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mercoledì 30 giugno 2010

Usa-Russia: una guerra di spie che non fa tremare il mondo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/06/2010

Vent’anni fa, o giù di lì, il mondo avrebbe tremato: “Retata di spie russe negli Stati Uniti. E, adesso, come reagirà l’Unione sovietica?”. Ora, invece, Mosca protesta e strepita: quelle non sono spie o, se lo sono, è brava gente, che non agiva contro gli interessi americani; e Washington difende l’operato della sua intelligence. Ma il sollievo degli uni e l’irritazione degli altri per gli arresti fatti si fondono nella comune volontà di evitare che l’incidente assuma dimensioni imbarazzanti. Al Dipartimento di Stato, si assicura che “i rapporti russo-americani continueranno a migliorare”.

Intendiamoci, gli ingredienti per una storia di spionaggio ci sono tutti, magari un po’ confusi: false (e improbabili) identità, con ‘Mike l’italiano’ e ‘Anna la rossa’, inchiostro simpatico, messaggi in codice e somme di denaro sotterrate e dissotterrate anni dopo. Le dieci persone arrestate rischiano fino a 25 anni di carcere per spionaggio e per riciclaggio. Alla conta degli inquirenti, mancherebbe un 11.o uomo. Una persona è stata fermata e rilasciata a Cipro. E l’inchiesta ha strascichi a Londra.

Gli arresti sono scattati domenica e sono divenuti di pubblico dominio lunedì, quando il ministero della giustizia statunitense ha annunciato l’operazione, compiuta pochi giorni dopo la visita fatta a Washington al presidente Usa Barack Obama dal presidente russo Dmitri Medvedev. Incontrandosi Obama e il suo ospite hanno sotterrato per l’ennesima volta l’ascia della guerra fredda fra i loro due Paesi; e, forse, mangiando l’hamburger dell’amicizia, hanno anche discusso come trattare la grana che stava per scoppiare.

Secondo l’accusa, gli arrestati, che Mosca dichiara russi, si facevano passare per americani, canadesi o peruviani e, in qualche caso, avevano assunto l’identità di persone realmente esistite, ma decedute. L’Fbi ha condotto l’inchiesta per dieci anni, seguendo i sospetti che si ‘dissimulavano’ fra la gente comune per “ottenere informazioni” e, soprattutto, “infiltrare i circoli politici”.

Addestrati dall’Svr, il servizio d’informazioni sovietico, erede del più celebre Kgb, gli agenti russi compivano una ‘full immersion’ nella società americana, facendosi pure passare per marito e moglie –una tattica comune: per un ex del Kgb, sono una quarantina le coppie di 007 in servizio- e spingendo la ‘finzione’ fino ad avere figli.

Prima di compiere gli arresti, gli uomini dell’Fbi s’erano clandestinamente introdotti negli alloggi delle spie, a New York, Boston e Seattle, le avevano seguite, sorvegliate e persino avvicinate, fingendosi a loro volta agenti russi. Non tutto è verosimile, o convincente, nelle ricostruzioni fornite: le comunicazioni sarebbero avvenute via internet o con radio a onde corte, con radiogrammi “in genere simili a segnali morse”.

La caccia è stata lunga e tenace. Ma il massimo dei contatti che gli arrestati hanno avuto sono stati “un alto responsabile finanziario di New York” o “un ex consigliere di un congressman”: nessuno sarebbe mai entrato davvero nelle segrete stanze del potere americano.

La diplomazia russa è la prima a rilevare “contraddizioni” nelle informazioni dell’Fbi: il ministro degli esteri Serguiei Lavrov chiede “spiegazioni” e il premier Vladimir Putin, uno che se ne intende avendo fatto scuola e carriera nel Kgb, spera che la vicenda non danneggi i rapporti russo-americani rimessisi sulla carreggiata giusta dopo essersi guastati negli ultimi tempi della presidenza Bush.

Mosca nega che i suoi presunti agenti abbiano leso gli interessi americani e giudica “infondate” e “malevole” le accuse loro mosse. Lo stesso dicono i vicini di casa dei sospetti: tutta gente tanto per bene, chi l’avrebbe mai detto? Del resto, regola prima: se fai la spia, evita di comportarti da spia.

SPIGOLI - L'Italia di Mr B dei conti che non tornano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/06/2010

A Mr B, lo sciopero dei lettori italiani contro i loro giornali non può bastare: deve promuovere un’astensione dalla lettura mondiale, perché la stampa internazionale racconta unanime guai e magagne della sua Italia. Les Echos, quotidiano economico francese, riferisce del “braccio di ferro tra governo e regioni sul piano d’austerità” e nota che “si moltiplicano gli scioperi per protestare contro il rigore”. El Mundo, giornale popolare spagnolo, narra un Paese “in sciopero contro i tagli”. Ed El Pais, quotidiano di qualità spagnolo, osserva che “in Italia esplodono spesa pubblica e pressione fiscale” -i dati di Eurostat mostrano che le tasse vanno su, contro tutti i proclami governativi-. Il settimanale Time, nell’edizione europea, si chiede se l'Italia possa “sventare
il collasso economico” e l’FT, lunedì, sosteneva che l’Italia è il Paese del G20 più a rischio di default, per i leader degli imprenditori dei Grandi. Senza trascurare il ‘caso Brancher’ e, adesso, la ‘condanna Dell’Utri’ che ha subito trovato collocazione sui siti di mezzo mondo. Tutte panzane?, o c’è del vero? Su El Pais, Alexander Stille, l’autore del Sacco di Roma, dà una lettura generosa per Mr B: in Italia, dice, "il carisma rimpiazza la competenza".

martedì 29 giugno 2010

G8/G20: formule sbagliate di governance mondiale, W Onu ed Fmi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/06/2010

Prima eravamo in pochi, a decidere i destini del Mondo. Adesso siamo forse in troppi. E né prima né dopo si riesce a combinare granchè: Vertici conclusi al minimo comune denominatore, con tutti a dire che “è stato un successo” solo perché nessuno ci ha perso qualcosa. La storia dei G8 e dei loro predecessori e succedanei, i G5, G7, G13 o G14, fino all’attuale G20, senza volere contare gli estemporanei G4 e G2, è densa di proclami declaratori senza grande sostanza.

La governance mondiale è inadeguata, nella forma e nella sostanza; e la crisi dell’economia globale non facilita la ricerca di schemi e di contenuti: acuisce l’urgenza e riduce le disponibilità a soluzioni di compromesso. Così, in Canada il G20 fallisce il test d’affidabilità più importante: Usa, Ue, Cina vi arrivano con accenti diversi e ne ripartono senza avere smussato le loro posizioni. Farla o meno, la riunione, era lo stesso.

A un certo punto, negli Anni Novanta, anche i leaders si accorsero che i loro incontri, nati per fare un po’ di “chiacchiere intorno al caminetto” e conoscersi meglio, per stabilire rapporti d’amicizia e un clima di reciproca fiducia, erano divenute un circo mediatico. Decisero di cambiare: basta ‘mega Vertici’ con i ministri degli esteri e delle finanze, ma riunioni separate (e i Summit riservati ai soli capi di Stato o di governo). Risultato, il circo mediatico s’è un po’ ridimensionato, ma, lato concretezza, poco è mutato.

Anzi, il G7 divenuto G8 con l’ingresso della Russia ha progressivamente perso quel ruolo (magari ingiusto e ingiustificato) di areopago del Mondo che aveva assunto al tramonto del bipolarismo, dopo essere stato per due giri di presidenze rotanti ‘camera di compensazione’ e anche ‘pensatoio’ delle strategie dell’Occidente. Organismo informale senza istituzioni e senza poteri decisionali veri e propri, vedeva anno dopo anno erodersi prestigio e autorità.

Tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, la crisi economica, violenta e globale, imprevista dal G8 e non governata dai suoi rituali, accelerò la riflessione sugli strumenti della governance mondiale: i Grandi erano troppo pochi per decidere i destini dell’umanità (rappresentano circa un quinto degli abitanti del Pianeta); il G20, invece, riunisce i tre quarti degli abitanti del Pianeta e mette insieme ricchi ed emergenti, tutti i continenti, quasi tutti i credo politici, economici, religiosi. Ma quel che s’è guadagnato in ampiezza e rappresentatività s’è perso in coesione e capacità di convergenza.

Risultato, Toronto e la sua modestia: peggio di Pittsburgh l’autunno scorso. C’è una spiegazione: se la crisi morde, se i leader avvertono l’urgenza di decisioni, allora il Vertice può produrre accordi (o rotture). Ma se la crisi è passata, se i leader annusano lo scampato pericolo, ecco scattare il riflesso dell’acquiescenza dell’uno alle ragioni dell’altro: non farsi male reciprocamente e tirare avanti ciascuno per la sua strada.

La stampa internazionale è unanime nei giudizi negativi, mettendo in risalto che le uniche priorità condivise sono stata la riduzione dei deficit e la ripresa (ParisMatch va oltre i leader con un titolo sessantottino: “Fate la crescita, non la guerra”). Le Monde s’interroga se il G20 può davvero essere una risposta alle carenze della governance mondiale, mentre FT segnala le “proteste contro G8”, che “ha perso il suo lustro”, non da parte dei black block –ci sono state anche quelle-, ma dei vip della politica e dell’economia. El Pais vede in Toronto “una conferma della crisi della leadership mondiale”. E Irwin Steltzer sul WSJ commenta “I laeder mostrano solo debolezza”. Il NYT osserva che a vincere sono state le banche “che evitano nuovi regolamenti globali”.

Rispetto al G20, il G8 che l’ha preceduto ha fatto migliore figura, almeno sui temi politici, nucleare, Iran, Corea del Nord. Contrariamente a quella italiana 2009, la presidenza 2010 canadese dei Grandi ha praticato una sorta di respirazione bocca a bocca alla formula agonizzante: rivitalizzare il G8 è nell’interesse non solo del Canada, ma pure dell’Italia e del Giappone, i Paesi che perdono di più, in termini di prestigio e visibilità, con l’annacquamento del Gruppo nel G20. I lavori in corso sui forum della governance mondiale, in quest’anno di transizione e di ridisegno, possono ancora lasciare ai Grandi un ruolo almeno politico, visto che hanno mentalità omogenee e sono attrezzati per l’azione internazionale? Il flop di Toronto spariglia i giochi. Ma per la governance mondiale, politica ed economica, le risposte ovvie sono Onu ed Fmi: ci sono, sono universali, hanno poteri; devono solo usarli.

G8/G20: le promesse mancate dei Grandi marinai (box)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/06/2010

Sono peggio dei marinai, i leader del Mondo, a giudicare dalla regolarità con cui (non) mantengono le loro promesse. La storia dei Vertici dei Grandi, quale ne sia la formula, è intrisa di documenti rimasti lettera morta. E parliamo di cose di sostanza, economia, commercio, energia, ambiente, non di quisquiglie come gli aiuti allo sviluppo o i fondi per l’Africa o contro l’Aids. Che lì è ancora peggio. E certo, da un anno all’altro, i leader non si rimproverano l’un l’altro le indempienze.

Per gli aiuti allo sviluppo, il G7/G8 per almeno due giri completi di presidenze rotanti, forse per due buoni decenni, ha fatto proprio e avallato l’invito agli Stati a spendere lo 0,7 del Pil per i Paesi più poveri. Poi, però, praticamente nessuno dei Grandi lo ha fatto –si sono comportati meglio alcuni ricchi e piccoli, come la Danimarca-. E lo stesso vale, almeno per quanto riguarda l’Italia e altri, per i fondi per l’Africa –un ritornello del XXI Secolo- e per il Fondo globale contro l’Aids: all’Aquila, un anno fa, l’Italia promise più del previsto (ma né a Ginevra né in Africa quei soldi li hanno mai visti).

Lo stesso può dirsi degli impegni economico-finanziari più universali. Prendiamo l’energia: quando c’è una crisi, e i prezzi del petrolio vanno su, tutti chiedono e assicurano risparmi e diversificazione; e qualcosa oggettivamente fanno, ma a passo ridotto, perché, magari, nel frattempo il barile è sceso e l’urgenza è diminuita. Oppure pensiamo agli stimoli a sbloccare e a concludere i negoziati per la liberalizzazione del commercio mondiale (quelli attuali sono fermi da così tanto tempo che quasi me ne scordo il nome, il Doha Round): i leader chiedono ai loro ministri di agire, ma, evidentemente, dopo averlo scritto per bene nel comunicato, si dimenticano di trasmettere l’invito, così le cose restano al punto di prima. Fin quando il contesto non cambia, il quadro non si modifica e allora le trattative ripartono, e vanno pure in porto, indipendentemente dagli appelli dei Grandi.

Passata l’emergenza, passa l’urgenza a intervenire. Uno potrebbe illudersi: “Vale per l’economia, non per la politica”. Falso, falsissimo: pensiamo solo gli appelli per la pace in Medio Oriente. La prima volta che ne scrissi, io, da un G7, ero a Bonn, nel 1985, e si era appena conclusa l’operazione Pace in Galilea. E ricordiamo quante altre ce ne sono state, e quanti anni d’Intifada si sono contati, sempre con le giaculatorie dei Grandi in sottofondo.

