiche già acquisite, fra cui quelle di Francia, Italia, Spagna; fra quelle che mancano, la più pesante è la tedesca, determinante.

Il nuovo Fesf è dotato di una capacità di prestiti effettiva di 440 miliardi di euro: il Fondo è già venuto in soccorso del Portogallo e dell’Irlanda, ma non della Grecia, la cui crisi è anteriore e che, quindi, dispone d’un proprio ‘salvagente’. Una volta in vigore, il Fesf potrà anche intervenire sul mercato ‘secondario’, alleviando l’onere della crisi per la Banca centrale europea e per le banche in genere, e potrà pure accordare agli Stati in difficoltà linee di credito preventive.

Il voto del Parlamento europeo, invece, dà via libera a una riforma della governance economica europea: un pacchetto di sei provvedimenti legislativi conosciuto come‘six pack’, ciascuno dei quali è stato approvato dall’Assemblea di Strasburgo con buon margine. Però, le misure rischiano di nascere obsolete, data l’aggravarsi con il passare dei giorni della crisi del debito.

Fin qui le decisioni, sul Fesf e sul ‘six pack’. Il discorso ‘sullo stato dell’Unione’ di Barroso ha, invece, un valore programmatico ed è stato più volitivo che ottimista: la crisi del debito “è la più grande sfida della storia” dell’Ue. Il presidente della Commissione è favorevole all’introduzione degli eurobonds e di una tassa sulle transazioni finanziarie, la cosiddetta Tobin Tax, che dovrebbe essere almeno dello 0,01% sulle operazioni sui derivati e dello 0,1% sulle operazioni‘spot’ e che dovrebbe raccogliere 55 miliardi di euro l’anno. Barroso sollecita inoltre il varo d’una tassazione del risparmio europea.

mercoledì 28 settembre 2011

SPIGOLI: moda, amore e fantasia, Mr B sempre al top

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/09/2011

Beppe Severgnini è un critico sagace della realtà italiana con credibilità internazionale: tranne che quando scrive di sport, bisogna dargli credito. Su FT, Beppe racconta che i suoi compatrioti italiani, che saremmo poi noi, si sono “disinnamorati” di Silvio. Mentre, su Guardian e Daily Mail, Anna Wintour, direttrice di Vogue, ‘donna forte’ della ‘fashion’ mondiale, ispiratrice della protagonista de ‘Il diavolo (cioè lei, ndr) veste Prada’, invita la moda che sfila a Milano a “scendere in passerella” contro Berlusconi e le ‘Papi’s girls’. Anche il WP cita in bella evidenza l’italico premier in una rubrica dal titolo pregnante (‘On leadership’, sulla leadership): non però per come conduce il Paese, ma per la platealità con cui nel 2007 chiese pubbliche scuse alla moglie Veronica comprando –un vizietto di lunga data- una pagina intera della stampa quotidiana. Guardian e Daily Mail, che ieri viaggiavano in copia, sostengono che il presto di nuovo presidente russo Putin imita Mr B, ma solo perché avrebbe fatto il lifting (magari, dove andare gliel’ha suggerito il Cavaliere). Insomma, Berlusconi superstar: dove lo lasci lo ritrovi, sulla stampa estera. Che ha pure spazio per riferire l’attacco dei vescovi alla classe politica “triste e vuota”, dove c’è bisogno di “purificare l’aria dai comportamenti licenziosi”: El Mundo affianca le foto del cardinal Bagnasco e del premier; anche Bbc, Abc, Telegraph e Chicago Tribune. E i processi? Ci sono anche quelli, dal giudizio Mediaset (Figaro) agli sviluppi della vicenda Tarantini e dintorni (Le Monde, El Pais). E l’economia, la manovra, la crisi? Quella è un’altra storia, che si data Bruxelles e non Roma e che comincia per T e non per B.

martedì 27 settembre 2011

Donne: diritti politici in Arabia Saudita, Bonino 'è poco, ma bene'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/09/2011

“A parlarne da fuori, può parere una piccola cosa. Ma per chi ci vive lì, è un risultato importante, un’opportunità da cogliere, uno spiraglio da allargare”. Emma Bonino, vice-presidente del Senato e leader radicale, è una donna che conosce bene i problemi delle donne nel Mondo: lei che ha vissuto al Cairo, e ancora vi trascorre del tempo quando può, e che, da commissaria europea, tenne testa ai talebani in Afghanistan non storce la bocca, commentando per Il Fatto la decisione ieri annunciata dal re saudita Abdullah bin Abdul Aziz: le donne saudite entreranno nella Shura (il Consiglio consultivo, un Parlamento non eletto) dalla prossima sessione, cioè dal 2015, e potranno votare e candidarsi alle prime elezioni municipali dopo quelle del 29 settembre, ancora loro vietate, e che dovrebbero pure svolgersi nel 2015.

Re Abdullah ha spiegato la sua decisione proprio davanti alla Shura: "Dato che ci rifiutiamo d’emarginare le donne in tutti i ruoli della società che sono conformi alla sharia (la legge dell’Islam, ndr), abbiamo stabilito, dopo esserci consultati con i nostri consiglieri religiosi, … d’inserire le donne nella Shura a partire dalla prossima sessione".

L’annuncio ha avuto un enorme rilievo mediatico mondiale. E questa, per la Bonino, oltre che essere di per sé positivo, è “una garanzia”: “L’Arabia Saudita ha adesso puntati addosso gli occhi delle donne del Mondo, e non solo”. E il segnale che viene da Riad, per quanto parziale, modesto e non ancora soddisfacente, va al di là della penisola arabica e accresce le speranze di successo altrove, in altri Paesi, su altri fronti dei diritti negati.

La Bonino conferma che la notizia è giunta inattesa: non solo qui da noi, ma anche nel Golfo, dove –testimonia Emma, dopo molte telefonate con amiche e militanti- l’eccitazione è molta. “Qui da noi, siamo sempre bravissimi a scoprire le cose che tutti dovrebbero già sapere e a volere di più. C’è chi lamenta che le donne potranno votare e candidarsi ‘solo alle elezioni municipali’, ma in Arabia Saudita quelle municipali sono le uniche elezioni, perché il regime non è di per sé democratico; e c’è chi segnala che là le donne devono ancora andare in giro velate e non possono guidare. Eppure, bastava leggere ‘La ragazza di Riad’”, un libro di una giovane saudita, Rajaa al-Sanea, 25 anni, che denuncia l’oscurantismo del Regno e le umiliazioni delle donne.

Ma, adesso, le donne saudite sapranno “sfruttare l’occasione” che è loro data: la Bonino ne è sicura, ricordando “il fermento” che si poteva già cogliere nel Paese. “Chi vive lì e conosce problemi e situazioni capisce che questa può essere un’opportunità: saranno le stesse donne saudite a rivendicare maggiori spazi, ad esempio al momento di fare campagna elettorale. Come possiamo farla, se non possiamo guidare?, chiederanno; e come possiamo essere riconosciute?, se dobbiamo sempre essere velate”. Così, da una concessione, scaturiranno delle conquiste.

La strada è lunga. Domenica, Najalaa Harir, un’attivista che sfidò in tv il divieto di guidare, facendosi riprendere alla guida di un’auto a Jeddah, veniva interrogata dagli inquirenti, proprio mentre il re faceva il suo annuncio. Secondo il suo avvocato, la Harir sarà portata in giudizio: è una delle decine di saudite che partecipano alla campagna “Il mio diritto, la mia dignità”.

Che cosa può avere indotto il monarca saudita a prendere la decisione? “Ci si può certo leggere un altro frutto della Primavera Araba. Ma c’è ancora chi risponde alle proteste della sua gente sparandole addosso, mentre re Abdullah ha scelto di compiere un gesto di apertura. Meglio così, non c’è debbio”. Anche perché l’esempio saudita può contaminare altri Paesi del Golfo: le donne non godono dovunque dei diritti politici; in Kuwait, li hanno avuti solo quattro anni fa, malgrado la forte presenza occidentale in quello Stato liberato nel 1991 dall’occupazione irachena da una coalizione internazionale formatasi sotto l’egida dell’Onu e guidata dagli Usa.

L’Arabia Saudita è l’ultima frontiera del disagio femminile? “Ci sono Paesi in cui le donne stanno peggio: per esempio, dal punto di vista delle violenze che devono subire, l’Etiopia e anche il Sudan. E nella stessa Arabia Saudita c’è un problema di violenza domestica non ancora affrontato. E ci sono crudeltà come le mutilazioni genitali femminili che non sono state ancora debellate”. La strada dei diritti resta lunga, ma un passo è stato fatto.

domenica 25 settembre 2011

Russia: Putin vuole riprendersi il potere (e tenerlo fino al 2024)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/09/2011

Gli amici, bisogna saperli scegliere. Ce ne sono che ti mettono in imbarazzo: se sono i dittatori, si fanno cacciare da una rivolta popolare; e, se sono i ministri, si fanno comprare la casa e poi fanno gli gnorri, “Non lo sapevo”. Ma ci sono quelli che non ti ‘mollano’mai e ti danno soddisfazioni: prendi Vladi, uno che ci sa fare con le donne, alla Mr B, e con gli oppositori –li mette in galera, o lascia che qualcuno li faccia fuori-; e che ha con il potere un rapporto senza ambiguità, vuole tenerselo. E, poi, parliamoci chiaro, dove finirebbe la Russia se lui, agente del Kgb e puro prodotto della più ortodossa scuola sovietica, uscisse di scena? Ma nelle mani dei comunisti, ovvio.

E, allora, viva sempre Vladi e la sua interpretazione della democrazia dell’alternanza, che si riduce a una staffetta tra lui e un suo portaborse, molto trasparente etutta di base. Beh, perché tutto vada davvero in porto ci sono di mezzo due elezioni, le politiche e le presidenziali, ma con lui premier e l’altro compare presidente, in attesa di scambiarsi i ruoli, il popolo non può che avallare le scelte ed essere contento.

Vladimir Putin ha reso ieri ufficiale l’intenzione di reinstallarsi al Cremlino come presidente, dopo una pausa di quattro anni impostagli, con suo dispetto, da un pezzo di carta pomposamente chiamato Costituzione. Il piano è questo. Putin, che è già stato presidente per due mandati dal 2000 al 2008 e che non poteva essere eletto una terza volta consecutiva, aveva temporaneamente passato il Cremlino al suo premier Dmitri Medvedev, assumendone nel frattempo il ruolo.

Ora, si torna alla casella di partenza. Medvedev sarà il capolista del partito al potere Russia Unita alle elezioni legislative del 4 dicembre e poi, dopo le presidenziali di marzo, “lavorarà attivamente” al governo, cioè tornerà a fare il premier. E Putin sarà il candidato del partito alle presidenziali.
L’annuncio è stato fatto in occasione d’un congresso di Russia Unita a Mosca.

Sullo sfondo, c’è un altro inghippo: una riforma costituzionale varata nel 2008 ha portato da quattro a sei anni i mandati presidenziali a partire dal 2012. Se eletto, Putin, che ha 58 anni, resterà dunque al Cremlino fino al 2018 e potrà esservi confermato un’altra volta, governando la Russia fino al 2024 e fino ai suoi 70 anni. E a quel punto Medvedev, che è giovane, con i suoi 46 anni, avrà ancora modo di dire la sua, sempre che ne abbia la forza e la capacità, perché lui, giurista di formazione, è stato politicamente ‘inventato’ da Putin e deve al suo mentore tutta la sua carriera.

Al congresso di Russia Unita, l’annuncio è stato accolto in modo entusiastico. Medvedev ha parlato di “decisione lungamente meditata”. E Putin ha detto che, tra loro due, l’accordo c’era “da tempo” . Non che tutto sia sempre filato liscio, durante la coabitazione a ruoli invertiti, ma, evidentemente, i patti hanno retto (e, soprattutto, i rapporti di potere non sono cambiati).

