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lunedì 30 giugno 2014

Italia/Ue: presidenza, la fuffa e l’immaginazione

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano e per EurActiv.it il 30/06/2014

Né una vittoria, né una sconfitta. Solo fuffa. Eppure, le conclusioni del Vertice europeo del 26 e 27 giugno sono subito diventate, alla vigilia della presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue, terreno di scontro tra il governo, che le presenta come un successo che apre margini di flessibilità all’Italia, e l’opposizione, che le legge come una disfatta che condanna l’Italia, di qui a pochi mesi, a un’ulteriore ennesima manovra.

In realtà, il Vertice europeo è stata la solita manfrina del tutti insieme al minimo comune denominatore, mascherando le differenze dietro la genericità delle formule. Senza volere dimenticare il balletto delle bozze, con l’arretramento – ed è solo un esempio - tra “il pieno uso” ed “il buon uso” dei margini di flessibilità previsti da Trattati e impegni esistenti.

 Leggetevi, anzi leggiamoci, il comunicato ufficiale del Vertice sull’ “agenda strategica dell’Unione in una fase di cambiamento”: “Il Consiglio europeo ha concordato cinque priorità a lungo termine che guideranno il lavoro dell’Ue nei prossimi cinque anni: economie più forti e più posti di lavoro; società capaci di consentire ai cittadini di realizzarsi e di proteggerli; un futuro sicuro per l’energia e per il clima; un’area affidabile di libertà fondamentali; un’azione congiunta efficace nel Mondo”.

Ora, quale sarebbe il governo o l’Istituzione che non sottoscrive obiettivi del genere?, e in che modo averli accettati e condivisi può costituire una vittoria o una sconfitta?

Presentando, oggi, a Roma, il programma della presidenza di turno lettone del Consiglio dell’Ue, che seguirà quella italiana, il ministro degli esteri di Riga Edgars Rinkevics, ormai un veterano dell’Unione, s’è quasi schermito nel citare la prima priorità, crescita e occupazione, riconoscendo l’inevitabilità, e nel contempo la ritualità, di quella che è diventata una sura laica.

Forse, piuttosto che fare esercizi di real politik gabellandoli per passi avanti o, peggio, svolte, è meglio immergersi in esercizi, magari visionari, ma stimolanti, per immaginarci l’Europa come davvero la vorremmo. E’ quello che ha provato a fare l’Istituto Affari Internazionali, con il progetto –appunto- ‘Imagining Europe’, le cui conclusioni sono state appena presentate a Roma.

Al posto di mettere pecette, lo studio dello IAI, l’Istituto creato da Altiero Spinelli, che proprio oggi ‘presta’ il suo presidente, l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, alla Commissione europea come membro italiano, si chiede “quali modelli di governance possano riparare il danno” fatto all'integrazione europea dalla crisi economica e dalla risposta datale da Istituzioni e governi.

Se l’obiettivo è davvero promuovere “nei decenni a venire un’Unione più coesa ed efficace e meglio legittimata”, bisogna esplorare traiettorie di governance in cinque aree specifiche: le finanze pubbliche e la moneta comune; l’immigrazione e la cittadinanza; la sicurezza e la difesa; le infrastrutture e le comunicazioni; l’energia e l’ambiente.

Se non si vogliono sprecare i prossimi cinque anni, l’agenda strategica adottata da Van Rompuy e dai suoi sodali non può fare da bussola: ci lascerebbe girare in tondo, come una trottola. Meglio avere una visione, piuttosto che un’agenda, a rischio di perdere per strada qualche pezzo, ma aumentando la coesione, approfondendo l’integrazione, esaltando la democraticità delle istituzioni e, quindi, delle scelte.

domenica 29 giugno 2014

Islam: il califfato, una storia da Maometto all'Isis

Scritto per Il Fatto Quotidiano, non pubblicato

Attenzione! Se lo state ancora cercando, nel tentativo di completare una collezione del Nonno rimasta incompiuta, non lasciatevi confondere da tutte ‘ste storie di califfato moderno: il Saladino non era un califfo, ma un sultano, il generale che riconquistò all'Islam Gerusalemme nel 1187.

La sua figurina, denominata con un classico stereotipo ‘Il Feroce Saladino’, era la più rara e quindi preziosa della collezione lanciata dalla Perugina negli Anni Trenta: ne nacque una febbre, altro che il ‘ce l’ho, mi manca’ delle raccolte dei calciatori attuali.

Il califfato è una forma di governo propria del mondo islamico, instaurata alla morte di Maometto: il califfo somma il potere religioso e quello temporale ed è simbolo dell’unità dei musulmani, cioè la Umma. Il termine significa ‘successore’, o ‘vicario’, beninteso di Maometto: un suo attributo è "comandante dei credenti".

La sua istituzione non è prevista nel Corano, anche se il termine vi compare. Alla morte del profeta, l'8 giugno 632, califfo divenne Abu Bakr, il suo migliore amico, forse il primo convertito. Nel 661, alla morte dell’ultimo dei quattro califfi ‘ortodossi’, Ali, si verificò, per deciderne la successione, lo scisma tra sunniti e sciiti, che ancora oggi divide –spesso, sanguinosamente- l’Islam.

Dopo i califfi ortodossi, si insediò a Damasco in Siria la dinastia degli Ommaiadi, seguita da quella degli Abbasidi tra Baghdad e Samarra, in Iraq. Ma i percorsi del califfato non furono tutti rettilinei: con le dinastie principali, s’intrecciano ad esempio quella ommaiade andalusa, attiva per un secolo a cavallo dell’Anno Mille e l’imamato sciita-ismailita fatimide attivo per due secoli e mezzo.

Il califfato abbaside si concluse nel 1258, quando Baghdad fu conquistata dai mongoli che fecero uccidere il califfo al Musta’sim. Però, un ramo secondario abbaside sopravvisse e, dopo essersi brevemente insediato ad Aleppo, trovò accoglienza al Cairo, sotto la tutela dei Mamelucchi.

Dopo la conquista del sultanato egiziano da parte del sultano ottomano Selim II, i vincitori nel 1517 trasferirono a Istanbul i simboli del potere califfale abbaside, con il mantello e la spada del Profeta, nel palazzo del Topkapı. Da allora, il sultano ottomano fu senza contestazioni il califfo dei sunniti.

A livello internazionale il titolo di califfo fu usato (e accettato anche dalle cancellerie europee) solo dopo la firma del Trattato di Kuçuk Kaynarca, nel 1774.

Il califfato ottomano si esaurì nel 1924/’25, quando un'assemblea costituente voluta dal presidente della Repubblica turca, Mustafa Kemal, detto Ataturk, dichiarò estinta la linea califfale del Casato di Osman. Ma nel mondo v’è ancora chi si considera legittimo erede della tradizione califfale e chi aspira a ricostituire, con le armi e la sharia, un califfato. Come i combattenti dell'Isis, lo Stato islamico dell'Iraq e della Siria.

sabato 28 giugno 2014

Ucraina: 7 mesi dopo lo strappo di Vilnius, Kiev sceglie l'Ue

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/06/2014

Sette mesi dopo, centinaia di vittime dopo, centinaia di migliaia di rifugiati dopo, e dopo mutazioni geo-politiche probabilmente irreversibili, il filo dei rapporti tra Ue ed Ucraina torna a dipanarsi lungo i percorsi bruscamente interrotti a Vilnius, il 29 novembre. Allora, Kiev voltò le spalle all'Europa e guardò alla Russia; oggi, sceglie l’Europa, senza essersi ancora sdoganata dalla Russia.

E una firma, al di là della retorica diplomatica di queste cerimonie, non cancella la storia. Poco prima d’avallare il patto con Ucraina, Georgia, Moldova, i leader dei 28 avevano commemorato, davanti a un mare di croci bianche nell'erba verdissima di Ypres, le vittime della Grande Guerra, cento anni or sono: il fronte di quel conflitto, come quello della Seconda Guerra Mondiale, attraversò l’Ucraina, terra di confine tra imperi, etnie, religioni, visioni della società.

La rottura di Vilnius innescò la rivolta contro il presidente e il governo legittimi, ma filo-russi, fino al loro rovesciamento. La primavera è stata di sangue e di violenze, sull'orlo di una guerra civile: con un referendum contestato, la Crimea è tornata alla Russia; le regioni dell’Est hanno proclamato la loro secessione; ci sono stati scontri e perdite fra i regolari e gli insorti, con le truppe russe spesso schierate minacciose lungo il confine. E il conflitto è stato pure diplomatico, economico, soprattutto energetico: un’aria di Guerra Fredda che non si respirava più da un quarto di secolo.