SPIGOLI: Vaticalia, dove il sacro delinque con il profano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/06/2010

Mentre la stampa internazionale s’interroga sullo scoppio, o meno, di una guerra diplomatica tra la Chiesa cattolica e il cattolicissimo Belgio, per un lercio intreccio di pedofilie e perquisizioni, El Pais, stimolato dalle cricche di Casa Nostra, attive di qua e di là dal Tevere, esplora ‘Vaticalia’, l’intreccio di santità e malaffare che vede “persone di fiducia del Papa implicate negli scandali di corruzione della Protezione civile e di Propaganda Fide”. Nel suo viaggio dentro “la nobiltà nera del Vaticano”, Miguel Mora constata “la nascita di un sistema di potere che mescola il laico e il religioso, la Chiesa e lo Stato, l’Italia e il Vaticano, la curia e la élite civile”. Il racconto di Mora parte dal pontificato Montini –Paolo VI nel 1968 abolì la Corte vaticana, creando i Gentiluomini del Papa- e arriva ai giorni nostri, quando, “nonostante gli appelli alla trasparenza di Ratzinger, le cose non paiono essere cambiate molto” rispetto al passato: la omertà vige ancora. Prendiamo l’esempio di Angelo Balducci, gentiluomo del Papa dal 1995: per 15 anni, nessuno vide né sospetto nulla. Adesso è finita? Mora, e non solo lui, non ci crede: “Presto, tutto tornerà a com’è sempre stato”. Ma il NYT ci mette un tocco d’ottimismo: “Gli abusi allentano la cultura del silenzio italiana”, scrive, riferendosi, però, ai casi di pedofilia, non a quelli di corruzione.

domenica 27 giugno 2010

SPIGOLI: strano ma vero, l'estate dei geni e dei capolavori

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/06/2010

Nelle serie da ombrellone ‘strano ma vero’ e ‘lo sapevate che’, la grande arte e i grandi artisti italiani sono protagonisti sulla stampa internazionali. Come letture estive, piacciono i misteri dietro un capolavoro o un genio. Questa settimana, la stampa americana – Cnn in testa e quotidiani al seguito da New York alla California - s’è appassionata alla notizia del ritrovamento, in catacombe romane, delle immagini più antiche di Pietro e Paolo e di altri apostoli. Invece, Times e NouvelObs battagliano sull’annunciato ritrovamento del ‘veri resti’ del pittore Caravaggio –i francesi ci credono, i britannici ci vanno cauti-. La stampa spagnola, con Abc, corre corre dietro un’interpretazione ‘trasgressiva’ di Venere e Marte del Botticelli, che avrebbe ritratto i ‘divini amanti’ sotto l’effetto di una pianta allucinogena. E ancora NouvelObs racconta le vicende misconosciute di Leonardo da Vinci a Romorantin: un’esposizione mostra i piani per farne la nuova capitale francese (un progetto poi abortito affidato al genio toscano da Francesco I). L’Independent rivela che il restauro di un’opera d’arte nel Dorset, in Inghilterra, ha fatto emergere un Tintoretto finora ignorato. A questa galleria di curiosità mistico-artistiche partecipa pure l’Ap, che s’interessa alle cause della morte di Santa Rosa, vittima –si assicura- di un attacco cardiaco. Con buona pace di Viterbo e dei viterbesi.

sabato 26 giugno 2010

MONDIALI: Italia fuori, la caduta degli dei piace al Mondo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/06/2010

Solo se avessero (ri)vinto il Mondiale, gli Azzurri di Lippi avrebbero riconquistato le prime pagine di mezzo mondo con tanto fragore come con il loro tonfo: dove nel 2006 Fabio Cannavaro campeggiava sollevando la Coppa, ora –icona ancora sexy, mi viene detto, di un calcio consunto- occupa la scena tutto solo (International Herald Tribune) o mentre consola compagni in lacrime, che siano Maggio o Quagliarella –gente del Napoli, fateci caso, lui napoletano ex capitano coraggioso-. La caduta degli dei piace –è innegabile-, specie a quelli che dei del pallone non lo sono mai stati, come gli americani: NYT, l’Italia era il vecchio d'Europa; WSJ, i campioni fuori; WP, l’Italia sotto le critiche; SFC, troppo tardi. I giornali europei sono più adusi agli alti e bassi del calcio e più cauti, pensando magari ai guai loro. I britannici ci mettono ironia: FT, dopo la sconfitta gli italiani s’interrogano sull’essere nazione; Bbc, Italiani in lutt; Daily Mail, ora sappiamo perché Capello scelse l'Inghilterra; Independent, Italia esce tra lacrime e recriminazioni; Times, il mondo dell'Italia cade a pezzi. Gli spagnoli fanno cronaca banale: El Pais, Lippi ha sbagliato; El Mundo, la fine dell’era Lippi. I francesi hanno solo lacrime da condividere, nella trita serie ‘mal comune mezzo gaudio’: bleus e azzurri finalisti quattro anni or sono, fuori adesso al primo turno da ultimi senza una vittoria, con gli allenatori di allora ma già sostituiti. E’ tutto un caso? “Ciao Italia!”, titola Le Figaro; e “Adieu la France”.

venerdì 25 giugno 2010

G8/G20, Obama pellicano inzaccherato da petrolio e McChrystal

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/06/2010

ROMA – Al doppio Vertice mondiale G8/G20, che segna l’apice della stagione degli appuntamenti diplomatici multilaterali, il presidente statunitense Barack Obama arriva come un’anitra zoppa, anzi come un pellicano con le ali inzaccherate di petrolio e di fango: il petrolio della marea nera, il fango delle battute volgari del generale McChrystal. Gli altri leader si sono preoccupati, in questi giorni, di mettersi al riparo delle critiche con mosse da mettere in vetrina; lui ha invece dovuto gestire fino all’ultimo le grane dell’Afghanistan e del Golfo del Messico.

La botta delle critiche del generale McChrystal e del suo avvicendamento con il generale Petraeus lascia il segno nell’Amministrazione: secondo fonti di stampa, il capo del Pentagono Robert Gates, che sarebbe stato contrario alla rimozione del comandante delle forze Usa e Nato in Afghanistan, rischierebbe il posto. Non subito, però: di qui a lunedì, il presidente deve essere grande fra i Grandi e affrontare una raffica di bilaterali, anche con i premier esordienti britannico e giapponese.

Il Vertice del G8 si svolge sotto la presidenza di turno del Canada, che dall’inizio dell’anno cerca di tenere in vita il formato con una sorta di respirazione bocca a bocca diplomatica, dopo che nel 2009 l’Italia aveva contribuito a decretarne la morte cerebrale a favore del 14 –nato a sua volta morto- e del G20, divenuto il foro anti-crisi mondiale. Il G8 è oggi e domani a Huntsville; il G20 domani e domenica a Toronto, a tre ore di distanza.

Obama guarda soprattutto al G20, ai cui leader ha detto: la priorità ora è rafforzare l’economia, consolidare la ripresa, darle sostanza anche sul piano occupazione. L’impegno a contenere il debito e la linea del rigore e dell’austerità, non devono frenare la crescita e la riforma della finanza deve andare avanti. E’ una linea che l’Unione europea può condividere: ha appena varato la sua strategia 2020, per la crescita negli Anni Dieci del XXI Secolo, e ha adottato controlli sulle banche severi.. Il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso parla di “rivoluzione silenziosa” Ue ed annuncia entro luglio i risultati degli ‘stress test’ su 25 istituti creditizi europei.

Ma sotto la cenere delle intese c’è la brace dei dissensi. I Venti sono divisi sulle tasse sulle banche; e Berlino vuole che l’export traini la crescita (e non la domanda interna, come chiede Washington). Per l’Italia, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi porta in dote al G20 la sua manovra –lato rigore- e il fermo no all’ipotesi di una tassa solo europea sulle transazioni finanziarie.

La mossa d’avvicinamento più forte è stata quella di Pechino: con l’ok a una maggiore flessibilità della sua moneta, lo yuan, la Cina dà il segnale di volere guidare la ripresa mondiale. Lo yuan era agganciato al dollaro con un cambio fisso dall’inizio della crisi. Fmi, Usa, Ue tutti plaudono alla decisione cinese, anche se tutti temono l’ ‘effetto placebo’ e la tattica ‘fumo negli occhi’.

Il G8 non sarebbe un G8 se non ci fossero le proteste ‘no global’, l’incubo terrorismo e l’emergenza Africa. Nonostante 5mila poliziotti mobilitati, il Dipartimento di Stato sconsiglia ai turisti d’andare a zonzo nel centro di Toronto fino a domenica.

E L’Africa? Per l’ennesima volta, i Grandi celebreranno la messa cantata della solidarietà: invitati Algeria, Egitto, Etiopia, Senegal, Nigeria, Malawi e Africa del Sud, oltre che Haiti, Giamaica e Colombia. Ricchi e poveri intrecceranno impegni e promesse: poi gli uni non manterranno gli impegni e gli altri non rispetteranno le promesse.

SPIGOLI: Pomigliano lo spartiacque ombelico del mondo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/06/2010

Chi ha vinto il referendum di Pomigliano?, e che cosa accadrà adesso alla fabbrica della Fiat? La stampa internazionale ha le idee confuse, un po’ come l’azienda e pure i sindacati… Ciascuno la scrive a modo suo: a leggere i giornali che fanno opinione in Europa e nel Mondo, è una cacofonia di pareri. Per l’FT, l’investimento da 700 milioni di euro è in forse dopo l’esito del voto, con oltre un terzo di no, mentre Le Monde titola che “per conservare il posto di lavoro i dipendenti della Fiat accettano maggiore flessibilità”. Les Echos afferma che la Fiat “reinventa il modello sociale”, ma “non ottiene il plebiscito sperato per trasferire il montaggio della Panda” dalla Polonia in Campania. Molto attenta la stampa Usa, per via del legame Fiat-Chrysler: il WSJ annuncia che “Fiat riprenderà i negoziati dopo il voto”, mentre il NYT è più negativo (“La Fiat potrebbe obiettare all’investimento nello stabilimento di Napoli”). Su Pomigliano, i riflettori della stampa internazionale sono puntati da giorni. Mercoledì, prima di conoscere il risultato, l’FT sottolineava, in un reportage ai cancelli dell’azienda, che la posta in palio “è molto più della sorte dello stabilimento campano”: “siamo a uno spartiacque nelle relazioni industriali”. Dopo la Fiat, Finmeccanica e Indesit avrebbero già pronti analoghi contratti.

giovedì 24 giugno 2010

Afghanistan: Obama caccia McChrystal, richiama Petraeus

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/06/2010

Si dice che sono sempre i migliori ad andarsene per primi. La sorte del generale Stanley McChrystal parrebbe, a prima vista, confermarlo: il presidente Barack Obama lo ha rimosso nel giro di 48 ore, dopo le critiche, volgari e rumorose, alla strategia dell’Amministrazione in Afghanistan. Ma, forse, il generale “puro e duro”, e pure “fuori controllo”, il che per un comandante è sempre brutto segno, non appartiene, in fin dei conti, alla categoria dei migliori: con quel carattere, e quel curriculum, c’è da porsi la domanda. E c’è da chiedersi anche se sia davvero casuale che si sia messo nei guai proprio ora per un articolo su Rolling Stone che il più sprovveduto tenentino avrebbe capito essere esplosivo: con un linguaggio da caserma, lui e i suoi collaboratori contestavano il presidente e davano del "rammollito" a molti membri del suo staff.

E così, mentre nella sala stampa della Casa Bianca saliva il coro “U-S-A, U-S-A”, ‘iuesei, iuesei’, al gol di Donovan che porta avanti gli americani al Mondiale in SudAfrica, il consiglio di guerra cominciava senza il generale: una pietra tombale sulla sua sorte. Poco dopo arrivava l’annuncio: fuori McChrystal, dentro di nuovo David Petraeus, attualmente comandante del CentCom di Tampa in Florida, responsabile per Iraq e Afghanistan, e l’ideatore della strategia del ‘surge’ che ebbe successo in Iraq e che viene ora riproposta, con esito per il momento meno positivo, in Afghanistan.

A suggellare la sorte di McChrystal è stato un incontro di 20’ col presidente Obama, ieri mattina. McChrystal, arrivato precipitosamente da Kabul, era stato di buon’ora al Pentagono: vi aveva visto il segretario alla difesa Robert Gates e il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Michael Mullen, che avevano già stilato una lista di possibili successori. Dopo le 09.30, era alla Casa Bianca. Alle 09.51, era a colloquio con il presidente. Poco dopo le 10.20, lasciava la scena, ormai da ex. Obama parla alle 13.30: “Cambio uomo, non strategia”, spiega, senza calcare la mano contro McChrystal, che non pagherebbe per gli insulti, ma per non essere stato all’altezza degli standard.
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Martedì, un Obama molto contrariato per le dichiarazioni del generale, aveva avuto una ‘conference call’ con il presidente afgano Hamid Karzai, rivelatosi il più strenuo sostenitore del comandante, sboccato e chiacchierone, delle forze Usa e Nato nel suo Paese: “Il presidente Karzai ritiene che siano in una situazione delicata nella guerra contro il terrorismo e che un vuoto di potere non ci aiuterebbe” a vincere il conflitto, aveva detto un portavoce della Casa Bianca. Lo stesso Obama aveva indicato che la sua decisione sarebbe stata “interamente determinata dalla volontà di garantire una linea che avalli il coraggio e l’enorme sacrificio” dei soldati americani in Afghanistan. Intanto, McChrystal, che, secondo Time aveva già offerto le dimissioni, ammetteva pubblicamente di avere “compromesso” la propria missione.

