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giovedì 31 marzo 2011

Libia: Nato al comando, armi ai ribelli, Mussa Kussa a Londra

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/03/2011

La Nato prende il comando e il ministro degli esteri libico Mussa Kussa defeziona a Londra. L’Alleanza atlantica ha cominciato da ieri ad assicurare il comando delle operazioni militari, aeree e marittime, per la Libia. Il passaggio delle consegne dalla Coalizione dei Volenterosi alla Nato sarà completo all’alba di oggi: dopo, il generale canadese Charles Bouchard farà una conferenza stampa a Napoli.

Ma gli attacchi aerei non hanno impedito agli insorti libici di subire una serie di battute d’arresto nell’avanzata verso Ovest e verso Tripoli: le forze del colonnello dittatore Muammar Gheddafi hanno ripreso il sito petrolifero di Ras Lanuf e si sono avvicinate a Brega. Sul terreno, si ripete lo scenario di fine febbraio, quasi che raid aerei e missili della comunità internazionale siano una variabile insignificante: le linee dei ribelli si allungano e le difficoltà logistiche si fanno insuperabili, così che, quando la vittoria appare prossima, incomincia, in realtà, l’arretramento.

Più che raid dal cielo, ai combattenti anti-Gheddafi servirebbero linee di rifornimento terrestri e, soprattutto, armamenti. Ma proprio la questione delle forniture agli insorti divide lo stesso Gruppo di Contatto formatosi martedì a Londra. Il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen dice che “il peggiore scenario è che la Libia diventi uno Stato in deliquescenza”, tipo la Somalia, perché ciò rischierebbe di alimentare “l’estremismo ed il terrorismo”. Ma Rasmussen aggiunge che la Nato vuole proteggere la popolazione civile, non armarla. Secondo fonti di stampa anglosassoni, gli Stati Uniti avrebbero escogitato un espediente non inedito per aggirare l’ostacolo: chiedere all’Arabia Saudita, la cui famiglia reale ha una spiccata avversione per il Colonnello Gheddafi, di fornire armi e munizioni agli insorti libici.

Mentre il comando delle operazioni passava dalla coalizione alla Nato in modo graduale, il ministro degli esteri francese Alain Juppé annunciava -buon profeta-“prime defezioni” fra i fedelissimi del dittatore libico. E la Gran Bretagna decideva d’espellere cinque diplomatici che avrebbero costituito “una minaccia” per la sicurezza nazionale. Il presidente Usa Barack Obama, invece, è impegnato sul fronte interno: invece che a Bengasi, invia emissari sul Campidoglio di Washington, al Congresso, per spiegare a senatori e deputati le sue scelte. Sulla fornitura d’armi ai ribelli, Obama non esclude nessuna ipotesi, mentre la Farnesina parla di “una misura estrema” e la Russia la boccia: Gheddafi, sostiene Obama, ha “i giorni contati” e il cappio intorno a lui “si sta stringendo”.

Il dittatore, al potere da 42 anni, non compare in pubblico da giorni: un atto di prudenza, per evitare di essere oggetto di attacchi; e forse il segno di qualche contatto segreto avviato. Al Colonnello, gli insorti e la comunità internazionale, ormai unanime su questo punto, chiedono di lasciare il potere. Lui rifiuta e accusa gli insorti di essere un’emanazione della rete terroristica al Qaida.

Ma, ormai alle strette, il dittatore e la sua famiglia potrebbero anche valutare le ipotesi di esilio loro prospettate, così da evitare un bagno di sangue peggiore e accelerare la transizione. Sul Paese che potrebbe accoglierli, le ipotesi si intrecciano. Lo Zimbabwe o il Sudan o il Ciad o l’Uganda, Stati africani in qualche misura ‘debitori’ al regime libico. Con il presidente sudanese Omar al-Bashir, Gheddafi potrebbe condividere lo status di ricercato dalla Corte penale internazionale: al Bashir è colpito da un mandato di cattura per i crimini di guerra nel Darfur, Gheddafi è sotto inchiesta per crimini contro l’umanità. Ma c’è pure chi pensa alla Bielorussia o al Venezuela o al Nicaragua.

Difficile dire se sono piste concrete. Alla Bbc, il ministro degli esteri Frattini esclude che Gheddafi possa venire in esilio in Italia: “non vogliamo avere qui un dittatore” e “nessuno può garantirgli l’impunità”. Quanto al dispiacere per il Colonnello espresso dal premier Berlusconi , è stato –dice- un moto “di pietà umana”. L’Italia non si candida a mediare: meglio l’Onu, o l’Unione africana.

mercoledì 30 marzo 2011

Libia: un Gruppo di Contatto per pilotare il 'dopo Gheddafi'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/03/2011

Il Vertice di Londra sulla Libia partorisce il topolino di un ‘gruppo di contatto’ che dovrà pilotare politicamente gli sviluppi della crisi e tratteggiare il ‘dopo-Gheddafi’, mentre la Nato s’appresta, finalmente, ad assumere la guida delle operazioni militari, a partire dalle 0600 gmt di domani (le 7 del mattino in Italia).

Al Vertice, presenti una quarantina di Paesi e di organizzazioni internazionali, ma assenti la Russia e l’Unione africana, il segretario di Stato americano Hillary Clinton chiarisce che la missione andrà avanti fino a quando Gheddafi non avrà completamente soddisfatto le condizioni dell’Onu, ‘cessate-il-fuoco’ immediato e corridoi umanitari.

A margine della riunione, i rappresentanti degli insorti hanno incontri e intrecciano contatti: se e quando vinceranno, promettono elezioni e democrazia. Il ministro degli esteri francese Alain Juppé è pronto a discutere con loro di aiuti militari, anche se le risoluzioni dell’Onu non ne prevedono.

Washington e Parigi mandano emissari a Bengasi: vi aprono o vi stanno per aprire ambasciate. E c’è chi pensa di offrire al Colonnello una via d’uscita, magari un’ipotesi d’esilio: il ministro degli esteri britannico William Hague lo conferma indirettamente: “Noi non ci stiamo pensando, altri –e fra questi vi sarebbe l’Italia- lo stanno facendo”. Il responsabile degli esteri del Consiglio nazionale di transizione Mahmoud Jibril chiede, però, che i crimini commessi non restino “impuniti”.

L’ultimatum politico della comunità internazionale al regime libico arriva proprio nel giorno in cui, sul terreno, le truppe del dittatore fermano, nonostante i raid aerei, l’avanzata dei ribelli verso Est e verso Sirte e Tripoli. Gheddafi manda un messaggio dei suoi all’Occidente: “Siete come Hitler, state conducendo un’offensiva barbara, un’operazione di sterminio”. E chiede che la crisi libica sia gestita dall’Unione africana, che a Londra non ci va. Ma, se finora, o almeno fino all’intervento militare internazionale, il tempo giocava a suo favore, adesso il tempo che passa pare piuttosto scandire il conto alla rovescia del regime.

Anche se gli Stati Uniti, e non solo loro, hanno fretta: “Agire era nostro dovere –dice agli americani il presidente Barack Obama-, ma la Libia non sarà un nuovo Iraq”. E’ la stessa linea tenuta all’Onu dal presidente italiano Giorgio Napolitano: “L’intervento in Libia è legittimo: non potevamo certo stare a guardare, dovevamo sostenere chi lotta per i diritti e la democrazia”.

Il ministro degli esteri italiano Franco Frattini, dopo i giorni del confronto con Parigi e Londra, spiega che l’Italia cerca una soluzione condivisa, che ha come punto fermo il fatto che Gheddafi lasci la Libia e che potrebbe prevedere –sono ipotesi- l’esilio del dittatore, magari in un Paese dell’Africa, e il passaggio dei poteri alle tribù. Francia e Gran Bretagna propinano la loro linea: Gheddafi deve andarsene subito, gli insorti devono prendere il potere.

Anche se i Paesi arabi non hanno brillato a Londra per la loro presenza e per la loro intraprendenza, la prossima riunione del ‘gruppo di contatto’ –formula diplomatica che evoca le crisi dei Balcani degli Anni Novanta, con lo smembramento della ex Jugoslavia e le guerre di Bosnia e del Kosovo-si svolgerà in Qatar, unico Paese arabo, con gli Emirati, attivo nella coalizione militare. La speranza di tutti è che, di qui ad allora, Gheddafi sia uscito di scena e la ‘nuova Libia’ sia nata. Ma pochi ci credono davvero.

Libia: i bluff dell'Italia sui tavoli della politica internazionale

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/03/2011

Nel 1494, Carlo VIII di Francia aveva invaso l’Italia ed era entrato con il suo esercito a Firenze, che aveva cacciato i Medici e si era proclamata repubblica. Il re voleva imporre condizioni molto dure ai fiorentini, pena il saccheggio della città da parte dei suoi soldati al suono delle sue trombe. Allora, Pier Capponi, a capo della Repubblica, respinse le richieste e rispose al re: "Se voi suonerete le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane", che avrebbero chiamato alle armi il popolo e sollevato una rivolta contro l'invasore.

A Pier Capponi, andò bene: l'intimidazione, che poteva anche essere un bluff, ebbe successo e Carlo VIII, senza manco vedere, rinunciò alle sue pretese. Al ministro degli esteri Franco Frattini, invece, non è andata altrettanto bene: a Francia e Gran Bretagna, che avevano annunciato una loro iniziativa sulla Libia, ha risposto ipotizzando una mossa italo-tedesca. Ma, al momento di vedere le carte, l’Italia non aveva in mano neppure una scartina tedesca, mentre Sarkozy e Cameron facevano poker d’assi con Obama e –toh!- la Merkel.