Uomo forte della Russia post sovietica dal 1999, quando divenne premier di un Boris Eltsin già minato dall’alcol e dalla malattia, Putin governa con il pugno di ferro: limita la libertà di stampa, riduce l’opposizione a un ruolo marginale, conduce in modo sanguinoso la guerra in Cecenia e quella al terrorismo. I suoi avversari considerano “una catastrofe per la Russia” un suo ritorno al Cremlino.

Sul piano internazionale, Putin è più temuto che rispettato: ebbe rapporti prima buoni e poi freddi con Bush. Obama dialoga di più con Medvedev, ma dovrà adattarsi alla staffetta. Quanto a Mr B, lui in Russia casca sempre bene: Vladi e pure Dmitri sono amici suoi; e il letto di Putin, un regalo, è stato la scena di alcune delle sue imprese più citate. Nei verbali della magistratura.

sabato 24 settembre 2011

Spigoli: pena di morte. il Texas nega l''ultima cena

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/09/2011

Adesso, ai condannati a morte in Texas, che sono un sacco, vogliono togliere pure l’ultima cena, che persino Gesù Cristo si concesse, anche se sapeva già come sarebbe andata a finire. Alla prossima, negheranno loro l’ultima sigaretta, con la scusa che fa male. Del resto, per essere messi legalmente a morte, negli Stati Uniti, bisogna essere in buona salute; altrimenti, rinviano l’esecuzione. Ma non divaghiamo. In Texas, dunque, già lo Stato più forcaiolo e ora il più micragnoso, i condannati non possono più scegliersi il menu, prima d’essere consegnati al boia per l’iniezione letale, ma devono contentarsi di quel che passa a tutti il convento, cioè il refettorio del carcere. La pietra dello scandalo è stato Lawrence Brewer, un supremazista bianco di 44 anni, omicida di un mero per odio razziale, messo a morte mercoledì scorso: Brewer ordinò una copiosa cena - nulla di raffinato, solo tanta roba - e poi non mangiò nulla con la scusa che non aveva più fame. Il senatore dello Stato John Withmire, uno con il senso del risparmio e certo timorato di dio, è insorto contro gli sprechi e la boria di questi criminali. Neppure il leader dei diritti civili texano Jim Harrington, contrario alle esecuzioni, si commuove per i condannati privati dell’ultimo menù: “La scelta –dice- s’era trasformata in un inutile show”. Il menù della cena, come le ultime parole, vengono sempre resi pubblici. Ora, ci sarà meno da scrivere.

Usa: la tagliola del puritanesimo nella corsa alla nomination

bristol Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/09/2011

La tagliola del puritanesimo è pronta a scattare sulla strada di America 2012: si accettano scommesse su quanti saranno i birilli dei candidati repubblicani alla nomination alla Casa Bianca abbattuti non da fattori politici, ma da vicissitudini coniugali (più o meno extra). La prima a farne le spese rischia di essere proprio la campionessa dei valori della vita e della famiglia, Sarah Palin, ex reginetta di bellezza ed ex governatrice dell’Alaska, tuttora cacciatrice di caribù e testimonial del Tea Party.

Il National Enquirer ne annuncia il divorzio dal marito: Todd avrebbe preso l’iniziativa di ‘farla finita’ con la moglie, legalmente parlando. Poche ore prima dell’imbarazzante ‘rivelazione’, Sarah aveva inviato una mail ai suoi sostenitori: “sto per decidere” se candidarmi alle primarie o meno.

Il titolo del giornale è a doppio senso: "Il sogno di Sarah è finito" allude non solo al matrimonio, ma anche alla carriera politica. Andiamoci cauti, però. Per una serie di motivi: lo ‘scoop’ è di uno di quei giornalacci da supermercato che, una settimana sì e l’altra pure, raccontano senza tema di smentita che i marziani sono scesi sulla terra. Inoltre, la Palin ha già dimostrato di sapere volgere a proprio favore le frittate più disastrose: nel 2008, la gravidanza indesiderata della figlia Bristol, 17 anni, ne compromise l’immagine di ‘alfiere dei valori’; con un matrimonio messo su in fretta, e poi finito ancora più in fretta, ma dopo il voto, lei trasformò la storia nel trionfo dell’amore e della vita. E, infine, formalmente la Palin non è ancora candidata, anche se tutto induce a pensare che voglia, o volesse, esserlo.

A sperare che la voce del divorzio sia una bufala è soprattutto Mitt Romney, mormone e, quindi, potenzialmente poligamo, ex governatore del Massachussetts, progressista, che vede nella Palin un’alleata: con lei in campo, il suo rivela più temibile, Rick Perry, ex governatore del Texas, ultra-conservatore, vedrebbe un serbatoio di voti svuotarsi. I sondaggi dicono che Romney e Perry sono attualmente in testa alle preferenze dei repubblicani, davanti alla Palin.

La strada della Casa Bianca è lastricata di lastricata di pietre tombali di candidati abbattuti da storie di sesso: ricordarle tutte sarebbe impossibile, ma proviamo a raccontarne alcune di quelle che lasciato il segno. Una volta che ci sei arrivato, alla Casa Bianca, invece, puoi fare quasi quel che ti pare, che nessuno ti caccia: lasciamo stare i presidenti degli albori della Nazione, i Washington e i Jefferson, che hanno avuto una discendenza nera per le loro storie con amanti schiave –altri tempi e altri valori, anche per quegli uomini illuminati-.

Veniamo ai giorni nostri o quasi. John F. Kennedy era uno che le morose non se le faceva mancare, ma di lui si seppe (quasi) tutto dopo, ben poco prima e durante. Stessa solfa per Bill Clinton, che, però, venne ‘sgamato’ e di brutto mentre stava alla Casa Bianca. Per le menzogne pubbliche su Monica Lewinsky, la stagista della Casa Bianca che aveva una postazione privilegiata sotto la scrivania presidenziale nello Studio Ovale, i repubblicani cercarono pure d’infliggergli l’impeachment, cioè di destituirlo, senza però riuscirci.

Anzi, ironia della sorte, la vera vittima di quella campagna fu Bob Livingston, un deputato della Louisiana, destinato a succedere al temibile (e tuttora in giro) Newt Gingrich come speaker della Camera, dove l’opposizione era maggioranza dopo le elezioni di midterm del 1998. La scoperta d’una sua tresca extra-coniugale lo indusse, invece, a ritirarsi e a lasciare di punto in bianco il seggio. Oggi, a 68 anni, fa il lobbysta a Washington: la politica, e la moglie, sono il suo passato.

Nel 1988, Gary Hart, senatore del Colorado, avvocato, bell’uomo, partiva da favorito nelle primarie democratiche, dopo averci già provato nel 1984, quando, comunque, contro Ronald Reagan non ci sarebbe stato nulla da fare. Gli fu fatale la relazione con la modella Donna Rice, bella donna, e, soprattutto, il tentativo un po’ goffo di tenerla nascosta. A quel punto, ebbe via libera l’insipido greco Michael Dukakis, che fece ticket con l’italo-americano Geraldine Ferraro, da poco scomparsa: una coppia troppo etnica e troppo New England, per di più con un alone di mafia intorno al marito della Ferraro, per infastidire George Bush sr, quello vero. Adesso, Hart insegna all’Università di Denver e fa il saggio in qualche talk show televisivo.

John Edwards è storia recente ed umanamente più intricata. Figlio di operaio, avvocato di successo, senatore della North Carolina, sposato con Elizabeth, padre di Wade, morto tragicamente a 16 anni, Edwards fu la rivelazione delle primarie 2004, quando contese la nomination a John Kerry e poi ne divenne il candidato vice-presidente. Tornò in corsa nel 2008, fra i favoriti, ma la sua avventura finì presto, quando saltò fuori che aveva tradito la moglie ammalata ormai terminale di cancro. Edwards non s’è più risollevato: nel giugno scorso, è stato incriminato nel North Carolina per una serie di capi d’imputazione e rischia una pesante condanna.

venerdì 23 settembre 2011

Spigoli: Paese che vai casta che trovi, Europa e America

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/11/2011

Paese che vai, casta che trovi: Europa od America, la trovi sempre: Bruxelles, Ue, o Washington, Dc, cambia poco. Le istituzioni comunitarie hanno da poco dato un giro di vite alle norme etiche dei loro membri, perché alcuni di loro praticavano il vizietto di rivendersi, a lauto pagamento, i segreti della casa dopo averla lasciata, infischiandosene dei conflitti d’interesse. Due sono stati ’sgamati’. L’ex responsabile dell’industria Gunter Verheugen, tedesco, aveva in Germania una società di consulenza per l’Ue, messa su con la ex amante attuale compagna ed ex capo di gabinetto Petra Erler. La Commissione gli ha imposto 26 mesi d’astinenza da ogni contatto con i servizi di cui era responsabile e con le aziende di cui si era occupato, pena la sospensione della pensione. E l’ex responsabile del mercato interno Charlie McCreevy, irlandese, ha dovuto dimettersi da una banca britannica, mentre continua a lavorare per la RyanAir. Gli ex commissari lobbisti non sono gli unici reprobi della casta europea: una chiacchiera riguardò l’uso ‘familiare’ dell’auto blu del presidente del Consiglio Herman van Rompuy; e, a fine 2010, si seppe che 17 ex commissari, fra cui Franco Frattini, percepivano ancora, oltre un anno e mezzo dopo la fine del loro mandato, l’indennità di transizione prevista anche per chi ha un’attività remunerata. Ed anche i potenti d’America s’attirano critiche: la first lady Michelle Obama è nella bufera perché, a una serata di raccolta fondi per il partito democratico, indossava bracciali del valore di oltre 40 mila dollari, disegnati dall’orafa prodigio Katie Deker, 23 anni. Lanciata dal sito conservatore Drudge Report, la notizia suscita commenti taglienti: “Indossa più del mio reddito annuale”, dice uno; e “Quanti poveracci potrebbero sfamare quello pietre?”, s’interroga un altro.

Wikileaks: Assange che di censura ferisce di censura perisce

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/09/2011

Chi di Wikileaks ferisce, di Wikileaks perisce: il sito al curaro di Julian Assange continua a mietere vittime, ma neppure il suo fondatore è risparmiato dai contraccolpi, giudiziari, finanziari e personali, delle sue ‘overdose di verità’. Ieri, è uscita la biografia non autorizzata dell’hacker australiano: falliti i tentativi di bloccarne la pubblicazione, dopo una controversia con la casa editrice Canongate. La stesura è opera del ghost writer Andrew O'Hagan, con cui Assange ha ricostruito, per la prima volta, gli episodi sessuali che gli sono contestati in Svezia. Contemporaneamente, il direttore della tv pan-araba al Jazira si dimetteva, dopo essere finito nel tritacarne dei cablo di Wikileaks.

L’uscita della biografia segue di pochi giorni la messa all’asta di ‘cimeli’ di Assange a caccia di fondi per tamponare le falle nei conti. Tra gli oggetti in vendita, una bustina di caffè ‘souvenir’ dei giorni in carcere (315 dollari prezzo base su eBay: un po’ caro, non vi pare?) e un portatile (6.000 dollari), oltre a un ritratto firmato nel giorno del suo 40.o compleanno e ad un cablo inviato dal segretario di Stato Usa Hillary Clinton all’Onu.

Le difficoltà finanziarie del sito e del suo fondatore si sono aggravate di recente. Una valanga di critiche sono piovute sul Wikileaks e su Assange, da parte di governi e organizzazioni, ma anche di media e giornalisti, dopo la pubblicazione di documenti alla rinfusa, senza neppure tenere conto dei rischi che alcune fonti di quelle informazioni potrebbero correre. L’hacker, tuttora in attesa della decisione d’una Corte d’Appello britannica sulla sua estradizione o meno in Svezia, dopo le vogliono processare per violenza sessuale, è pure entrato in rotta di collisione con i soci del sito.

La biografia, pronta da marzo in una prima stesura, è uscita malgrado Assange abbia da tempo sospeso la collaborazione all’opera: lui voleva farne un manifesto politico, mentre il libro ora pubblicato insisterebbe troppo sulle sue vicende personali: “Tutte le memorie sono una forma di prostituzione”, avrebbe detto il biondino australiano, motivando l’ostilità al progetto. Però, l’hacker non è stato in grado di rendere alla Canongate il robusto anticipo - 400.000 sterline, pare- versatogli: i suoi fondi sono bloccati per il pagamento delle spese legali.
Secondo il suo racconto, le accuse svedesi nascono dal desiderio di Washington di screditarlo e da una rivalsa delle due accusatrici per essere state ‘scaricate’.