La vicenda andava chiusa in fretta. Le forze internazionali preparano un’offensiva cruciale contro i talebani nel Sud dell’Afghanistan e continuano a subire gravi perdite: con i cinque morti di ieri – in un incidente, ha anche perso la vita un geniere italiano-, i caduti a giugno sono oltre 70 e quelli dall’inizio dell’anno si avvicinano a 300. Questp mese è già uno dei cinque più cruenti nella storia del conflitto. L’obiettivo di avviare il ritiro dei rinforzi –30 mila uomini, voluti da McChrystal- entro fine estate 2011 appare oggi difficile da realizzare, mentre alleati come l’Olanda e la Polonia si defilano o annunciano l’intenzione di farlo. A cose fatte, Karzai dice di rispettare la decisione d’Obama, la Nato assicura che la strategia va avanti.

La rimozione di McChrystal è uno smacco per l’Amministrazione, che l’aveva finora sostenuto, nonostante avesse già manifestato dissensi con il presidente. Di lui, i giornalisti raccontano che mangia una volta al giorno, dorme quattro ore per notte, corre ogni mattina 12 chilometri ascoltando audio-libri. All’arrivo a Kabul, ha messo al bando dal suo quartier generale l’alcol, il gelato e i cibi fast food: 55 anni, figlio e fratello di militari, diplomato a West Point nel 1976, comandante in Afghanistan da poco più di un anno, è un guerriero zen ossessionato dal terrorismo e dai terroristi, efficiente, amato dai suoi soldati. Ma l’agiografia del capo ha dei limiti: dal 2003 al 2008, comandò le segretissime Joint Special Operations, unità così clandestine che neppure il Pentagono per anni ne ammetteva l’esistenza: gente che, con la benedizione dell’Amministrazione Bush, usava la tortura per ottenere informazioni.

Il momento di gloria massimo fu in Iraq, con la cattura di Saddam Hussein e il blitz in cui fu ucciso il capo di al Qaida Abu Musab al Zarkawi. L’Afghanistan, invece, è segnato da macchie: mentì, si dice, sulle circostanze della morte, per fuoco amico, della star del football Pat Tillman nel 2004; e cercò, con fughe di notizie sul Washington Post di Bob Woodward, uno dei due del Watergate, di fare passare la sua linea di una vasta escalation per non perdere la guerra "entro 12 mesi".

McChrystal parla senza peli sulla lingua: troppo. Gli era già successo, gli è capitato di nuovo. Errori? Il generale sa usare la stampa –vedi i rapporti don Woodward- e potrebbe essersi smarcato apposta dall’Amministrazione Obama, di cui non condivide la strategia "Hit and run", colpisci e vattene - l'estate prossima -. L’articolo di Rolling Stone costatogli il posto comincia con un botta e risposta in stile (e linguaggio) da caserma, in una suite a quattro stelle di un hotel parigino: il capo e i suoi ufficiali più fidati sono, per il giornalista freelance Michael Hastings, "una banda di assassini, spie, geni, patrioti, operatori politici e pazzi scatenati", auto-proclamatisi Team America, da un film ispirato al cartone animato South Park.

Il pezzo (rivisto e autorizzato) ha commenti al vetriolo a tutto raggio: McChrystal va a cena con un ministro francese "Un fottuto gay", per un suo collaboratore; e per Team America l’Isaf, le forze della Nato, sono "un acronimo per 'In sandali e infradito’”. Nell’Amministrazione Obama, i nemici sono il vice-presidente Joe Biden, il consigliere per la sicurezza nazionale James Jones ("un clown") e l’inviato in Afghanistan e Pakistan Richard Holbrooke. Si salva solo Hillary Clinton, il segretario di Stato. Morire per Kabul? Forse. Per McChrystal, un po’ Marlon Brando di Apocalypses Now e un po’ Jack Nicholson di ‘A Few Good Man’, proprio no.

SPIGOLI: Italia-Spagna, testa a testa su corsia sorpasso

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/06/2010

In attesa di vederlo, forse, chi lo sa, speriamo, ai Mondiali in SudAfrica, il match Italia-Spagna continua a combattersi sui dati dell’economia, arbitri gli uffici statistici dell’Ue (e non solo). Pareva che il governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero fosse rassegnato a subire il controsorpasso del centro-destra di Silvio Berlusconi; e, invece, ecco un colpo di coda annunciato da El Pais. Il Pil per abitante spagnolo supera di tre punti la media europea: per questo indicatore, che, con il potere d’acquisto, è forse il più significativo del livello di vita dei cittadini di un Paese, la Spagna resta in vantaggio sull'Italia e si avvicina un po' alla Francia.. Possibile?, e come la mettiamo con la storia che noi siamo ‘er mejo’ e che non abbiamo tutti i guai della Spagna anti-clericale e quasi comunista del rosso Zapatero? Le statistiche, si sa, non raccontano mai tutta la verità: un giorno danno ragione a me, un giorno a te. Ma El Economista tira fuori un altro confronto sull’asse Roma – Madrid che a Mr B deve dispiacere ancora di più: “Berlusconi suscita sentimenti negativi nel 66,1% degli adolescenti, mentre Zapatero nel 56,2%”. Alla faccia dei primati di popolarità cui il premier tiene un sacco. Vabbè, Papi, tanto gli adolescenti mica votano…

mercoledì 23 giugno 2010

Afghanistan: McChrystal generale ribelle contro Obama e 'rammolliti'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/06/2010

Roma – Il primo a pagare, con dimissioni “sollecitate”, è stato uno sconosciuto collaboratore civile del generale Stanley McChrystal, comandante delle forze Usa e Nato in Afghanistan: Dan Boothby, del team delle relazioni esterne, è stato liquidato per avere gestito l’intervista galeotta a Rolling Stones. Ma è difficile che McChrystal stesso resti al suo posto, dopo la manciata di critiche al presidente Barack Obama, al suo vice Joe Biden, all’inviato in Afghanistan Richard Holbrooke, al consigliere per la sicurezza nazionale James Jones e a tutto lo staff della Casa Bianca.

Il generale ciarliero è stato convocato a Washington all’istante: tra lui e Obama, sarà faccia a faccia. Uscito l’articolo, McChrystal ha chiamato il segretario alla difesa Robert Gates per scusarsi, senza convincerlo. Il capo di Stato Maggiore Usa Mike Mullen gli ha parlato dieci minuti, esprimendogli “profondo disappunto”.Il generale ha pubblicato un comunicato contrito: ”E’ stato un errore che riflette scarsa capacità di giudizio da parte mia, un episodio che non avrebbe mai dovuto accadere”.

Ma Obama non s’è accontentato: oggi, il generale parteciperà di persona, e non in teleconferenza come al solito, a una riunione sull’Afghanistan nella Situation Room della Casa Bianca. E dovrà spiegarsi con i suoi superiori e con il comandante in capo.

Che cosa ha detto di così grave, McChrystal? Ha detto di avere trovato il presidente “impreparato” nel loro primo colloquio sull’Afghanistan e s’è detto “tradito” dall’ambasciatore degli Usa a Kabul, Karl Eikenberry, autore di un memorandum molto critico con il presidente afgano Hamid Karzai. Del generale, il giornalista freelance Michael Hastings scrive che conduce la guerra in Afghanistan senza mai perdere di vista il vero nemico, “i pusillanimi alla Casa Bianca”; e, citando suoi collaboratori, definisce Jones “un clown”.

Non è stata un’imboscata mediatica: McChrystal –dice il direttore del mensile, Eric Bates- rivide il testo e non sollevò obiezioni: il titolo, del resto, è inequivocabile, “Il generale fuori controllo”. Per McChrystal, non è il primo incidente del genere: a ottobre, dopo essere stata consultato sul ridimensionamento degli obiettivi dell’Amministrazione in Afghanistan, aveva criticato le novità. Obama lo aveva convocato sull’AirForcOne che da Washington lo portava a Copenaghen e gli aveva parlato a quattr’occhi 25 minuti. Allora come oggi, il capo del Pentagono, Gates, lo aveva pubblicamente ‘bacchettato’: il dibattito sull’Afghanistan deve svolgersi “in totale franchezza, ma anche in totale riservatezza”.

Ora, il generale è di nuovo nella tempesta. A non dargli addosso, c’è, negli Usa, solo John Kerry, presidente della Commissione Esteri al Senato, che invita “a mantenere calma e sangue freddo”, mentre lo difende –e forse è peggio- il presidente Karzai, “è il miglior comandante che gli Usa hanno avuto” dall’invasione dell’Afghanistan. Il segretario generale Nato Anders Fogh Rasmussen giudica la sortita “inopportuna”, ma aggiunge “sono solo parole” e rinnova la fiducia alla strategia di McChrystal. I diplomatici a Kabul gettano acqua sul fuoco: l’ambasciatore e il generale –dicono- “lavorano insieme per centrare gli obiettivi del presidente Obama”.

La crisi arriva in un momento difficile. A fare confusione, ci si mette pure Gates, che chiede più fondi per la guerra. Il Pentagono e i militari sono scettici sulla volontà dei politici di aviare il ritiro alla fine dell’estate del 2011, quando, cioè, inizierà la campagna per le presidenziali 2012. E le notizia dal terreno accrescono i dubbi: lunedì, Holbrooke, a Kandahar, è sfuggito ad almeno due attacchi talebani –le cronache in merito sono confuse- e la giornata ha visto la morte di dieci soldati Usa e Nato –285 i caduti dall’inizio dell’anno, 65 solo a giugno, il mese più cruento-, senza contare le uccisioni di talebani, civili, soldati afghani. L’offensiva Hamkari, cooperazione, nella zona di Kandahar, s’avvicina, ma intanto i talebani colpiscono ovunque; e un diplomatico britannico lascia perché convinto che l’operazione fallirà.

L’ ‘affare McChrystal’ è un segnale delle tensioni e delle incertezze nell’Amministrazione Obama, che non trova la parata alla marea nera e ‘perde i pezzi’. Rahm Emanuel, controverso capo gabinetto, se ne andrebbe dopo le politiche di midterm del 2 novembre: per ora, è un’indiscrezione giornalistica smentita (“fantapolitica”). Ma il posto logora, specie quando si ha un carattere ruvido.

SPIGOLI - Con cricca in Vaticano, attenzione sale al cielo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/06/2010

Quando la cricca s’allarga al Vaticano, l’attenzione della stampa internazionale, già alta di per sè per le imprese dei vari Scajola, Verdini, Lunardi, Bertolaso e compagnia bella, “sale subito al cielo”, tanto per restare in tema. Così, il coinvolgimento nelle indagini del cardinale Crescenzio Sepe e soprattutto le sue dichiarazioni, che suonano più chiamata di correo della Santa Sede che auto-assoluzione, conquistano molto spazio, in particolare sulla stampa anglosassone. La Bbc ricorda che Sepe, “accusato di corruzione”, è “uno dei più importanti cardinali” italiani, mentre l’Independent sottolinea un’affermazione del prelato (“Ho il sostegno del Vaticano”) e il Telegraph ne mette in risalto “gli stretti legami” con la Curia.. Nouvel Obs, Guardian e vari siti Usa, citando un dispaccio dell’Ap, pongono, invece, l’accento in modo più neutro sulla linea di difesa del cardinale, “non ho commesso nessuna illegalità”. Fronte Vaticano, la stampa spagnola preferisce, invece, continuare a seguire da vicino la vicenda dei Legionari di Cristo. Abc annuncia che il capo delle finanze della Chiesa, l’arcivescovo Velasio De Paolis, controllerà, d’ora in poi, l’organizzazione, ‘decapitata’ di recente da Benedetto XVI: esperto di finanza e di diritto, De Paolis è uno “che ha senso della disciplina e non tollera gli imbrogli”. Magari, se c’era lui al posto di Sepe, era un’altra storia…

martedì 22 giugno 2010

SPIGOLI - Quando il calcio italiano fa (sor)ridere

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/06/2010

Mentre l’Italia ai Mondiali in SudAfrica delude i suoi fans almeno quanto l’Inghilterra di Capello, il calcio italiano fa ridere a crepapelle a teatro a Londra: al King’s Head, va in scena ‘Beating Berlusconi!’, storia (un po’) vera di un Signor Nessuno e di Mr B. Attenzione!, però: la politica non c’entra nulla: il protagonista della vicenda è Kenny, un tifoso del Liverpool che il 25 maggio 2005 va a Istanbul, con due suoi amici, per vedere la finale di Champions tra la sua squadra e il Milan. Il primo tempo è un’agonia: 3 a 0 per i rossoneri. Il nostro eroe, è così disgustato che lascia il suo posto, si perde nei corridoio dello stadio e si ritrova seduto a fianco di Berlusconi, che, nelle vesti di presidente del Milan, già stappa lo champagne della vittoria. Partendo da un aneddoto con elementi di cronaca, John Graham Davies, l’autore, e Paul Duckworth, l’attore, tirano fuori 90’ di divertimento non solo sportivo, assicura Lyn Gardner sul Guardian, ripercorrendo la storia di un Paese, d’una città e d’una squadra che più volte interseca l’Italia –dalla finale di Coppa a Roma vinta contro la Roma a quella tragica dell’Heysel a Bruxelles persa contro la Juventus-. Commedia musicale con venature gay, ‘Beating Berlusconi!’ ha un solo neo: tutti sanno già come va a finire, il Liverpool vince 4 a 3 e lo champagne lo beve solo Kenny.

domenica 20 giugno 2010

Ue da Vertice verso G8/G20 compatta su piano finanza e banche

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/06/2010

ROMA – Pareva un’armata Brancaleone sbandatasi alla prova della crisi greca e dell’euro debole. E, invece, l’Ue ritrova l’ordine e la coesione delle legioni di Cesare, ‘compattandosi’ in vista dei Vertici del G8 e del G20 in Canada la prossima settimana: la trincea dei 27 è fatta di una tassa sulle transazioni finanziarie e di maggiori controlli sulle banche, con le quali è l’ora dei conti dopo la fase dei salvataggi. Se i Grandi del Mondo ci stanno, bene; se no, “andiamo avanti da soli”, dicono, quasi all’unisono, il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, riconciliati dopo gli screzi sulla manovra tedesca, e persino l’esordiente premier britannico ed euro-tiepidissimo David Cameron, che fa bella figura ribadendo “l’impegno europeo” del Regno Unito, senza rinunciare alla difesa “dei propri interessi nazionali e delle proprie linee rosse”.