Ora, sarà anche vero, come sostiene Frattini, che il pre-vertice telefonico a quattro di lunedì sera, prima del consulto di ieri a Londra, non era un esercizio d’esclusione dell’Italia. C’è stata tutta una lunga stagione diplomatica, ad esempio, in cui ogni Vertice Nato e ogni riunione ministeriale del Consiglio atlantico erano preceduti da una ‘cena delle potenze di Berlino’ (Usa, Gb, Francia e Germania), che aveva una sua logica –allora, c’era il Muro-, ma che spesso consentiva di mettere i puntini sulle i dei temi all’ordine del giorno; e, per venire ai giorni nostri, Obama da circa un anno ha inaugurato una video-conferenza mensile con Parigi, Londra e Berlino per fare il punto con i partner europei sulle questioni delicate.

Ma è pure vero che dai tempi delle ‘cene delle potenze di Berlino’ a quelli delle video-conferenze (sempre a quattro), l’Italia di Mr B non pare avere conquistato affidabilità internazionale: anzi, sta sperperando un capitale di credibilità costruito con il sacrificio dell’impegno militare dal Libano degli Anni Ottanta al Libano attuale, con scelte quasi tutte fatte nella legalità internazionale –dalla Guerra del Golfo del 1991, alla ex Jugoslavia, e ancora all’Afghanistan-, ma anche, almeno una volta, nel caso dell’invasione dell’Iraq nel 2003, in palese violazione di essa pur di compiacere l’alleato americano.

Gli insuccessi più recenti sono funzione della inaffidabilità percepita di Mr B e della sua équipe. Certo, nel caso della rivolta in Libia, l’Italia partiva con un handicap probabilmente impossibile da sormontare: troppo amica di Muammar Gheddafi, per essere considerata un’interlocutrice credibile dagli interpreti del ‘dopo Gheddafi’. Ma, proprio per questo, Roma doveva muoversi con prudenza, magari senza pretese di protagonismo, ma piuttosto con un’attenzione all’efficacia della sua azione, politica ed economica, militare ed umanitaria. La politica estera, anche la politica estera, richiede misura e professionalità: l’Italia ha una diplomazia di qualità che merita una guida politica migliore di quella offerta da Mr B e da quello che i cablo di Wikileaks definiscono “il fattorino”.

domenica 27 marzo 2011

Libia: ribelli di nuovo avanti; Obama, evitato bagno sangue

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/03/2011

I raid della coalizione su Tripoli e sulle truppe di Gheddafi hanno invertito, in otto giorni, l’oscillazione del pendolo libico: gli insorti riconquistano Ajdabiya, località strategica verso Bengasi, i lealisti si ritirano da Brega. La copertura aerea assicurata dagli alleati, pur passata sotto il comando della Nato e ormai affidata al generale canadese Charles Bouchard, continua ad andare ben al di là della lettera del mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu: così, grazie ad essa, i ribelli riprendono l’offensiva, dopo avere ripiegato per due settimane.

Guerra e politica, sangue e diplomazia continuano a intrecciarsi. Il Colonnello dittatore si dice pronto ad attuare la via al dialogo prospettata dall’Unione africana, un’organizzazione debole e, in genere, incapace di realizzare i propri progetti. Francia e Gran Bretagna mettono a punto la loro proposta, in vista della riunione del gruppo di contatto, martedì, a Londra, e cercano di coinvolgervi la Germania, rimasta fuori dalla coalizione.

Criticato in patria dai falchi e dalle colombe, il presidente statunitense Barack Obama dice, nel discorso del sabato alla radio, che la missione alleata è stata un successo: ha evitato –spiega- un bagno di sangue, un massacro di civili e una catastrofe umanitaria. Una settimana di azioni hanno consentito agli insorti di riguadagnare terreno, o almeno di non perderne più, fermando di fatto l’avanzata verso Est dei lealisti, annientandone la difesa anti-aerea e l’artiglieria pesante, inchiodandone al suolo gli aerei militari ancora in grado di alzarsi (pena, com’è avvenuto, l’essere abbattuti).

Ma il quadro diplomatico è complicato le diplomazie europee sono divise. Obama è al bivio: da una parte, ha fretta di tirarsi fuori da un conflitto che non è americano; dall’altra, è probabilmente consapevole che, affidata alla Nato e agli europei, la crisi rischia di protrarsi. Secondo il Washington Post, gli Usa stanno già studiando come fare arrivare armi agli insorti: se l’obiettivo, non dichiarato dall’Onu, è indurre Gheddafi ad andarsene, o costringerlo a farlo, le azione aereee attuali, seppure invasive, possono non essere sufficienti.

Più che a Tripoli, che, nello scacchiere mediorientale ha un peso relativo, gli Stati Uniti guardano, in queste ore, a Damasco: la protesta contro Assad infiamma la Siria e la reazione del regime insanguina il Paese, quello sì cruciale, come lo era l’Egitto, nei fragili equilibri della pace tra arabi e israeliani. Il segretario alla difesa americano Robert Gates ha già chiesto ai militari siriani di tenersi da parti, mentre, in Egitto, aveva sollecitato il coinvolgimento dell’esercito ‘amico’ egiziano. E il domino non accenna ad arrestarsi: ha investito lo Yemen, alleato pur infido nella guerra al terrorismo, e sfiora la Giordania, il più ‘americano’ degli Stati mediorientali.

Mentre cambia la geografia politica della Riva Sud del Mediterraneo, l’Italia si guarda l’ombelico e si preoccupa soprattutto dell’arrivo d’immigrati dal Nord Africa. I ministri Frattini e Maroni prevedono di ‘indennizzare’ con 1500 euro chi accetta d’essere rimpatriato. Ma Umberto Bossi non ci sta: “Ogni bomba che cade là, la gente scappa e viene qui", dice. Ma pagare gli immigrati per farli tornare indietro, “io non lo farei”.

Parlano tutti, tace solo il premier Berlusconi. Imbarazzato? Macchè. Frattini spiega che non ha nulla da dire perché le cose vanno per il verso giusto con il comando Nato. E, con la Francia, è magnanimo: "Non siamo adirati. Parigi voleva soluzioni che non condividevamo. Ha prevalso la nostra ipotesi".

sabato 26 marzo 2011

Libia: Nato al comando, Francia da bombe a negoziato

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/03/2011

A conti fatti, la coalizione dei volenterosi non sarà durata più di dieci giorni. Di qui a lunedì, l’Alleanza atlantica assumerà il comando delle operazioni militari in Libia, almeno per ‘no-fly zone’ ed embargo sul trasporto di armi. Ma l’iniziativa politica per cacciare il dittatore libico Muammar Gheddafi resta nelle mani della coalizione che –presenti anche alcuni Paesi arabi-si riunirà martedì a Londra, a livello di ministri degli esteri.

E la Francia, che era contraria al comando Nato, rilancia: il presidente Nicolas Sarkozy annuncia che, d’intesa con la Gran Bretagna, Parigi prepara una “soluzione diplomatica”. L’Italia, che si sente esclusa, si picca. Mentre il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi esprime una laconica “soddisfazione” per l’intesa nell’Alleanza, il ministro degli esteri Franco Frattini fa sapere: “Abbiamo anche noi proposte e le faremo valere”.

Il match tra chi vuole agire per cacciare Gheddafi, o almeno per indurlo ad andarsene, magari distruggendo carri armati e aiutando militarmente i ribelli, e chi vuole usare la mano leggera si svolgerà, dunque, martedì a Londra. Intanto, le operazioni militari vanno avanti: tra giovedì e venerdì, il Pentagono conta 153 missioni aeree statunitensi; e proseguono i raid francesi contro postazioni delle forze di Gheddafi. Per la prima volta, anche aerei arabi, del Qatar, solcano i cieli libici, mentre 12 aerei degli Emirati arabi Uniti entreranno in azione a giorni. Giordania e Kuwait, invece, danno supporto logistico.

I consulti bruxellesi –un Vertice europeo sulla Libia, ma anche sul rafforzamento della governance economica nell’ area euro, e un Consiglio atlantico- producono mezze decisioni, mezze vittorie e mezze sconfitte. Il cancelliere tedesco Angela Merkel, che è fortemente condizionata dalle scadenze elettorali regionali in Germania, riceve un corso di consensi alla proposta di blocco dei ricavati delle vendite di gas e petrolio libici, ma si sente pure dire che, per farlo, ci vuole una decisione dell’Onu.

Sul terreno, pochi i punti certi su cui basare future decisioni politiche: Tripoli resta sotto il tiro degli alleati, Misurata resta assediata dai lealisti. Ma il regime e gli insorti combattono anche una guerra di disinformazione: Gheddafi denuncia le vittime civile dei bombardamenti –la Nato nega, ma non può garantire che i tiri non abbiano fatto “danni collaterali”-, i ribelli parlano di 8000 morti dall’inizio della rivolta, 40 giorni or sono.

I “danni collaterali” della guerra libica sono pure politici e sociali. In Canada, il governo conservatore del premier Stephen Harper cade proprio mentre sei suoi caccia-bombardieri F16 sono impegnati nei cieli della Libia –e un generale canadese guiderà le operazioni Nato-. E, sul fronte dell’immigrazione, i leader dei 27 s’impegnano a mostrare “solidarietà concreta” nei confronti dell’Italia: all’Onu, il segretario generale Ban Ky-moon calcola che i migranti sospinti dai sussulti nell’Africa del Nord possano essere 250 mila; 15 mila sono quelli giunti a Lampedusa dall’inizio dell’anno. In missione a Tunisi, Frattini e il ministro dell’interno Roberto Maroni ottengono impegni per frenare le partenze verso l’Italia, in cambio di mezzi, addestramento e fondi. A Bengasi, l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni riavvia le operazioni di evacuazione dei lavoratori stranieri che vogliono lasciare la Libia e tornare a casa: sono 367mila quelli già usciti dal Paese.

venerdì 25 marzo 2011

Libia: Nato trova accordo; Mr B e Vladi, tentazione mediazione

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/03/2011

A Washington, a Bruxelles, a Mosca la diplomazia internazionale continua a cercare, per ora senza esito, una via d’uscita alla crisi libica. Ieri, l’epicentro delle consultazioni è stata Bruxelles, dove capi di Stato e di governo dei 27 paesi Ue hanno avviato un vertice consacrato, sulla carta, alla governance economica, ma dominato nei fatti dalla guerra in Libia.