Fin qui, le nuove grane di Assange. In fondo, poca cosa rispetto ai fastidi toccati a ‘vittime’ dei cablo riservati da lui messi in rete senza filtri. Wadah Khanfar, da otto anni direttore di Al Jazira, s’è dimesso, pur negando di essersi piegato a pressioni da parte degli Stati Uniti, come invece risulterebbe da documenti pubblicati da Wikileaks. In un’intervista alla sua tv, Khanfar attribuisce le dimissioni al logoramento dell’incarico: "Abbiamo avuto pressioni, per esempio per la copertura di notizie su Osama bin Laden o sull'Iraq, ma abbiamo sempre fatto il nostro lavoro … Gli Usa sono sempre stati critici con noi, hanno imprigionato nostri giornalisti, hanno bombardato nostri uffici".

Secondo cablo di Wikileaks, Khanfar avrebbe modificato alcuni reportage in base a obiezioni fattegli dall'intelligence americana, con cui era in contatto. Il suo successore è Sheikh Ahmed bin Jassim bin Mohammed Al Thani, un qatarino della famiglia reale.

giovedì 22 settembre 2011

Spigoli: Libia, le amnesie di Obama e quelle della Farnesina

Scritto per Il Fatto Quoitidiano del 22/09/2011

La bandiera della nuova Libia, che è poi la stessa della vecchia, sventola all’Onu. Guerra finita? Non proprio, se la Nato deve estendere la missione di guerra per tre mesi, cioè fino alla fine dell’anno. Eppure il Cnt, Consiglio nazionale transitorio degli insorti, promette “un governo entro una settimana, dieci giorni”, cioè entro il mese. I bollettini dal campo paiono una marcia trionfale: Sabha sotto il controllo dei ribelli, Waddan liberata, il 70% dell’oasi di Jufra presa. Però, Gheddafi non salta fuori: il colonnello ex dittatore trova, anzi, modo di rifarsi vivo su una tv siriana, denunciando “la buffonata “ dell’insurrezione, che “si regge in piedi solo per i bombardamenti della Nato, che non dureranno in eterno”; e i lealisti, accerchiati, tentano sortite con qualche risultato. L’Italia, intanto, lenisce i suoi crucci libici: nella riunione degli ‘amici della Libia’, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente Obama ringrazia un po’ tutti, ma dimentica proprio l’Italia. L’opposizione ne vede una prova “del drammatico isolamento internazionale” del Paese di Mr B e chiede un dibattito in Parlamento. Che la Libia resti un nervo scoperto per l’Italia lo dimostra la lettera al WSJ scritta dal portavoce della Farnesina: il giornale aveva un po’ ironizzato sulla ‘nostalgia di Gheddafi’ del comune di Antrodoco, nel Reatino, che contava di ‘svoltare’ grazie ai soldi del dittatore. L’ambasciatore Massari spiega al WSJ che Antrodoco è una cosa e l’Italia è tutta un’altra: “L’Italia è profondamente convinta che un mondo senza Gheddafi è un mondo migliore”. Chissà dove vivono, questi di Antrodoco: magari, in un mondo in cui il Cavaliere bacia l’anello del Colonnello. S’è mai visto?

mercoledì 21 settembre 2011

Mr B: rating, da Obama a Zapatero lezioni di credibilità

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/09/2011

Dopo che S&P abbassa il rating dell’Italia a causa “della fragilità del governo” e dell’inadeguatezza delle misure per la crescita previste dalla manovra, da Bruxelles si leva un coro a due voci. C’è quella a pieni polmoni, che rileva che il giudizio dell’agenzia di rating che è “troppo severo”, come afferma il vice-presidente italiano della Commissione europea Antonio Tajani, o “severo”, come dice il commissario all’economia Olli Rehn, e che rilancia il ritornello –giustissimo!, per carità- dello strapotere ingiustificato delle agenzie e della necessità di crearne una europea e indipendente.

L’altra voce, solo sussurrata, echeggia un antico concetto: “chi è causa del suo mal pianga se stesso”, perché l’Italia poteva fare meglio, prima di arrivare alla manovra; e, adesso che c’era, poteva farla meglio. A Tremonti e allo stesso Berlusconi quando ha proprio voluto venire a farsi benedire le sue misure dai leader europei, l’avevano detto in tutti i modi: i numeri vanno bene per raggiungere gli obiettivi di riduzione del debito, sempre che i risultati siano quelli sperati, ma ci vogliono più interventi per la crescita. Un discorso che ritorna nei commenti europei alla botta di S&P.

E mica solo in quelli europei. In un mondo che arranca, dove l’Fmi ha di nuovo abbassato ieri le previsioni di crescita e ha ridotto quelle dell’Italia allo 0,6% quest’anno e addirittura allo 0,3% l’anno prossimo, il presidente Napolitano trova la forza di parlare di un Paese vitale, ma sollecita un “impegno comune per la crescita”. E la leader degli industriali Marcegaglia ripropone il suo “o misure serie o governo a casa”: insomma, non c’è bisogno di andare a Bruxelles per sentirselo dire. Tremonti lancia un piano per lo sviluppo decennale che echeggia il titolo e raddoppia i tempi dei famigerati piani quinquennali mai realizzati delle economie sovietiche.

Eppure, in tutti questi mesi, ormai quasi due anni, di faticare europeo contro il debito che soffoca alcune delle economie della zona euro, qualche esempio su ‘come fare’ all’Italia non era mancato. Tutti i Paesi che hanno avuto bisogno di ricorrere, per dare credibilità al risanamento, al sostegno dell’Unione hanno visto un passo indietro delle forze al governo, proprio per ovviare alla carenza
di credibilità politica. Certo, la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo stavano, e almeno la Grecia ancora sta, molto peggio dell’Italia. Ma le loro vicende contano. In Grecia, il premier Papandreu, quando c’è stato bisogno di fare sul serio, ha proceduto a un largo rinnovamento del proprio governo, così da dargli peso nella congiuntura difficile. In Irlanda, il governo ha indetto elezioni anticipate. In Portogallo, le politiche si sono svolte in un clima di condivisione delle misure necessarie.

Le situazioni e le circostanze, Paese per Paese, sono diverse, così come le transizioni: in Grecia, s’era appena passati dal centro alla sinistra; in Portogallo, dal centro-sinistra al centro-destra; in Irlanda, le etichette tradizionali sono inapplicabili. Anche in Spagna, Zapatero chiama al voto dopo avere annunciato il proprio abbandono: ci vuole un leader in cui la gente abbia fiducia.

Sono esempi che fanno storcere il naso, perché riguardano chi sta peggio di noi? Allora, guardiamo agli ‘amici’ di Mr B. No, non da quella parte: non Putin e i suoi fratelli oligarchi dell’ex Urss; giriamoci verso gli Stati Uniti, dove Obama, dopo avere cincischiato sul debito a inizio estate, alza le tasse ai ricchi per risanare i conti e lancia un piano per il lavoro colossale; o verso la Francia, dove Sarkozy si preoccupa della crescita (pensando pure alle presidenziali 2012). Persino la Merkel e Cameron, che i conti li hanno quasi in ordine, hanno chiaro il concetto: primo, crescere; ed essere credibili.

martedì 20 settembre 2011

Mr B: uno zotico per lo Spiegel, un Cynar per il NYT

Scritto per Il fatto Quotidiano del 20/09/2011

Non siete contenti del Paese dove vivete e dei leader che avete? Il New York Times consiglia agli americani: "Pensate all'Italia e a Berlusconi e tutto vi sembrera' migliore", se non proprio buono. Il servizio. dal titolo adatto a una commedia di Eduardo, 'L'afflizione della consolazione', ha valenze universali, mica solo americane, mentre i rivoli di scandali, gaffes, inchieste che scorrono addosso al premier s'ingrossano fino a diventare un rio delle Amazzoni. Eppure, si stupisce e quasi s'indigna il Financial Times, nulla "riesce a intaccare il sostegno" per il Cavaliere, che possiede "la combinazione vincente di ricchezza e potere".

In Italia, magari non accade ancora. Ma, nel fine settimana e pure ieri, le vanterie sessuali di Mr B tenevano banco, dalla Bbc al Daily Mail, che velenosamente sottolinea una frase del Cavaliere a Gianpi': "Non invitate ragazze alte". Il Times di Londra lo tratta da "premier part time", il Guardian strilla in homepage che "Berlusconi procuro' il visto a un magnaccia". E ci vanno a nozze, anzi a puttane, pure Telegraph e Figaro, Les Echos e Nouvel Obs, Newsweek e la Bildt ed El Mundo, tutte le agenzie di stampa mondiali.

Der Spiegel ricama sulle carinerie di Mr B per la Merkel, la 'culona', che ieri ha ricordato che "se si spacca l'euro si spacca l'Europa" e ha impegnato il governo tedesco "a risolvere la crisi della moneta unica". La stampa tedesca torna aoccuparsi del premier italiano Silvio Berlusconi, e degli scandali sessuali in cui è coinvolto. Il settimanale e' il primo a pubblicare sulla stampa tedesca il virgolettato, sotto il titolo "Zotico e volgare”: “Il premier avrebbe detto in una telefonata cose non belle sulla Merkel. I diplomatici temono adesso una crisi tedesco-italiana”, si legge nel sommario. La frase e' riportata in italiano, e' attribuita a 'Il Fatto' come fonte ed e' tradotta in tedesco. “Si tratta di parole imbattibili quanto a volgarità e rozzezza”, commenta lo Spiegel.

Magari, Angela se ne ricordera' quando, a meta' ottobre, il 17 e 18, i leader dei 27 si riuniranno a Bruxelles per un Vertice europeo decisivo per le sorti dell'euro. Per trarsi d'impaccio, il Cavaliere potrebbe mandarci, al posto suo, Manlio Dovi', l'imitatore e showman del Bagaglino che invitava alle sue feste per vedergli fare il verso a Sarkozy. Dovi', che se la cava pure con Bush, ha raccontato al Corriere della Sera: «La vide al Salone Margherita e si divertì tantissimo ... L'ho riproposta ad una sua festa quell'estate a Villa Certosa, c'era Putin».

Il clima d'imbarazzo internazionale verso Mr B e' tale che Palazzo Chigi considera una manna l'assenza nelle prossime settimane di appuntamenti multilaterali dove la presenza del premier sarebbe inevitabile: di qui al Consiglio europeo, il panorama e' sgombro, salvo eventuali impegni bilaterali.

Anche evitare l'apertura a New York questa settimana dell'assemblea generale delle Nazioni Unite e' stato relativamente semplice. Non si tratta, infatti, di un evento che richieda la presenza di capi di Stato o di governo, ne' ci sono a margine, quest'anno, vertici settoriali o regionali. La sorte ha poi relegato il discorso dell'Italia in posizione defilata, al sabato: lo pronuncera' il ministro Frattini, come previsto.