Dopo una raffica di vertici di crisi, convocati d’urgenza per salvare la Grecia e l’euro, quello di giovedì è stato un vertice “normale”, come dice il suo presidente, il belga Herman Van Rompuy. A Bruxelles, i leader dei 27 si presentano come a una sorta di concorso di virtuosità, vantando ciascuno il rigore delle misure prese per battere la crisi e contenere i deficit.. “La mia manovra è più austera della tua” è lo slogan del ‘carosello’ dell’Unione che tira la cinghia, per convincere i mercati della capacità di contenere il debito e di consolidare l’euro.

Pure l’Italia sostiene di avere motivi di soddisfazione: la sorveglianza sui bilanci nazionali terrà, d’ora in poi, qualche conto della "sostenibilità complessiva" del debito pubblico; il che può essere un vantaggio, visto il basso livello del debito privato italiano. Il ministro dell’economia Tremonti definisce “straordinario” il successo del presidente del Consiglio Berlusconi, che, in realtà, è suo. Ma in conferenza stampa, Van Rompuy deve andarsi a rileggere le conclusioni, per ritrovare e ricordarsi il passaggio ‘italiano’.

Le conclusioni del Consiglio aprono spiragli all’approfondimento dell’integrazione: “Rafforzare il coordinamento delle politiche economiche costituisce una priorità fondamentale e urgente”, dopo che “la crisi ha fatto emergere chiare lacune nella nostra governance economica, specie per la sorveglianza di bilancio e macroeconomica”. Il traguardo d’un governo economico della zona euro, cioè il completamento con l’Unione monetaria all’Unione economica, voluto soprattutto da Parigi, resta, per il momento, ‘incapsulato’ in quel generico “rafforzare il coordinamento”.

Il Vertice segna, di fatto, la fine del semestre di presidenza di turno spagnola del Consiglio dell’Ue, con un bilancio inferiore alle attese e alle ambizioni. Madrid ha sperimentato la ‘coabitazione’ della presidenza ‘rotante’ con le nuove figure istituzionali introdotte dal Trattato di Lisbona: il presidente ‘stabile’, l’efficace Van Rompuy, e il ‘ministro degli esteri’ europeo, l’impalpabile britannica lady Ashton, tutta presa dalla nascita del suo Servizio di azione esterna (rinviata all’autunno: potrebbe coincidere, il 1.o dicembre, l’anniversario dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona).

Dl 1.o luglio, la presidenza di turno toccherà al Belgio. Difficile immaginarsi che, nonostante l’indubbia vocazione europeista, un Paese che cammina lungo il crinale della separazione fra valloni e fiamminghi possa farsi tedoforo dell’approfondimento dell’integrazione. Ma due decisioni sono già acquisite: il via ai negoziati di adesione all’Ue dell’Islanda, in corsia di sorpasso rispetto agli altri candidati –potremmo fare 28 nel 2012-, e l’ingresso dell’Estonia all’euro –faremo 17 il 1.o gennaio 2011-.

sabato 19 giugno 2010

SPIGOLI - La voce sensuale di Mr B e le magagne d'Italia

pisa Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/06/2010

Arriva l’estate, arrivano i turisti. E l’Italia dà il meglio di se stessa sulla stampa internazionale. Oddio, dà o dovrebbe dare. Perché il Bel Paese non riesce a mascherare le sue magagne, nonostante ricorra –nota l’Independent- “alla voce sensuale” di Silvio Berlusconi per i suoi spot. Il Time mette la Torre di Pisa in testa alla classifica dei 10 edifici più precari di tutto il Mondo –e fin qui poco male: la gente va a vederla apposta-, mentre Le Monde definisce il Colosseo “grande corpo malato” (e, anche qui, senza tutti quei buchi e quelle pietre sottosopra mica sarebbe fra le Sette Meraviglie). I giornalisti americani ce l’hanno soprattutto con Roma, dove –avverte il San Francisco Chronicle- ci sarà una sovrattassa sulle notti in hotel e dove –scrive il NYT- “il ciclismo è uno sport estremo”, perché attraversare la Città Eterna su due ruote è una sfida, tra traffico, sampietrini e rotaie del tram (ma il Comune promette di trasformarla nell’utopia dei ciclisti entro il 2020). Poi ci sono le critiche gratuite e pretestuose: la stampa britannica lamenta che le palme dei litorali al Sud non sono più quelle di una volta, attaccate dagli insetti, e deplora le multe ai turisti anti-contraffazioni (voglio vedere che mi succede se compro una patacca a Piccadilly Square: il fatto è magari che nessuno me la vende). Però, on c’è solo ‘peste e corna’ della nostra Bella Italia sulla stampa internazionale: uno dopo l’altro, i grandi media scoprono a Roma Maxii e Macro, mentre il Chicago Tribune garantisce sull’autenticità del romanticismo a Verona –Giulietta abita ancora lì- e un sacco di siti e media (ma dimmi te!) vanno macabramente pazzi per la mostra a Firenze con due dita e un dente di Galileo.

venerdì 18 giugno 2010

SPIGOLI: Chavez mette su Twitter le rivoluzioni latine

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/06/2010

Le rivoluzioni sudamericane del XXI Secolo corrono su Twitter, dove Hugo Chavez (Venezuela) incontra Fidel e Raul Castro (Cuba) ed Evo Morales (Bolivia). Continua a fare rumore sulla stampa latina la conversione di Chavez, che, fino a qualche tempo fa, bollava Twitter come il male assoluto. Ora, dopo essersi iscritto ed essersi creato il proprio profilo, il leader venezuelano fa proselitismo e invita i 'compagni presidenti' a usare la rete sociale per portare avanti "la battaglia ideologica contro i nemici comuni". Lo 'sbarco' su Twitter di Chavez risale al 27 aprile: in poco più di tre giorni, aveva raggiunto e superato i 120 mila followers. “Mi scrivono da tutto il mondo, anche dalla Russia”, aveva raccontato con orgoglio ai Castro ed a Morales, sollecitandoli a condurre insieme la battaglia ideologica sul sito di microblogging, sotto il motto “rivoluzione in tutti gli spazi”. Nato come strumento di gossip fra adolescenti, affermatosi come balsamo all'egocentrismo di molti pseudo 'digital native' - in realta', 'matusa' mascherati -, Twitter s'e' conquistato fama politica e rivoluzionaria con l' 'onda verde' iraniana: i suoi messaggi brevi e concisi hanno messo in scacco, un anno fa, l'informazione ufficiale del regime degli ayatollah. Agile, rapido, twitter arriva subito e, di utente in utente, rimbalza dovunque. Certo, la verifica delle notizie e' spesso problematica e le panzane vi hanno pari dignita' delle storie vere. Ma non e' certo un dettaglio del genere a spaventare Chavez: dopo tutto, le rivoluzioni latine (e non solo quelle) si sono sempre nutrite di qualche esagerazione.

giovedì 17 giugno 2010

Legge Bavaglio: Mijatovic (Osce), l'allarme da un anno

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/06/2010

La Legge Bavaglio “può potenzialmente criminalizzare il lavoro dei giornalisti” in Italia. Le certezze e la fermezza di Dunja Mijatovic, la responsabile dell’Osce per la libertà dei media, non sono minimamente scalfite dalle reazioni intimidatorie della presidenza del Consiglio e della Farnesina alla sua richiesta all’Italia di rinunciare al disegno di legge sulle intercettazioni o di modificarlo in sintonia con gli standard internazionali sulla libertà di espressione. Silvio Berlusconi ha reagito chiedendo all’Osce, l’organizzazione internazionale che riunisce tutti e 56 i Paesi europei, di “non interferire”, mentre il Ministero degli Esteri ha giudicato “inopportuna” l’iniziativa della Mijatovic, che, però, non fa marcia indietro e ricorda “l’avevo già detto un anno fa alle autorità italiane”.
E le polemiche non s’arrestano.

Le richieste della Mijatovic sono state ieri rinviate al mittente dal ministro della Giustizia Angelino Alfano. "E' una dichiarazione che non condividiamo - ha detto il guardasigilli ai microfoni del Tg2 -: la rappresentante dell'Osce deve essere mal informata o non ha studiato bene il testo. Noi preserviamo la privacy dei cittadini, che è un grande valore tutelato dall'art.15 della Costituzione". Il provvedimento –ha ricordato il ministro-"è in Parlamento da due anni" e "attua un punto del programma voluto dai nostri elettori concordi per fermare l'abuso delle intercettazioni senza però impedirne l'uso".

Bosniaca, in carica dal marzo scorso, un’esperienza nazionale, europea e internazionale in questo campo più che decennale, la Mijatovic chiarisce, rispondendo alle domande de Il Fatto, perchè pensa che la Legge Bavaglio possa limitare la libertà di stampa: “Nella mia dichiarazione, diffusa martedì, esprimo tre preoccupazioni: primo, le rigide restrizioni alla pubblicazione di documenti relativi a procedimenti giudiziari o ad indagini di polizia prima dell’inizio di un processo; secondo, l’introduzione di una sanzione pecuniaria fino a 450 mila euro per gli editori e di una pena fino a 30 giorni di prigione e di una sanzione pecuniaria fino a 10 mila euro per i giornalisti che pubblicano fughe di notizie sulle intercettazioni prima dell’inizio di un processo; terzo, la possibilità di una pena detentiva per chiunque non sia un giornalista professionista e riprenda o registri una persona senza la sua approvazione preventiva”.

Com’è venuta a conoscenza dell’iniziativa legislativa italiana?, aveva già esposto i suoi timori alle autorità italiane? “Abbiamo seguito da vicino il processo legislativo per un anno e avevamo già sollevato le nostre preoccupazioni sul disegno di legge un anno fa con il presidente del Senato Schifani. Gran parte delle nostre informazioni vengono dalla comunità mediatica e da organizzazioni non governative per la libertà della stampa”.

Si aspettava le reazioni che ci sono state in Italia?, e come reagisce a sua volta ad esse? “L’intervento dell’Osce si fonda sul mandato dell’Osce, in particolare di segnalare agli Stati dell’Organizzazione quando essi non sono allineati, non rispettano, gli obbligi imposti loro dall’appartenenza all’istituzione internazionale. Questo è quello che abbiamo fatto e mi rallegro del fatto che il governo italiano ne abbia preso nota”.

L’Osce è l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, nata, dopo il crollo del Muro e dei regimi comunisti e la frammentazione dell’Unione sovietica, dalla Csce, la Conferenze per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che produsse, nel 1975, l’Atto di Helsinki, dove già si parlava di libertà di stampa e di espressione. L’Osce è la meno nota delle Istituzioni internazionali europee ed è attiva soprattutto sui fronti di conflitto nell’ex Urss e nell’ex Jugoslavia.
In queste ore, la Mijatovic è in missione: martedì era a Mosca, a un convegno di giornalisti russi, e ha commentato con favore una risoluzione della Corte Suprema russa sulla libertà di stampa. Da Vienna, dove c’è il quartier generale, i portavoce gestiscono con grande efficienza le richieste di chiarimenti dei giornalisti italiani.

L’Osce si riconosce nelle dichiarazioni della Mijatovic?: “La signora Mijatovic è la rappresentante dell’Osce per la libertà di stampa e ha il mandato da tutti i 56 Stati dell’Organizzazione di seguire gli sviluppi che interessino i media nella nostra area, cercando, con particolare attenzione, di fornire sollecite segnalazioni sulle violazioni della libertà di espressione”. L’Osce avalla i suoi commenti sulla Legge Bavaglio? “Le sue dichiarazioni possono essere considerate dichiarazioni dell’Osce quando c’è di mezzo la libertà dei media”.

SPIGOLI - Mr B sul cruciverba (da ridere) della storia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/06/2010

“Ex cantante da crociera, sposato due volte, che nonostante l’età avanzata si atteggia a uomo che piace alle donne”: 10 lettere, verticali e orizzontali. L’avete trovato? E’ ‘Berlusconi’, sì, proprio lui, Mr B, secondo una raccolta di definizioni da cruciverba (di cose o di persone) di The Guardian, quotidiano con ‘sense of humour’ britannico. La lista si vuole tutta buffa, ma, per restare all’Italia, la formuletta del presidente del Consiglio sarà pure spiritosa, ma è francamente tristanzuola, mentre quest’altra che vi proponiamo è decisamente banale: “Il grande genio toscano”, otto lettere -Fanfani ne ha sette, Bartali pure, può essere solo Leonardo (da Vinci)-. L’antologia del Guardian è ripresa , sul New York Times, dalla rubrica di Ben Schott, che esplora ogni giorno siti vecchi e nuovi e ne trae il suo Vocabulinks, un blog linguistico: un deposito di ricchezze e sorprese ‘lessicografiche’, serie o frivole. Schott cerca parole o frasi che incapsulino il presente: se il linguaggio è l’archivio della storia, ‘Schott’s Vocab’ vuole esserne l’indice. Alla voce ‘leader dell’Italia del XXI Secolo’, cerca sotto “cantante confidenziale attempato, dongiovanni da strapazzo”.

mercoledì 16 giugno 2010

Obama, Bush, la marea nera, l'11 Settembre, Katrina

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/06/2010

La marea nera e' l'11 Settembre, o la Katrina, della presidenza Obama? La ricerca di paralleli tra le date più sventurate della presidenza Bush e il disastro ambientale che si sta consumando nel Golfo del Messico e lungo l'arco delle coste statunitensi che lo circondano, dalla Florida al Texas, e' suggestivo, ma fuorviante. La marea nera non e' ne' l'11 Settembre, ne' Katrina, ma e' un'altra testimonianza della fragilita' e dell'incompetenza della nostra civilta'.