L’attesa si concentra sull’esito degli incontri bilaterali, con un faccia a faccia tra il presidente francese Nicolas Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel. E i confessionali a margine del vertice potrebbero anche aiutare a capire che cosa ha mandato in crisi, negli ultimi giorni, il Berluskozysmo, cioè la forte comunione d’amorosi sensi tra il premier italiano e il presidente francese, oggi divisi su tutto: Gheddafi, la Nato, persino Bulgari e Parmalat.

Intanto, il Consiglio atlantico ha proseguito le consultazioni per raggiungere un consenso su come e quando affidare all’Alleanza la guida delle operazioni militari. E al Palazzo di Vetro di New York il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è riunito a tarda sera (ora italiana). Emerge pure una tentazione di negoziato con Gheddafi, una via della mediazione: a suggerirle, è la Russia del premier Vladimir Putin, che è fuori dalla coalizione dei volenterosi e che nel Consiglio di sicurezza dell’Onu si è astenuta sulla risoluzione 1973.

L’idea di una mediazione solletica anche il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi che, in un’intervista al Corriere della Sera, prospetta una strategia in due mosse: primo, che il leader libico Muammar Gheddafi fermi la sua offensiva contro gli insorti cirenaici; secondo, l’avvio di un negoziato che consenta il superamento della crisi. Pare quasi che Silvio progetti un tavolo di amici, lui, Vladi e il Colonnello. E c’è già chi fa supposizioni su dove reperire un esilio sicuro per il leader libico.

Il ministro della difesa francese Gerard Longuet ripropone l’indispensabile parallelismo tra intervento militare e progetto politico “per costruire un futuro diverso del popolo libico”. Longuet aggiunge che la comunità internazionale non è “padrona della situazione” e che l’azione militare non ha una scadenza: “Vogliano incoraggiare l’emergere di un dialogo libico”.

Mentre la diplomazia fa lenti progressi, l’azione militare prosegue sul terreno, nei cieli, sul mare. L’esercito di Gheddafi denuncia “vittime civili” nei raid aerei della coalizione portati avanti soprattutto dalla Francia (un jet francese ha anche abbattuto un aereo libico, che violava la ‘no-fly zone’). I lealisti di Gheddafi tentano l’affondo su Misurata, nel cui porto tengono bloccati lavoratori stranieri in fuga dal paese, e l’Unicef sollecita un corridoio umanitario: anche i bambini –denuncia- sono vittime del conflitto.

Nel Parlamento italiano, che approva sia una risoluzione della maggioranza che un documento dell’opposizione parzialmente contraddittori, il ministro degli Esteri Franco Frattini avverte che “le divisioni indeboliscono la posizione dell’Italia” e insiste sul fatto che “non siamo lì a fare la guerra”. E anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, giudica “importante una convergenza in Parlamento” e ricorda che l’Italia si muove nell’ambito della Carta dell’Onu.

Le riunioni Ue e Nato di Bruxelles, ieri e oggi, avranno un seguito e, forse, un epilogo a Londra martedì, quando il segretario di Stato Usa Hillary Clinton incontrerà i colleghi europei. Gli Stati Uniti hanno fretta di alleggerire il loro ruolo in questa guerra e vedono di buon occhio un trasferimento della responsabilità militare all’Alleanza atlantica: il presidente Usa Barack Obama vuole stemperare le polemiche sul costo, soprattutto economico, per il momento, del coinvolgimento americano in questo conflitto (un miliardo di dollari la stima finora).

Il contrammiraglio Rinaldo Veri ha assunto la guida delle operazioni navali della Nato nel Mediterraneo per rendere effettivo l’embargo sulla vendita di armi e sul trasferimento di mercenari in Libia: nel suo quartier generale di Nisida, al largo di Napoli, Veri aspetta, però, che la sua flotta, per il momento forte di unità italiane, francesi, greche, turche, americane e canadesi, riceva da altri paesi rinforzi adeguati.

Ma i fronti libici non sono solo quelli dei raid aerei contro le difese lealiste, della no-fly zone e dell’embargo sulle armi. Continua la fuga dei disperati dalle coste del Nord Africa, in qualche modo ingigantita dagli eventi in Libia –c’è allarme per un barcone in difficoltà con 300 eritrei a bordo- e si intensifica il contagio dell’insurrezione alla Siria, dove si conterebbero ormai 25 morti a Daraa nella repressione delle proteste contro il regime. Secondo Amnesty International nelle ultime due settimane Damasco avrebbe fatto arrestare oltre cento oppositori.

LIbia: volenterosi meno litigiosi, Nato pronta a coordinare

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/03/2011

Cala la litigiosità nella coalizione dei volenterosi, che da sabato martella le difese libiche, ma non si chiariscono del tutto gli equivoci all’origine dell’azione contro il regime del colonnello dittatore Muammar Gheddafi. Dopo l’affondo del presidente statunitense Barack Obama sui leader francese Nicolas Sarkozy e britannico David Cameron e sugli altri alleati più riluttanti, la Nato è pronta a coordinare le operazioni: dopo il via libera venuto ieri da un consulto a Bruxelles, la prima riunione del gruppo di contatto è in programma martedì a Londra.

Questione di giorni, dunque, proprio come aveva detto Obama, non di settimane. Ma la Nato avrà un ruolo essenzialmente tecnico, di comando e coordinamento militare, senza assumersi la responsabilità politica delle azioni di forza lanciate dopo l’adozione, il 17 marzo, della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Su questo punto, almeno, Parigi continua a tenere duro: “La Nato avrà solo un ruolo tecnico”.

Insomma, l'Alleanza potrà decidere chi attacca cosa, ma non perché e con quale obiettivo. Resta, dunque, l’ambiguità di una coalizione senza testa e senza fine. Tutti d’accordo, in fondo, che il colonnello Gheddafi deve andarsene, ma non tutti pronti a dargli la spallata definitiva. Tanto più che, avendo lasciato passare il momento della massima debolezza del regime libico, oggi rovesciare i rapporti di forza sul terreno tra lealisti e insorti non è facile, specie se ci si deve limitare ad attuare una no-fly zone e a proteggere le popolazioni civili.

Infatti, le notizie dalla Libia, per quanto approssimative e solo parzialmente attendibili esse siano, danno Gheddafi all’offensiva: bombardamenti a Zenten, combattimenti a Misurata, tiri d’artiglieria a est di Bengasi, mentre il colonnello parla a una folla di fedelissimi dal suo bunker: “Americani ed europei sono i nuovi nazisti, le loro bombe ci fanno ridere, vinceremo noi ed io resto”.

Il domino della libertà nel Grande Medio Oriente contagia anche la Siria, dove l’attacco a una moschea a Daraa fa almeno sei vittime e il regime di Damasco copia quello di Tripoli: “Una banda di terroristi dietro la protesta, usano i bambini per coprirsi”. E a Gerusalemme torna l’incubo del terrorismo: una bomba esplode vicino a una fermata dei bus e fa decine di feriti. In tutta la regione, è un momento d’incertezza e di confusione: facile, per chi voglia pescare nel torbido e diluire speranze di pace già tenui, approfittare dell’occasione.

Per la guerra di Libia, la Nato segue strade diverse da quelle del Kosovo e dell’Afghanistan. Nel 1999, l’Alleanza condusse in modo diretto le operazioni militari per costringere la Serbia di Milosevic a fare un passo indietro nel Kosovo e il suo comandante in capo, il generale americano Wesley Clarck, guidò l’azione. Oggi, in Afghanistan, l’Alleanza è presente in prima linea, ma nel contesto dell’Isaf, cui partecipano pure paese che della Nato non fanno parte e il cui comandante ha un berretto solo americano.

La formula afghana appare la più consona all’intervento in Libia, perché la coalizione dei volenterosi è composta di alcuni paesi Nato, ma anche di paesi come il Qatar e gli Emirati, fuori dell’Alleanza. In Afghanistan, però, ci sono voluti anni per definire lo schema attuale, mentre, questa volta, diplomatici e militari hanno avuto poche settimane, in un contesto di grande volatilità.

Con la Nato pronta ad assumersi responsabilità militari, l’Italia potrà farsi sentire perché, nell’Alleanza, ha posizioni di rilievo: il presidente del Comitato militare è l’ammiraglio Paolo De Palma, un ex capo di Stato Maggiore della Difesa, e il vicesegretario generale è l’ambasciatore Claudio Bisogniero, un diplomatico esperto, figlio a sua volta di un ex capo di Stato Maggiore, il generale Riccardo Bisogniero.

L’Italia giudica irrinunciabile una catena di comando unica nella coalizione. Ma fatica a trovare una posizione unitaria nella propria maggioranza, come dimostra l’intreccio di negoziati nell’imminenza del dibattito di ieri al Senato per definire una mozione comune Pdl-Lega.

Ma per il governo Berlusconi l’accento non è già più sulle operazioni nei cieli di Libia, dove tanto – dice il premier – “non spareremo un colpo”, ma sull’emergenza nel mare di Lampedusa, dove la marina militare, con la San Marco, provvede al trasferimento di centinaia di disperati giunti nelle ultime settimane.

mercoledì 23 marzo 2011

Libia: pasticciaccio bellico, voglia di litigio fra i volenterosi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/03/2011

Nella coalizione dei volenterosi, la voglia di litigare non manca di sicuro: si continua a discutere della leadership delle operazioni in Libia che l’Italia vuole sia della Nato, mentre la Francia non ci sta; e anche, e forse soprattutto, dell’obiettivo delle stesse. Intanto, le missioni belliche sono affidate soprattutto ai mezzi americani, nonostante la dichiarata volontà degli Stati Uniti di disimpegnarsi il più presto possibile e lasciare gli alleati europei a sbrogliarsela nel Mare Loro, il Mediterraneo. La cronaca segnala pure le prime perdite della coalizione improvvisata: solo mezzi, per fortuna, non uomini. Un caccia F15 Usa precipita –guasto, non abbattimento, indicano le fonti militari-, ma i due piloti si salvano eiettandosi e vengono raccolti dagli insorti.