L'agenda del titolare della Farnesina, gia' sul posto, conferma che l'assenza del Cavaliere non sara' troppo notata -anzi, si sarebbe certamente notata di più una sua presenza 'gratuita'-. Il ministro spaziera' dal sostegno alla Libia post-Gheddafi all’ancora fragile situazione in Somalia, dal Medio Oriente con la patata bollente del riconoscimento palestinese all’impegno per la transizione in Afghanistan. Saranno all’Onu anche il sottosegretario Scotti e diversi ministri tecnici per incontri chre vertono sul tema della "mediazione per la soluzione dei conflitti internazionali".

domenica 18 settembre 2011

Mr B e la 'solitudine dei numeri premier'

Scritto per Il fatto Quotidiano del 18/09/2011

Ma dove vai, se l’amico non ce l’hai?, e neppure un partner che ti rispetta? Mr B sperimenta la solitudine dei numeri primi, anzi dei ‘numeri premier’… La foglia di fico della fuga in Europa ha funzionato, martedì , perché i leader dell’Ue Van Rompuy, Barroso, Buzek, non hanno il peso per dire di no a un capo di governo. Ma il giochino non è riuscito con l’avvio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la prossima settimana: s’era ventilato che Berlusconi dovesse andarci, ma non per fare il discorso –l’Italia ha già prenotato il podio al ministro Frattini- e neppure con un’agenda di incontri, anche se qualche interlocutore da Terzo Mondo, alla fine, si sarebbe magari trovato. Oggi, fra i Grandi del Mondo, nessuno muore dalla voglia di vederlo: troppe chiacchiere sul suo conto, troppe cose dette e non fatte, troppe cose dette ‘tout court’. Il 2011 è stato duro: il Cavaliere ha perso un sacco di amici, Mubarak, quello che gli affidava la nipote perché ne avesse cura, Ben Alì, Gheddafi; qualcuno gli resta, come Putin, uno per molti versi della sua stessa pasta, ma più duro –lui mica si sarebbe fermato a otto, quella sera, le avrebbe messe sotto tutte e 11- ed ancora gli oligarchi post sovietici Lukashenko, il bielorusso, e Nazarbayev, il kazakho, ma quelli è meglio che non s’espongano troppo a favore, chè sono proprio impresentabili. La stampa internazionale segue distaccata il declino dell’imperatore: è noia, quasi assuefazione, dopo che i tiramolla della manovra hanno lasciato gli analisti più scrupolosi confusi e il profluvio delle intercettazioni travolge i cronisti del gossip. Così, il ‘tour dell’Ue’ passa quasi sotto silenzio, anche perché lui la racconta solo in italiano. Certo, ogni tanto c’è il ‘salto di qualità’. La storia della Merkel fa il giro dei media mondiali, mica solo tedeschi: tutti ci sguazzano a difesa della cancelliera vittima “del linguaggio sessista” (Guardian) del premier italiano (per molti, l’insulto di Mr B “lo sconcio”, Daily Mail, è irripetibile). Nell’intreccio di inchieste e processi, la stampa estera dall’Ap alla Bbc cerca di stare al passo. Il NYT si chiede come Berlusconi festeggerà i 75 anni. Le Figaro nota che il Cavaliere “comincia a essere lasciato” dai suoi fedelissimi: se se ne vanno loro, figuriamoci come se la danno i Grandi del Mondo. Eppure, talora si sbaglia, a tenerlo fuori. Se giovedì Sarkozy e Cameron fossero andati a Tripoli con Berlusconi, magari veniva sulla piazza a salutarlo pure Gheddafi, se non altro per mettergli un dito nell’occhio, dopo lo scherzetto che gli ha fatto.

sabato 17 settembre 2011

Il 'cimitero' degli ex leader (non italici), tra sinecure e oblio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/09/2011

Quelli italiani restano, comunque, in politica, mordendo il freno per il prossimo giro, che, finché c’era la Prima Repubblica, arrivava (quasi) sempre. Loro non mollano. Quando sono proprio decrepiti, come Andreotti e Colombo, si ritrovano senatori a vita, che è pure il limbo dorato –e obbligato- degli ex presidenti della Repubblica. Ma i De Mita e i D’Alema e persino i Dini restano lì; Amato, lui, s’è fatto da parte, ma è più che mai nella ‘riserva’. Solo di Forlani, 86 anni, si sono perse le tracce. Prodi, almeno, quando non è premier in Italia, si trova un lavoro all’estero e lo fa bene: presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004 e ora responsabile per l’Onu delle missioni di peacekeeping in Africa.

Ma negli altri Paesi dove vanno a finire i premier che lasciano? La vicenda di ‘cincinnato’ Leterme, il leader belga che pianta baracca e burattini per un posto manco fisso da funzionario internazionale, evoca storie diverse di ordinaria democrazia, tutt’intorno all'Italia.

Negli Usa, si sa, il presidente che ha lasciato la Casa Bianca è fuori gioco: tira su la sua biblioteca e, se non è Bush, che fare discorsi non è mestier suo, va in giro a battersi per le cause buone e perse (Carter ci ha pure vinto un Nobel per la Pace) o a guadagnare un sacco di soldi tenendo conferenze (Clinton); se è Bush, si ritira nella sua fattoria a sradicare alberi o gioca a golf, come piaceva fare fin oltre i novant’anni a Gerald Ford.

Nelle democrazie occidentali, in genere quando hai finito hai finito: se vuoi, torni a fare il mestiere che facevi prima. Certo, non tutti la prendono bene (o la interpretano bene) questa regola. Prendete l’ex cancelliere tedesco Schroeder, che, poco dopo la fine del proprio mandato, accettò la nomina della Gazprom a capo del consorzio Nord Stream AG, che realizza un gasdotto sotto il Mar Baltico tra la costa russa e la costa tedesca: in pratica, un lobbista degli interessi russi nel proprio Paese.

O l’ex premier spagnolo Aznar. Nel giugno 2006, due anni dopo la sconfitta elettorale, divenne presidente del Consiglio di Amministrazione della News Corporation di Rupert Murdoch, che controlla conglomerati di media come la 20th Century Fox, la Fox Broadcasting Company, giornali, riviste, portali internet (c’era pure il settimanale britannico News of the Worls, che sappiamo che fine ha fatto). E il vizietto della ‘lobby’ ben remunerata dopo l’incarico politico l’hanno mostrato alcuni commissari europei, finché c’è stato un giro di vite alle norme per gli ex.

Anche il britannico Tony Blair non è proprio un modello: uscito da Downing Street troppo presto per andare in pensione, è diventato inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente (Onu, Ue, Usa e Russia), ma lo fa svogliatamente: il compito è ostico, ma un po’ di zelo non guasterebbe.

In Francia, i presidenti diventano dei saggi –Giscard d’Estaing- o degli imputati –Chirac-,. Invece, il premier socialista Lionel Jospin, a Matignon dal 1997 al 2002, non s’è più fatto vedere in giro, dopo che, nelle presidenziali 2002, si fece estromettere dal ballottaggio, prendendo meno voti del leader xenofobo Jean-Marie Le Pen. Auto-confinatosi a semplice militante, Jospin pubblica articoli o scrive libri, ma non ha più brigato un posto pubblico.

Le storie più esemplari ci vengono dal Nord, non solo scandinavo: i politici passano; la democrazia, anche per questo, resta. Dries Van Agt, premier olandese dal 1977 all’ ’82, era un professore cattolico che andava al lavoro all’Aja in bicicletta: battuto dai socialisti al voto, andò a fare l’ambasciatore dell’Ue –che allora era solo la Cee- in Giappone e a Washington. Più recentemente, un percorso analogo fece l’irlandese John Bruton, premier, o taoiseach, come dicono loro, dal 1994 al 1997. Poi, lasciata la politica nazionale, fu ambasciatore dell’Ue a Washington.

venerdì 16 settembre 2011

Spigoli: Libia, 'Tripoli bel suo d'amore' cantano Sarkò/Cameron

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/09/2011

Che ammucchiata di leader a Tripoli e a Bengasi. Ci arrivano, insieme, il presidente francese Sarkozy e il premier britannico Cameron: vengono a ntascare il ‘dividendo della vittoria’. Doveva pure esserci il premier turco Erdogan, che, colto alla sprovvista, resta un giorno in più a Tunisi, così da non spartire la scena con altri. Sarkozy e Cameron volevano fare un’improvvisata stile Bush a Baghdad il Giorno del Ringraziamento 2003, ma un’indiscrezione brucia la sorpresa. Una volta in Libia, però, non si fanno mancare nulla: annunci (scongelati un sacco di soldi e ‘sdoganati’ i viaggi), promesse (vi aiuteremo a catturare Gheddafi, che resta ‘uccel di bosco’ e chiede di fermare l’attacco alla Sirte), dichiarazioni ad effetto (siamo in un Paese libero, siamo in un Paese unito, questa è la vostra vittoria). Il presidente del Cnt Abdel Jalil li ricambia in moneta sonante: chi ha partecipato alla guerra a fianco dei ribelli avrà “una priorità” per i nuovi accordi economici, energetici e commerciali, in un processo “trasparente”; i contratti esistenti e legittimi “saranno rispettati”, ma alcuni “potrebbero essere rivisti in caso di corruzione”-. E l’Italia? Ieri, s’è insediato il nuovo ambasciatore, un bravo diplomatico che arriva dritto dall’ufficio del consigliere del presidente della Repubblica. Giuseppe Buccino, dice la Farnesina, “è stato il primo ad avere il gradimento libico”. Ma un ambasciatore non pesa come un presidente o un premier. E l’Italia non può giocarsi a Tripoli un Mr B, mica tanto tempo fa il miglior amico del colonnello dittatore. La Farnesina è vaga: “Andremo a Tripoli pure noi, un giorno prima o dopo, la sostanza non cambia”. Del resto, l’uomo che conta a Tripoli ce l’abbiamo già mandato; anzi, c’è andato da solo, che è meglio: l’ad dell’Eni Scaroni c’era stato a inizio mese e c’è tornato lunedì per stringere i tempi della ripresa del flusso di gas verso l’Italia.

giovedì 15 settembre 2011

Belgio: Cincinnato Leterme se ne va lasciando il Paese in panne

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/09/2011

Neppure Lucio Quinzio Cincinnato fece tanto sconquasso a Roma, allora poco più d’un villaggio, quando, nel 460 a.C., dopo essere stato console, decise di lasciare la politica e di tornare ad occuparsi dei suoi campi. Salvo, poi, due anni dopo, nel 458 a.C., accettare il titolo di dittatore: mica una cosa alla Gheddafi, un incarico quasi democratico nella repubblica nascente.

In Belgio, Yves Leterme, premier in carica per gli affari correnti, non ha deciso di tornare a coltivare i campi, anche perché non risulta che l’abbia mai fatto; ma ha annunciato che, entro la fine dell’anno, cioè non proprio domani, lascerà la guida del governo per diventare segretario generale aggiunto dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, un organismo internazionale ascoltato e autorevole, di cui fanno parte 32 Paesi, ma che non ha né i poteri né il prestigio dell’Ue. Leterme s’è visto offrire il nuovo posto da Angel Gurria, il suo nuovo ‘capo’ a Parigi, dov’è la sede dell’Ocse: la nomina dovrebbe essere formalizzata domani.

La mossa di Leterme fa però venire giù il castello di carte della politica belga. Il premier, un cattolico fiammingo, era già a capo dell’esecutivo prima delle elezioni del 13 giugno 2010: da allora, e sono passati 459 giorni, i partiti non sono ancora stati capaci di mettersi d’accordo su un programma e di formare un governo. Nel frattempo, a dire il vero, il Paese se l’è cavata egregiamente, subendo meno di molti altri nell’Unione europea la crisi economica e gestendo con ottimi risultati la presidenza di turno dell’Ue nel secondo semestre 2010.

Di fronte al precipitare della situazione, il re Alberto II, unico simbolo forte di un’unità nazionale ormai vacillante, è subito tornato a Bruxelles da Nizza, con un aereo militare. Gli sviluppi delle trattative per la formazione di un esecutivo dotato di pieni poteri sono complicati da un “blocco profondo”, come denuncia il leader socialista francofono Elio di Rupo, incaricato da luglio di varare un governo. L'uscita di scena di Leterme è un rompicapo anche per i costituzionalisti, in quanto è la prima volta dal 1831, cioè da quando il Belgio è indipendente, che un premier in carica per gli affari correnti si dimette.

Con la sua decisione, Leterme fa dunque sprofondare la crisi politica del suo Paese al livello più basso e alimenta i timori di una separazione del Belgio, diviso tra le Fiandre, a Nord, ricche, cattoliche e abitate dai due terzi della popolazione di lingua fiamminga, e la Vallonia, a Sud, meno florida, socialista e abitato dal terzo della popolazione di lingua francese. Non è escluso che il premier cerchi, così, di dare una scossa alle trattative, incoraggiandone il successo.