Adesso, la Casa Bianca spera che il discorso fatto ieri alla nazione dal presidente Obama rappresenti un "punto di svolta" nella crisi, anche perche' "coincide -una speranza, più che una certezza- con un punto di svolta nella perdita di greggio". Obama delinea "in quattro punti -dicono le fonti- i piani per andare avanti": 1) che cosa fare del petrolio fuoriuscito dal pozzo sottomarino e come disinquinare le regioni colpite; 2) quali passi intraprendere per i risarcimenti; 3) quali siano i cambiamenti da attuare per essere sicuri che il disastro non si ripeta mai più; 4) come procedere per ridurre la dipendenza dal petrolio e dai combustibili fossili.

Se "il presidente capisce bene le sfide e ha un piano per affrontarle'', le difficolta' da superare restano estreme. Ma l'11 Settembre non c'entra nulla e Katrina c'entra poco, anche se almeno un elemento in comune c'e': l'impreparazione dell'America.

Gli attacchi terroristici di al Qaida contro New York e Washington colsero gli Stati Uniti con la guardia abbassata: una catena di errori, disattenzioni e sottovalutazioni che risaliva all'Amministrazione Clinton. Gli Usa di Bush, presidente da nove mesi, ne uscirono feriti e sotto choc, ma reagirono unendosi intorno alle parole d'ordine di rivalsa del 'presidente di guerra': la popolarita' di Bush supero' il 90 per cento dopo l'attacco all'Afghanistan e rimase altissima dopo l'invasione dell'Iraq.

L'uragano Katrina, nell'estate 2005, colse l'Amministrazione Bush distratta e lontana dal dramma e dalle ansie di una citta' simbolo degli Unione, New Orleans, e di Stati come la Louisiana, il Mississippi, l'Alabama, fra i più esposti alle catastrofi naturali e fra i più poveri. Nonostante gli allarmi dei meteorologi e la mobilitazioni delle tv "all news", più pronte a reagire della protezione civile, il presidente e il suoi collaboratori tardarono giorni a rendersi conto del dramma: l'inazione peggioro' il disagio e lascio' crescere il numero delle vittime. Per gli americani, fu il segnale che avevano mandato per la seconda volta alla Casa Bianca un presidente superficiale e incompetente: l'intensita' dell'uragano fu spaventosa, ma gli Usa avevano gli strumenti per prevederla e la possibilita' di prevenirne, almeno in larga parte, le perdite umane. La popolarita' di Bush crollo' e non si riprese più fino al termine del suo mandato.

L'incidente nel Golfo del Messico e', invece, un segnale che forse l'uomo ha portato la sfida alla natura oltre alle sue capacita' attuali di intervento e di rimedio. Il presidente Obama, che contrariamente a Bush, si e' reso conto presto della gravita' della situazione e ha mostrato sollecitudine e sensibilita', non sa cosa fare e, probabilmente, non ha strumenti per fare: i suoi ripetuti viaggi lungo le coste inquinate, i "gridi di dolore" per la profondita' e la durata nel tempo dei danni provocati e i continui appelli alla Bp perche' ripari il guasto e ne paghi le conseguenze cono tutte testimonianze di una impotenza reale: Obama non sa che cosa fare e spera che la Bp lo sappia.

La popolarita' del presidente ne soffre, e' ovvio: gli americani si aspettano sempre che l'inquilino della Casa Bianca risolva tutti i problemi del loro condominio. Ma le leggerezze e le superficialita' che sono all'origine della marea nera non nascono con l'Amministrazione Obama: Bush aveva moltiplicato le licenze di prospezione e trivellazione nel Golfo del Messico e al largo delle coste atlantiche. E se alla Casa Bianca fosse andato il duo McCain/Palin, le prospezioni e le trivellazioni avrebbero invaso anche i santuari naturali al di la' del Circolo Polare Artico, in quell'Alaska di cui Sarah e' stata improvvido governatore.

Ma anche Obama ha le sue responsabilita', sul fronte ambientale, ha predicato bene, ma, talora, razzolato male. E l'incidente alla piattaforma dewlla Bp e' arrivato pochi giorni dopo l'autorizzazione, poi sospesa, a nuovi pozzi. Certo, dopo l'emergere della gravita' inarrestabile della marea nera, il presidente ha mostrato fermezza e severita' verso le compagnie petrolifere, annunciando una tassa di un centesimo di dollaro al barile per costituire un fondo anti catastrofe.. Risposte buone per la prossima volta, come la stategia delineata la scorsa notte e' buona a futura memoria. L'America toccata dalla marea nera, i pescatori di gamberi del Mississippi e dell"Alabama, la gente alla Forrest Gump, aspetta ancora una risposta immediata, che forse di verde avra' solo il colore dei dollari della Bp.

martedì 15 giugno 2010

Belgio: avanzano i separatisti, premier sarà socialista

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/06/2010

Dopo l'Olanda, il Belgio: il tranquillo e solido Benelux e' scosso da un vento di destra e qualunquista, xenofobo in Olanda, separatista in Belgio. Due facce della stessa medaglia, la mancanza di solidarieta', verso lo straniero e il diverso per fede, o verso il proprio cittadino diverso per lingua e per credo sociale. Mentre in Olanda Mark De Gutte, leader liberale, cerca di capire se potrà formare un governo senza, anzi contro, la destra xenofoba di Geert Winters, a Bruxelles re Alberto deve ancora assegnare l'incarico per la costituzione di una maggioranza.

La lettura dei risultati elettorali, in Belgio, e' resa complicata dal fatto che ogni partito e' diviso in due, una formazione fiamminga e una francofona: cattolici ed economicamente floridi i fiamminghi, che stanno al Nord e che sono i due terzi della popolazione; socialisti e meno ricchi i valloni, che stanno al Sud. Noi ne sommiamo i voti per famiglie politiche, loro non sempre lo fanno. Stavolta sì, certo per non riconoscere ai separatisti della Nuova Alleanza fiamminga di Bart De Wever la palma di prima formazione politica belga e l’accesso, quasi diretto, all’incarico di formare il governo.

La Nuova Alleanza ha triplicato i suoi seggi, sottraendo voti ai cristiano-democratici fiamminghi del premier uscente Yves Leterme e all'estrama destra del Vlaamse Belang. La ripartizione dei seggi, a scrutinio esaurito, dice che i socialisti hanno 39 seggi (26 i francofoni, 13 i fiamminghi), i liberali 31 (18 e 13), i cristiano-democratici 27 (10 e appena 17, poco più della metà di prima). I verdi sono complessivamente a 13, la destra fiamminga a 12. I separatisti da soli hanno 27 seggi, ovviamente tutti nelle Fiandre.

Scrivendo negli Anni Ottanta per Panorama di Lamberto Sechi, feci un ritratto dell’ “immigrato italiano che un giorno avrebbe governato il Belgio”: Elio Di Rupo. Forse, quella volta ci azzeccai: figlio di immigrati abruzzesi, chimico di studi, Di Rupo, 58 anni, eterno papillon e gay dichiarato, sarà probabilmente il primo premier socialista e francofono belga dopo trent’anni in più di alternanza cattolici/liberali tutti fiamminghi.

Difficile dire se la via del governo passerà per una grande coalizione anti-separatisti, o se Di Rupo cercherà un'intesa con De Wever, per dare ancora più autonomia alle Regioni e alle comunità linguistiche tentando, nel contempo, di salvaguardare l'unita' del Paese. La larga vittoria sembra avere suggerito moderazione e dialogo al leader della Nuova Alleanza: se, nei giorni della polemica e della campagna calpestava la bandiera nazionale insieme alla 18enne Cilou Annis Miss Belgio, ovviamente fiamminga, adesso De Wever, 39 anni, parla “di evoluzione, non di rivoluzione”, anche se continua a sostenere che “il Belgio è il Paese più sbagliato a questo mondo” (un Paese “destinato ad evaporare”).

Fra i fondatori della Nuova Alleanza nel 2001, De Wever ne è presidente dal 2004. Come i leader della Lega in Italia, ce l’ha soprattutto con i trasferimenti di risorse dalle Fiandre alla Vallonia. Nel 2007, si alleò con Leterme, allora popolarissimo premier –ebbe un milione di preferenze, in un Paese di poco più di 10 milioni di abitanti-, ma i cristiano-democratici fiamminghi lo hanno deluso per il loro immobilismo istituzionale.

Che il Belgio stia per spaccarsi, lo si dice e lo si teme dagli Anni Settanta: il Paese s’è dato una struttura sempre più federale, ma evidentemente ancora non basta. I fiamminghi, reduci da un secolo abbondante di umiliazioni e frustrazioni sociali e linguistiche, non si sentono a proprio agio. E poi c’è il problema di Bruxelles, capitale nazionale, ma che i fiamminghi considerano la loro capitale (nonostante vi si parli più francese e, forse, ormai, più ancora inglese) e che rischia di rimanere ‘solo’ e sempre più capitale europeo. E qui arriviamo al nodo dell’Ue: il primo luglio, il Belgio deve assumere la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione. Non è la prima volta che un Paese ci arriva in crisi di governo (capitò anche all’Italia), ma certo non è il viatico migliore per cercare di portare l’Ue fuori dalla crisi e rilanciare lo processo d’integrazione.

lunedì 14 giugno 2010

Berlusconi, eroe di Libia dimenticato da stampa estera

Tg, gr e giornali italiani sono zeppi del ruolo avuto da Silvio Berlusconi nella liberazione da parte delle autorità libiche del cittadino svizzero Max Goeldi, detenuto da Tripoli per ritorsione, dopo che la ‘perfida Elvezia’ aveva ardito arrestare Hannibal, uno dei figli del dittatore Gheddafi, accusato di maltrattamenti da due suoi domestici. Non ci crederete, ma le agenzie internazionali, che pure seguivano la vicenda con grande attenzione, poiché toccava l’Ue, gli Usa e il mercato dell’energia, non si sono curate del ruolo di Mr B. Domenica, Reuters e Afp, con l’Ap le maggiori agenzie mondiali, hanno lanciato dispacci a iosa su Goeldi. La Reuters cita Berlusconi solo all’interno di un riepilogo: “Non è chiaro se la sua visita sia legata all’accordo Libia/Svizzera. L’Italia, fra tutti gli Stati dell’Ue, è quello che ha i maggiori legami commerciali con la Libia…”. Poi dimentica Mr B, nonostante numerose notizie e almeno cinque altri riepiloghi. L’Afp è più attenta: riferisce dell’arrivo e dell’incontro con Gheddafi sotto la tenda, avvenuto –precisa, però- “dopo la firma” dell’accordo Libia/Svizzera “co-firmato da Spagna e Germania in quanto garanti”. Berlusconi testimone ‘a cose fatte’, dunque. L’estero non gli riconosce i suoi meriti. Fortuna ci sono i tg d’Italia!

domenica 13 giugno 2010

LIBRI - Potenze in bilico tra guerra e pace

Scritto per Affari Internazionali, a firma di Adriano Metz

Due volumi ‘complementari’ pubblicati nella collana Relazioni internazionali e scienza politica dell'editrice V&P: la partita a scacchi dei giochi di potere internazionali su tutti i tavoli possibili, dalla diplomazia all’economia, dall’egemonia al dominio, dalla cultura alla guerra; mosse e scelte aggiornate all’evoluzione degli equilibri e dei rapporti di forza, in un mondo dove la storia finisce solo nelle analisi dei politologi.

Richard Little è uno dei massimi studiosi europei di relazioni internazionali: docente all' Università di Bristol, già presidente della British International Studies Association, autore e co-autore di varie altre opere. In questo suo libro, Little elabora un modello innovativo del concetto di equilibrio fra le potenze, utilizzandolo per rileggere quattro classici delle relazioni internazionali usciti tra il 1948 e il 2001.

L’autore libera il pensiero di Morgenthau e di Bull, di Waltz e di Mearsheimer da immagini datate e stereotipate e le consegna rivitalizzato all'attuale dibattito. Di volutamente ‘antico’, in questo testo, c’è solo l’immagine di copertina: un disegno di Honoré Daumier che, nel 1866, vedeva il Mondo in equilibrio sulle baionette degli eserciti europei. Oggi, le armi epigone di quelle baionette sono al più stampelle di un’Europa che affida la propria stabilità all’economia, ai commerci e alla diplomazia, più che alla forza militare.

Nel suo lavoro, suddiviso in quattro parti, Little analizza l' ‘equilibrio di potenza’, che è poi l'azione di controbilanciamento che scatta in risposta a un tentativo di egemonia. Un concetto e una pratica che hanno radici lontane: alcuni ne ravvisano le prime tracce nell'intreccio delle relazioni nell'Italia dei Comuni e delle Signorie. L'idea di fondo è che, quando una grande potenza tende a dominare il sistema internazionale, le altre grandi potenze si alleano per preservare la loro sicurezza, creando una sorta di contrappeso all'aspirante egemone: siamo in un territorio tendenzialmente diplomatico, senza però mai escludere lo strumento militare.