Dopo una pausa, gli attacchi dei volenterosi, che con le tenebre sfruttano a pieno la superiorità tecnologica, sono ripresi la scorsa notte, contro radar e basi aeree. Ma, sul terreno, le forze di Gheddafi sono all’offensiva a Zenten e a Misurata, dove obici dei lealisti fanno 40 vittime, fra cui dei bambini. Il ‘cessate-il-fuoco’ proclamato dal colonnello Gheddafi non è rispettato, nonostante gli auspici delle Nazioni Unite e della Lega araba.

All’interno della coalizione, le riunioni sono più concitate che le missioni militari: la Nato tiene consulto a Bruxelles (e la Turchia frena l’impegno dell’Alleanza, anche di coordinamento); il presidente francese Nicolas Sarkozy recita da ‘mattatore’; il segretario alla difesa americano Robert Gates conclude una visita a Mosca; la Lega araba si avviluppa nelle sue contraddizioni (sì alla ‘no fly zone’, ma no all’uso della forza per attuarla: e, allora, come farla rispettare?). Mentre il domino della libertà tiene sempre sul chi vive tutto il Grande Medio Oriente: nello Yemen, si profila, come in Libia, un rischio di guerra civile, con scontri, vittime e defezioni ‘anti-regime’ anche nell’amministrazione e nella diplomazia.

Quella dell’Onu in Libia sembra proprio la prima guerra del ‘dopo Bush’, quando l’illegalità internazionale non era un ostacolo a scatenare un conflitto, anzi un’invasione (quella dell’Iraq), perché gli obiettivi erano chiaramente dichiarati –e poco importava che fossero assurdi e, comunque, mai centrati: eliminare armi di distruzione di massa che non c’erano; esportare la democrazia con le torrette dei carrarmati; distruggere al Qaida e fare fuori Osama bin Laden, che dieci anni dopo sono ancora vivi e vegeti. Adesso, la guerra si fa nella legalità internazionale, ma senza alcun obiettivo netto: proteggere i civili?, aiutare gli insorti?, cacciare Gheddafi?

Le crepe tattiche e strategiche nella coalizione sono in primo piano su tutta la stampa internazionale, che segnala “le reticenze” dell’Italia a un impegno militare effettivo ‘anti-Gheddafi’. “Il comando Nato è la soluzione più appropriata”, dice pure il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ancora prima che arrivino da Bruxelles segnali positivi in tal senso. E il ministro degli esteri Franco Frattini riformula l’equivoco italiano: “Non è missione di guerra”, dice, richiamando i paletti dell’Onu all’uso della forza e invocandone il rispetto “scrupoloso”. Il governo insiste sul comando unificato Nato –altrimenti, “metteremo condizioni rigorose per l’uso delle nostre basi”- e sull’immigrazione come problema Ue.

Una spinta, forse decisiva, in senso Nato sarebbe venuta in queste ore da Washington: il presidente Usa Barack Obama, preoccupato dello sfaldamento della coalizione, avrebbe chiesto alla Francia, ostile, e alla Gran Bretagna, possibilista, che l’Alleanza assuma il comando, e non solo il coordinamento, delle operazioni, così da meglio garantirne l’efficacia. Dalle consultazioni di Bruxelles, emergono indicazioni di un ammorbidimento delle resistenze della Francia e dell’opposizione alla Turchia: si cerca una formula che consenta alla Nato di gestire le operazioni senza, però, coinvolgervi i Paesi dell’Alleanza che non partecipano alla coalizione. Ma l’intesa non c’è ancora e diplomatici e militari temono ne venga fuori “un pastrocchio”.

Su due punti, però, la Nato si muove tutta insieme, lasciando, per il momento, in sospeso la questione del comando delle operazioni: decide di entrare in azione per rendere effettivo l’embargo sulle armi alla Libia e stila piani per garantire il rispetto della ‘no fly zone’. Navi ed aerei dell’Alleanza atlantica controlleranno, seguiranno e, se necessario, intercetteranno navi sospettate di trasportare armi o mercenari verso le coste tripolitane. In un comunicato, la Nato afferma di volere “dare il suo contributo all’ampio sforzo internazionale per proteggere la gente di Libia della violenza del regime di Gheddafi”.

Parole che mascherano i dissensi. Del resto, le contraddizioni sono spesso interne a ogni Paese. Basta scorrere una nota della Farnesina per spiegare la posizione italiana: “L’Italia partecipa a pieno titolo alla coalizione dei volenterosi, con sette basi e con otto aerei, e ha notificato il proprio ruolo attivo alle Nazioni Unite e alla Lega araba”, ma –precisa- non ha fn qui sparato un colpo e non lo farà. L'obiettivo e' “la protezione dei civili”, ma “e' chiaro e inderogabile che Gheddafi se ne deve andare, che non puo' essere più un interlocutore politico, come stabilito dal Consiglio europeo”. Un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma piano, per carità: forza, sì, ma poca; niente, se possibile. E, comunque, non nostra.

martedì 22 marzo 2011

Libia: 48 ore di guerra, e la coalizione mostra le crepe

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/03/2011

Quarantott'ore di guerra guerreggiata nei cieli della Libia, raid aerei e gragnole di missili contro postazioni radar e antiaeree e mezzi al suolo, sperando che siano militari, ringalluzziscono un po’ gli insorti anti-Gheddafi, ma non sembrano scalfire la posizione di forza sul terreno del regime. Bastano, invece, a creare crepe nella coalizione dei volenterosi, che tanto volenterosi di combattere (e, magari, di morire per Tripoli) proprio non sono.

La Lega araba, che, con la richiesta di ‘no fly zone’ aprì la porta alla risoluzione dell’Onu che autorizza l’uso della forza per proteggere la popolazione civile, è la prima a tirarsi indietro: la coalizione ci mette troppa foga –dice-, così non va. E gli americani fanno sapere che intendono ridurre presto la loro partecipazione alle operazioni militari. Al presidente Barack Obama, l’opposizione repubblicana non lesina le critiche, in barba al consenso bipartisan in politica estera: lui ripete che il leader libico Muammar Gheddafi deve andarsene, dopo che il segretario alla difesa Robert Gates aveva definito un errore “porsi l’obiettivo d’eliminare” il colonnello dittatore: Gates è a Mosca, dove il clima è ostile ai raid: la Russia si offre di mediare, nonostante le tensioni palpabili fra il presidente Dmitri Medvedev e il premier Vladimir Putin.

Dopo la notte di fuoco tra sabato e domenica, la guerra s’è già ridotta a missioni di ricognizione, come quelle effettuate dai Tornado italiani, e di pattugliamento. Il premier Silvio Berlusconi è esplicito: “I nostri aerei non hanno sparato e non spareranno”. Contro Gheddafi, ma non troppo, insomma: in fondo, siamo stati tanto amici. Ma pure i bellicosi francesi dicono che, da sabato, loro non hanno più sparato un colpo.

Le beghe interne alla coalizione, e soprattutto allo schieramento europeo, si palesano a Bruxelles, dove i ministri degli esteri dei 27 rafforzano le sanzioni contro il regime di Gheddafi, preparano misure energetiche sono pronti a fornire aiuti umanitari alle popolazioni libiche. Quelli fuori dalla coalizione, come il premier bulgaro Boiko Borissov, denunciano un’ “avventura” militare motivata da interessi petroliferi. Ma dissensi ci sono anche fra i Paesi Ue nella coalizione, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Danimarca, Spagna e Grecia. E la Norvegia mette già fine al suo coinvolgimento.

Due i problemi. Uno, il ruolo della Nato, che l’Italia, ad esempio, vuole coinvolta e la Francia no, almeno per ora, per non irritare gli arabi, che, comunque, si sono già irritati (la Gran Bretagna, invece, è possibilista). Due, la quantità di forza da impiegare e l’obiettivo da perseguire: proteggere i civili e basta?, fare in modo che lo statu quo sul terreno non venga alterato?, o liquidare il regime di Gheddafi e favorire la nascita di una ‘nuova Libia’, che nessuno sa bene che cosa sarebbe e di chi sarebbe? Il britannico William Hague pensa che Gheddafi possa essere un obiettivo degli attacchi, ma la risoluzione dell’Onu non lo prevede, riconosce il francese Alain Juppé.

La Francia sostiene che le operazioni militari avvengono nel rispetto delle indicazioni dell’Onu, nega di avere fatto vittime civili e dice che i combattimenti sul terreno sono già diminuiti. Ma il ministro degli esteri italiano Franco Frattini avverte che, se il comando delle operazioni non passerà alla Nato, l’Italia potrebbe ritirare la disponibilità delle proprie basi. E il ministro della difesa Ignazio La Russa spiega in modo quasi utilitaristico la presenza dell’Italia nella coalizione: starci, dice, ci protegge dalle ritorsioni (uno, invece, poteva pensare che starci ci espone alle ritorsioni).

In ogni Paese le posizioni sono variegate, nel governo e fra maggioranza e opposizione. E la somma delle incertezze e dei distinguo nazionali creano una cacofonia internazionale. Ne gode la Germania astenutasi all’Onu e rimasta fuori dalla coalizione: il ministro Guido Wasterwelle trova conforto alle sue riserve sull’operazione militare, “Sfortunatamente –dice diplomaticamente-, constatiamo che avevamo ragione d’essere inquieti”.