A luglio, dopo un appello del re in occasione della festa nazionale, il 21 luglio, otto partiti avevano trovato un accordo di massima. Ma quando i negoziati sono ripresi dopo la metà di agosto, altri nodi sono venuti al pettine. Di Rupo, un politico esperto di origine italiana, il cui partito ottenne più voti a livello nazionale nelle ultime consultazioni, ha riunito, ieri, in uno sforzo di conciliazione in extremis, gli otto partiti del ‘patto del 21 luglio’: "Lancio un appello a un sussulto di responsabilità -ha detto-. Ne va dell'avvenire del Paese". Qualche reazione c’è stata: dopo ore di confronto, si registrano passi avanti sulle modifiche costituzionali e sullo statuto della controversa circoscrizione a maggioranza francofona in terra fiamminga, Bruxelles-Hal-Vilvorde: una controversia che basta a tenere il Belgio sull'orlo della secessione.

Una difficoltà politica rilevante è però il fatto che, dai negoziati, è attualmente esclusa la Nva, la nuova Alleanza fiamminga e secessionista di Bart de Wewer, uscita dal voto come primo partito nelle Fiandre scavalcando i cattolici. E i sondaggi dicono che de Wewer continua a guadagnare consensi, cavalcando temi nazionalisti fiamminghi e lo spauracchio di un aumento delle tasse.

Consapevole di togliere con le sue dimissioni l'unica stampella a una situazione istituzionale abnorme, Leterme ha rinunciato alla sua liquidazione: un gesto alla Cincinnato.

mercoledì 14 settembre 2011

Manovra: Mr B in missione europea, foto, gaffe e scaricabarile

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/09/2011

La ‘missione Europa’ di Silvio Berlusconi si esaurisce in una serie di foto di rito, dichiarazioni di circostanza e strette di mano protocollari. Per la manovra, non cambia nulla: i leader dell’Ue non apprendono nulla che già non sapessero; il premier italiano non riceve più avalli di quelli già avuti. Il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, uno che dichiara a misura di twitter, dice che la manovra è “ambiziosa” -termine che diplomaticamente sottintende perplessità sulle capacità di realizzarla-. Il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso, uno che invece parla a fiotti, mette l’accento sulla necessità di fare in fretta: "L'applicazione rapida, efficace e rigorosa (delle misure proposte) e' assolutamente essenziale" ed è "fondamentale" per rassicurare i mercati,
si legge in una nota pubblicata dopo l'incontro al Parlamento europeo a Strasburgo.

Una giornata a fare a scaricabarile. Sull’opposizione, per, pur di dare “una spallata al governo”, “rovina l’immagine dell’Italia”. E sull’Europa: “Decidete voi –suggerisce a Van Rompuy- d’aumentare e di quanto l’età della pensione. Tutti gli Stati sarebbero felici di doverlo fare perché ‘comandati’ da Bruxelles”. Ecco un leader che sa assumersi le proprie responsabilità! E che qui fa l’europeo mentre a Roma fa il leghista: vuole più governance Ue e ammodernamenti costituzionali.

Molta scena, poca sostanza, qualche strascico. E, immancabile, la gaffe. Quando van Rompuy prova a interromperne la dichiarazione, per dare all’interprete il tempo di tradurre, Berlusconi s’interpone in francese, "Je crois que ce n'est pas nécessaire", credo che non sia necessario. I giornalisti stranieri restano interdetti, anche quando il Cavaliere spiega in francese: "Ho detto tutto questo in italiano perché penso fosse importante che ad ascoltarmi fossero soprattutto i giornalisti italiani". Qualcuno prova a fare domande; il Cavaliere, sempre in francese, è tassativo: "Ci eravamo intesi sul fatto che dovesse essere solo una dichiarazione e dunque non accetto domande". Van Rompuy annuisce, Mr B se ne va a Strasburgo.

Fuori dalla sede del Consiglio dei Ministri dell’Ue, dove s’era infilato dicendosi “assolutamente tranquillo” –“Sono qui per colpa delle opposizioni” e non per scappare dai giudici di Napoli che vogliono interrogarlo-, manifestanti del Pd di Bruxelles scrivono a grandi lettere la parola Basta: "L'Europa non è un alibi: Berlusconi si faccia processare", è lo slogan dei contestatori, che non sono numerosi.

Da Bruxelles a Strasburgo, la missione del premier è tutta in chiave italiana, altro che europea: accanto a Van Rompuy, che non si fa coinvolgere, Mr B parla “del paradosso” di un'opposizione che, pur condividendo gli obiettivi del pareggio di bilancio inserito in Costituzione e raggiunto
nel 2013, critica la manovra “con l’intenzione di rovinare l'immagine del presidente del Consiglio, rovinando così l'immagine del Paese".

Se fosse vero, sarebbe fatica sprecata, perché l’immagine del Cavaliere è già abbastanza rovinata. Lo prova il clima che l’accoglie a Strasburgo, nonostante l’incontro col presidente del Parlamento Jerzy Buzek duri 45’, fanno sapere i cronometristi al seguito, ben oltre i “due minuti” pronosticati ieri dallo stesso Buzek.

Il capogruppo socialista Martin Schulz si chiede “perché perdere tempo con un capo di governo dubbio”. Certo, Schulz, un tedesco che Berlusconi trattò in aula da kapò, non è proprio il meglio disposto verso il premier italiano. Eppure, adesso che si candida alla presidenza dell’Assemblea, fa il diplomatico: “Barroso e Van Rompuy mica potevano dirgli ‘No, qui non vieni, vai a Napoli a farti interrogare’ … E’ in una situazione drammatica per il suo governo e il suo paese …. Sono certo che i giudici avranno tempo per lui nei prossimi giorni”. Il leader verde Daniel Cohn-Bendit dice che Berlusconi non pensa “a salvare l’Italia, ma a salvare se stesso”: “è un pericolo per l’Italia e l’Europa, non è all’altezza”. Gli eurodeputati di Pd e Idv sostengono di avere evitato che l’aula diventasse “una gogna per l’Italia”, perché c’era chi progettava “gazzarre e proteste” e persino “manifestazioni coreografiche”; e si scusano per l’italica “sceneggiata” sul palcoscenico europeo”. Poi, invitano il Cavaliere a incontrare i deputati italiani. Ma Berlusconi non ha tempo.

Pure l’incontro con Barroso è un po’ asfittico: malgrado duri un’ora e 20’, non c’è modo di parlare dell’acquisto di titoli di Stato italiani da parte della Cina. Eppure il Cavaliere, che è accompagnato dal direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli, esprime “soddisfazione massima”, la sua e pure quella dell’interlocutore. Poi torna a Roma: l’Europa gli chiede di fare in fretta e lui esegue, fiducia e varo della manovra domani, un "segnale importante". I tecnici del suo seguito tirano le somme e ammettono: “Missione per nulla”. Ma, come recita il detto, “un legittimo impedimento al giorno leva i giudici di torno”.

martedì 13 settembre 2011

Manovra: Mr B si nasconde ai giudici dietro l'Ue

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/09/2011

C’è chi si nasconde dietro a un dito; e chi, più pudicamente, dietro un paravento. Mr B si nasconde dietro l’Unione europea. O, almeno, ci prova. Perché i suoi interlocutori europei, che saranno magari vasi di coccio fra i vasi di ferro tedeschi e francesi, ma con gli italiani ci vanno (quasi) alla pari, si prestano con riluttanza alla pantomima inscenata dal Silvio nazionale, che s’inventa di dovere andare in fretta e furia a informare l’Ue sulla manovra in dirittura d’arrivo; e proprio oggi, martedì, quando doveva rispondere alle domande dei magistrati di Napoli sul caso Tarantino. Il presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek, Ppe come lui, lo umilia in aula: “Gli potrò dedicare al massimo due minuti”, tanto valer la conclamata ‘emergenza Italia?; o tanto vale il nostro premier.

Per Van Rompuy, Barroso, Buzek, negargli l’appuntamento era diplomaticamente impossibile. Ma, al di là delle versioni ufficiali di questa storia, che vedremo, fonti vicine ai leader europei ne testimoniano il fastidio per essere stati messi in mezzo e ‘usati’. L’Unione non aveva urgenza di sentire Berlusconi sulla manovra; era Berlusconi che cercava un modo di sottrarsi all’interrogatorio.
Che cosa pensa della manovra, la Commissione europea lo ha già detto. E ieri il responsabile dell’economia Olli Rehn ha ribadito che l’Italia deve essere pronta a nuove misure se le entrate risulteranno inferiori alle attese, cioè se la lotta all’evasione fiscale, i contributi straordinari, la riduzione della spesa pubblica e, ora, l’aumento dell’Iva non bastassero a centrare gli obiettivi di risanamento dei conti.

C’è pure il rischio che questa gita europea tra Bruxelles e Strasburgo si sia una passeggiata, ma un calvario: Mr B cerca avalli, ma troverà ammonimenti e se ne tornerà a casa strigliato a lucido. Non che gli importi molto: per lui, quel che dice Bruxelles conta solo in funzione dei suoi calcoli interni. Ne è prova la leggerezza con cui l’Italia, alla vigilia della missione del premier, si mette contro Commissione e Parlamento chiedendo, insieme ad altri sette Paesi, pesanti tagli al bilancio comunitario 2014-’20.

La ricerca di una via di fuga europea dai magistrati di Napoli è iniziata, in pratica, subito dopo l’annuncio dell’interrogatorio del premier come parte lesa e s’è conclusa, di fatto, sabato sera, quando i legali di Mr B hanno informato del ‘legittimo impedimento’ la Procura napoletana, che ha filosoficamente commentato “troveremo un altro momento”. O forse no, visto che, oggi, gli avvocati del premier depositeranno a Napoli una memoria difensiva, per la serie “ti racconto quel che voglio e non mi faccio fare domande”.

La definizione degli appuntamenti europei non è stata facile. Gli aggiustamenti dell’agenda sono proseguiti fino a ieri. Il Cavaliere all’intervistatore di fiducia Belpietro sulla rete di casa Canale5, racconta: “A causa del comportamento dell’opposizione e dei suoi giornali si è creata sulla manovra molta confusione”, glissando sul fatto che la confusione derivava, piuttosto, dai continui tentennamenti della sua maggioranza.

Dunque, la visita alle istituzioni europee non sarebbe una fuga, ma “un dovere”, dopo che s’era indotta l’Ue a pensare che “il governo italiano non fosse intenzionato a fare i sacrifici per arrivare al pareggio di bilancio nel 2013”. C’era “la necessità”, suggerita dal commissario Antonio Tajani e dal capofila Pdl al Parlamento Mario Mauro, “di confortare i nostri interlocutori europei per chiarire come sia tutto il contrario”. Sabato, però, Berlusconi, che non si pone mai il problema della congruità di quel che dice, aveva attribuito la genesi della missione alle dimissioni del membro tedesco del direttivo Bce Stark, date venerdì pomeriggio.

In realtà, gli umori raccolti a Bruxelles in conversazioni informali non corroborano affatto queste versioni. Gli interlocutori europei non avevano tutta questa impellenza di essere confortati da Berlusconi. E neppure la data di oggi è davvero ideale: lo prova la riluttanza del presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek a dare un appuntamento al Cavaliere. Inoltre, l’Assemblea è in sessione a Strasburgo e anche la Commissione si riunisce lì, per cui al premier per vedere Barroso e Van Rompuy non basta uscire da un palazzo ed entrare in quello di fronte, ma tocca fare una navetta di 500 chilometri: al mattino a Bruxelles vedrà il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy; nel pomeriggio a Strasburgo il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso. Avrà pure un incontro fuggevole, “di cortesia e informale”, con Buzek, che, polacco, bada a ricevere il presidente del suo Paese Bronislaw Komorowski: “Potrò al massimo concedergli due minuti”, dice in aula, quasi uno sberleffo verso l’ospite ‘imbucato’.