Strumento che è invece centrale nel Manuale di Giacomello e Badialetti, che ricapitola, sempre in quattro parti e con l'apporto di tabelle e box, millenni di pensieri strategici d'ogni orientamento, da Tucidide a Sun Tzu, da Machiavelli a von Clausewitz, fino ai contemporanei, cercando d'individuare gli elementi comuni a tutte le guerre e le novità emergenti.

Giacomello è docente a Bologna e a Firenze ed è molto attivo come autore e ricercatore. Badialetti è un militare di professione, colonnello dell'esercito con esperienze internazionali. Esperti e affiatati, gli autori cercano di sgombrare il terreno da equivoci ed errori nelle valutazioni strategiche spesso indotti dalla cronaca giornalistica, spiegano quali dinamiche oggi condizionano il ricorso alla forza da parte dei governi, aggiornano le conoscenze e l’analisi sugli strumenti della guerra e anche sulle forme dei conflitti (c’è anche quello ‘tra la gente’ che le ‘armi intelligenti’ non rendono meno atroce) e segnalano, infine, gli strumenti come il controllo degli armamenti e il peacekeeping che possono oggi limitare la scelta estrema dello scontro cruento ed armato.

L’equilibrio di potenza nelle relazioni internazionali, metafore, miti, modelli, Richard Little, Vita e Pensiero, 359 pp, 25 euro.

Manuale di studi strategici, da Sun Tzu alle ‘nuove guerre', Giampiero Giacomello e GianMarco Badialetti, Vita e Pensiero, 318 pp, 25 euro.

sabato 12 giugno 2010

Bavaglio: e i corrispondenti esteri chiedono che cosa fare

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/06/2010

Invito a pranzo con bavaglio, in un bel palazzo di via dell'Umilta' quasi di fronte alla sede del Pdl, proprio nel giorno in cui la stampa italiana testimonia, anche nelle scelte grafiche -prime pagine listate a lutto, o bianche- il no alla legge che limita la liberta' di cronaca. Maarten Van Aalderen, presidente dell'Associazione Stampa Estera, olandese, corrispondente di De Telegraaf, chiama il presidente della Fnsi Roberto Natale e i direttori de Il Fatto, de l'Unita' e del Secolo d'Italia a rispondere alle domande dei corrispondenti stranieri di stanza a Roma.

Intorno al tavolo, nella sede dell'Associazione, giornalisti nord-americani e latino-americani, europei dell'Ue e svizzeri, isreaeliani e musulmani, greci e turchi.
Le domande fioccano: c'e' chi chiede che cosa succedera' adesso, chi vuole sapere che cosa d'ora in poi si potra' scrivere, chi confronta le norme e le prassi del proprio Paese -sovente coincidenti- con quelle italiane, sovente divergenti.

Per antica consuetudine, l'Associazione della stampa estera non prende posizione sulle vicende italiane, spiega Van Aalderen. Ma i corrispondenti dicono la loro sui loro media. E la vicenda della legge bavaglio e' fra le più' seguite.

La stampa britannica, la spagnola, la francese sono state molto attente e critiche. Ieri, il si' del Senato alla legge faceva titolo sul Financial Times e sull'Economist ("Una norma che dovrebbe preoccupare gli inquirenti prima ancora che i giornalisti"), sull'Independent e sul Dayly Mail, su Le Monde ed El Pais ("Senato approva legge controversa, l'opposizione denuncia la morte della liberta' in Italia"). Anche i grandi giornali americani dicevano la loro: WSJ, torrente di critiche; NYT, legge anti-intercettazioni avanza.

Ma, giorno dopo giorno, il tema e' stato presente, questa settimana, su Le NouvelObs ("Berlusconi vuole imporsi"), El Mundo ("L'Italia si mobilita contro la legge bavaglio"), il San Francisco Chronicle, decine di altri giornali e siti. Le agenzie internazionali seguono gli sviluppi con attenzione pressocche' quotidiana.

Anche le istanze internazionali sono vigili. La Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo e' pronta ad esaminare i ricorsi (ma, prima, avranno dovuto essere esaurite tutte le possibili iniziative nazionali). A Bruxells, la Commissione europea si dice "molto vigile", anche se l'Esecutivo dell'Ue evita di pronunciarsi su una legge nazionale fin quando il provvedimento e' in discussione. Fa sentire la sua voce europea un ex presidente italiano della Commissione, Romano Prodi: "Sono molto preoccupato, perche' e' la democrazia che entra in sofferenza, che respira male", anche se "nei momenti più' strani credo che ci sia una forza che salti fuori". Purche' lo faccia presto, prima che la 'normalizzazione' dell'Italia sia troppo avanzata.

SPIGOLI: Zapatero il santo abbandonato da Mr B

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/06/2010

La stampa spagnola livida; quella britannica divertita; quella francese, sempre attenta al ‘bon ton’, scandalizzata: questo l’effetto sortito da Mr B, piantando in asso in piena conferenza stampa, giovedì, a Palazzo Chigi, il capo del governo spagnolo, e presidente di turno del Consiglio europeo, José Luis Zapatero, per andare ad attendere ad altre cure. Non è la prima volta che Zapatero è ‘vittima’ di Berlusconi: recentemente, fu coinvolto, davanti ai giornalisti, nelle beghe matrimoniali del nostro premier. Stavolta, ha invece dovuto reggere da solo la scena: il Telegraph lo descrive “rosso in volto, imbarazzato”, il Daily Mail “stupito”. Nulla di vero, ovviamente, per Palazzo Chigi: la scenetta era concordata e Mr B, anzi, “l’ha fatto per cortesia”, come scrive El Economista citando fonti del governo italiano. El Mundo racconta con molta ironia: “Berlusconi chiama Zapatero santo –proprio lui, che il papa aveva appena trattato a pesci in faccia, ndr- e lo lascia solo con la stampa”. NouvelObs e Figaro colgono un divertente siparietto: Berlusconi se ne va e l’ospite esce di scena un istante, giusto il tempo per gli inservienti di togliergli di dietro la bandiera italiana e lasciargli solo la spagnola.

venerdì 11 giugno 2010

Olanda: voto rebus, liberali vincono, xenofobi avanzano

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/06/2010

La Vecchia Europa non riesce più a produrre maggioranze di governo chiare e nette. Prima, è stata la volta della Gran Bretagna. Adesso, dell’Olanda. E domenica toccherà al Belgio. Tre elezioni, tre risultati che non favoriscono la governabilità del Paese, che impongono coalizioni. A Londra, è eccezionale, all’Aja e a Bruxelles è la norma.

In Olanda, hanno vinto almeno in tre. Hanno perso, e di brutto, solo i cristiano-democratici del premier uscente Jan Peter Balkenende, praticamente dimezzati –da 41 a 21 seggi-. Immediato e coerente l’annuncio del ritiro dalla politica di Balkenende, dopo otto anni ininterrotti passati alla guida del governo –la crisi fatale, con i socialisti, sul rinnovo della missione in Afghanistan-.

Gli altri maggiori partiti possono tutti cantare vittoria. I liberali del Vvd di Mark Rutte sono ormai la prima formazione politica olandese, con 31 seggi sui 150 della Camera, ma i laburisti del Pvda di Job Cohen, ex sindaco di Amsterdam, sono rimasti loro dietro solo di un seggio. E la destra di Geert Wilders diventa il terzo partito, scavalcando i cristiano-democratici e salendo d’un colpo da 9 a 24 seggi.

La grossa avanzata del movimento xenofobo e anti-islam viene salutata con rumorosa soddisfazione dai partiti neo-nazisti di tutta Europa. Ma la crisi e l’austerità, che hanno spostato nella fase cruciale della campagna elettorale l’attenzione degli olandesi dai temi della sicurezza e dell’immigrazione a quelli dell’economia e del bilancio, hanno frenato l’ ‘onda Wilders’, dopo che, nelle amministrative di poche settimane or sono, il Pvv, il Partito della Libertà, aveva ottenuto un quarto dei suffragi.

La formazione del governo s’annuncia laboriosa. L’incarico di mettere insieme una maggioranza tocca, in prima battuta, a Rutte, una sorta di Nick Clegg olandese, ma non sarà facile fare quadrare numeri e programmi: i liberali e i socialisti insieme raccolgono appena i due quinti dei seggi e hanno bisogno di altri alleati –i cristiano-democratici, i verdi, i centristi- per superare quota 75.

A quel punto, un governo avrebbe una maggioranza in Parlamento, ma la composizione eterogenea ne indebolirebbe il programma e l’azione: i liberali propugnano il rigore, i socialisti sono per tagli meno incisivi alla spesa pubblica, i cristiano-democratici trarrebbero forse giovamento da una fase all’opposizione. Per questo, gli analisti politici prevedono trattative prolungate, che faranno slittare l’adozione di misure per risanare i conti.

L’ipotesi della cosiddetta “coalizione viola”, o del “governo di unità nazionale”, lascia Wilders fuori della stanza dei bottoni . Ma, nelle prime dichiarazioni da premier ‘in pectore’, Rutte, che potrebbe divenire il primo capo di governo olandese liberale in quasi un secolo, non taglia i ponti con nessuno e non demonizza il leader xenofobo, in un Paese dove vive un milione di musulmani (su 16 milioni di abitanti) e che ha già conosciuto fenomeni criminosi d’intolleranza e d’estremismo.

Adesso, l’attenzione si sposta sul Belgio, dove gli elettori andranno alle urne domenica. Anche lì, nelle Fiandre, c’è lo spettro dell’avanzata di una destra che agita le bandiere del separatismo e del nazionalismo.

BOX - “Grandioso!!!!”: una sola parola e tre punti esclamativi in un sms all’agenzia di stampa olandese Anp. Così, Gert Wilders, leader del Partito della Libertà –vi ricorda niente, il nome?-, ha celebrato il risultato elettorale del suo movimento xenofobo e anti-islam. Wilders, 46 anni, fondò nel 2006 il partito cresciuto, in quattro anni, a terza forza politica olandese: la scorsa notte ha fatto festa all’americana, un franca risata sul volto giovane e simpatico, cravatta e fazzolettino rosso peppone. Wilders, che ha nel leghista anti-immigrati Mario Borghezio un fervente sostenitore –“Vergogna chiamarlo razzista –dice-: è liberale e democratico”-, è autore del film anti-islamico Fitna e vive da tempo sotto scorta. Favorevole a un’imposta sul velo, a ottobre sarà processato per incitamento alla discriminazione contro i musulmani e all’odio razziale.

SPIGOLI - Hotel di lusso, Gucci sfida Armani a Dubai

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/06/2010

Mentre l’Italia si scopre in braghe di tela e con il bavaglio, la guerra del lusso del XXI Secolo si combatte tra gli italianissimi Armani e Gucci a Dubai e sulle colonne della stampa inglese che ama il pettegolezzo. Il DailyMayl ci racconta l’evoluzione di Gucci da “casa di moda che disegna abiti di celebrità come Madonna e Rihanna” a gigante del turismo d’affari a cinque stelle , con l’apertura a Dubai del primo Elisabetta Gucci Hotel, dal nome della figlia del “leggendario” Paolo. L’hotel aprirà entro la fine dell’anno e “aggiungerà un tocco di fascino alla skyline di Dubai”, che, a dire il vero, non ha alcun fascino, ma solo un che di terrificante e angoscioso. Nel giro di 15 anni, gli Hotel Gucci saranno una quarantina, dalla Russia al Brasile, dall’Estremo Oriente all’Africa all’America Latina, laddove neo ricchi e ricchi consolidati vanno a spendere. Sulla strada del successo, però, Gucci si troverà a competere, come già sulle passerelle delle sfilate di moda, con Armani, che nel business degli hotel sul Golfo c’è già: ad aprile, Giorgio ha infatti aperto il suo Armani Hotel dentro il Burj Khalifa, l’edificio più alto al mondo. 80 camere per Gucci, 175 per Armani: il round dei letti di lusso lo vince il milanese sul fiorentino.

giovedì 10 giugno 2010

SPIGOLI - Mondiali: Italia dribbla e Corea Nord vince

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/06/2010

Parte con un dribbling italiano riuscito, e forse un tunnel alla politica, il Mondiale in SudAfrica della Legea, marchio italiano di abbigliamento sportivo: vestirà la Corea del Nord. La notizia fa rumore in Occidente, dove è raro fare affari con il Paese del dittatore figlio di dittatore Kim Jong-il, tuttora soggetto a sanzioni internazionali. E fa sportivamente rumore in Italia, dove non s’è mai spento il clamore del gol ad Albertosi del dentista Pak Doo-ik, che decretò la sconfitta e l’eliminazione degli azzurri al primo turno dei Mondiali ’66 in Inghilterra. I rapporti della Legea, sede nei pressi di Pompei, con la Corea del Nord intrigano soprattutto la stampa britannica ed americana, che se n’è già occupata e che torna a parlarne ora –da ultimo, il Financial Times-, proprio mentre gli azzurri sbarcano in SudAfrica. La Legea non veste finora grandi squadre e il capo del marketing dell’azienda, Giuseppe Marinelli, ammette all’FT: “Non siamo la Nike nè l’Adidas e dobbiamo trovare modo di fare parlare di noi. La politica non c’entra”. Così, tutti hanno il loro tornaconto: la nazionale nord-coreana tutta rossa, che non ha voluto vestire cinese, trova divise e scarpini; la Legea un po’ di pubblicità. Valore del contratto “meno di quattro milioni di euro per quattro anni”: un buon affare, stima un esperte britannico.

mercoledì 9 giugno 2010

Olanda e Belgio, voti al buio nel cuore dell'Europa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/06/2010

Tra oggi e domenica, due elezioni politiche cruciali in 96 ore nel cuore dell’Europa più economicamente solida e tradizionalmente democratica e dentro il Benelux, nocciolo duro dell’integrazione ‘ante litteram’: due voti a fiato sospeso, dall’esito incerto fra timori di avanzata della destra xenofoba e delle tentazioni separatiste. Oggi, vanno alle urne gli olandesi, dopo una crisi di governo innescata a febbraio dal no dei laburisti al rinnovo della missione in Afghanistan; domenica, i belgi, in una consultazione anticipata imposta dai litigi tra i fiamminghi e i francofoni.