La firma dell’accordo di associazione con l’Ue non scioglie tutti i nodi nel triangolo delle relazioni euro-russe-ucraine: economia ed energia restano capitoli aperti. Ma apre spiragli di trattativa, anche se i toni dono più da ultimatum che da distensione . Kiev prolunga di 72 ore, fino a lunedì il cessate il fuoco con i filo-russi per dare più chance all'avvio di un negoziato. E i leader dei 28 danno tempo sempre fino a lunedì a Mosca per cogliere l’opportunità, pena l'adozione di nuove sanzioni mirate. Ma se la Merkel giudica “insoddisfacente” l’atteggiamento russo, Hollande dice esplicitamente che nessuno vuole inasprire il confronto.

L'Ue chiede, in particolare, che la Russia accetti il controllo dell'Osce sulla cessazione delle ostilità e "l’effettivo controllo della frontiera" russo-ucraina; la restituzione alle autorità ucraine dei valichi di confine controllati dai filo-russi; il rilascio di tutti gli osservatori Osce e degli altri ostaggi; e, infine, l'avvio di trattative sostanziali sul piano di pace presentato del presidente Poroshenko. Che manca d’originalità, ma non lesina parole e aggettivi: parla di “giornata storica”, addirittura “la più importante dall'indipendenza” acquisita nel 1991, dal dissolvimento dell’Unione sovietica; e pure d’un passo “verso l’adesione” all’Ue.

A Mosca, c’è meno voglia di parlare e ben poco da festeggiare. Il pendolo dell’Ucraina, come già avvenne nel 2004, con la rivoluzione arancione, oscilla verso l’Unione. Una volta, è già tornato indietro, verso la Russia. E non è escluso che lo rifaccia.

Le reazioni ufficiali sono fredde, quasi gelide: l'intesa Ue-Ucraina porterà "serie conseguenze", avverte Grigory Karasin, vice-ministro degli Esteri, sottolineando la necessità di evitare "incomprensioni e sospetti". Dmitry Peskov, portavoce di Putin, fa sapere che Mosca "adotterà misure del caso”, se l’accordo dovesse comportare "effetti negativi per l’economia russa". E Putin descrive una società ucraina "spaccata" da un "confronto interno doloroso" e chiamata a scegliere tra Ue e Russia.

Il dialogo con l’Occidente resta, comunque, aperto: i responsabili degli esteri di Washingtone Mosca Kerry e Lavrov si parlano al telefono; e il ministro degli Esteri italiano Mogherini progetta missioni in Ucraina e in Russia, non appena assunta –il 1° luglio, la presidenza del Consiglio dell’Ue.

La proroga del cessate il fuoco è un ammiccamento di Poroshenko a Putin, che aveva sollecitato una tregua a lungo termine per favorire l'avvio di colloqui di pace tra Kiev e i ribelli. Ma le notizie dal terreno restano tragiche: nell’est dell’Ucraina, si continua a combattere. I ribelli hanno tra l'altro preso una base militare a Donetsk, facendone prigioniero il comandante, e un posto di blocco presso Kramatorsk, uccidendo quattro governativi e ferendone cinque.

venerdì 27 giugno 2014

Ustica: 34 anni dopo, la Francia finalmente collabora

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/06/2014
Una svolta, nell'inchiesta sulla strage di Ustica. Una svolta, se sarà confermata, che cade a 34 anni esatti dall'abbattimento del Dc9 Itavia inabissatosi con 81 persone a bordo a nord il 27 giugno ‘80. Secondo quanto scrive l’Huffington Post, è caduto il ‘muro di gomma’ francese, che aveva finora resistito a ogni domanda e reso vana la ricerca della verità. Parigi era sempre stata molto meno collaborativa di Washington, offrendo irritazione e silenzio in risposta agli interrogativi italiani.
Ora, invece, la Francia avrebbe finalmente deciso di collaborare all'inchiesta. E alcuni ex militari avrebbero ammesso, per la prima volta, davanti a magistrati italiani, che quella sera caccia di stanza alla base di Solenzara in Corsica, sospettati di essere coinvolti nell'abbattimento del Dc9, volarono fino a tarda ora.
Non sarebbe un’ammissione di colpa, ma sarebbe una smentita della versione che Parigi aveva finora accreditato, secondo cui la base corsa chiuse quel giorno alle 17, cioè ben quattro ore prima che l’aereo civile italiano esplodesse nel cielo di Ustica.
C’è chi attribuisce il mutato atteggiamento francese a una decisione politica al massimo livello, magari del presidente Hollande. Resta, però, da accertare la portata della notizia ed eventualmente da capire fin dove arriverà la disponibilità di Parigi a collaborare, in questa vicenda segnata da depistaggi e reticenze nazionali e internazionali.
Nell'anniversario della strage, proprio ieri, due deputati Pd, Walter Verini e Enzo Amendola (capigruppo nelle commissioni Giustizia e Esteri) aveva presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, per sapere "a che punto sono le rogatorie internazionali dell'inchiesta sulla strage che la Procura della Repubblica ha rivolto a Stati amici e alleati e quali iniziative intenda adottare nel caso che alcune rogatorie non ricevano risposte".

Il Parlamento non ha ancora ratificato la “Convenzione sull'assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati dell’Ue”, che risale al 2000. La Convenzione semplifica e rende più efficaci le formalità e le procedure delle richieste di assistenza giudiziaria, introducendo forme e tecniche specifiche di collaborazione rafforzata con le autorità giudiziarie degli altri Paesi europei.

Ue: Ce/Pe, nomine, Joelle li spiazza tutti e Marine resta al palo

Pubblicato da AffarInternazionali il 27/06/2014, con lo pseudonimo Adriano Metz

Consigliere comunale a Lorient, una base di sottomarini in Bretagna, 64 anni, vedova, Joelle Gergeeron Guerpillon è la figura chiave della VIII legislatura del Parlamento europeo. O, almeno, lo è stata nella faticosa fase della formazione dei gruppi euroscettici. Che dovevano essere due, l’un contro l’altro schierato; e che, invece, sono solo uno, almeno per ora.

Eletta nelle liste del Front National di Marine Le Pen, partito in cui milita da quarant'anni, Joelle si sarebbe rifiutata di cedere il seggio a Strasburgo a un altro candidato –circostanza smentita dal FN-: ha lasciato il partito e ha aderito al gruppo che Nigel Farage e Beppe Grillo cercavano di formare. Risultato, Farage e Grillo hanno il loro gruppo; mentre la Le Pen e la Lega Nord, che, con i loro alleati olandesi, erano certi di formarlo non ce l’hanno e sono finiti tutti nel gruppo misto, niente o quasi fondi, cariche, tempo di parola.

Il Parlamento uscito dalle elezioni europee di maggio si riunirà in plenaria per la prima volta martedì 1° luglio a Strasburgo: eleggerà il suo presidente –sulla riconferma di Martin Schulz, c’è l’intesa fra popolari e socialisti- e i suoi quadri. Fra i vice-presidenti, ci sarà il pd David Sassoli, mentre Gianni Pittella sarà il capogruppo socialista. Roberto Gualtieri punta alla Commissione Affari economici e monetari, Antonio Tajani alla Commissione industria e trasporti.

Due settimane dopo, a metà luglio, l’Assemblea di Strasburgo voterà l’investitura del presidente della Commissione europea: dopo un mese di tiramolla, una larga maggioranza dei leader dei 28 ha sostenuto l’ex premier lussemburghese, ed ex presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, un popolare. Coagulato intorno al premier britannico David Cameron, il ‘fronte del no’ a Juncker s’è ridotto a poca cosa: britannici e ungheresi, 41 voti nel Consiglio europeo, quando ce ne vogliono 93 per una minoranza di blocco.

Attribuiti presidenza della Commissione e posti che contano in Parlamento, la partita delle nomine continuerà con l’assegnazione dei portafogli nell’Esecutivo e sulle scelte dell’Alto Rappresentante della Politica estera e di sicurezza comune e delle presidenza del Consiglio europeo – un’ipotesi, la danese Helle Thorning-Schmidt, una socialdemocratica che piace alla Merkel -  e dell’Eurogruppo –il finlandese Jyrki Katainen o il francese Pierre Moscovici -, in un’alchimia di competenze, nazionalità, appartenenze e genere. L’Italia punterebbe, in prima istanza, al ‘ministero degli esteri’ europeo con Federica Mogherini, ma, in alternativa, non disdegnerebbe gli Affari Interni e l’Immigrazione.

In attesa delle mosse dei governi, i deputati europei hanno definito gli assetti politici dell’Assemblea, che potranno però variare a ogni momento. Alla chiusura delle trattative per la formazione dei gruppi, il 24 giugno, la sorpresa è stata il flop dell’alleanza euroscettica costruita, fin da prima del voto, intorno alla Le Pen, mentre Ukip e M5S sono riusciti a mettere insieme ‘Europe for Freedom and Direct Democracy’ (Efdd), scegliendo David Borrelli (M5S) e lo stesso Farage come copresidenti. Già spezzata in gruppi fra di loro diversi e spesso eterogenei al loro interno, l’onda alta degli ‘anti euro’ ed ‘anti Ue’ ha perso forza parlamentare.