Formalmente, le istituzioni comunitarie smorzano le polemiche. Il portavoce di Barroso dice che l’incontro di oggi “fa parte dei contatti regolari” con i leader europei: “è stato chiesto la settimana scorsa da Roma e fissato per oggi, in funzione delle agende dei due leader”. Il portavoce di Buzek precisa che la richiesta risale a venerdì. Ma i parlamentari non hanno peli sulla lingua: ieri ci sono già stati interventi ironici e polemici. Mauro denuncia il "tono fortemente intimidatorio" dell'eurodeputata verde Rebecca Harms nel chiedere spiegazioni sulla visita di Mr B; e il Ppe teme incidenti in aula. I Verdi intendono riproporre il tema, ma il capogruppo dei socialisti, quel Martin Schulz che Berlusconi definì “Kapò” nell’emiciclo di Strasburgo, sarebbe intenzionato a non farne un caso: domani, si candiderà alla presidenza dell’Assemblea dopo Buzek (un’alternanza a metà legislatura già concordata). Dall’Italia, il Pd invita il premier “a restare a casa”, risparmiandoci “figuracce”,; e l’Idv denuncia “i voli last minute che non servono all’Italia”.

domenica 11 settembre 2011

11/9: attacco, Usa colti di sorpresa, nuoba Pearl Harbour

Scritto per l'ANSA l'11/09/2001

(ANSA) - WASHINGTON, 11 SET - Gli Stati Uniti hanno subito il piu' massiccio e devastante attacco terroristico della loro storia e di tutta la storia: un attacco
criminale, di dimensioni apocalittiche. Il presidente americano George W. Bush ha dato disposizione perche' i terroristi siano individuati, catturati, perseguiti.
Il bilancio della tragedia, ancora imprecisato, potrebbe essere persino piu' grave di quello dell'attacco di sorpresa a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, 2388 morti, quasi 2200 feriti.
Il parallelo con Pearl Harbor nasce immediato: e' stato evocato da piu' fonti. Oggi, come allora, gli Stati Uniti sono stati colti di sorpresa da un nemico che ha colpito senza preavviso e che li ha trovati impreparati.
I terroristi hanno agito quasi senza colpo ferire: si sono impadroniti di almeno quattro aerei nei cieli americani, dopo essere riusciti a superare tutti i controlli di sicurezza negli aeroporti; ne hanno portato tre ad abbattersi sui loro obiettivi; hanno fallito in un solo caso - e anche li' hanno fatto decine di vittime, sul velivolo schiantatosi in Pennsylvania.
In un'ora di terrore, incollati davanti alle loro tv, gli americani hanno scoperto di essere vulnerabili: immagini che sembravano uscire da un film di Steven Spielberg, le torri in fiamme, l'aereo che ne centra una in diretta, le torri che crollano in una nuvola di polvere assassina che divora le sue vittime, la linea dei grattacieli di Manhattan avvolta dal fumo. Come al cinema, peggio che al cinema. Perche' e' tutto vero.
L'America aveva gia' conosciuto il terrore, a Oklahoma City, dove i morti erano stati 168, ancora alle torri gemelle (6 le vittime), spesso all'estero, a Beirut, a Dharhan, ad Aden, in Africa. Ma nessun attacco aveva mai avuto queste dimensioni.
In un bunker segreto dell'agenzia federale per la gestione delle emergenze, il vice-presidente Dick Cheney, il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice ed esponenti dell'Fbi, della Cia e di altre agenzie federali hanno subito
cominciato a studiare le cause e le risposte, prima ancora di essere raggiunti dal presidente George W, Bush -era in Florida, al momento degli attacchi- e dal segretario di Stato Colin Powell, che era in visita in America Latina.
Molti elementi di questo attacco restano indeterminati: chi ha colpito?, perche'?, come e' stato possibile?, e quante vittime ci sono state? Chi e' stato? Da piu' parti, arrivano risposte immediate, ma ancora intuitive: Bin Laden, il
miliardario saudita che guida la piu' micidiale organizzazione terrorista integralista, dai suoi santuari nell'Afghanistan; oppure, organizzazioni palestinesi o, in senso lato, mediorientali.
Ma nessuno avanza,al momento, prove: Cia e Fbi, che hanno clamorosamente fallito, sul fronte della prevenzione, cercano indizi e tracce che aprano piste. Perche'? I terroristi hanno colpito i poteri americani, quello economico e finanziario nel quartiere degli affari della citta' icona della globalizzazione e del capitalismo; e quello militare, nella capitale federale. Forse, l'aereo caduto in Pennsylvania aveva un obiettivo politico, Camp David, la Casa Bianca dei fine settimana, la tenuta nel Maryland simbolo degli sforzi di pace americani per il Medio Oriente.
Come? L'intelligence non ha funzionato (e dire che, solo sabato, gli americani avevano messo in guardia Giappone e Corea per un pericolo terrorista); la prevenzione neppure; e la parata, una volta scattato il piano letale, non era possibile: i caccia si sono levati, dopo gli attacchi a New York, ma sarebbe stato comunque impensabile abbattere aerei in volo su un'area metropolitana.
Quante le vittime? Il sindaco di New York Rudolph Giuliani dice che ci vorranno giorni, perche' si possa fare un bilancio: nel World Trade Center, le torri gemelle colpite per prime,lavorano 50 mila persone; al Pentagono, colpito dopo, oltre 20
mila. Tra morti e feriti, saranno certamente migliaia.
Lo choc e' enorme. Gli Usa di Bush, e' certo, risponderanno. Ma, intanto, s'interrogano sulla validita' delle priorita' di difesa che si sono finora dati. Proprio lunedi, il senatore Joseph Biden, presidente della commissione esteri del Senato, aveva ammonito il presidente: il vero pericolo non e' un attacco
missilistico da un Paese 'fuorilegge', contro il quale si prepara lo scudo spaziale; il vero pericolo e' un attacco terroristico sul nostro territorio, contro il quale siamo impreparati. Biden aveva tragicamente ragione. (ANSA).

sabato 10 settembre 2011

11/9: dieci anni dopo, io c'ero, ma c'eravamo tutti

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 10/09/2011

L’11 Settembre 2001 è uno di quei giorni –pochi, pochissimi- in cui ‘c’eravamo tutti’: dai vent’anni in su, tutti ricordiamo dov’eravamo, che cosa facevamo quando la notizia che le Torri Gemelle erano state colpite, stavano venendo giù, erano crollate, ci raggiunse e noi ci incollammo davanti alla tv per seguire le immagini in diretta.

La stragrande maggioranza seppero di quanto stava avvenendo quando i contorni della vicenda erano già definiti: l’America era sotto attacco, il World Trade Center a New York e il Pentagono erano stati colpiti. Io, che allora ero corrispondente dell’ANSA da Washington, ne vissi, invece, momento per momento lo sviluppo e impiegai un po’ di tempo a comprenderne le dimensioni, anche per una riluttanza istintiva a credere alle cose ‘impossibili’, alle notizie ‘troppo grosse’.

Quando il primo aereo, il volo AA11, partito da Boston per Los Angeles, colpì la prima torre, erano le 08.46 sulla Costa Est degli Stati Uniti. Con i colleghi di New York, stavamo facendo la riunione ‘telefonica’ di ogni mattina per decidere il programma del giorno. La Cnn, sempre accesa, ci porta una breaking news: un aereo è entrato in una delle torri del World Trade Center. L’immagine è lontanissima: non si capisce, né si sa ancora, se sia stato un aereo da turismo, o un cargo, o un volo di linea; si pensa a un incidente; non se ne conoscono le dimensioni.

Una collega si sgancia dalla riunione per seguire la notizia, noi proseguiamo, convinti che quello sia, comunque, il fatto del giorno, ma non consapevoli che resterà il fatto del giorno per molti giorni a venire; e che tornerà ad esserlo per anni, nella guerra in Afghanistan, nell’invasione dell’Iraq, nell’uccisione di Osama bin Laden, a ogni anniversario.

Poi le immagini s’avvicinano. Alle 09.03 il secondo aereo, il volo UA175, pure partito da Boston e diretto a Los Angeles, colpisce l’altra torre in diretta televisiva. Alle 09.43, un terzo aereo, il volo AA77, partito da Washington e ancora diretto a Los Angeles, si schianta alla base del Pentagono. Alle 09.58, un quarto aereo, il volo UA93, partito da Newark e diretto a San Francisco, quello su cui i passeggeri si ribellano ai dirottatori, cade in Pennsylvania. Le torri a una a una s’accartocciano, si sgretolano e vengono giù, alle 09.59 e alle 10.28. L’espressione inebetita del presidente Bush raggiunto dalla notizia davanti a una scolaresca della Florida dà la misura dello sbigottimento dell’America. A quel punto, chi c’è dentro e chi è spettatore lontano, tutti abbiamo capito: il nostro mondo intero è davanti alla tv nel suo 11 Settembre.

Una giornata frenetica di notizie, testimonianze, allarmi, incertezze. Si fanno ipotesi sulle vittime. 3.000, forse 6.000, magari di più; in Italia, un ministro ‘spara’ 20 mila e giornali, radio, tv gli vanno dietro, all’insegna del ‘meglio più che meno’ –a conti fatti, le vittime saranno quasi 3.000, complessivamente, tra New York, Washington e la Pennsylvania-. Perdo di vista la dimensione della tragedia perché il racconto si spezzetta in episodi; e m’immagino sia come un terremoto, dove il numero delle vittime prima s’impenna e poi scende man mano che si recuperano superstiti.

Non è così. Me ne rendo conto nel pomeriggio, quando m’accorgo che gli ospedali di New York, mobilitati per accogliere centinaia, migliaia di feriti, restano praticamente deserti e che le centinaia di ambulanze accorse nei pressi del World Trade Center rimangono lì vuote: quello che presto diventerà per tutti Ground Zero restituirà solo resti senza vita; i sopravvissuti recuperati nelle ore e nei giorni a venire saranno pochissimi. Chi c’era, sotto le Torri, nelle Torri, o è riuscito a uscirne e ad allontanarsene, e se l’è cavata, in genere, con paura, contusioni, problemi respiratori, preso magari nella nuvola di polvere sollevata dai crolli, o c’è rimasto per sempre.

venerdì 9 settembre 2011

SPIGOLI: CdE, 11/9 e rom lezioni di civiltà inascoltate

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/09/2011

Il Consiglio d’Europa è la più antica istituzione europea –risale al 1949- ed è quella che riunisce il maggior numero di Stati: non ne esclude nessuno, mirando a salvaguardare il patrimonio comune di valori ideali ed a garantire il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. La sua Corte europea dei diritti dell’uomo sforna sentenze illuministe (e condanna spesso l’Italia, specie per la lunghezza dei suoi processi). Il Consiglio, che ha sede a Strasburgo, non è però dotato di molti poteri e, quindi, non è tenuto in grande considerazione, specie in Italia, dove o conti o sei un calimero: la stampa, anche quella ‘autorevole’, lo confonde sovente con l’Unione europea; e il governo, spesso, se ne fa un baffo dei suoi giudizi e delle sue sentenze, salvo poi invocarlo quando il ‘cittadino’ Berlusconi reclama tutela dalle angherie dei giudici. Proprio perché pochi gli badano, il Consiglio d’Europa può talora permettersi di cantarla chiara ai grandi d’Europa, senza scendere a compromessi sul terreno dei principi. In pochi giorni, Thomas Hammarberg, il commissario per i diritti umani, svedese, 69 anni, ci ha impartito due lezioni ben meritate. La prima è ‘urbi et orbi’ e riguarda la lotta al terrorismo, nel decimo anniversario dell’attacco all’America dell’11 Settembre 2001: troppi crimini, troppe violazioni dei diritti umani, sono stati compiuti nel dare la caccia ai terroristi; e serve una riflessione sull’efficacia della risposta finora data. La seconda è per l’Italia, anzi soprattutto per i politici italiani: basta con gli slogan e le campagne razziste e xenofobe; e maggiore impegno per garantire il rispetto dei diritti umani di rom e immigrati, perché, in tre anni, sono stati fatti ben pochi passi avanti, se non addirittura nessuno. Li vedo già, i Borghezio d’Italia, fare spallucce e rispondere a tono: “Che cosa vuole, ‘sto comunista?”.