Sono le prime elezioni nazionali nell’Eurozona dopo l’emergenza Grecia e il varo del piano salva Stati e salva euro. In Olanda, proprio la crisi economica e la conseguente austerity, accettata dalla popolazione con luterana sobrietà, fanno da antidoto all’avanzata degli xenofobi di Geert Wilders e del suo Pvv, pur uscito trionfatore dalle recenti amministrative con la sua crociata anti-immigrati.

I liberali del Vvd di Mark Rutte, una sorta di Nick Clegg in salsa arancione, 43 anni, sono in testa ai sondaggi: dovrebbero ottenere 40 seggi su 150, ben davanti ai laburisti del Pvda, che, guidati dall’ex sindaco di Amsterdam Job Cohen, 62 anni, dovrebbero sfiorare i 30 seggi. I cristiano-democratici del premier uscente Jan Balkenende potrebbero perdere quasi la metà dei loro 41 seggi, non andando oltre 25. Balkenende, 54 anni, calvinista, è fuori dalla corsa alla poltrona di premier, dopo otto anni alla guida di quattro governi di coalizione, ma il suo partito Cda potrebbe ancora risultare essenziale a una coalizione di governo, in un Parlamento che s’annuncia come al solito frammentato –18 i partiti in lizza, 11 quelli che hanno già seggi-.

Fuori dalla corsa a premier e dalla logica delle alleanze è, invece, Wilders, 46 anni, i cui slogan anti-islam e anti-immigrati non rispondono alle priorità degli olandesi in questo momento, anche se il suo movimento potrà conseguire affermazioni locali. Lo spettro della bancarotta pare ora guidare le scelte degli olandesi, orientati a premiare il rigore del Vvd: Cleg si propone di azzerare il deficit di bilancio entro il 2015, tagliando, fra l’altro, la spesa pubblica, riducendo il numero dei ministeri e innalzando l’età pensionabile da 65 a 67 anni (c’è già un accordo in tal senso tra imprenditori e sindacati). Cohen, 62 anni, paladino dei gay e degli immigrati e favorevole alla coltivazione di Stato della marijuana per combattere i trafficanti, progetta, invece, un risanamento ‘dolce’: tagli alla spesa meno drastici e subito maggiori tasse sui redditi superiori ai 150mila euro. Qualche incertezza in tv proprio sull’economia ha però nuociuto in campagna all’affidabilità del leader laburista.

In Belgio, un ‘fattore donna’ s’inserisce nella complessa equazione politica di un Paese da 30 anni sul filo della secessione, ma rimasto finora unito, dove la spaccatura linguistica fra fiamminghi, a nord, cattolici e floridi, e francofoni, a sud, socialisti e meno ricchi, duplica gli schieramenti, senza contare il peso di Bruxelles, capitale europea contesa. Il premier uscente Yves Leterme, fiammingo, cattolico, s’è fatto da parte con un messaggio su twitter: se i cristiano-democratici fiamminghi avranno di nuovo il premier, toccherà, per la prima volta in Belgio, a una donna, Marianne Thyssen.

Nonostante un debito pubblico oltre il 100% del Pil nel 2011 e l'incubo di risparmi da 22 miliardi di euro, per stare nel patto di stabilità, la campagna elettorale resta dominata dai contrasti tra le comunità, non sopiti dalla riforma del 1993, e dalle tentazioni di separatismo delle Fiandre.

Proprio per il peso della crisi, i fiamminghi, che da soli se la cavano meglio, vogliono più autonomia, un po’ come da noi avviene nel Nord leghista. I separatisti moderati di Bart De Wever hanno un quarto delle intenzioni di voto, il doppio delle regionali 2009, e sono la prima forza fiamminga, sottraendo suffragi ai cristiano-sociali e all’estrema destra. Ma, quasi per assurdo, la loro ascesa favorisce l’aspirazione a premier di Elio Di Rupo, leader socialista francofono dall'inseparabile papillon, d’origini abruzzesi. I negoziati per formare il governo, laboriosissimi, potrebbero offuscare, dal 1.o luglio, il semestre di presidenza belga del Consiglio dell’Ue.

SPIGOLI - Mr B e conflitto interessi, con me zero riforme

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/06/2010

Chi è il nemico delle riforme in Italia? Mr B. E che cosa frena le riforme in Italia? Il conflitto d’interessi di Mr. B. Paul Betts, sul sito del Financial Times, ripropone un’analisi non originale, ma mai smentita e sempre attuale. Per il commentatore del quotidiano economico europeo, l’atmosfera politica è “tesa”, dopo “la tardiva ammissione”, da parte del governo, che l’Italia non è diversa da altri Paesi dell’eurozona e ha bisogno di “rapide e impopolari misure d’austerità”, cioè d’una manovra. Ma la questione che più scalda gli animi –nota Betts- “ha poco a che fare con l’economia”: è la cosiddetta ‘legge bavaglio’, che nasce “da una strutturale mancanza di fiducia” tra la magistratura e chi sta al governo, al punto che “il processo mediatico comincia a essere visto, in alcuni ambienti giudiziari, come l’unico modo di ottenere una condanna, pur se solo di fronte all’opinione pubblica”. La giustizia è fra le riforme strutturali necessarie . Ma, “tristemente” essa “sarà impossibile fin quando Mr B resta al potere, per il palese conflitto d’interessi che la sua miriade di problemi giudiziari gli hanno creato. L’attuale meccanismo delle intercettazioni è pieno di rischi. Ma l’alternativa di un potere giudiziario impotente e di media imbavagliati è certamente peggiore”.

martedì 8 giugno 2010

AFGHANISTAN - Per gli Usa, è la guerra più lunga

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/06/2010

Gli strateghi della comunicazione dell’Amministrazione Bush, che avevano inventato la formula della ‘guerra al terrorismo’, avevano anche parlato della ‘lunga guerra’. Barack Obama la ‘guerra al terrorismo’ l’ha cancellata dai documenti strategici, ma il conflitto in Afghanistan è divenuto il più lungo mai combattuto dagli Stati Uniti: 104 mesi dopo l’attacco ai talebani nel novembre 2001, la guerra afgana ha superato i 103 mesi di quella nel Vietnam. Diverso però il numero dei caduti Usa: furono oltre 58 mila allora, sono appena più di mille ora. Alle stelle, invece, i costi economici: in Afghanistan e in Iraq, per fare la guerra, Washington ha già speso più di mille miliardi di dollari, secondo i calcoli di una democratica dell’Illinois, Jan Scharowsky.

I conflitti mondiali del XX Secolo –la Seconda Guerra Mondiale durò 44 mesi per gli americani, che vi entrarono dopo l’attacco a Pearl Harbour; la Grande Guerra neppure due anni- e i conflitti storici -la Guerra Civile 48 mesi, la rivoluzione contro i britannici 81 mesi-furono nettamente più brevi. L’Iraq dura da 86 mesi ma s’avvia alla conclusione con il disimpegno dell’estate prossima; il Vietnam si trascinò dal 7 agosto 1964, quando il Congresso diede al presidente Johnson i poteri di guerra, al marzo del 1973, quando il presidente Nixon ordinò il ritiro di tutti i combattenti.

In Afghanistan, il presidente Obama prevede che il ritiro delle truppe Usa cominci nel luglio 2011. Sul terreno, si prepara un’offensiva contro i talebani, imminente nel centro e nel sud del Paese. Le cronache fanno però pensare che all’offensiva, per ora, ci siano loro, i talebani: ieri hanno attaccato con tre kamikaze (rimasti sul terreno) un centro di addestramento della polizia a Kandahar, facendo due vittime, fra cui un americano; e nella provincia di Farah hanno intercettato , catturato e ucciso un mullah che –secondo un loro portavoce- “cooperava con il governo”.

Gli episodi di ieri seguono la decisione del presidente afgano Hamid Karzai, che è in Turchia per un vertice asiatico e un incontro trilaterale Turchia/Afghanistan/Pakistan, di sostituire di colpo i vertici dei servizi di sicurezza. I capi ‘dimessi’ hanno così pagato un’incursione dei talebani –tre uomini vestiti da donna, con il burqa- che il 2 giugno erano riusciti ad avvicinarsi alla tenda della Jirga, l’Assemblea degli Anziani, dove c’erano 1600 delegati. Karzai cerca di voltare pagina e, intanto, prova ad attuare i consigli della Jirga incoraggiando il dialogo con i talebani moderati (ad esempio, accelerando la liberazione dal carcere di quanti sono imprigionati senza prove certe).

L’offensiva imminente vuole sottrarre ai talebani il controllo del territorio ntorno a Kandahar. Ma la situazione sul terreno continua a deteriorarsi: con i dieci caduti di ieri -un giorno nero-, dopo i cinque di domenica, i militari stranieri morti in Afghanistan a giugno sono già 21. A maggio, furono 50: uno dei mesi più cruenti fra i 104 del conflitto.

Il comandante delle forze internazionali, il generale Usa Stanley McChrystal, progetta un’azione più lenta e metodica delle precedenti offensive: vuole man mano conquistare la fiducia della gente. Ma il progetto cozza contro episodi come quello del 21 febbraio: 23 civili furono uccisi per “gravi errori di valutazione”; e ammettere la colpa tre mesi dopo non restituisce le vittime alle loro famiglie.

Sotto accusa, l’imperizia e l’approssimazione d’una squadra di operatori di droni Predator, di stanza in Nevada. Un rapporto dell’Onu afferma che i droni violano le leggi di guerra: i loro attacchi diretti dalla Cia hanno causato la morte “di centinaia di civili”.

Riuniti a Madrid i delegati per Afghanistan e Pakistan di 30 Paesi preparano le prossime scadenze. A Bruxelles, la Nato ammette che servono almeno altri 450 addestratori (il 20% dei 2.300 previsti): devono mettere in grado le forze afgane di garantire gradualmente, dalla fine del 2010, la sicurezza nel loro Paese.

SPIGOLI - Attenti turisti, l'Urbe è piena di teppisti di destra

Scritto per IL Fatto Quotidiano del 08/06/2010

Bande di teppisti d’estrema destra minacciano luoghi di Roma frequentati da turisti, in un crescendo di violenza: questo lo spot dell’ ‘Urbe di Alemanno’ che The Guardian, quotidiano britannico ricco di solida tradizione laburista, e The Observer, ponderoso settimanale, propongono ai loro lettori. Titolo in bella evidenza, sopra l’immagine inequivocabilmente romana del Colosseo, Tom Kington racconta che proprio lì nei pressi, dove c’è la Gay Street della movida romana, si sono verificate aggressioni a raffica contro omosessuali e non solo –l’articolo ne conta otto in nove mesi-: “attacchi contro gay, immigranti e persino turisti che vengono attribuiti alle bande di teppisti d’estrema destra nella Città Eterna tradizionalmente tollerante; violenze alimentate dal consumo d’alcol crescente, dopo l’elezione a sindaco di un ex neo-fascista, Gianni Alemanno”. Sono però gli stessi ‘portavoce’ della Gay Street, sentiti da Kington, a dire che il Comune non incoraggia in nessun modo i teppisti. E Claudio Cerasa, autore di un libro sull’avanzata della destra a Roma, sostiene: “Alemanno non è responsabile del clima politico; ne è un prodotto”. Casa Pound sforna “fascisti da terzo Millennio” pronti a menare il ‘diverso’ mica per ideologia, ma per affermare la propria identità.

domenica 6 giugno 2010

SPIGOLI - Un po' d'Italia verso Marte (alla Capricorn One)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/06/2010

C’è un po’ d’Italia nella Capricorn One del XXI Secolo: non è un imbroglio astronautico, come nel thriller fanta-politico di Peter Hyams, ma un esperimento scientifico vero e proprio. Incuriosita la stampa di tutto il Mondo, specie quella anglosassone: Bbc, FT, Independent, Telegraph e Guardian, che mette in guardia i lettori, “Non è uno scherzo: la missione su Marte non lascerà mai la Terra”. Nel film del 1978 –fra gli interpreti, Elliot Gould e Telly Savalas-, la Nasa, con complicità dell’Amministrazione Usa, organizzava un falso sbarco ‘marziano’, mentre gli astronauti, mai partiti, simulavano in un hangar nel deserto la missione. Questa volta, invece, l’esperimento è reale, senza trucco: fra i protagonisti, c’è l’italo-colombiano Diego Urbina, ingegnere, 27 anni, che dice “Quando l’uomo scenderà davvero su Marte, io sarò orgoglioso di potere dire d’avervi contribuito”. Il progetto Mars500 simula le condizioni di una missione spaziale di durata mai tentata, 18 mesi: sei aspiranti astronauti, tre russi, un cinese e due europei, resteranno tutto quel tempo in un hangar allestito in un istituto medico a Mosca, completamente isolati dal mondo circostante, tranne le e-mail. Scopo, studiarne il comportamento e le reazioni in quella che dovrebbe essere un lungo viaggio spaziale.

sabato 5 giugno 2010

MO: un anno dopo, Obama nella trappola

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/06/2010

Un anno fa, il 4 giugno 2009, il presidente statunitense Barack Obama pronunciava, al Cairo e in diretta su trenta tv mediorientali, un discorso d’apertura al Mondo arabo che doveva essere, nelle sue intenzioni e nelle speranze del Mondo, un punto di partenza di nuove relazioni tra Occidente e Islam, fondate “sull’interesse reciproco e il reciproco rispetto”. Un anno dopo, Obama ammette che “lo ‘statu quo’ in Medio Oriente è insostenibile”, ma non riesce a sbloccarlo perché resta prigioniero, agli occhi degli arabi, dell’appoggio a Israele e, agli occhi degli israeliani, della mancanza di fermezza nei confronti dell’Iran. Contro i progetti nucleari di Teheran, potenzialmente militari, gli Usa “sperano” in un sì dell’Onu alle sanzioni entro il 21 giugno, mentre il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad s’impegna a “continuare a difendere i diritti dell’Iran”, anche se l’Onu dovesse varare misure.