La Le Pen s’è fermata a cinque partiti di diversi Paesi –ne servono almeno sette- e a 38 deputati –ne bastano 25-: il Front National (Francia, 24), la Lega Nord (Italia, 5), il Partito della Libertà Fpoe (Austria, 4), il Partito della Libertà Pvv (Olanda, 4) e Vlaams Belang (Belgio, uno).

La versione ufficiale è che "preferiamo, per ora, non avere un gruppo perché vogliamo un progetto politico stabile". Per questo, la porta è rimasta chiusa ai polacchi del Kongres Nowej Prawicy – “abbiamo preferito la qualità politica" – e non s’è mai socchiusa agli estremisti anti-semiti dichiarati di Alba Dorata (Grecia), Jobbik (Ungheria), Bulgaria senza censura ed ai neo-nazisti tedeschi. Ma restano dei ‘cani sciolti’ nella terra di nessuno dei non iscritti: comunisti greci a parte, ci sono unionisti britannici, un’indipendente romena e altri.

Delusi, ma ottimisti sulla possibilità di costituire presto un gruppo, i leghisti tessono l’elogio della coerenza e denunciano l’ammucchiata –“destinata a non durare”- cui si sarebbero prestati i grillini, il cui ‘matrimonio di convenienza’ con l’Ukip è stato sancito da un voto online. Borrelli la vede così: “Su certe cose, noi e Farage le pensiamo in maniera opposta e voteremo di conseguenza perché questo gruppo ci permetterà di farlo, mentre altri gruppi ci avrebbero obbligati ad assumere una posizione comune”. Tra M5S e Ukip, ci sono pure “punti in comune”: “Ci batteremo per abolire il Patto di Stabilità e per una maggiore partecipazione dei cittadini europei”.

Il gruppo conta sette nazionalità e 48 deputati: 24 dell'Ukip, 17 del M5S, due del partito lituano Ordine e Giustizia, uno ceco del partito dei Cittadini liberi, due svedesi degli Svedesi democratici e un lettone dell'Unione dei verdi e dei coltivatori. Oltre, naturalmente, alla decisiva Joelle.

Complessivamente, il nuovo Parlamento inclina a destra, oltre che all’euroscetticismo. Il gruppo dei conservatori, l’Ecr, è diventato il terzo per dimensioni, con 69 deputati, scavalcando Verdi e liberali grazie alla decisione dei separatisti fiamminghi di lasciare i Verdi e di migrare fra i conservatori.

Il Ppe ha 221 deputati ed è il gruppo più numeroso, nonostate una perdita di 56 seggi rispetto al 2009. Il Pse con 191 –pochi in meno che nel 2009- è il secondo gruppo, davanti all’Ecr, che, malgrado la disfatta dei conservatori in Gran Bretagna, cresce di 12 seggi, grazie a un mix di 18 partiti di 13 Paesi.


Dietro, i liberali (67), che attenuano le deluzioni elettorali con la campagna acquisti: due partiti spagnoli e un portoghese entrano nei ranghi; poi la Sinistra unita (52), i Verdi (50), l’Efdd (48). Attendono collocazione i 53 non iscritti: lì dentro, c’è quella che doveva essere l’Alleanza della Le Pen.

mercoledì 25 giugno 2014

Italia/Ue: la Mogherini e il posto inutile in Europa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/06/2014

Se lo ha fatto, per cinque anni, in modo impalpabile, Catherine Ashton, lo può fare –e meglio- Federica Mogherini. Ma che il gioco sia chiaro: in quel posto dal nome sonoro, Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, i governi che contano dell’Unione non vogliono qualcuno che possa fare valere peso e prestigio, ma qualcuno che non dia fastidio.

Del resto, se i leader dell’Ue avessero voluto un vero e proprio ‘ministro degli Esteri’ europeo, lo avrebbero chiamato così, invece di inventarsi quell’Alto Rappresentante che suona funzionario e che nessuno capisce né chi è né cosa fa. E se poi ci aggiungete che dirige il Seae è peggio: la sigla sta per Servizio europeo di azione esterna, oltre 2000 addetti (con la prospettiva di arrivare a 7000), provenienti da ministeri nazionali, Commissione europea e Consiglio dei Ministri.

Quando Lady Ashton fu nominata, tra la sorpresa generale, Alto Rappresentante, nel 2009, non aveva quasi nessuna esperienza di diplomazia internazionale: a 51 anni, era stata per un anno commissario al commercio internazionale nella prima Commissione presieduta da Manuel Barroso. Appena assunse l’incarico, si capì che avrebbe fatto rimpiangere Javier Solana, il suo predecessore, che, senza avere tutti i poteri conferiti dal Trattato di Lisbona, era stato capace di rendere l’Europa presente in molte crisi internazionali.

L’Alto Commissario è anche vice-presidente della Commissione e presiede i Consigli dei Ministri degli Esteri dei 28: insomma, occasioni per farsi valere e per farsi notare ne ha. Lady Ashton ne ha colte ben poche, anche se col tempo qualche risultato positivo, nei Balcani o nei negoziati con l’Iran sul nucleare con la formula dei 5 + 1, l’ha magari ottenuto.

Ora, la Mogherini sarebbe, negli intenti dei leader dell’Ue, una scelta alla Ashton: ministro junior rispetto ai suoi colleghi, il più junior del lotto dei Grandi dell’Ue, senza l’autorità né l’esperienza per imporsi loro. Non sarebbe una scelta per cambiare le cose, ma per lasciarle come sono.

E questo a prescindere dalle qualità della Mogherini, che è coscienziosa e preparata e alla cui credibilità non giova la carriera rapidissima: 41 anni, eletta deputata nel 2008 e rieletta nel 2013, presidente per pochi mesi della delegazione italiana all’Assemblea atlantica, poi responsabile esteri del Pd di Matteo Renzi per due mesi, quindi ministro degli Esteri a sorpresa. Il posto pareva sicuro per Emma Bonino –lei sì, che a metterla a Bruxelles al posto della Ashton cambierebbe le cose-.

Ora, i giochi non sono ancora del tutto fatti e suona persino strana la disinvoltura con cui la stessa Mogherini e altri esponenti del governo italiano parlano della candidatura. Ieri, Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei, diceva a Bruxelles che la carica può "benissimo spettare all'Italia", anche se la questione va affrontata "in un quadro di equilibrio fra paesi e forze politiche".

In palio, ci sono le presidenze della Commissione –c’è un consenso sull’ex premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, candidato dei popolari- e del Parlamento europeo –si va verso una riconferma del presidente uscente Martin Schulz, socialdemocratico tedesco- e quelle del Consiglio europeo e dell’Eurogruppo, oltre che l’Alto Rappresentante. Dietro ogni nomina, competenze istituzionali, diverse l’una all’altra; e l’insieme deve tenere conto d’un mix di nazionalità, provenienze politiche, genere. Nei calcoli degli equilibri, entra che l’Italia ha la presidenza della Bce con Mario Draghi.

Interpellati da Il Fatto, un ex rappresentante permanente presso l’Ue e un ex alto dirigente Bce commentano allo stesso modo  l’ipotesi Mogherini: “Per l’Italia, non sarebbe un affare. O metti lì qualcuno che conta, oppure non conti lì e perdi peso in Commissione, perché l’Alto Rappresentante è spesso assente per i suoi impegni internazionali”. E in Commissione transitano, ogni settimana, decisioni delicate per l’Italia, dalle raccomandazioni economiche alle procedure d’infrazione (che non sono rare).

martedì 24 giugno 2014

Iraq: milizie e Kerry, Isis e Usa, obiettivo al Maliki

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/06/2014

Le milizie jihadiste dell’Isis intensificano la guerra di conquista, mentre il segretario di Stato Usa Kerry, in visita a Baghdad, definisce la loro avanzata una “minaccia essenziale” per il Paese, che rischia di andare in pezzi tra sciiti, sunniti e curdi.

L’offensiva degli insorti dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria non è sistematica: le milizie non puntano sulla capitale, ma consolidano il controllo d’un vasto territorio a cavallo tra Siria e Iraq; ed evitano di offrirsi come bersaglio ai raid aerei, concentrando uomini e mezzi in luoghi vulnerabili.

Le cronache di ieri dicono che gli integralisti sunniti si sono impadroniti, nella provincia di Ninive, di TalAfar, già presa e abbandonata nei giorni scorsi, e del suo aeroporto e d’un posto di frontiera –il secondo- con la Siria. Nel week-end, le milizie avevano preso tre centri della provincia di al-Anbar, che si stende anche in Siria e in Giordania, altro Paese vulnerabile al contagio jihadista.

Dopo un incontro con il premier al Maliki, che l’Amministrazione statunitense vorrebbe scaricare, Kerry ha invitato i dirigenti iracheni “a prendere decisioni”. Al potere dal 2006, al Maliki è criticato per la sua politica confessionale pro-sciiti, che carica d’odio e di rivendicazioni l’offensiva sunnita.