Libia: Italia, il Trattato e l'Amicizia sono per la vita

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/09/2011

Con la Libia, l’Italia vuole tornare al punto di partenza. Attenzione!, però: non equivochiamo e non andiamo troppo indietro nel tempo: nessuno fantastica dell’occupazione coloniale, un secolo fa giusto giusto. L’invasione della Libia cominciò il 5 ottobre 1911 –fra meno di un mese, l’anniversario-, con la conquista di Tripoli durante la guerra italo-turca iniziata il 29 settembre. Il punto di partenza cui il governo italiano punta è http://it.wikipedia.org/wiki/29_settembreil Trattato di Amicizia che il colonnello dittatore Muammar Gheddafi, quello cui adesso intimiamo di arrendersi, e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi firmarono in pompa magna a Bengasi il 30 agosto 2008.

E, infatti, il ministro degli esteri Franco Frattini ha spiegato, mercoledì, riferendo alla Camera sulla situazione in Libia, che "il futuro dei rapporti bilaterali italo-libici parte dalla riattivazione del Trattato di Amicizia", che il Cnt ha già richiesto, “con gli aggiornamenti da valutare insieme”. Non è una novità e nemmeno una sorpresa: che lì si volesse andare a parare, lo si era già capito ed era pure stato già detto chiaramente.

Anche se, a onor del vero, nei momenti più scomodi della crisi libica, l’inizio, quando non sapevamo bene di chi mostrarci amici, e poi lo scoppio del conflitto, quando c’era da fare dimenticare il peccato originale del rapporto straordinariamente intenso tra il colonnello e il Cavaliere, quel Trattato era stato bruscamente dichiarato sospeso e messo da parte, magari un po’ in barba alla legalità internazionale e molto in virtù di ‘real politik’.

Adesso, però, tirarlo fuori fa comodo. Può farlo al Cnt, il Consiglio nazionale transitorio libico, che vorrà avvalersi delle clausole favorevoli, il versamento di 5 miliardi di dollari dall’Italia alla Libia, in rate annuali di 250 milioni di dollari, ma pure, fra l’altro, borse di studio ai giovani libici e pensioni agli anziani vittime della repressione fascista.

E può indubbiamente farlo all’Italia, che vuole tornare a godere dei vantaggi che all’atto della firma Berlusconi aveva icasticamente riassunto nella formula “Meno clandestini, più gas e più petrolio”. E, infatti, Frattini, alla Camera, indica l’obiettivo di fondo: "Eravamo e resteremo il primo partner bilaterale della Libia" in campo energetico; gli "interessi strategici ed energetici dell’Italia in Libia" sono stati garantiti. E il ministro cita l'accordo fatto, a fine agosto, da Eni e Cnt per riattivare in ottobre il gasdotto Greenstream.

Il ripristino del Trattato, fatta salva la piccola insidia delle modifiche che gli insorti al potere vorranno apportarvi, era già stato sollecitato, oltre che da Frattini, dai ministri La Russa e Maroni A questo punto, il pericolo maggiore per l’Italia è un colpo di coda di Gheddafi: perché il Cnt sarà certo sensibile, nel dopo guerra, all’impegno militare-diplomatico-politico profuso dalla Francia a suo favore, ma non rinuncerà a cuor leggero ai dollari italiani e al rapporto con l’Eni, persino più consolidato di quello con l’Italia. Mentre il colonnello, se mai tornasse, farebbe sicuramente pagare all’Italia il fio del tradimento dell’amicizia.

Tranquilli!, però. Gheddafi non torna. Magari non se ne va, ma di sicuro non torna. Le assicurazioni della Nato, pronta a protrarre la missione al di là della scadenza del 26 settembre, se sussisteranno minacce per i civili, sono pesanti: l’Alleanza non molla, un’eventuale offensiva lealista sarà contrata. Frattini, anche ieri, ha detto che il dittatore “non ha più nessuna possibilità né di chiedere né di negoziare: deve soltanto consegnarsi”, per essere poi giudicato dalla Corte penale internazionale o, comunque, da un tribunale che possa celebrare un processo regolare, non amministrare una giustizia sommaria: “Non ne vogliamo l’impiccagione in piazza –per forza, era nostro amico, ndr-, ma ne vogliamo, però, una condanna esemplare per i delitti compiuti”.

giovedì 8 settembre 2011

SPIGOLI: Germania europea, se l'Europa è tedesca

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/09/2011

A Bruxelles, erano pallidi come cenci: temevano il peggio. E, così, il sì della Corte costituzionale tedesca al fondo Ue ‘salva Stati’ è stato accolto con un sospiro di sollievo: i giudici di Karlsruhe hanno infatti sancito, con un verdetto da loro tessi definito “sul filo del rasoio”, che le misure fin qui prese per trarre d’impaccio, anzi per tenere a galla, la Grecia sono “compatibili” con la Costituzione della Repubblica federale. Sarebbe stata una catastrofe europea, se la Corte avesse accolto la tesi d’un gruppo di euroscettici e bloccato la partecipano della Germania al piano ‘salva Stati’. Così, l’Ue sorride, tanto più che la sentenza giunge insieme alla notizia dell’accelerazione dell’attuazione del programma di risanamento del governo di Atene e anche dei passi in avanti verso il varo, alfine, della manovra italiana. Ma il sorriso è amaro: l’Ue deve adeguarsi al pieno rispetto delle prerogative del Bundestag, il parlamento tedesco, sancite dalla Corte: d’ora in poi, toccherà ai deputati tedeschi dire la loro su tutti gli interventi europei di importanza “fondamentale”. Se il cancelliere Merkel vorrà utilizzare denaro tedesco per tenere in vita l’euro e salvare dalla bancarotta la Grecia o chi altri, dovrà ottenere prima l’avallo del Parlamento. E, quindi, i piani greci, o irlandesi, o portoghesi, e la manovra italiana, per dare diritto a un sostegno europeo, se mai si rivelasse, nonostante tutto, necessario, non dovranno solo avere l’imprimatur della Commissione, dell’Eurogruppo e della Bce, ma dovranno pure essere vistati dal Bundestag. Insomma, Karlsruhe sancisce che la Germania è ‘europea’, a condizione che l’Unione sia più tedesca.

mercoledì 7 settembre 2011

Israele: Bibi progetta di rimpiazzare Ankara con Atene

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/09/2011

Non è un detto biblico, ma Israele pare farne la divisa della propria politica estera, in questi primi giorni di un settembre di fuoco, con l’approdo all’Onu della questione del riconoscimento della Palestina come Stato. Il premier Netanyahu litiga con tutti, amici dichiarati o nemici presunti che siano. Ieri, la rottura con la Turchia ha visto un’escalation, con la ‘minaccia’ del premier Erdogan, appena definito dalla stampa israeliana “un anti-semita classico”, d’andare in visita a Gaza: è crisi diplomatica e militare, con quello che, fino a poco tempo fa, era l’interlocutore islamico privilegiato. E il progetto ventilato di rimpiazzare la partnership militare turca con quella greca non vale la candela sul piano strategico e non contribuisce di certo a distendere i toni. E mentre Abu Mazen conferma l’intenzione di sottoporre all’Onu il riconoscimento della Palestina, e la stampa egiziana propone un “Netanyahu Hitler”, i militari israeliani paventano “un inverno islamista”, dopo la primavera araba, e temono un conflitto “con l’islam radicale”. Che la corda sia tesa anche con Washington lo dimostra il giudizio dell’ex segretario alla difesa Gates, secondo cui Netanyahu “è un ingrato”. Certo, il governo israeliano si sente, come sempre, assediato sul fronte estero ed è contestato sul fronte interno: gli ‘indignados’ hanno ripiegato le loro tende, dopo la protesta record di quasi mezzo milione, ma sono sempre pronti a mobilitarsi. Che le tensioni internazionali siano utili a calmare il malessere sociale?

lunedì 5 settembre 2011

Federalisti: Roma-Ventotene, via dallo smog della paura

Scritto il 04/09 per il blog de Il Fatto Quotidiano, non pubblicato

Sabato di fine vacanze. Racconto di come inefficienze e dabbenaggini possono trasformare una gita in un happening: da Roma a Ventotene e ritorno senza tuffo in mare, ma con full immersion nelle ultime battute di un seminario di giovani federalisti europei. Sull'isola, allora luogo di confino d'intellettuali antifascisti, esattamente 70 anni or sono Altiero Spinelli e il suo compagno di (s)ventura Paolo Rossi scrissero quel Manifesto divenuto poi documento di riferimento dell'integrazione europea. Partenza all'alba, in treno: 0627, per Formia, biglietti fatti via internet. Fila tutto liscio: convoglio in orario, vetture con aria condizionata. I problemi cominciano al molo dell'aliscafo: impossibile prenotare o acquistare online il biglietto per Ventotene, si fa la fila, ordinata, civile, neppure troppo sudata (e' ancora presto). "Buongiorno. Ventotene andata e ritorno". "Facciamo solo l'andata". E perche'? "Perche' e' cosi'". "Bene. E come faccio a essere sicuro che ci sia posto al ritorno?". "Appena arriva, vada alla biglietteria. Ma non si preoccupi: c'e' sempre posto". Io, tendenzialmente, mi preoccupo: sbarco dall'aliscafo e vado a fare la fila alla biglietteria, subito. L'attesa non e' lunga: "Buongiorno. Formia, 1640". "Adesso vendiamo solo i biglietti per le 1030. Aspetti". Mi faccio da un canto, aspetto. Passati trafelati gli ultimi passeggeri delle 1030, posso finalmente garantirmi il posto sull'aliscafo del pomeriggio. Arrivo un po' tardi al convegno, ma ho il biglietto in tasca. E li' trovo gente seria, che parla d'Europa con competenza e con passione, e giovani, tanti giovani, che ascoltano attenti e interessati. Valeva la pena esserci: respirare la speranza dell'integrazione, il coraggio dell'apertura, la voglia d'andare oltre gli egoismi nazionali. Un momento d'ottimismo quasi inebriante. Dev'essere l'aria di Ventotene, quella che ispiro' Spinelli, mentre altrove in Europa c'era la cappa della dittatura (e, ora, c'e' lo smog della paura). Quasi quasi, mi fermo qui.

sabato 3 settembre 2011

Siria: Ue mette embargo su petrolio, Italia ottiene dilazione

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/09/2011

Nell’ennesimo ‘venerdì di sangue’ siriano –almeno 11 le vittime della repressione, secondo fonti della protesta-, l’Ue inasprisce le sanzioni contro Damasco e mette un embargo sul petrolio: immediato, per i nuovi contratti; dilazionato al 15 novembre, per i contratti in atto con le compagnie statali siriane, la Syria Petroleum e la Sytrol. A volere il rinvio è stata soprattutto l’Italia, che chiedeva, per evitare turbative ai mercati, uno slittamento fino al 30/11: un’occasione persa per fare la cosa giusta. I ministri degli esteri dei 27, riuniti in Polonia, hanno avallato la decisione. Il tedesco Westerwelle la giudica “molto importante”. Ma il finlandese Tuomioja non risparmia una stilettata a Frattini: “Se fossimo seri, daremmo seguito immediato alle decisioni prese”. Invece, mettiamo in mezzo qualche altra decina di morti. La Ue, che ha già colpito con sanzioni il regime di al Assad, acquista il 95% del petrolio siriano esportato: 400mila barili al giorno prodotti, 180mila esportati, circa un terzo in Italia.

Manovra: "Inquietante quel che accade in Italia", Sylvie Goulard

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/09/2011

L’Italia di Mr B mette in pericolo se stessa e l’euro. “Quello che accade in Italia in questi giorni è inquietante e può rivelarsi molto grave non solo per l’Italia, ma anche per l’avvenire di tutta l’eurozona”: l’analisi di Sylvie Goulard, parlamentare europea, esperta d’economia, è informata e preoccupata.

Giudizi non definitivi, perché la Goulard segnala come sia “impossibile” dare “una valutazione” dei contenuti della manovra italiana, nonostante lei, che parla bene l’italiano, cerchi di seguire da vicino il dibattito nel nostro Paese: troppe le intenzioni espresse e non confermate, troppo le misure annunciate e poi smentite.