L’anniversario del discorso al Cairo non poteva cadere in un momento peggiore per il presidente Obama, sia dal punto di vista della sostanza che dei simboli. Esso coincide infatti con l’annuncio dell’annullamento della visita in Indonesia, il più grande Paese musulmano al Mondo –la colpa è della marea nera- e segue l’annullamento di un incontro alla Casa Bianca con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, dopo il cruento blitz del 31 maggio contro i militanti filo-palestinesi che portavano aiuti a Gaza. A Washington, sta invece per arrivare il presidente palestinese Abu Mazen, che si prepara a sollecitargli “decisioni coraggiose”.

Il blitz israeliano ha certo peggiorato le cose nell’area, incrinando anche le relazioni tra Stati Uniti e Turchia, un Paese della Nato e a lungo un avamposto dei rapporti tra Israele e l’Islam. Ma pur senza il blitz il bilancio a un anno dal Cairo non sarebbe stato positivo. Con il discorso e con l’apertura al dialogo, Obama ha migliorato l’immagine degli Stati Uniti nel Paesi arabi, ma i maggiori ostacoli a sbloccare lo stallo gli sono venuti dal governo Netanyahu, anche per la diffidenza creata in Israele dal migliore feeling arabo-americano.

Negli ultimi tre mesi, per due volte Israele ha preso a ceffoni diplomatici l’Amministrazione Usa, facendo saltare l’avvio i negoziati indiretti con i palestinesi e poi ritardandone il riallaccio. Finchè, con il blitz di lunedì, Netanyahu ha costretto Obama a schierarsi: o con Israele o contro. E Obama, non condannando in modo esplicito l’azione israeliana e opponendosi all’Onu a una commissione d’inchiesta internazionale, s’è messo, agli occhi degli arabi, dalla parte di Israele: chi lo aveva sentito sincero un anno fa lo accusa ora di avere fatto della retorica.

Eppure, evoluzioni auspicate dall’Islam non erano mancate : Obama, nella sua revisione strategica, ha abbandonato la formula della “guerra al terrorismo”, che offriva una sorta di pretesto ideologico ai sentimenti anti-musulmani, e ha pure avallato le conclusioni del riesame del Tnp (Trattato di non proliferazione nucleare), che, nell’ottica di un Medio Oriente senza atomica e senz’armi
di distruzione di massa , mette in mora Israele, che non aderisce al Tnp e ha in segreto la ‘bomba’. Ma il sangue del blitz cancella i progressi, nonostante il negoziatore americano George Mitchell invochi il contrario.

SPIGOLI - L'assassinio d'un vescovo val bene un titolo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/06/2010

L’assassinio di un vescovo italiano nella Turchia incendiata dal blitz israeliano di lunedì scorso val bene un titolo sulla stampa di tutto il Mondo. Gli sviluppi dell’uccisione di mons. Padovese, ucciso dal suo autista a Iskenderun, prima di andare a Cipro per seguirvi la visita del Papa, aprono il sito di Hurryiet, il maggiore quotidiano turco, fra titoli tutti dedicati ai seguiti della cruenta azione contro gli attivisti filo-palestinesi. Sul sito di Millyiet, gli sviluppi da Iskenderun sono, invece, confusi tra le altre notizie. I giornali spagnoli sono quelli che danno più spazio all’assassinio del presidente della conferenza episcopale turca, a iniziare da El Pais, con richiamo in prima: “Il capo dei vescovi di Turchia muore pugnalato dal suo autista”. Le Monde titola: “Benedetto XVI a Cipro, prima visita in terra ortodossa, viaggio incupito da assassinio". Pure il WSJ è analitico: “Vescovo ammazzato nella Turchia meridionale in agitazione per le vittime fatte da un commando israeliano”; e ricorda che i cristiani turchi sono stati vittime di attacchi, anche mortali, “in varie occasioni in ultimi anni”. NouvelObs e Les Echos danno rilievo allo stesso dettaglio: “Un vescovo cattolico ucciso all'arma bianca”. Notizie, spesso d’agenzia, pure su Bbc, FT, Cnn, NYT, Chicago Tribune, Washington Post e vari siti Usa.

venerdì 4 giugno 2010

SPIGOLI - Blitz Israele, no Italia a Onu fa rumore

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/06/2010

E’ soprattutto la Reuters a portare in giro nel mondo il no dell’Italia a una commissione d’inchiesta indipendente per valutare le violazioni della legge internazionale compiute da Israele nel raid contro i filo-palestinesi diretti a Gaza in missione umanitaria. Un dispaccio dell’agenzia più volte rilanciato indica che “gli Usa, da sempre alleati di Israele, hanno votato contro insieme con l’Italia e l’Olanda, mentre nove paesi europei, africani ed asiatici si sono astenuti e tre africani non hanno votato”. Fatti i conti, dei 47 membri del Consiglio dell’Onu per i diritti umani, 32 si sono pronunciati a favore. La vicenda, e il no dell’Italia, hanno forte eco soprattutto nel mondo musulmano: il testo della Reuters finisce su siti turchi, arabi, fino all’Indonesia, il più popoloso paese islamico. I commenti mettono spesso in risalto come la strage di pacifisti stia alterando rapporti diplomatici consolidati: il rifiuto alla commissione d’inchiesta indipendente mette Washington, ma anche Roma, in difficoltà rispetto alla Turchia, creando ulteriori imbarazzi nell’Alleanza atlantica. In Europa, i media tendono, invece, a constatare la mancanza di coesione dei Paesi dell’Ue, chi contro, come l’Italia, chi astenuto, come la Francia, e chi –i più- a favore.

giovedì 3 giugno 2010

SPIGOLI - Toscana-Texas, la piastrina del reduce

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/06/2010

La scena del fatto è a Gavorrano, una località della Toscana dove la Guerra lascio’ il segno nella primavera del ’44. Ma la notizia, 56 anni più tardi, arriva da Peta, una località del Texas: un ispettore di polizia in pensione italiano, Daniele Bianchini, ha trovato la piastrina di riconoscimento, un anello e un medaglione di un soldato Usa che era stato li’ ferito in battaglia e li ha spediti alla famiglia negli Stati Uniti. Oscar Glomb apparteneva alla 36° Divisione di Fanteria ed era stato fra i protagonisti dello sbarco di Salerno nel settembre del ’43, al momento della firma dell’armistizio. Nel giugno dell’anno dopo, Glomb fu colpito nei pressi di Gavorrano: perse la piastrina e alcuni altri effetti personali. Bianchini, che da quando è in pensione va alla ricerca di reperti di guerra sui luoghi della battaglia con il suo nuovo ‘metal detector’, li ha ritrovati, è risalito alla famiglia e le ha restituito tutti i ricordi. Glomb, nel frattempo, è deceduto nel 1998, ma Dorothy, la moglie, 85 anni, s’è commossa: “E’ un miracolo”, ha detto alla Bloomberg, ringraziando Bianchini e raccontando la storia, che ai siti Usa in questi giorni piace molto: là si celebrava il Memorial Day, qui da noi la Festa della Repubblica.

SPIGOLI - Draghi e i governatori 'superstar'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/06, non pubblicato

Governatori ‘superstar’: non quelli degli Stati dell’Unione, che poi diventano presidenti degli Stati Uniti; ma quelli delle banche centrali della Vecchia Europa. La crisi e le manovre anti-crisi proiettano sotto gli spot dell’attualita’ Mario Draghi, BankItalia, e Jean-Claude Trichet, Banca centrale europea. Il discorso di Draghi all’assemblea di lunedi’ conquista l’attenzione e il plauso del Financial Times (“Una spinta per le riforme”) e di Les Echos (“I piani d’austerita’ preoccupano il governatore”, che punta, invece, sullo sviluppo). I dispacci d’agenzia, specie Afp e Bloomberg, sono su diversi siti europei ed americani. Le Monde, invece, intervista Trichet, che difende l’euro (“una moneta molto credibile”, anche se solo il tempo le dara’ solidita’) e getta il cuore da banchiere oltre l’ostacolo delle timidezze politici: “Abbiamo bisogno di una federazione budgetaria”. L'intervista è ampiamente ripresa da El Pais e, via Ap, da vari siti Usa. Le Figaro accomuna nell’analisi, e nell’elogio, il ‘gotha’ dei governatori: “I guardiani dell'euro vogliono fare dimenticare le loro divisioni: Trichet, Draghi e Weber –Bundesbank, ndr- in prima linea in difesa della moneta unica”. E tutti e tre candidati alla guida della Bce al prossimo mandato: oggi alleati, domani rivali.

martedì 1 giugno 2010

MO: strage filo-palestinesi, Israele ha paura della pace

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/06/2010

Chi ha paura della pace in Medio Oriente? Nel mondo islamico, ci sono Paesi, forze, leader che non vogliono la pace. Ma Israele mostra d’avere paura della pace, come se solo lo scontro e l’isolamento gli diano la certezza e la coscienza della propria forza e della propria identità e gli consentano d’apprezzare gli amici. Come testimoniò Yitzhak Rabin, ci vuole molto più coraggio a fare la pace che a fare la guerra. E questo governo israeliano con un premier riciclato, Benjamin Netnyahu, ostaggio dei suoi alleati religiosi e di destra, il coraggio della pace non ce l’ha: litiga con i suoi migliori alleati, gli Stati Uniti in Occidente e la Turchia nell’Islam; ricorre a una forza immotivata ed eccessiva; fa l’unanimità della condanne, prigioniero della logica di una violenza preventiva che innesca altre violenze. C’è l’impressione che Netanyahu e i suoi vogliano tastare il terreno, misurare fin dove possono spingersi, magari irritati –o spaventati?- perché il mondo non prende sul serio come loro la minaccia iraniana.

La gravità di quanto ieri accaduto al largo di Israele, in acque internazionali, prescinde dall’entità della strage, che i morti siano una decina, come ammettono fonti ufficiali israeliane, o il doppio, come dicono media indipendenti e fonti palestinesi. Altre volte in passato Israele aveva impedito a pacifisti e filo-palestinesi di portare a termine le loro ‘spedizioni umanitarie”, con la forza magari, ma sempre senza fare vittime.

Il massacro sporca di sangue le prospettive di pace, dopo che gli sforzi di mediazione statunitensi, contrastati proprio dal governo Netanyahu, avevano finalmente innescato una ripresa dei negoziati, sia pure indiretti, fra israeliani e palestinesi. Adesso, la Lega araba dice che “proseguire sulla strada dei negoziati di pace è inutile, perché Israele non è pronto alla pace”. A un anno dall’apertura di Barack Obama al Mondo arabo, il 4 giugno 2009, il quadro mediorientale è più oscuro che mai e c’è lo spettro di una nuova Intifada.

La denuncia dell’azione israeliana violenta e deliberata è unanime. Il segretario generale dell’Onu Ban Ky-moon condanna la strage e se ne dice “sconvolto”. Il presidente Usa chiede di conoscere “tutti i fatti il prima possibile” e, intanto, pospone un incontro con Netanyahu, che è in Canada; la Santa Sede esprime “grande dolore”; l’Ue denuncia “la violazione del diritto internazionale”; e il ministro degli esteri Franco Frattini si attende “spiegazioni” da Israele per un atto “inaccettabile”.

Qua e là, affiora, nei commenti, l’ansia di non apparire anti-israeliani. Ma dire le cose come stanno a Israele e agli israeliani, dirle come le vediamo davvero, è il modo migliore di esserne amici.

Ma il calcolo di Israele trova riscontri nell’analisi fatalista di esperti arabi, secondo cui i regimi musulmani, immobili perché ogni scossone potrebbe essere loro fatale, cavalcheranno le piazze mediatiche senza però cambiare nulla nella sostanza delle loro politiche. Israele ha deliberatamente impiegato una forza sproporzionata alla situazione, per scoraggiare il ripetersi di tentativi del genere, ma anche per testare gli interlocutori: nell’immediato, Israele deve fare i conti con un vero e proprio disastro diplomatico e mediatico, ma a in breve tutto potrebbe tornare comeprima. Abdel Bari Atwan, direttore del quotidiano in arabo al Quds al Arabi, edito a Londra, constata: "Oggi, che è il giorno del disastro, accendiamo le tv nel mondo arabo e vediamo solo soap opera e programmi di varietà. Arabi, vergognatevi!”.