Kerry, che domenica era in Egitto a testimoniare, con lo sblocco di aiuti e la fornitura di 10 Apache, l’appoggio al regime del presidente al Sisi, nega responsabilità americane nell’attuale crisi, anche se a Washington c’è chi gliele contesta. L’appoggio Usa all’Iraq –dice il segretario di Stato, che ora va a Bruxelles e Parigi- sarà “intenso e sostenuto”, ma sarà “efficace” solo se i dirigenti iracheni supereranno le posizioni settarie e “prenderanno misure per riunire il paese”.

Al Maliki alza il tono, parla di una minaccia “per la pace della regione e del mondo”, ma non fa cenno a quel governo d’unità nazionale, che gli Usa e pure l’Ue si aspettano e gli sollecitano.

Dopo le legislative di aprile, l’Iraq non ha ancora un governo, perché al Maliki, che ha ottenuto una maggioranza relativa, non riesce a formare una coalizione. E gli jihadisti controllano grandi città come Mosul, la seconda del Paese, e intere province. La loro avanzata è favorita dall’inefficienza d’esercito regolare e apparati di sicurezza, dove si registrano molte defezioni di elementi sunniti.

Il presidente Obama ha inviato marines a protezione dell’ambasciata e consiglieri militari, ma ha per ora escluso raid aerei, deludendo sia Baghdad che Teheran, grande protettore dell’Islam sciita.

L’avanzata delle milizie è contrassegnata da episodi criminali. Per il regime, "centinaia di soldati sono stati decapitati o impiccati” nelle zone sotto l’Isis. E sarebbero stati rinvenuti 70 detenuti uccisi, dopo che s’era avuta notizia di esecuzioni a Rawa e Aana. Gli insorti, infine, starebbero procacciandosi mogli nei territori occupati: un ratto delle Sabine 2.750 anni dopo, oggi come allora per assicurare conforto e prole a una banda di energumeni violenti e determinati.

domenica 22 giugno 2014

Italia/ue: presidenza -9, forse un questionario per i 28

Scritto per EurActiv.it il 22/06/2014

Un questionario nel semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue, che inizierà il 1° luglio: un questionario per tastare il polso dei partner sul futuro dell’Unione e sui percorsi dell’integrazione. Molte cose già si sanno, altre potrebbero saltare fuori, magari qualche proposta praticabile.

Secondo quanto EurActiv.it ha appreso da fonti sicure, l’idea del questionario è del sottosegretario agli Affari Europei Sandro Gozi. Mancano ancora gli avalli definitivi del presidente del Consiglio Matteo Renzi e del Ministero degli Esteri.

Il questionario, che consterebbe di una ventina di domande, dovrebbe essere sottoposto ai partner fin dalle prime battute della presidenza italiana, intorno alla metà del mese di luglio. Le risposte dovrebbero arrivare dopo l’estate, all’inizio dell’autunno, così da avere –poi- il tempo di valutarle e di ricavarne un documento di sintesi.

Il testo ricavato dalle risposte al questionario potrebbe essere discusso dai 28 verso la fine dell’anno e potrebbe costituire, in qualche modo, il lascito della presidenza italiana sui futuri sviluppi dell’Unione e dell’integrazione: un catalogo con una ‘roadmap’ delle cose da fare, o da non fare, insieme.

Questionari hanno già scandito la preparazione della presidenza italiana. Ne hanno elaborati, fra gli altri, uno il Cime, cioé il consiglio italiano del Movimento europeo, sulle priorità della presidenza, e uno lo IAI, l'Istituto Affari Italiani, sulla politica estera ed europea italiane viste dai cittadini.

sabato 21 giugno 2014

Ue: Commissione, presidenza, sì Pse a Junker, Schulz a Pe

Scritto per EurActiv.it il 21/06/2014, su dispacci d'agenzia

L’orizzonte della presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue si sgombra. Ma, nel contempo,  Matteo Renzi perde una possibilità di mediazione. Il vertice europeo socialista, convocato a Parigi dal presidente francese François Hollande, spiana la strada ad un popolare, Jean-Claude Juncker, alla presidenza della Commissione europea, mentre il suo rivale socialista, Martin Schulz, presidente uscente del Parlamento europeo, punta a succedere a se stesso alla testa dell’Assemblea.

L’intesa che si profila tra popolari e socialisti, preannunciata dall’accordo in Germania tra la Cdu della cancelliera Merkel e l’Spd, alleati nella coalizione di governo, suona sconfitta per il premier britannico David Cameron, che ha guidato la fronda anti-Juncker.

Otto capi di Stato e di governo socialisti europei, tra cui l'italiano Renzi, si sono riuniti Parigi: l'austriaco Werner Faymann, il belga Elio Di Rupo, la danese Helle Thorning Schmidt, il romeno Victor Ponta, lo slovacco Robert Fico e il ceco Bohuslav Sobotka. Presenti pure il vicecancelliere tedesco della Spd Sigmar Gabriel e Schulz, in quanto capogruppo socialista al Parlamento europeo,  oltre ai leader socialisti di altri 6 Paesi. In agenda, futuro dell'Unione e nomine, in vista del Vertice del 26 e 27 giugno.

Hollande è stato incaricato dai suoi colleghi di portare al Consiglio europeo i loro "orientamenti" sul futuro dell'Europa, confermando l'apertura alla nomina di Juncker alla guida della Commissione. "Rispettiamo le istituzioni europee e le indicazioni delle elezioni", ha spiegato il titolare dell'Eliseo al termine del consulto a Parigi: "Il partito che arriva in testa deve potere proporre il suo candidato, in questo caso Juncker".

I leader socialisti, ha però aggiunto Hollande, "vogliono che l'insieme delle responsabilità europee sia discusso al prossimo Consiglio", perché "ci sono altre cariche che possono spettare a nomi d’ispirazione socialdemocratica".

Di qui alla fine dell’anno, oltre alle presidenze della Commissione e del Parlamento, vanno indicati il presidente del Consiglio europeo –la premier danese Thorning Schmidt s’è però chiamata fuori: “Resto premier”, ha detto- e il ‘ministro degli esteri’ dell’Ue, oltre che, eventualmente, il presidente dell’Eurogruppo.

Schulz è stato "ufficialmente" candidato dai leader europei di area socialista a succedere a se stesso alla guida dell'assemblea di Strasburgo. Anche per Schulz, tedesco, Spd, l’obiettivo è "un accordo su un pacchetto di nomine" che comprenda anche alcuni nomi dell'area socialista.

Lo stesso ha sostanzialmente detto il vicecancelliere tedesco Gabriel, secondo cui i leader socialisti sono "pronti ad appoggiare Juncker alla presidenza della Commissione", ma si aspettano "che altre cariche disponibili vadano a socialisti". L’accordo tra la Merkel e Gabriel prevede che la Germania designi a Bruxelles un commissario europeo di area Cdu.

Iraq: Obama scarica al Maliki per sottrarsi al pantano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/06/2014

Siamo ai saldi di fine stagione dei fondi di magazzino dell’Amministrazione Bush: piuttosto che rischiare di ritrovarsi militarmente impantanato in Iraq, Barack Obama pensa di disfarsi di quello che ritiene il principale responsabile dello sgretolamento dello Stato davanti all’avanzata jihadista.

Sul banco degli accusati, il premier iracheno Nuri al Maliqi di cui la cosa più lesta che si ricorda è la prontezza con cui schivò la scarpa lanciata da un giornalista iracheno contro il presidente Usa George W. Bush, in una conferenza stampa al termine della visita di commiato a Baghdad.

Secondo il New York Times, da giorni sono in corso colloqui e contatti per individuare un sostituto del premier, ormai sgradito anche agli Stati Uniti. Nei suoi discorsi, Obama non lo ha apertamente scaricato, ma non gli ha neppure espresso sostegno parlando della necessità di una leadership che tenga insieme tutte le anime di un Paese diviso tra sciiti, sunniti, curdi.

E giorni fa il Washington Post aveva scritto che Washington sta pensando a un nuovo governo senza al Maliki, cui viene rimproverato di non avere promosso l’unità nazionale e di avere anzi attuato politiche settarie, esasperando i contrasti tra maggioranza sciita e minoranza sunnita, che Saddam Hussein aveva tenuto al potere per un quarto di secolo. E, intanto, i curdi rafforzavano l’autonomia – e adesso vogliono tenersi Kirkuk, loro capitale storica, al centro di una selva di pozzi di petrolio -.

L’idea è quella di un maggiore coinvolgimento di sunniti e curdi, per dare al governo e allo Stato maggiore stabilità. Il NYT fa tre nomi per il ‘dopo al Maliki’, tutti sciiti. Ma la presenza nella terna di Ahmed Chalabi, accanto ad Abdul Mahdi e Bayan Jaber, suscita molti dubbi. Chalabi, oppositore in esilio, era l’uomo che, nei disegni di Bush, doveva guidare l’Iraq dopo Saddam. Ma gli iracheni non gli diedero mai fiducia.