Portavoce del gruppo Adle nella commissione economica e monetaria e nella commissione ‘ad hoc’ sulla crisi del Parlamento europeo, la Goulard vuole precisare di non avere “pregiudizi anti-italiani” (e la sua buona padronanza della nostra lingua ne è una conferma). Nel suo gruppo, l’Alleanza dei democratici e dei liberali per l’Europa, siedono alcuni eurodeputati italiani: cinque dell’Idv e uno dell’Api.

. “In una prima fase, quando c’erano state l’azione di sensibilizzazione del presidente Napolitano e la mobilitazione del governo e del Parlamento, avevo avuto l’impressione –racconta la Goulard- che ci fosse una presa di coscienza della gravità della situazione e una volontà di intervenire”, il che “era assolutamente necessario”. E l’impressione iniziale era poi stata confermata in estate, quando l’Italia aveva apparentemente dato una pronta risposta alle sollecitazioni europee ad anticipare l’efficacia della manovra e a renderla più rigorosa, rispondendo così, in particolare agli avvertimenti ddel presidente della Bce Jean-Claude Trichet e del governatore di BankItalia Mario Draghi.

Ma, a fine agosto, poi i nodi della manovra sono venuti al pettine: contraddizioni, retromarce, provvedimenti scritti e riscritti; e i moniti dell’Ue a non affidarsi troppo alla lotta contro l’evasione, i cui risultati sono aleatori, per rimpinguare le entrate ed a varare misure che incoraggino la crescita.

Europeista convinta –è stata presidente del Movimento europeo francese e fra i consiglieri politici di Romano Prodi, quando questi era presidente della Commissione europea-, la Goulard è soprattutto “colpita” dal fatto che “il governo italiano recalcitra a prendere misure di equità fiscale”, mentre “bisogna comprendere che è l’ora di colpire i privilegi e l’evasione”: in Europa, ammette l’eurodeputata, “abbiamo fatto tutti i nostri errori”, ma sarebbe “molto grave” se gli impegni assunti dal governo italiano, in termini di risanamento del bilancio e di riduzione del debito, “non fossero, a conti fatti, rispettati”.

Il giudizio finale resta sospeso: “Se alla fine i risultati saranno conseguiti, bene. Ma non contano solo i saldi: bisogna pure valutare la valenza sociale delle misure prese, l’impatto sui consumi, la capacità di stimolo dell’economia”. Infine, i tempi: quelli di approvazione della manovra, ma pure quelli di attuazione. “Il calendario è importante: conta quando la manovra è varata, ma conta soprattutto quando le misure diventano efficaci”. L’Europa era stata bene impressionata dall’anticipo della manovra dal 2013 al 2012, ma se adesso si varano provvedimenti la cui efficacia, per di più discutibile, va alle calende greche dei giochi politici tutto va riesaminato.

venerdì 2 settembre 2011

Libia: gli 'amici' preparano la pace con parole di guerra

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/09/2011

Gli ‘amici della Libia’, riuniti a Parigi, discutono di pace, di transizione, di ricostruzione, ma hanno parole di guerra: la missione della Nato continuerà “fin quando vi saranno civili a rischio”, afferma il segretario di Stato Usa Hillary Clinton; e Silvio Berlusconi incalza, “l’impegno proseguirà fino alla liberazione del Paese”. Frasi che fanno eco all’appello lanciato da Muammar Gheddafi, proprio in coincidenza con l’inizio della conferenza all’Eliseo, a “continuare la resistenza”. Il rais sostiene che vi sono divergenze tra la Nato e gli insorti ed esorta le tribù a “mettere il Paese a ferro e fuoco”: “Non ci arrenderemo mai, non siamo donne”.

Transizione alla democrazia e ricostruzione sono i temi di fondo della conferenza internazionale co-presieduta da Francia e Gran Bretagna e ‘benedetta’ dagli Stati Uniti: vi partecipano una sessantina di delegazioni, con 12 capi di Stato, 17 capi di governo, una ventina di ministri ed i rappresentanti di varie organizzazioni internazionali. Il presidente francese Nicolas Sarkozy e il premier britannico David Cameron hanno accanto i capi del Consiglio nazionale di transizione, il Cnt, l’organo politico dell’insurrezione libica.

Sul terreno, gli insorti prorogano il loro ultimatum ai lealisti circondati alla Sirte, mentre Gheddafi sarebbe a Bani Walid, un centinaio di chilometri a sud-est di Tripoli. Il suo clan pare sgretolarsi: un figlio, Saif, minaccia; un altro, Saadi, tratta la resa; l’ex premier Al Baghdadi Al Mahmoud defeziona; il ministro degli esteri Abdelati Obeidi è agli arresti.

A Parigi non ci sono solo i Paesi del Gruppo di Contatto protagonisti dell’intervento militare contro il regime del colonnello. Ci sono pure, ad esempio, la Germania, con il cancelliere Angela Merkel, che è rimasta fuori dal conflitto, e la Russia, la Cina e l’India, contrarie all’azione di forza. L’invito non è stato accettato da Arabia Saudita, Nigeria e SudAfrica.

In occasione della conferenza, alcuni governi che non l’avevano ancora fatto hanno riconosciuto il Cnt come interlocutore legittimo: Mosca e Pechino hanno rispettivamente accettato il Cnt come “autorità al potere” o entità dotata “di un ruolo importante per la soluzione della crisi libica”. L’Algeria, protagonista di uno screzio diplomatico con i ribelli accogliendo sul proprio territorio familiari del dittatore, s’impegna a riconoscere il Cnt non appena formato “un nuovo governo rappresentativo di tutte la Regioni del Paese”; e nega di avere mai pensato di dare asilo a Gheddafi.

Oltre che di transizione, all’Eliseo si parla di ricostruzione e, quindi, dello sblocco di decine di miliardi di dollari di averi libici depositati da esponenti del regime in banche estere e ora congelati. Finora, solo tre tranches di 1,5 miliardi di dollari o di euro ciascuna sono state liberate da Usa, Francia e Gran Bretagna, mentre gli altri Paesi sono stati più reticenti. Per l’Italia, Berlusconi dice: “faremo il possibile per aiutare la Libia” e scongela beni per 500 milioni di euro. L’Ue toglie sanzioni contro 28 “entità economiche libiche”, fra cui porti, banche e aziende petrolifere.

In cambio, il Cnt s’impegna ad assegnare i contratti sul greggio senza favoritismi. La conferenza è anche una tappa della sfida per il petrolio e il gas libici: l’Italia, anche grazie agli accordi conclusi dall’Eni lunedì scorso a Tripoli, resta in prima fila, ma la Francia si sarebbe già aggiudicata il 35% delle risorse petrolifere del Paese ‘liberato’.

La corsa al ‘dopo Gheddafi’ tra Francia e Italia si disputa pure sul terreno diplomatico. Due giorni dopo la riapertura dell’ambasciata di Parigi a Tripoli, l’Italia nomina il nuovo ambasciatore, Giuseppe Buccino Grimaldi: da oggi, la bandiera tricolore tornerà a sventolare sull’ambasciata, dove c’è già un team di funzionari: “L’Italia manterrà quel che aveva: eravamo il primo partner economico bilaterale della Libia e lo resteremo”, assicura il ministro degli esteri Franco Frattini. Anche l’Ue ha riaperto mercoledì i propri uffici e ha in città una missione, guidata dall’italiano Agostino Miozzo, responsabile del coordinamento delle aree di crisi. E Ban Ki-moon dice che presto ne arriverà una dell’Onu.

giovedì 1 settembre 2011

Manovra: l'Ue all'Italia, basta balletti, misure per crescita

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/09/2011

La pazienza dell’Europa verso l’Italia si sta consumando; e anche il credito del ministro Tremonti presso i suoi colleghi rischia di esaurirsi: il valzer delle misure annunciate e poi modificate, o ritirate, dal governo italiano, per centrare gli obiettivi di rigore di bilancio indicati da Bruxelles, lascia interdette le istituzioni comunitarie e manda in tilt commissari, eurodeputati e funzionari, tutti convinti che Roma “deve fare presto”, oltre che bene, mentre, per ora, non sceglie e fa pasticci.

Ufficialmente, la Commissione europea, l’esecutivo dell’Unione, non commenta la manovra perché, spiega un funzionario, “non si sa che cosa commentare”. I contenuti infatti cambiano da un giorno all’altro, anzi da un momento all’altro: il super-prelievo; no l’aumento dell’Iva; no, le pensioni; no, niente di tutto questo. E, allora, che cosa?

Ma il commissario europeo per gli affari economici e monetari Olli Rehn, che era finora stato neutro nei suoi commenti, ieri ha preso una posizione esplicita. Martedì, Rehn spiegava che i contenuti della manovra erano stati appena modificati ed era quindi presto per esprimerne una valutazione: "I nuovi elementi introdotti dovranno essere studiati dai nostri esperti, una volta che saranno disponibili le misure concrete decise". Invece, ieri, dopo l’ennesimo gioco delle tre carte, stavolta sulle pensioni, Rehn ha dato un segnale preciso d’impazienza e di perplessità. E le riserve di Bruxelles s’intrecciano alla stroncatura del Financial Times, che, ancor prima del dietro front sulle pensioni, avvertiva in prima pagina: “Il negoziato sulle misure della manovra trasmette un messaggio confuso ai mercati, in un momento in cui l'Italia ha bisogno di una politica economica coerente”.

Echeggiando in qualche modo i primi commenti critici già espressi da BankItalia, Amadeu Altafaj Tardio, il portavoce di Rehn, afferma chela Commissione, analizzando i contenuti della manovra, porrà "particolare attenzione" alle "misure strutturali” per “agevolare e sostenere" la crescita. Si tratta di verificare che esse rispettino “i parametri" indicati nelle raccomandazioni dell'Ue all'Italia lo scorso giugno.

Altafaj Tardio aggiunge che la Commissione “segue con attenzione” il dibattito in corso in Italia e “conserva fiducia” che “le misure per rilanciare e sostenere la crescita abbiano un peso maggiore" nella versione finale del pacchetto di provvedimenti della manovra. Come dire che quelle attuali non sono sufficienti: del resto, semplicemente non ce ne sono.

A giugno l'Ue aveva sollecitato l'Italia a interventi "strutturali" per il rilancio dell'economia, prospettando misure per favorire la concorrenza nel campo dei servizi e delle professioni e incentivi agli investimenti per ricerca e sviluppo. Per Bruxelles, gli interventi a sostegno della crescita hanno ora ora un'importanza maggiore che prima dell’estate, poiché l'Italia, già sotto la media europea negli ultimi anni in termini di aumento del Pil, subirà nei prossimi mesi, come gli altri partner, l’effetto del rallentamento dell'economia internazionale. Proprio martedì, l’Fmi ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita dell’Italia, dell’eurozona e del mondo intero.

La Commissione mantiene, invece, una relativa tranquillità al rispetto degli obiettivi già indicati dall'Italia sul fronte del pareggio di bilancio. "Non ci aspettiamo che siano messi in discussione", dice il portavoce di Rehn. Sul fronte degli interventi per combattere l'evasione fiscale e creare ulteriore gettito, l’Esecutivo per ora non si esprime: "L'importante è che il problema sia affrontato in modo adeguato. L'impatto in termini di entrate supplementari derivanti dalla lotta all'evasione è sempre difficile da valutare". E’ un monito a non sovrastimarlo.

Il trambusto italiano viene pure monitorato dal Parlamento europeo, che proprio lunedì ha dedicato una seduta straordinaria della commissione economico-monetaria ai sussulti di crisi dell’eurozona. David Sassoli, capogruppo del Pd nell’Assemblea, è duro con Tremonti, che "se avesse dignità si dimetterebbe", e con il governo nel suo insieme, che, tra decisioni prese e rimangiate, “avvalora” l’impressione di essere “privo di bussola e in balia di se stesso e dei ricatti della Lega" e da’ l’immagine “di una banda di dilettanti allo sbaraglio".