L’Italia soffre il dissenso della Lega nella maggioranza. I leghisti sembrano solo preoccupati dell’impatto emigrazione della crisi libica e il ministro dell’interno Roberto Maroni agita di continuo il drappo rosso delle infiltrazioni terroristiche, fra i 15 mila disperati arrivati a Lampedusa da quando il domino della libertà è partito nel Nord Africa.

Ma c’è pure l’eterno rovello, tipicamente italiano, della guerra che non è guerra (vi ricordate che siamo in Afghanistan a combattere “una missione di pace”?). Il tormentone, oggettivamente giustificato dalle ambiguità della risoluzione dell’Onu, lo rilancia il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che, in questa crisi, assume, nota la stampa internazionale, la vera leadership del Paese: dice che “questa non è una guerra” e che l’Italia “partecipa a scelte internazionali”. Stefano Silvestri, presidente dello IAI, conferma che “l’uso della forza va esercitato entro i limiti stabiliti” dalla risoluzione approvata giovedì scorso: arbitro del rispetto o meno dei parametri è lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Comunque vada, una cosa è certa: da questa crisi, l’Italia uscirà perdente: Gheddafi ci considera traditori; e per la nuova Libia saremo stati troppi amici del Colonnello e inizialmente troppo reticenti a contribuire a rovesciarlo perché ci possano ancora toccare rapporti privilegiati, destinati invece a Londra e a Parigi.

lunedì 21 marzo 2011

Libia: dopo la guerra civile, la guerra nei cieli e dal mare

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/03/2011

Per un mese, è stata una guerra civile, sanguinosa, brutale, altalenante. Ora, è una guerra aperta, dove una ‘coalizione di volenterosi’ –Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, altri Paesi occidentali, ma anche Stati arabi ed africani- presidia i cieli della Libia e scende in campo contro il regime dispotico del colonnello libico Muammar Gheddafi, a protezione delle popolazioni civili di Bengasi e della Cirenaica in rivolta.

Non sarà un’esibizione di forza indolore, una passeggiata militare. Il contesto interno è complicato: difficile distinguere sul terreno ‘buoni’ e ‘cattivi’; e i raid aerei, per quanto accurati possano essere, hanno sempre una componente d’aleatorietà e d’imprecisione. E, inoltre, il regime, che appariva agonizzante a fine febbraio, s’è rinfrancato e rinsaldato: adesso, è in posizione di forza; e minaccia ritorsioni contro i ‘volenterosi’. Parole pesanti, quando vengono da chi ordinò la strage di Lockerbie.

Il consulto a Parigi s’era da poco concluso, quando la coalizione internazionale ha lanciato, ieri pomeriggio, l’operazione militare: il primo a sparare è stato un aereo francese, che, alle 17.45 ora italiana, ha colpito un veicolo militare delle forze del regime in una località non precisata. E, in serata, è partito ‘Odissea all’alba’, l’intervento americano, con tiri di missili Cruise dalle unità nel Mediterraneo sulla Libia.

Azioni certo non determinanti, ma un modo per convincere Gheddafi e al suo clan che la determinazione degli alleati non è un bluff, dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha autorizzato, giovedì notte, il ricorso alla forza per proteggere la popolazione civile. E, nel contempo, un modo per fare capire al Colonnello e ai suoi che non basta un ‘cessate-il-fuoco’ dichiarato, ma non rispettato, a soddisfare la coalizione; e un gesto che ridà speranza agli insorti, pur in un contesto d’incertezza su chi essi siano e anche sulle notizie che da essi trapelano.

Dopo settimane di esitazioni, sul ricorso alle sanzioni, l’ostracismo a Gheddafi, l’attuazione di una ‘no fly zone’ sul territorio libico, per impedire al regime di bombardare la gente che –armi in pugno- chiede libertà dal tiranno, tutto è precipitato nel giro di 48 ore: il voto dell’Onu, un consulto alla Nato (che, come Alleanza, resta fuori dal quadro), la riunione di Parigi, il via alle azioni. Però, il regime, intanto, s’è ripreso quasi tutto il Paese: disarcionarlo, ora, non sarà semplice. E, infatti, si progetta di ‘stabilizzare’ la situazione e di ridare poi fiato alla diplomazia.

Una ventina d’aerei francesi Rafale e Mirage hanno sorvolato il territorio libico, dopo che le truppe di Gheddafi, all’alba, avevano apparentemente bombardato Bengasi, che resta il bastione più saldo dell’opposizione. L’annuncio dei raid è stato salutato con scene di gioia ad Al-Marj, un centinaio di chilometri a nord-est di Bengasi, dove si trovano gruppi di civili fuggiti dal capoluogo della Cirenaica. Scene di gioia vi sono state anche altrove, ovunque sventola ancora la bandiera della rivolta, quella della monarchia senussa rovesciata dal colpo di stato che portò al potere il Colonnello.

Per la Francia, che torna a giocare un ruolo da potenza, e che tenta di riscattare le magre figure degli ultimi mesi, è l’ora dello sfoggio della forza. La portaerei a propulsione nucleare Charles de Gaulle s’appresta a lasciare la base di Tolone, sul Mediterraneo, per incrociare al largo della Libia, mentre gli aerei francesi e alleati hanno la missione di impedire attacchi aerei dell’aviazione libica contro Bengasi e le altre città insorte e anche di neutralizzare blindati o pezzi d’artiglieria al suolo che costituiscano una minaccia per la popolazione civile.

Sul terreno, dove la guerra civile ha finora fatto un numero di vittime imprecisato, certamente centinaia, forse oltre mille, la situazione resta difficile da descrivere con precisione. Il regime e i ribelli s’accusano a vicenda di violazione del ‘cessate-il-fuoco’: ci sono stati combattimenti alla periferia di Bengasi e i ribelli avrebbero abbattuto un aereo militare libico. Testimoni hanno riferito che, almeno fino al pomeriggio, le forze di Gheddafi hanno continuato a sparare con l’artiglieria pesante su quartieri residenziali ai bordi della città, a ovest; e alcuni obici sarebbero pure caduti sul centro. “E’ un massacro”, hanno riferito le fonti, le cui affermazioni non trovano però finora conferma. Temendo il peggio, migliaia di persone, intere gruppi familiari, hanno lasciato la città sotto attacco, in direzione nord-est.

Nell’Ovest del Paese, invece, le truppe di Gheddafi avanzano con i carri verso Zenten, meno di 150 km a sud-ovest di Tripoli, bombardando con l’artiglieria la periferia della città ribelle. A Misurata, 200 km a Est di Tripoli, gli insorti sostengono di avere respinto, a prezzo di 27 perdite, un’offensiva governativa. Testimoni riferiscono che ieri la città appariva calma.

A Tripoli, come al solito, centinaia di persone si sono radunate, in segno di sostegno, davanti al quartier generale del colonnello dittatore, “in attesa dell’attacco francese”, secondo quanto ha riferito la televisione pubblica. Le autorità hanno condotto una cinquantina di giornalisti stranieri, che c’è il timore possano essere trattati come scudi umani, ad assistere alla manifestazione. Oggi, è attesa nella capitale della Libia una delegazione dell’Unione africana, nel tentativo, fragile, di trovare “una soluzione africana” alla crisi.

sabato 19 marzo 2011

Libia: venti di guerra, ultimatum a Gheddafi, vattene o ti cacciamo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/03/2011

Venti di guerra ‘alla Kosovo’ sulla Libia. E l’Italia, che della Libia di Gheddafi era l’amica più intima, si scopre il Paese più esposto alle ritorsioni del Colonnello: un Paese sulla linea del fronte, quello che gli aerei libici possono raggiungere più facilmente. Con l’autorizzazione del Parlamento, il governo di Roma intende “aderire alla coalizione dei volenterosi”, una quindicina di Paesi finora pronti a fare rispettare la risoluzione 1973 approvata la scorsa notte dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu: l’Italia non mette a disposizione solo le sue basi , ma anche i suoi mezzi, aerei e navali.

E’ l’ennesima ‘capriola’ di questa crisi: eravamo partiti evitando di telefonare a Gheddafi “per non disturbarlo in un momento difficile”; poi, abbiamo fatto resistenza alle sanzioni internazionali, prima di aderirvi; abbiamo detto no all’azione militare, poi abbiamo parlato di mettere a disposizione delle basi, ora siamo per una partecipazione attiva.

Dicono bene i presidenti. Quello italiano, Giorgio Napolitano: “Nelle prossime ore, ci attendono decisioni difficili. Ma non possiamo rimanere indifferenti alla repressione delle libertà fondamentali” di un intero popolo, “non possiamo abbandonare la speranza di un risorgimento arabo”. E quello americano, Barak Obama, che chiede a Gheddafi “immediatamente” la tregua, la fine dell’assedio alle città della Cirenaica, l’apertura di corridoi umanitari. “Se questo non verrà fatto –dice Obama, con i toni dell’ultimatum- non ci sarà trattativa: useremo la forza per proteggere i civili e riportare la pace” in Libia.

Dicono bene, i presidenti. Ma dicono forse tardi. La comunità internazionale, che a fine febbraio, quando Gheddafi era sulla difensiva e la sua permanenza al potere pareva appesa a un filo, non ebbe la determinazione di dargli la spallata finale, che nessuno, a cose fatte, avrebbe contestato, anche perché “è lecito uccidere il tiranno”, si muove ora, quando è molto tardi e, quando, in ogni caso, le difficoltà dell’operazione sono maggiori, il costo sarà più elevato. Il Colonnello stava perdendo: gli abbiamo lasciato il tempo di riprendersi e lo abbiamo lasciato arrivare a un passo dalla vittoria. Ora, rovesciarne il regime è molto più complicato.

Il D-Day di questa crisi è sempre il giorno dopo: il sì del Consiglio di Sicurezza all’impiego della forza per proteggere i civili, con l’esclusione, però, d’azioni sul territorio libico, sembrava preludere ad azioni immediate, almeno da parte di Gran Bretagna e Francia, che, a parole, paiono tornate ai tempi della crisi di Suez dell’autunno 1956.