L’uscita di scena di al Maliki, insieme alla fine della presidenza in Afghanistan di Hamid Karzai - si attende di conoscerne il successore al termine d’uno spoglio che fra brogli e sangue durerà un mese, dopo che la giornata di ballottaggio aveva fatto oltre 250 vittime - segnano il tramonto dei dirigenti che l’Amministrazione Bush aveva in qualche modo insediato nei due Paesi dove aveva combattuto la guerra al terrorismo.

Né al Maliki né Karzai sono riusciti a conquistare “i cuori e le menti” dei loro popoli, prigionieri delle logiche etniche e religiose, oltre che della corruzione e dell’inefficienza.

Le notizie delle manovre per rimpiazzare al Maliki arrivano mentre le notizie dal fronte segnalano una ripresa dell’offensiva delle milizie jihadiste, che hanno attaccato la maggiore raffineria irachena, a nord di Baghdad, e hanno ucciso una trentina di soldati regolari al confine con la Siria.

l’atteggiamento degli Stati Uniti delude l’Iran, che è un grande protettore del regime sciita: Teheran accusa Washington di “non volere combattere il terrorismo”. Il presidente Rohani vuole difendere, anche con i Guardiani della Rivoluzione, i luoghi santi sciiti, mentre il presidente Obama s’accontenta di mandare 275 uomini a difendere l’ambasciata americana.

Iran e Usa hanno discretamente parlato di Iraq a Vienna, a margini dei negoziati sul nucleare che riprendono il 2 luglio. Forse, hanno pure discusso del ‘dopo al Maliki’: Chalabi non sarebbe sgradito a Teheran, Jaber è uno sciita ‘duro’, Mahdi ha già mostrato un buon seguito elettorale. Ma il premier in carica non vuole mollare: ad aprile, ha vinto le elezioni, ma ha solo 98 seggi su 328 e non riesce a mettere insieme una maggioranza. Né in Parlamento, né nel Paese, né sul campo di battaglia.

venerdì 20 giugno 2014

Italia/ue: presidenza -11; immigrazione, partenza lanciata

Scritto per EurActiv.it il 20/06/2014, su dispacci d'agenzia

L’Italia insiste con i partner dell’Ue per rafforzare l’attività di Frontex e le bozze delle conclusioni del Vertice europeo della prossima settimana contengono indicazioni in tal senso e un’apertura all’idea di creare guardie di frontiera europee.

Se le conclusioni del Vertice rispecchieranno le bozze oggi filtrate ai media, la presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue avrà una partenza lanciata, almeno per quanto riguarda il dossier dell’immigrazione.

Della posizione italiana su questo tema e delle prospettive della presidenza, Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari Europei, ha oggi parlato a Bruxelles in un incontro con il think tank Bruegel, uno dei più prestigiosi a livello europeo.

Lunedì prossimo, ulteriori indicazioni sull’Europa ‘italiana’ usciranno dall’incontro, al Quirinale, tra la conferenza dei presidenti del Parlamento europeo, composta dal presidente dell'Assemblea -attualmente e ‘pro tempore’, fino al 1° luglio, l’italiano Gianni Pittella- e dai presidenti dei gruppi con il presidente Giorgio Napolitano e rappresentanti del governo italiano.

Per l’Italia, che ne fa una priorità della propria presidenza, l'Ue deve sviluppare politiche più forti sul fronte dell’immigrazione e arrivare a un ‘Frontex +’, cioè rafforzato e in grado di gestire operazioni come Mare Nostrum. Allo stesso tempo, bisogna "sviluppare una vera politica d'asilo comune basata sul mutuo riconoscimento delle concessioni dello statuto di rifugiato".

A Bruxelles, Gozi ha spiegato: "Chiediamo un ‘Frontex+’ con modalità operative da discutere, ma che possa svolgere il duplice ruolo di Mare Nostrum", la "gestione dei flussi e l’aiuto umanitario" e il contrasto ai traffici illeciti. "Il nostro obiettivo in prospettiva - ha sottolineato il sottosegretario - è spingere l'Ue ad arrivare a un corpo europeo di polizia delle frontiere esterne".

Per quanto riguarda il sistema d'asilo, l'Italia non vuole “riaprire i negoziati sulle intese di Dublino", tra l'altro "riviste da poco", ma "completarle, andando verso un vero sistema comune d'asilo Ue e affermando il principio del mutuo riconoscimento".

giovedì 19 giugno 2014

Italia/Ue: presidenza -12, maretta con Ue, ma c’è roadmap

Scritto per EurActiv il 19/06/2014

La tempesta (in un bicchier d’acqua?) sulla procedura d’infrazione per i tardivi pagamenti della Pubblica Amministrazione alle imprese turba le relazioni fra Governo italiano e Commissione europea, a meno di due settimane dall’inizio, il 1° luglio, del semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue.

Più che tra Roma e Bruxelles, la tempesta, però, è tutta romana: pretesto di polemiche fra Pd e FI, perché a lanciare –correttamente e motivatamente- la procedura è il vice-presidente dell’Esecutivo Antonio Tajani, responsabile dell’Industria, esponente di FI.

La procedura, del resto, è solo una delle 117 –il dato è di oggi e ci conferma maglia nera nell’Ue- che riguardano l’Italia: non vale un dramma. Tanto più che l’andamento lento delle leggi europee all’esame del Parlamento lascia temere un aggravamento della situazione nei prossimi mesi.

Se c’è un’incrinatura nei rapporti con la Commissione, l’incontro di ieri a Palazzo Chigi tra il premier italiano Matteo Renzi e il presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy sembra invece avere sortito una sorta di roadmap per il ‘semestre italiano’: nessun via libera e nessun diktat sui nuovi vertici delle Istituzioni comunitarie, ma la condivisione di un metodo di lavoro che prevede una valutazione complessiva e un documento sul futuro dell'Europa.

Questa, almeno, la linea Renzi sull'avvenire e sui vertici dell'Unione, espressa a Van Rompuy e nelle telefonate dei giorni scorsi a numerosi leader, dal francese Hollande al britannico Cameron a, oggi, la tedesca Merkel.

Renzi ha incassato il sì di Van Rompuy alla definizione di un documento sul futuro dell’Europa, cui si starebbe lavorando a Bruxelles e nelle cancellerie dei 28. Un approccio di metodo che cambia verso al dibattito sulle nomine dei vertici delle Istituzioni, a partire dalla controversa presidenza della Commissione europea: i nomi vengono dopo la definizione d’una Europa all'altezza delle sfide che ha davanti.

Nessun via libera, dunque, né diktat su questo o quel nome, ma l'emergere dell’importanza di una soluzione complessiva che valorizzi, questo sì, la rappresentanza di genere. La linea Renzi appare chiara alla stampa europea: secondo Le Figaro e Les Echos, il premier italiano punta a una svolta "sostanziale" nell’Unione ed è pronto a rinunciare a una minoranza di blocco contro l’ex premier lussemburghese Jean-Claude Juncker alla Commissione europea in cambio di un’interpretazione più flessibile delle regole di bilancio e di una politica di crescita.

E la stampa britannica prepara il terreno a una sconfitta dell’intransigenza di Cameron su Juncker , visto che avrebbe perso –The Guardian- “il suo nuovo migliore amico e presunto alleato”, cioè Renzi, la cui priorità non è bocciare Juncker ma “allentare l’austerità”.

Italia/Ue: PA, la polvere sui debiti e il polverone su Tajani

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 19/06/2014
La Commissione europea apre la procedura di infrazione contro l'Italia per mancata applicazione della direttiva sui ritardati pagamenti della Pubblica Amministrazione. E subito si apre una partita  tra la Dinamo di Peppone e la Gagliarda di don Camillo. Anzi, neppure: siamo agli Scapoli contro Ammogliati della polemica politica.
Perché fra quanti contestano il vice-presidente dell’Esecutivo comunitario Antonio Tajani, il responsabile dell’industria che ha messo in moto la procedura, e quanti lo difendono, ben pochi stanno ai fatti: l’Italia non rispetta, non ha mai rispettato, la direttiva dell’Ue sui pagamenti della PA nonostante una teoria di promesse che va di Governo in Governo da Monti a Letta a Renzi.
Il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan e il sottosegretario alle Politiche europee Sandro Gozi parlano di “decisione incomprensibile” e denunciano la “strumentalizzazione” dell'Ue: Forza Italia difende il suo campione, respingendo le critiche come “inconcepibili”.
Ora, è vero che Tajani è stato capolista di FI al Centro nelle elezioni europee, è stato eletto e siederà, dal 1° luglio, nel Parlamento europeo nel gruppo Ppe. E’ cioè agli sgoccioli del mandato e, con un po’ di opportunismo, avrebbe potuto vivacchiare e lasciare la decisione sulla procedura d’infrazione al suo successore. Ma davvero noi vogliamo in Europa gente che vivacchi?
Negli ultimi mesi, moniti e avvertimenti erano fioccati sul Governo italiano. E l’avvio ufficiale della procedura comunitaria non può avere sorpreso nessuno. Né a Roma né a Bruxelles.
Che poi non si capisce neppure bene perché prendersela tanto calda per una procedura in più: quelle a carico dell’Italia sono 117 –dato ufficiale del Dipartimento delle Politiche europee: un record, nell’Ue- e continuano ad aumentare (a maggio erano 114). Un biglietto da visita non ideale per chi, il 1° luglio, assumerà la presidenza di turno del Consiglio dell'Unione.
La direttiva sui pagamenti della PA, in vigore dal 16 marzo 2013, fissa un termine massimo tra i  30 e i 60 giorni, a seconda dei casi, per liquidare i crediti delle imprese. L’Italia ha formalmente recepito le regole ma di fatto non le osserva: gli esiti del monitoraggio attivato da Tajani, tramite Ance e Confartigianato, indicano che “in Italia le autorità pubbliche impiegano in media 170 giorni per effettuare pagamenti per servizi o merci fornite e 210 per lavori pubblici”. E passano i mesi senza che la situazione migliori.
Non basta. Bruxelles denuncia una serie di pratiche scorrette per aggirare le regole comunitarie. Esempi, l’utilizzo di contratti nei quali gli interessi di mora sono liquidati in misura inferiore rispetto a quanto impone la direttiva (il tasso di riferimento della Bce aumentato dell’8 %); o vengono posticipati gli stati di avanzamento dei lavori per ritardare i pagamenti alle imprese.

Allora, questa procedura d’infrazione ce la meritiamo o no? Se qualcuno al Governo ha dati che dimostrino il contrario, li esibisca, per favore. Prendere a pallonate di parole Tajani e l’Ue fa solo polverone.

mercoledì 18 giugno 2014

Italia/Ue: presidenza -13; Renzi/Van Rompuy, nomine e priorità

Scritto per EurActiv.it il 18/06/2014

Il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy ha oggi avuto una colazione di lavoro e un incontro a Palazzo Chigi con il premier Matteo Renzi. Van Rompuy e Renzi sono stati insieme per quasi due ore: nomine europee e semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Ue nel menù dei colloqui.

Prima di ricevere Van Rompuy, Renzi aveva sentito, tra ieri e oggi, diversi altri leader europei, come il presidente francese Francois Hollande e i premier britannico David Cameron e olandese Mark Rutte.

Cameron e Rutte sono fra i leader dei 28 più contrari alla nomina dell’ex premier lussemburghese Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione europea. Prima delle elezioni europee, Juncker era stato candidato a quell'incarico dal Partito popolare europeo, che è quello che ha avuto il maggior numero di seggi.

Secondo la stampa europea, sale in questi giorni la pressione su Renzi perché –scrive l’FT- “scopra le carte” sulla scelta del presidente della Commissione. Secondo The Guardian, Renzi “emerge come figura chiave per risolvere il contrasto sul prossimo presidente della Commissione europea”: il premier italiano, che dal 1° luglio assumerà la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, vorrebbe ‘barattare’ un allentamento dell’austerità in cambio dell’appoggio a Juncker.

Per El Pais, i socialisti europei stanno lanciando un’offensiva per allentare le regole di bilancio, facendone dipendere l’appoggio a Juncker: un’indicazione confermata dalle dichiarazioni fatte oggi da Martin Schulz a Bruxelles, dopo la sua elezione a capogruppo S&D. Schulz ha così lasciato per qualche giorno la presidenza del Parlamento al suo vice vicario, l’Italiano Gianni Pittella.

Ieri, Les Echos aveva scritto che Enrico Letta era in pole position per succedere a Van Rompuy. Secondo il giornale economico francese, l’ex capo governo italiano avrebbe appoggio di Ppe e Pse e potrebbe fare da ponte tra Europa del Nord e quella del Sud. Ma lo stesso Letta ha ricordato che difficilmente l’Italia otterrà un incarico di vertice, essendo Mario Draghi presidente della Bce.

Questa mattina, a Uno Mattina, su Rai1, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Sandro Gozi ha detto che "l'Italia non ha partecipato al toto-nomine perché non possiamo permetterci che Bruxelles chiuda per nomine, ma dobbiamo pensare ai problemi della gente". Per Gozi, bisogna, dunque, partire dalle priorità, non dalle persone, per dare un segnale di cambiamento forte.

Priorità che il governo ha oggi ribadito al presidente Van Rompuy -all'incontro con Renzi, era presente pure Gozi: "Crescita, occupazione, immigrazione, diritti fondamentali, queste sono alcune delle priorità intorno a cui avviare un nuovo ciclo", perché dalle urne "è uscito un messaggio molto chiaro", una richiesta di  "cambiamento netto” nell’Unione europea.

martedì 17 giugno 2014

Iraq: guerra videogame, vince chi ne ammazza di più

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/06/2014

Lungo l’Eufrate, infuria una guerra che fa centinaia di vittime ogni giorno, raccontano i bollettini dei due campi. Jihadisti sunniti e nazionalisti sciiti si combattono sul terreno; e sul web. Solo che, per vincere la battaglia “dei cuori e delle menti”, come diceva la propaganda bushiana, nessuno cerca d’apparire ipocritamente buono: la sfida è a chi è più cattivo, feroce, spietato.

Le milizie dell’Isis, lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (o Siria), rivendicano su twitter, foto all'appoggio, di avere ucciso a Tikrit, città feudo di Saddam Hussein, 1.700 soldati di Baghdad che si erano arresi. La notizia dell'esecuzione di massa, che sia o meno avvenuta, innesca il domino delle rappresaglie.

Il governo di Baghdad e organizzazioni umanitarie esprimono dubbi, l’Onu conferma. E, intanto, qualcuno posta su twitter –l’account viene poi sospeso- la foto cruda d’una testa mozzata poggiata sul corpo dopo la decapitazione. L’hashtag è persino più sadico dell’immagine: “#WorldCup, ecco il nostro pallone, è fatto di pelle”.

Nella brutalità arcaica degli estremisti islamici, si legge la lezione di al Zarqawi, il capo di al Qaeda in Iraq, ucciso nel 2006 da un raid aereo Usa sulla casa dove s’era rifugiato, vicino a Baquba. Crudele e determinato, al Zarqawi, nel 2004, aveva sgozzato inun video un ostaggio americano, Nicholas Berg. La sua ferocia finì con alienare simpatie alla sua banda: si pensò che a tradirlo fosse stato proprio bin Laden, che lo considerava una maglia impazzita della sua rete.

La situazione sul terreno pare evolvere, in queste ore, a favore dei contrattaccanti sciiti, le cui forze avrebbero ucciso 279 nemici tra sabato e domenica e ne avrebbero eliminati 200 ieri con un attacco dal cielo su Falluja. A Baghdad, dove 100 soldati Usa proteggono l’ambasciata, un attentato sunnita fa varie vittime. Si combatte a Tall Afar. S’ha notizia di mausolei sciiti distrutti dai sunniti a Mosul.

Per il segretario di Stato Usa Kerry, i raid aerei, anche con droni, sono “un’opzione”: Washington vuole preservare l'unita' dell'Iraq. "Quando ci sono omicidi ed esecuzioni di massa, vanno fermati", dice Kerry. Gli Usa sono pronti a discutere con l'Iran della crisi in Iraq, ma –chiarisce il Pentagono- escludono di definire piani per coordinare gli attacchi con Teheran. Ieri, emissari americani ed iraniani erano a Vienna per continuare a discutere di programmi nucleari.

Teheran e Washington stanno già predisponendo il rafforzamento dei contingenti. Gli iraniani fanno in fretta: mettono in campo ‘carne da cannone’: Gli americani devono ottenere il consenso di alleati e cittadini e creare le condizioni operative: ma, una volta pronti, l’efficacia dei colpi è maggiore.

Resta esclusa l’ipotesi di un ritorno di soldati americani in territorio iracheno: iraniani e sauditi, che non la pensano allo stesso modo in questa crisi, sono entrambi contrari a militari stranieri in campo; e i sauditi puntano il dito sul premier iracheno al Maliki, “il caos è colpa sua”.

Eppure, un reduce dall’invasione 2003, l’ex premier britannico Blair, è fautore di un intervento dell’Occidente in Iraq e in Siria “con limitati raid aerei”, per non rischiare –dice- che gli jihadisti attacchino Londra. Parole che ricordano il rapporto ai Comuni del settembre 2002, quando Blair denunciò la capacità di Saddam Hussein di colpire "in 45 minuti" la City "con armi chimiche". Era assolutamente falso, ma servì a inviare truppe in Iraq.

lunedì 16 giugno 2014

Ue: presidenza -15; assenze, ritardi, polemiche

Scritto per EurActiv.it il 16/06/2014

Un programma che tarda a essere pubblicamente presentato, un sito che stenta a diventare operativo, dei ministri che disertano i Consigli dei Ministri dell’Ue a Lussemburgo: è accidentato l’ultimo tratto del percorso d’avvicinamento al semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue, dal 1°  luglio al 31 dicembre 2014. Intoppi che ancora non compromettono, però, il successo della presidenza.