Ma non è successo nulla, anche perché la fretta non è mai buona consigliera nelle opzioni militari. E, nell’impasse, Gheddafi gioca la carte del ‘cessate-il-fuoco’: se in Libia non si combatte più, se lui smette di sparare sulla sua gente, manca l’ossigeno all’intervento internazionale, che già nasce azzoppato dall’astensione collettiva, all’Onu, dei Paesi del Bric (Russia e Cina, che però evitano il veto che avrebbe bloccato tutto, e Brasile e India), ma anche dalla divisione in seno all’Ue, con la Germania astenuta sulla mozione franco-britannica.

In un succedersi di evocazioni storiche più o meno felici, il Kosovo, Suez, torna pure la coalizione dei volenterosi, il nome dato ai Paesi che, al di fuori di ogni legalità internazionale, si unirono agli Stati Uniti di George W. Bush nell’attacco all’Iraq nel 2003. Ma le carte sono tutte rimescolate: dentro, stavolta, ci sono la Francia di Sarkozy e la Spagna di Zapatero, che da quella combriccola, invece, si tirò fuori, ed anche alcuni Paesi arabi, dopo che, a chiedere la ‘no fly zone’, cioè l’interdizione di volo sulla Libia, così da intercettare i caccia del rais in missione contro i ribelli, è stata proprio la Lega Araba.

La macchina da guerra anti-Gheddafi è in allestimento, se non proprio in movimento. Oggi, a Parigi, ci sarà un vertice internazionale, l’ennesimo, dopo quello europeo dell’11 marzo e l’incontro dei ministri degli esteri del G8 in settimana: una riunione convocata dalla Francia, che ha la presidenza di turno del G8 e del G20 e che si colloca alla testa della coalizione dei volenterosi.

L’incontro si svolgerà all’Eliseo, presente il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Gli Usa ci saranno, come ci sarà David Cameron, il premier britannico, che va a braccetto con il presidente francese in questa fase, e anche Angela Merkel, il cancelliere tedesco, nonostante l’astensione all’Onu. L’obiettivo è stringere un’alleanza fra gli occidentali ‘volenterosi’ e i Paesi arabi ed africani: la Lega araba sarà rappresentata dal segretario generale Amr Moussa, l’Unione africana dal suo presidente Jean Ping.

“Tutto è pronto” per un’azione militare in Libia, ripete il ministro degli esteri francese Alain Juppé. Ma bisogna valutare l’impatto pratico e politico del ‘cessate-il-fuoco’ decretato da Gheddafi. “Non ci lasceremo impressionare dalle parole del Colonnello”, dice il segretario di Stato Usa Hillary Clinton. “Vogliamo vedere come vanno le cose sul terreno”, aggiunge, prima di chiedere ancora una volta a Gheddafi di lasciare il potere. E un suo collaboratore esalta il ruolo che l’Italia può avere nel Nord Africa.

La Nato, intanto, accelera la pianificazione militare in vista di un’eventuale partecipazione a un intervento internazionale sulla Libia, proprio mentre Parigi dice di volerla tenere fuori dall’azione, non giudicandone il coinvolgimento dell’Alleanza in azioni contro un Paese arabo “un segnale positivo”.

domenica 13 marzo 2011

Libia: il giorno della svolta dalla guerra al negoziato

Sritto per il Fatto Quotidiano del 09/03/2011

Nella crisi libica, che giorno dopo giorno pare allontanarsi dall’epilogo e confondersi, la giornata di martedì segna, forse, il passaggio dalla fase della guerra guerreggiata, le cui azioni non appaiono comunque risolutive, quando non sono solo dimostrative, pur nella loro ottusa violenza, alla guerra della politica, della diplomazia, della trattativa. E il fatto che, a mettere in piazza il negoziato, sia pure per restringerne il possibile sbocco, sia l’opposizione al regime del colonnello Gheddafi potrebbe non essere un segnale di forza degli insorti.

E mentre in diverse zone della Libia continuano i combattimenti tra forze lealiste e rivoltosi e dietro le quinte si tratta, le questioni internazionali dell’azione militare, da intraprendere o meno sotto forma di ‘no fly zone’, e dell’estenzione dell’applicazione delle sanzioni, restano aperte, tra consulti bilaterali e all’Onu, mentre i 27 dell’Ue si preparano a una doppia giornata –giovedì i ministri degli esteri, venerdì i capi di Stato o di governo- di vertici libici.

Il capo del Consiglio nazionale provvisorio libico, l'ex ministro della giustizia Mustafa Abdel Jalil, ha detto alla tv satellitare al Jazira che se Muammar Gheddafi "lascera' il Paese entro 72 ore –cioè prima di venerdì, ndr- e porrà fine a bombardamenti, noi non lo perseguiremo" per i suoi crimini. Ma Jalil ha contestualmente escluso che "siano in corso trattative dirette con Gheddafi", che non avrebbe inviato emissari o membri della famiglia: avvocati di Tripoli si sarebbero offerti coòe intermediari, senza che sia chiaro se dispongano di un mandato ed eventualmente quale.

Jalil, il cui Consiglio intende preparare la transizione al ‘dopo Gheddafi’, ha detto di avere parlato ora perchè "è necessario arrivare ad una soluzione che eviti ulteriori spargimenti di sangue". Ma la televisione di Stato in mattinata aveva negato categoricamente qualsiasi approccio con i rivoltosi. E, dopo che il Consiglio ha rilanciato con la sua offerta, fonti governative hanno di nuovo smentito contatti con gli avversari, liquidando le notizie al riguardo come mera "spazzatura", "fandonie senza senso".

Sul terreno, si continua a combattere, anche se l’efficacia e la portata delle azioni appare limitata: gli inviati sul terreno riferiscono tasselli di un puzzle che non possono ancora, però, rendere il senso dell’intera immagine. Le forze fedeli al regime hanno sferrato l'ennesimo attacco contro Zawiyah: l’assedio di fatto alla localita' strategica ad appena 40 chilometri a sud-ovest della capitale Tripoli è stato inasprito, ma, per il momento i ribelli che la presidiano continuano a resistere. Il nodo petrolifero di Ras Lanuf, in mattinata, sarebbe stato bombardato almeno altre sei volte, senza che, però, ne risultino vittime.

Secondo Jalil, la trattative coinvolgerebbe non solo libici, ma anche non meglio precisati “mediatori internazionali” il cui obiettivo sarebbero le dimissioni di Gheddafi. La diplomazia internazionale, effettivamente, è all’opera, anche se, in queste ore, pare macinare più parole che fatti: il segretario dell'Organizzazione della Conferenza Islamica, il turco Ekmeleddin Ihsanoglu, invita il Consiglio di Sicurezza dell'Onu a "fare il proprio dovere" e ad imporre sulla Libia una 'no-fly zone', già caldeggiata, con qualche distinguo, da Stati Uniti e Paesi occidentali, ma vista con riserve da Russia e da Cina (ma Pechino, che ha grossi interessi e grosse presenze in Libia, starebbe rivalutando l’ipotesi).

Del resto, le ore cruciali della diplomazia internazionale potrebbero essere le prossime: all’Onu, consulti del Consiglio di Sicurezza; e, a Bruxelles, i ministri della difesa della Nato, domani e venerdì, e in parallelo il doppio appuntamento Ue già indicato. Venerdì avranno una riunione d’emergenza anche i ministri degli Esteri della Lega Araba.

In vista dei Vertici, l'Ue avrebbe gia' trovato un accordo su un ampliamento delle sanzioni a Tripoli, che colpirebbero, adesso, oltre ai beni di Gheddafi e della sua famiglia, anche la Libyan Investment Authority (Lia), il fondo sovrano libico, più altre cinque entità, inclusa la Banca centrale. Decisioni che rischiano di avere contraccolpi in Italia, vista la penetrazione del capitale libico nella gfinanza e nelle imprese italiane.

L’Italia, che El Pais di ieri accusava apertamente di “doppio gioco” verso la Libia e Gheddafi, s’avvicina ai Vertici delle prossime 48 ore tra esitazioni e contraddizioni. Se la Lega esclude, parola di Umberto Bossi, una partecipazione a un intervento gi guerra, “perchè poi quelli verrebbero qua da noi”, il ministero della Difesa avrebbe già individuato in Sigonella, Trapani e Gioia del Colle le basi aeree da mettere a disposizione degli alleati atlantici, nel caso in cui maturasse l’attuazione della ‘no fly zone’ per impedire agli aerei di Gheddafi di bombardare i rivoltosi. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha comunque già escluso una partecipazione all’operazione di mezzi italiani, ferma restando l’eventualità del supporto logistico. Se n’è parlato ieri sera a Palazzo Chigi, dove un vertice interministeriale ha vagliato gli sviluppi della crisi libica e le eventuali conseguenze in termini di afflusso di immigrati verso le coste italiane.