Eppure, le attese europee per il semestre italiano sono alte. Lo testimoniano fra l’altro le frasi dette la scorsa settimana dal ministro degli Esteri ceco Lubomir Zaoralek, in visita a Roma. L'Italia, affermò, dopo avere incontrato la collega Federica Mogherini,  "può creare una leadership europea molto forte". E aggiunse: "Il semestre di presidenza italiano è un'opportunità per tutti di raggiungere gli obiettivi di crescita e di creazione di posti di lavoro".

Crescita e lavoro è un binomio chiave della presidenza italiana, insieme a solidarietà e immigrazione. Ma la decisione del premier Matteo Renzi di riservare la ‘prima’ dell’illustrazione del programma al Parlamento europeo, che si riunirà per la prima volta in sessione plenaria proprio a inizio luglio –l’intervento di Renzi è previsto il pomeriggio del 2, dopo il bilancio in mattinata della presidenza di turno greca-, suscita in Italia qualche perplessità e qualche polemica.

Il vice-presidente della Camera Luigi Di Maio (M5S) trova “scandaloso” che il Parlamento italiano “sia l'ultimo a conoscere le priorità del semestre. Che fine ha fatto la legittimazione democratica annunciata dal presidente del Consiglio Renzi?, che viola ripetutamente lo spirito del Trattato di Lisbona e della nuova legge comunitaria. Qualcuno gli ricordi l'obbligo di riferire in Parlamento…  Renzi snobba le Camere e ci costringe a seguire i tweet della rappresentanza permanente a Bruxelles…”. Eppure, “il Parlamento nazionale è ancora il cuore del sistema democratico".

A Bruxelles, c’è pure qualche inquietudine per i successivi slittamenti nell’inaugurazione del sito della presidenza, le cui informazioni di servizio saranno logisticamente –e non solo- molto utili.

Infine, appaiono improprie alcune assenze ministeriali ai Consigli dei Ministri dell’Ue che a giugno si fanno a Lussemburgo: la scorsa settimana, ai Consigli delle Telecomunicazioni e dell’Energia -e oggi a quello dell'Agricoltura-, l’Italia era rappresentata da sotto-segretari (era già successo a maggio a un Consiglio Istruzioni), mentre quegli appuntamenti erano occasioni talora uniche per ministri esordienti alla presidenza per acquisire confidenza con dossier e procedure e per conoscere i colleghi e farsene conoscere.

domenica 15 giugno 2014

Iraq: Usa, tentazione di santa alleanza sciita anti al Qaeda

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/06/2014

Di restarci impantanato, Barack Obama non ha nessuna intenzione: Ma non può neppure accettare la prospettiva di ritrovarsi, alla fine della sua presidenza, con due jihadistan là dove gli Stati Uniti avevano, al suo ingresso alla Casa Bianca, una presenza militare da potenza occupante. Né è facile da digerire politicamente l’alternativa di accettare un’alleanza ‘contro natura’ con l’Iran sciita: l’America diventerebbe coprotagonista di una guerra di religione nel cuore dell’Islam, ‘tradendo’, per di più, i suoi alleati più solidi e più fidati nella Regione, in primis l’Arabia saudita, anti-jihadista, ma sunnita.

La crisi in Iraq diventa incubo nel giorno in cui il ballottaggio presidenziale mostra tutta la fragilità della situazione afghana: almeno 246 gli attacchi talebani ‘censiti’ da Kabul, con numerose vittime nel giorno del voto. E’ aleatorio pensare che il Paese regga dopo che gli americani e i loro alleati si saranno ritirati, a fine anno. Anche se lì gli Stati Uniti lasceranno un contingente, diversamente da quanto avvenuto in Iraq.

La soluzione ideale, o almeno meno scomoda, per Obama e per l’Occidente, sarebbe che il premier al Maliki, forte dell’appoggio iraniano, riscatti un decennio d’ignavia e ricacci le milizie qaediste dalla Valle del Ninive. Ma anche questo scenario sarebbe gravido di conseguenze sugli equilibri della Regione.

In questo contesto, appare ottimista l’analisi del ministro degli esteri italiano, Federica Mogherini, secondo cui è possibile immaginare un nuovo assetto di tutta l’area, in cui l’Italia avrebbe un ruolo da giocare. Per il momento, l’offensiva jihadista poteva essere prevista, ma non lo è stata.

Militarmente, la Casa Bianca spera di cavarsela con il minimo sindacale: l’invio di droni, che, però, devono ancora dimostrarsi efficaci per arrestare l’avanzata di un esercito, per quanto irregolare, ed eventualmente raid aerei contro lo Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis). Per renderli possibili,  Washington può contare su un’imponente panoplia di forze aero-navali nel Golfo Persico.

Infatti, con l'invio della portaerei nucleare George H. W. Bush e del suo gruppo navale, dove ci sono l'incrociatore lanciamissili Philippine Sea e il cacciatorpediniere lanciamissili Truxtum, sono ora due le grandi unità della classe Nimitz in quelle acque. La Bush ha raggiunto l'unità gemella Harry Truman, di stanza a Manama in Barhein dove ha sede il comando della V Flotta. Le due navi sono lunghe 332 metri e trasportano 6.000 militari e fino a 80 caccia-bombardieri, oltre a una decina di elicotteri.

Nel Golfo, ma in Qatar c'è anche la grande base aerea della Us Air Force Al Udeid, poco fuori Doha, con decine di caccia-bombardieri e aerei di diverso tipo e un totale di 10.000 uomini.

Le cronache dal terreno di sabato sono contraddittorie. Il presidente iraniano Rohani ha spedito a Baghdad un generale della guardia rivoluzionaria e ha ribadito la disponibilità di Teheran ad aiutare Baghdad. E al Maliki ha fatto appello all’orgoglio sciita, “Non saremo mai sconfitti”, mentre i media annunciavano una controffensiva da Samarra e l’invio di truppe di élite per riconquistare Mosul.

L’avanzata delle milizie dell’Isis verso Baghdad pare frenata, se non arrestata, con cenni di riscossa degli sciiti nell’area di Muttassim sulla via della capitale. Nella contesa Tikrit, le forze di sicurezza avrebbero ‘giustiziato’50 ex baathisti, il partito sunnita del regime di Saddam Hussein. E, al confine con la Siria, un’esplosione avrebbe ucciso una trentina di “terroristi”. A Kirkuk, presa dai curdi, fonti cristiane parlano di “guerra civile”. E l’Onu aggiorna i dati dell’emergenza umanitaria: sono già un milione gli sfollati.


Il quadro è tragico. Ma Obama cade lo stesso nella trappola del golf: come Bush, e prima Clinton, va a farsi qualche buca, mentre il mondo brucia. E i critici, non solo repubblicani, lo sbranano.

sabato 14 giugno 2014

Iraq: ancora e sempre sunniti contro sciiti, in tutto il Golfo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/06/2014

L’avanzata jihadista verso Baghdad rimescola rancori atavici, in una delle regioni del pianeta più divisa e dilaniata da odi religiosi e contrasti d’interessi. La contrapposizione tra le due grandi componenti dell’islam, sciiti e sunniti, s’intreccia con strategie dinastiche, visioni nazionalistiche e corse ai pozzi di petrolio.

E gli Stati Uniti rischiano di trovarsi al fianco dell’Iran, nel tentativo di sbarrare la via di Baghdad ai miliziani qaedisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis). Teheran ha ieri ribadito l'impegno a combattere il "terrorismo sunnita" e ad impedire a Paesi stranieri “d’esportare il terrore in Iraq”, superando le diffidenze spesso nutrite in passato per il nazionalismo degli sciiti iracheni.

Il presidente iraniano Rohani ha telefonato al premier iracheno al Maliki. E tutto il mondo sciita iracheno si mobilita, paventando il ritorno a una nuova dittatura dalla minoranza sunnita, stavolta non fondamentalmente laica, come ai tempi di Saddam Hussein, ma guidata dai fanatici dell'Isis. Uno dei maggiori esponenti del clero sciita, l'ayatollah Ali al Sistani, chiama il popolo “a prendere le armi in difesa del Paese e dei luoghi sacri”. Ma si ha pure notizia di defezioni in massa di sunniti dalle forze armate.

L’Iran, tramite gli Hezbollah, che dal Libano tengono sotto tiro Israele, appoggia in Siria il regime di al Assad, un alauita, esponente d’una setta in odore d’eresia, ma d’estrazione sciita.

A sud dell’Iraq, l’Arabia saudita, la cui casta al potere è sunnita, antepone la tutela dello statu quo e degli interesse petroliferi alle considerazioni religiose: è fermamente anti-jihadista e, in Egitto, nega l’appoggio ai Fratelli Musulmani. Fra gli Stati del Golfo, le cui dinastie sono tutte sunnite, il Qatar sfida i sauditi: in Siria, arma l’opposizione ad al Assad e pure i miliziani qaedisti.

Un ruolo l’ha pure la Turchia, al cui presidente Erdogan c’è chi presta un disegno politicamente egemone su tutto l’Islam, quasi la rifondazione dell’Impero Ottomano: Ankara, come il Qatar, foraggia i miliziani siriani, pur temendo l’esodo dei curdi siriani; e, ora, incoraggia i curdi  iracheni a conquistare i campi petroliferi intorno a Kirkuk, la loro capitale storica.

In questo intreccio di tensioni e rivalità, muoversi è difficile. Il presidente Usa Barack Obama ribadisce che non invierà "truppe in Iraq", ma valuta diverse opzioni per sostenere, anche militarmente, il governo iracheno. Obama, però, cerca pure di scuotere l’inetto al Maliki: lo spinge a fare scelte mai fatte per dieci anni, mettendo “da parte le divisioni settarie (sciiti-sunniti)". E Kerry, il segretario di Stato, avverte che l'avanzata jihadista è una minaccia non solo per la regione, "Iran compreso", ma per l'Occidente.

Secondo la Cnn, Washington starebbe spostando Golfo Persico la portaerei a propulsione nucleare George H. W. Bush –il padre, non il figlio: l’uomo che liberò il Kuwait, ma non invase l’Iraq-. Lunga 332 metri, l’unità della classe Nimitz trasporta 90 tra caccia-bombardieri ed elicotteri.

L’emergenza militare innesca quella umanitaria: mezzo milione di sfollati a Mosul, decine e decine di migliaia in fuga dalle altre città cadute o dove si combatte. L’Isis ha ieri preso Sadiyah e Djalaoula, nella provincia di Diyala, nell'Iraq orientale, e alcuni villaggi sui monti Himrine. Vicino a Baquba, 60 km appena da Baghdad, esercito e miliziani di sanno battaglia. Centinaia di americani che lavorano nel centro-nord dell'Iraq sono stati trasferiti a Baghdad.

L'offensiva jihadista è segnata da esecuzioni sommarie: l'Onu da Ginevra cita l'uccisione per strada a Mosul di 17 civili che lavoravano per la polizia e di 12 agenti. Si parla di "centinaia di persone uccise e di un migliaio di feriti", ma le informazioni non sono confermate.

Le tensioni in Iraq spingono su il prezzo del petrolio e l’oro e potrebbero frenare una ripresa appena accennata.

venerdì 13 giugno 2014

Migranti: Gozi, scandaloso isolamento Italia nel Mediterraneo

Scritto per EurActiv.it il 13/06/2014

“E’ scandaloso l’isolamento dell’Italia nel Mediterraneo”: lo ha oggi detto Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei, intervenendo alla presentazione allo Spazio Europa di Roma delle indicazioni scaturite da circa 70 dibattiti in tutte le Regioni organizzati dalla Rappresentanza in Italia della Commissione europea.
L’incontro s’è svolto nella prospettiva del semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue. E’ stato precisato che le indicazioni raccolte dai quasi 12 mila partecipanti ai dibattiti non costituiscono un sondaggio, essendo il campione comunque orientato a un certo europeismo o, almeno, all'attenzione all’Europa.
Secondo Gozi, l’isolamento dell’Italia sui problemi dell’immigrazione “getta benzina sul fuoco” dell’esasperazione delle popolazioni e offre munizioni “a chi vuole cancellare Schengen e la libertà di movimento nell’Unione e rendere gli europei prigionieri delle proprie frontiere”.
Il sottosegretario ha ricordato come la Commissione europea stimi oltre l’800% l’aumento di arrivi sulle coste d’Italia rispetto agli anni precedenti e ha insistito sull'intenzione dell’Italia di “cambiare l’Europa con una politica di immigrazione comune e un diritto d’asilo comune”, che esprimano solidarietà.
L’Esecutivo comunitario ha fatto proposte “che l’Italia sostiene e su cui si farà valere a fine giugno al Consiglio europeo”. Ma i segnali fin qui avuti -avverte Gozi- sono molto al di sotto delle attese: “L’alternativa sono i respingimenti, che sono agli antipodi del nostro sentire, oppure l’ipocrisia, mostrarsi coinvolti e non fare nulla”.
La priorità emerse nei dibattiti in tutta Italia variano da Regione a Regione, anche se crescita e lavoro, solidarietà e immigrazione, coesione e competitività sono stati temi ricorrenti. Secondo Gozi, “gli italiani non sono consapevoli di quanti siano già europei per larghi tratti di legislazione e di società”.
Il sottosegretario ha ribadito che, durante la presidenza, “il governo italiano vuole avanzare lungo una direzione diversa da quella tenuta dall'Unione europea negli ultimi anni … La risposta europea sui problemi del lavoro è stata finora parziale e miope: la mobilità deve essere un diritto, non un obbligo, e, dopo tanti anni di solo rigore, è tempo che l’Europa faccia qualcosa per la crescita e l’occupazione”.

Quanto alla corruzione, altra preoccupazione dei cittadini italiani, “qui è l’Europa -osserva Gozi- che subisce un problema italiano”.

Iraq: Usa e getta, le guerre americane andate a male

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/06/2014

“Non è per questo che abbiamo combattuto e che i nostri compagni sono caduti”: parole di reduci sul Washington Post; parole da un’America turbata e sbigottita. L’avanzata degli jihadisti in Iraq azzera i risultati del più lungo conflitto mai combattuto dagli Stati Uniti, quello contro il terrorismo, cominciato con gli attacchi agli Usa dell’11 Settembre 2001, la Pearl Harbour del XXI Secolo.

Un mese dopo, gli Stati Uniti, con il consenso della comunità internazionale, attaccarono l’Afghanistan e rovesciarono il regime dei talebani, che proteggevano al Qaeda, la rete terroristica di bin Laden, e le avevano permesso di creare i suoi santuari sui monti al confine con il Pakistan. Nel marzo del 2003, gli Stati Uniti, con azione unilaterale, invasero l’Iraq e rovesciarono il regime di Saddam Hussein, col doppio pretesto che proteggeva i terroristi –falso, a priori- e che aveva armi di distruzione di massa –falso, a posteriori-.

Ora, 13 anni e 6717 americani ammazzati dopo, 2229 in Afghanistan e 4488 in Iraq, senza contare le centinaia di migliaia di vittime civili afghane e irachene, il bilancio del conflitto è rosso sangue: gli Usa hanno speso 3.000 miliardi di dollari, secondo le stime del premier Noble Joseph Stiglitz, ma l’Afghanistan è solo un simulacro di democrazia, dove i talebani aspettano l’uscita di scena degli americani e dei loro alleati, entro fine anno, per provare a riprendersi il Paese e il potere; e parte di Iraq e Siria sono diventati uno Stato qaedista, un Jihadistan, nel cuore del Medio Oriente.

Siamo (quasi) al paradosso. Barack Obama, il presidente che ha portato a casa i soldati americani dal pantano Iraq, annuncia di essere pronto “ad azioni militari”, se “sono minacciati gli interessi della sicurezza nazionale". Aggiunge: "Bisognerò a breve condurre in Iraq azioni militari", magari usando i droni, perché “gli jihadisti non guadagnino terreno". E avverte che il regime di Baghdad “avrà bisogno di ulteriore assistenza americana e internazionale” –una richiesta in tal senso è già giunta dal premier al Maliki-. A Bruxelles, la Nato si chiama fuori (per ora): “Non abbiamo ruolo”.

In pochi giorni, l'Iraq ha assistito a una clamorosa avanzata delle milizie dello Stato islamico dell'Iraq e della Siria (Isis) nel proprio territorio, nelle province di Ninive e Salah al Din: prese Mosul, Tikrit, Falluja, gli integralisti sono a Udhaim, 90 chilometri dalla capitale, e chiamano a raccolta tutti i sunniti: "La battaglia arriverà presto a Baghdad e Kerbala”, anche se l’aviazione manda i caccia a bombardare le zone sotto il controllo dell’Isis. Gli integralisti, anzi. rivendicano una serie d’azioni che hanno fatto decine di vittime -15 in un attacco kamikaze contro una riunione di capi tribali, 13 nell’esplosione di un’autobomba- e annunciano una nuova campagna terroristica, denominata ‘La Marcia’.

Il Paese è nel caos. Il Parlamento, dove i partiti sunniti osteggiano il premier sciita, non ha votato la proclamazione dello stato d'emergenza proposta dal governo, per mancanza del quorum. E, intanto, i curdi iracheni coi guerrieri Peshmerga hanno preso Kirkuk, loro capitale storica, centro petrolifero, da cui i governativi erano fuggiti di fronte agli jihadisti, trincerandosi a Khalis.

Il Mondo Arabo segue con ansia il conflitto: l’avanzata jihadista e la proclamazione d’un califfato tra Siria e Iraq possono riscrivere la mappa di tutto il Medio Oriente L'Iran sciita, ben determinato ad arrestare l’offensiva sunnita, promette aiuto all’Iraq, contro cui combatté una guerra costata milioni di morti.