Libia: sì alla forza, nella legalità internazionale

Scritto per il Fatto Quotidiano del 08/03/2011

Aiutare con la forza un popolo in rivolta a rovesciare il tiranno? La prima risposta è affermativa: certo e senza esitazioni, nella legalità internazionale. Ma, allora, la Libia non è un caso unico: le dittature sulla faccia della Terra non si contano sulle dita delle mani, dalla Bielorussia al Kazakhstan, amici nostri, dalla Corea del Nord allo Zimbabwe, dall’Iran all’Arabia saudita, tutta una panoplia di regimi assoluti, feudali, teocratici, vetero o post-comunisti. E, allora, l’Occidente che si vuole tempio dei diritti dell’uomo non dovrebbe ridursi al dubbio finale se dare con le armi la spallata al tiranno che barcolla, senza neppure ben sapere chi sta aiutando, se un popolo assetato di libertà o una congrega integralista o una cricca di rivali del despota. L’Occidente, e per quanto riguarda la Libia soprattutto ’Italia, avrebbero dovuto evitare decenni di complicità e di connivenza, nel segno degli affari e dell’interesse, gabellati sotto il valore della stabilità. Lo abbiamo fatto troppe volte: gli insorti di Budapest 1956 stanno ancora aspettando nelle loro tombe gli aiuti loro promessi. Ma quello era il Mondo di Yalta; questo è il Mediterraneo culla di tante civiltà che Gheddafi, e i suoi complici, ovunque essi siano, rinnegano tutte.

domenica 6 marzo 2011

Ex Jugoslavia: Belgrado vuole il 'traditore' che difese Sarajevo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/03/2011

Quindici e più anni non bastano a cancellare gli orrori e gli strascichi di una guerra che insanguino’ i Balcani dal 1992 al 1995 e che ha lasciato ferite e recriminazioni aperte nei due campi, dopo avere fatto decine di migliaia di vittime. Se il ‘ricercato numero 1’ di quel conflitto resta il generale serbo bosniaco Ratko Mladic, la cui mancata consegna alla giustizia internazionale è uno degli ostacoli al cammino della Serbia verso l’Ue, la polizia austriaca ha arrestato, giovedi’, all’aeroporto di Vienna, lo Schwechat, il generale bosniaco Jovan Divjak, colpito da un mandato di cattura serbo per crimini di guerra. Il generale stava effettuando uno scalo a Vienna perchè era diretto da Sarajevo a Bologna.

Tra sollecitazioni serbe e proteste bosniache, le une e le altre immediate, il ministero dell’interno austriaco ha confermato che il generale ormai in congedo –ha 74 anni- è stato consegnato all’autorità giudiziaria perchè si pronunci sulla richiesta d’estradizione della Serbia. Ieri, il tribunale di Korneuburg, nella Bassa Austria, ha confermato la detenzione di Divjak per 14 giorni, una decisione contro cui il generale puo’ fare ricorso. Ma l’esame della pratica di estradizione potrebbe richiedere mesi. Manifestazioni più o meno spontanee si sono svolte ieri a Sarajevo davanti alle ambasciate di Austria e Serbia ed altre ne sono annunciate per oggi.

Mentre a Vienna giungono messaggi diplomatici di segno contrastante –la Bosnia denuncia il tentativo di Belgrado di relativizzare le sue responsabilità, la Serbia annuncia la formalizzazione della richiesta d’estradizione-, anche a Belgrado, dove pure Divjak è considerato un traditore, c’è chi critica l’arresto: varie ong sostengono che le autorità serve farebbero meglio ad arrestare e consegnare alla Corte dell’Aja Mladic e anche Goran Hadzic, gli ultimi due criminali di guerra serbi ricercati dalla giustizia internazionale.

Il generale arrestato è uno dei 19 ufficiali bosniaci accusati dalla magistratura serba per l’attacco a una colonna dell’allora esercito jugoslavo a Sarajevo, nel maggio 1992, agli albori del conflitto. Secondo la ricostruzione serba, 42 soldati jugoslavi furono uccisi, 73 feriti e 215 catturati nell’azione lanciata dall’esercito bosniaco contro la colonna jusoslava, nonostante il convoglio fosse scortato da forze dell’Onu e gli fosse stato garantito di potere lasciare la città indenne. Dopo quell’episodio, le forze serbo bosniache cinsero d’assedio Sarajevo per 43 mesi: almeno 14 mila le vittime.

Il mionistero della giustizia serbo ha confermato di avere emesso un mandato di cattura internazionale per Divjak, un serbo che diserto’ dall’esercito jugoslavo dopo il bombardamento di Sarajevo nell’aprile del 1992 e che passo’ alle forze armate bosniache, prevalentemente musulmane, di cui divenne vice-capo di Stato Maggiore.

Lasciata la divisa, Divjak, che in Bosnia gode il rispetto di tutti i gruppi etnici, ha messo su un’organizzazione non governativa, ‘L’istruzione costruisce la Bosnia’, che ha permesso a centinaia di orfani di guerra bosniaci di ottenere borse di studio.

Non è la prima volta che un alto responsabile bosniaco è arrestato all’estero, in esecuzione di un mandato di cattura serbo per fatti che risalgono al conflitto serbo-bosniaco. L’anno scorso, a Heathrow, il maggiore aeroporto di Londra, venne bloccato Ejup Ganic, membro della presidenza di guerra bosniaca, ma una corte britannica lo rilascio’ per mancanza di prove a suo carico. E il sindaco di Tuzla nei giorni del conflitto, Ilija Jurisic, fu arrestato a Belgrado nel 2008 e rilasciato l’anno scorso, dopo oltre due anni di detenzione, anch’egli per mancanza di prove.

La questione dei crimini di guerra commessi nei conflitti dei Balcani negli Anni Novanta continua a trubare i rapporti tra le repubbliche della ex Jugoslavia, in quegli anni nemiche l’una dell’altra. Giovedi’, ad esempio, la Serbia ha lasciato cadere, sempre per mancanza di prove, le accuse mosse contro un croato arrestato in Bosnia su mandato di cattura di Belgrado.

venerdì 4 marzo 2011

LIbia: Obama, Gheddafi deve andarsene, pronti a tutto

Da Obama a Chavez, gli estremi della diplomazia internazionale si muovono nella crisi libica, mentre la Corte penale internazionale apre un'inchiesta contro il colonnello Gheddafi e i suoi figli: "non ci sarà impunità in Libia", assicura Luis Moreno-Ocampo, procuratore all'Aja. Il presidente americano dice che Muammar Gheddafi deve “lasciare il potere” e “andarsene”, perché ha perso ogni legittimità presso il suo popolo. “La storia va contro di lui” e gli Stati Uniti non escludono nessuna opzione, neppure quella militare, che però non viene esplicitamente evocata: “Prenderemo la decisione migliore per il popolo libico e in consultazione con la comunità internazionale e l’Alleanza atlantica”. E da ieri due unità da guerra americane, una portaerei e una nave appoggio, incrociano nel Sud del Mediterraneo, dopo aver traversato il Canale di Suez.

Il presidente venezuelano Hugo Chavez, variabile impazzita degli equilibri internazionali, parla per mezz’ora al telefono con Gheddafi e offre la sua mediazione per una soluzione pacifica del conflitto libico: una proposta che il governo di Tripoli e la Lega araba, per bocca del suo leader Amr Moussa, sembrano inclini a prendere in considerazione, mentre gli Stati Uniti la ignorano e diverse cancellerie europee, con l’eccezione della Spagna, la respingono.

Per il momento, in realtà, non si capisce che cosa stia accadendo in Libia mentre siamo a un altro venerdì che potrebbe essere decisivo (ma già sembrava doverlo essere lo scorso): chi tratta con chi?, chi combatte con chi?, nulla è chiaro.

All’Aja la Corte dell’Onu apre un’inchiesta “sui crimini che sarebbero stati compiuti contro l’umanità in Libia dopo il 15 febbraio”, cioè dopo i prodromi della rivolta a Bengasi. Il procuratore Moreno-Ocampo, che secondo El Pais potrebbe affidare l’indagine al giudice spagnolo Garzon, cita, in una conferenza stampa, numerosi “incidenti” nel corso dei quali manifestanti pacifici sarebbero stati attaccati e uccisi dalle forze di sicurezza.

La mossa della Corte penale internazionale fa seguito alle indicazioni venute nei giorni scorsi dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. E’ la prima volta da quando la Corte esiste, dal 2002, che un’indagine viene avviata in tempi così rapidi: sotto inchiesta, oltre ai Gheddafi, il ministro degli Esteri, i responsabili della sicurezza e dell’intelligence.

E la diplomazia moltiplica le consultazioni e dirada le decisioni, mentre l'Ue e l'Italia organizzano missioni umanitarie per aiutare i profughi dalla Libia che raggiungono la frontiera con la Tunisia. Obama dà manforte: “Ci stiamo muovendo per avere piena capacità di agire rapidamente” soprattutto in caso di crisi umanitaria e di “pericolo per i civili inermi”.

Intanto l'emergenza emigrazione non dà tregua, anche se i flussi per ora non evocano certo nelle cifre esodi biblici. L’Italia è pronta a controllare i porti della Tunisia per bloccare le partenze (magari, le motovedette del Colonnello cambiano porto d’attracco), mentre l’Ue resta attiva con la missione Frontex a Lampedusa e coordina l’evacuazione dei cittadini dei 27 che restano in Libia e l’afflusso di viveri e generi di prima necessità per i lavoratori nordafricani che dalla Libia fuggono.

L'Unione europea è molto solerte, ma anche confusa. Da ieri, sono in vigore le sanzioni che congelano i beni dei Gheddafi sul suo territorio. E la Libia sarà sull'agenda d'un Vertice europeo straordinario l'11 marzo a Bruxelles. Bene. Ma Lady Ashton, la responsabile della diplomazia europea, s'accorge che quello stesso giorno i ministri degli Esteri, sotto la sua presidenza, devono vedersi in Ungheria, per una riunione informale. Logico sarebbe spostare a Bruxelles l'informale, ma l’ineffabile baronessa preferisce duplicare gli incontri: ministri degli Esteri il 10 a Bruxelles sulla Libia e l'11 in Ungheria a fare filosofia, mentre capi di Stato e di governo parlano loro di Libia (e speriamo dicano almeno la stessa cosa). Naturalmente, è tutta questione di politica, di umanità e, come dice Obama, “di sostegno a chi lotta per i propri diritti e si batte per la democrazia”, ma è anche un affare di soldi: la Libia “è sull’orlo della guerra civile”, afferma il presidente russo Dmitri Medvedev, ma questa crisi – calcola il responsabile di una grande industria pubblica russa Serguiei Cemezov – “ci costa 4 miliardi di dollari per la mancata vendita di armi” dopo l’embargo Onu sull’export strategico al regime di Tripoli.

E mentre Parigi e Londra vogliono portare “proposte audaci” al vertice dei 27 dell’11 marzo, la Cina, che pure ha sancito all’Onu sanzioni ed embargo, scopre che “la priorità in Libia è il ripristino della stabilità e non certo un intervento militare per rovesciare il regime”: la portavoce del ministero degli Esteri Jiang Yu invita a “tenere conto delle opinioni dei paesi arabi e africani” sulla crisi libica. La libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti dell’uomo, a Mosca e a Pechino hanno un prezzo che si calcola in armi vendute e barili di petrolio acquistati.

giovedì 3 marzo 2011

Libia/ Gheddafi, se Silvio resta posso restare anch'io

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/03/2011

Muammar Gheddafi nè si dimette, nè abdica. Anzi, a parole è più che mai lui, l’uomo forte d’un regime sfaldatosi in due settimane, ma che s’abbarbica al potere. «Berlusconi dice che io non controllo la Libia ? Io gli rispondo che la famiglia Gheddafi è la Libia». Una citazione (conscia?) de «l’Etat c’est moi» di Luigi XIV, il Re Sole, contenuta nel discorso fiume ai delegati dell’Assemblea popolare libica, in occasione del 34.o anniversario della proclamazione della Jamahiriya, la repubblica delle masse.

L’Italia, l’ex potenza coloniale, nella lotta contro la quale la Libia ha costruito la sua debole identità nazionale, torna spesso nel discorso di Gheddafi : in Libia, dice, « dopo una manifestazione tutte le società petrolifere si sono ritirate », mentre in Italia « ci sono state manifestazioni in trenta città per chiedere le dimissioni di Berlusconi, ma nessuna società petrolifera se n’è andata » (e neppure Berlusconi s’è dimesso).

Il ministro degli esteri italiano Franco Frattini commenta che « la retorica anti-italiana » del Colonnello « è un segno di debolezza » : « Cercare qualcuno contro cui puntare il dito è un segno di debolezza » , mentre Gheddafi dovrebbe piuttosto ricordare che « l’Italia ha manifestato amicizia profonda verso il popolo libibo, verso cui l’Italia ha voluto affermare un sentimento di vicinanza e considerazione ». Il dittatore di Tripoli la legge cosi’ : « Abbiamo costretto l’Italia » a scusarsi per il colonialismo e a pagare i danni, « L’Italia mi ha baciato la mano e l’Occidente se ne sente insultato ».

Quella del Colonnello è una controffensiva mediatica, oltre che militare : circondato da suoi fedelissimi, il padrone della Libia nega di avere un ruolo politico da 40 anni, perchè « il potere è del popolo », e afferma di guadagnare 465 dinari, neppure 275 euro, al mese, e di non possedere beni e capitali, perchè « la mia ricchezza è il popolo libico ».

La scenografia di questo discorso è molto più riuscita di quello, spettrale, pronunciato, poco dopo l’inizio dell’insurrezione, là dove gli aerei statunitensi lo bombardarono nell’aprile 1986. I toni sono minacciosi, per il proprio popolo e per gli interessi stranieri in Libia : « il regime è pronto a sostituire con imprese cinesi e indiane le compagnie andatesene, nonostante « i campi petroliferi e i terminal siano sicuri » : eppure, la produzione di petrolio « è ai livelli più bassi », a causa della fuga dei lavoratori stranieri dettata dalla paura.

Per i libici in rivolta, Gheddafi agita la carota. Amnistia per tutti coloro che consegneranno le armi e torneranno alle loro case, ma anche il ritornello ormai logoro di una sommossa a guida di al Qaida : « l’organizzazione terroristica è entrata nelle prigioni , ha reclutato criminali e li ha armati » ; e ancora « Un ex detenuto di Guantanamo s’è autoproclamato emiro di Derna », un porto nell’Est del Paese, « e ha cominciato a giustiziare ogni giorno gruppi di persone ».

Il bastone è per i presunti nemici esterni. “Ci saranno migliaia di morti se ci sarà un intervento militare degli Usa o della Nato in Libia. « Vogliono farci tornare schiavi, come eravmo sotto gli italiani ? Non lo accetteremo mai, entreremo in una guerra sanguinosa » e « combatteremo per la Libia fino all’ultimo uomo e donna ».

Ma c’è pure una sorta di apertura all’Onu, cui il Colonnello chiede di inviare una commissione d’inchiesta in Libia per provare le stragi di civili attribuite al suo regime. « In America, in Francia, ovunque la gente che attaccasse depositi militari per rubarne le armi verrebbe colpita ». Le a suo dire false affermazioni su quanto avvenuto in Libia sarebbero « un complotto per prendersi il nostro petrolio e la nostra terra ».

mercoledì 2 marzo 2011

Germania: il ministro 'taglia e incolla' si dimette, Mr B no

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/03/2011

Il ministro vedette del governo tedesco di Angela Merkel s’è dimesso perché avrebbe copiato la tesi di dottorato: Karl-Theodor zu Guttenberg, sposato von Bismarck, un concentrato di tutte le nobiltà del suo Paese, responsabile della difesa, non ha retto di fronte alle accuse rivoltegli, nonostante le sue smentite e l’appoggio mai negatogli dalla cancelliera.

La bufera su zu Guttenberg s’era scatenata a metà febbraio, quando un quotidiano tedesco, la Suddeutsche Zeiteung, aveva pubblicato le prime rivelazioni sulla tesi copiata. Ma la Merkel l’aveva sostenuto a pie’ fermo: “con il cuore pesante” ha preso atto delle dimissioni e s’é detta “certa” di tornare a lavorare un giorno con un uomo che ha mostrato “con una grande passione” e che ha saputo “toccare il cuore della gente”.

Per il momento, il barone, un giovane, 39 anni, il ministro più popolare del governo Merkel, rinuncia a tutte le sue funzioni politiche: “ Sono sempre stato pronto a combattere –ha detto, annunciando le dimissioni-, ma ho raggiunto il limite delle mie forze”: “presento le mie scuse a tutti coloro che ho offeso”, ha ancora aggiunto l’ormai ex ministro, evocando il proprio senso di responsabilità e denunciando “le critiche massicce alla mia credibilità”.

Le sue smentite, l’appoggio della Merkel e il plebiscito a suo favore dell’opinione pubblica (tre tedeschi su quattro erano contrari alle dimissioni) non sono bastati per un epilogo all’italiana: nessuno lascia il posto e tutti sono contenti (così nessuno dovrà farlo a sua volta). In due settimane, le accuse di plagio hanno avuto la meglio su KT, come i suoi fans chiamano il barone ministro.

Intendiamoci, non è che non si capisca la gravità delle accuse a zu Guttenberg, che avrebbe copiato la tesi, rispetto alle cosucce di cui sono talora accusati i politici nostrani, corruzione, concussione, abusi, magari sfruttamento di minorenne. In America, per plagio, c’è chi s’è giocato la Casa Bianca, come c’è chi s’è dimesso da ministro per avere preso una baby-sitter in nero e da deputato per avere tradito la propria moglie.

Ministro atipico –la definizione è dell’Afp-, zu Guttenberg, dottore in diritto dal 2007, responsabile dell’Economia nel febbraio 2009, poi della difesa otto mesi più tardi, è politico popolare e uomo di mondo uso nutrire con la moglie, bella ed elegante, le cronache rosa. Il suo nome era persino citato fra i successori della Merkel, che dovrà ora scegliersi un nuovo ministro della difesa, nelle fila della Csu, la ‘sorella’ bavarese della sua Cdu, cui appartiene il dimissionario.

La caduta di zu Guttenberg è stata accelerata dalla ‘corsa al plagio’ scatenatasi sul web dopo l’uscita delle accuse: il ministro era così divenuto il barone ‘taglia e incolla’ oppure il barone ‘von Googleberg’ . Il 23, l’Università di Bayreuth gli ritirava il titolo, oltre 50 mila accademici inviavano alla cancelliera una lettera indignata, la stampa sparava sull’ ‘impostore’ e gli inviti alle dimissioni si moltiplicavano nello stesso campo conservatore.

L’autodifesa di zu Guttenberg non è stata né limpida né convincente: smentite e ammissioni parziali, man mano più consistenti. E il margine di manovra della Merkel diveniva sempre più stretto, in un contesto di difficoltà del governo, battuto nelle elezioni di febbraio ad Amburgo e atteso da sei altre competizioni elettorali regionali quest’anno.

Nell’annunciare le dimissioni, zu Guttenberg ha però trovato un tono alto, che non aveva sempre avuto nelle ultime due settimane: “E’ il passo più doloroso della mia vita. E non vado via solo a causa della mia tesi di dottorato così piena di errori … La ragione risiede nella domanda se io possa ancora corrispondere alle attese che io stesso considero derivare dalla mia responsabilità … Come ogni altro devo assumermi la responsabilità delle mie debolezze e dei miei errori: di quelli grandi e di quelli piccoli nell´agire politico, fino alla redazione della mia tesi di dottorato … Molti potranno chiedersi perché io mi dimetta solo oggi. Anzitutto v´è una ragione molto umana: credo a nessuno riesca facile rinunciare all´incarico che più profondamente gli sta a cuore … E´ mia convinzione che sia interesse pubblico così come mio proprio interesse che le indagini della procura, ad esempio in rapporto a questioni di diritto d´autore, possano essere condotte in modo rapido, una volta tolta l´immunità parlamentare, se questo fosse necessario … In tal senso do ragione ai miei avversari: effettivamente non ero stato chiamato a fare il Ministro dell´Autodifesa, ma il Ministro della Difesa. E concludo con una frase inusuale per un politico: sono sempre stato pronto a combattere, ma ho raggiunto i limiti delle mie forze”.