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sabato 31 gennaio 2015

Mattarella Presidente: la 'prova finestra' della credibilità internazionale

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 31/01/2015

Adesso, chi ha vinto brinda –e magari mostra quel ‘fair play’ che, a palla in gioco, non è il suo forte-. E chi ha perso rosica –e medita improbabili rivincite, se tali sono le squadre e gli uomini-. Ma andiamoci a rileggere per un attimo i profili, anzi gli identikit, come va di moda dire, del perfetto presidente che per settimane sono stati tracciati: esercizio notoriamente inutile, che serve solo ad evitare di snocciolare nomi.

Di sicuro, il presidente doveva risultare riconoscibile e bene accetto ai cittadini italiani, che non dovevano chiedersi ‘chi è?’, affondando nei ricordi per ritrovarne la memoria, ma anche riconoscibile e rispettato dai leader dell’Ue e del Mondo. Tutti, ma proprio tutti, ne avevano auspicato “un alto profilo” e “un indiscusso prestigio” internazionali.

Perché ci sono Paesi la cui credibilità internazionale si riflette sul loro presidente, quale che egli sia: chi conosceva, prima che fosse eletto, Joachim Gauck, presidente tedesco?, oppure Reuven Rivlin, presidente israeliano?, per limitarci a due Paesi il cui presidente ha poteri analoghi al nostro. Ma ci sono Paesi, come l’Italia, che devono talora contare pure sulla credibilità personale del loro presidente per consolidare la loro vacillante credibilità internazionale.

Il presidente Napolitano, ad esempio, è stato per l’Italia un’ancora all’Europa ed è stato pure preferito come interlocutore italiano dal presidente Obama, specie nei giorni più difficili dell’ultimo governo Berlusconi.

Ora, da questo punto di vista, Mattarella non rispetta proprio l’identikit, di cui comunque tutti si sono già dimenticati, essendo l’Italia e la sua stampa impegnate nell’elogio corale e banale del neo-eletto. E non si può sostenere il contrario, adducendo a prova la quantità e la tempestività e la calorosità di messaggi di congratulazioni e auguri di buon lavoro che, in queste ore, piovono dal cielo -il Vaticano- e da ogni angolo del Pianeta: quelle sono le ritualità diplomatiche, importanti, magari, ma significative solo se trascurate.

Mattarella è stato ministro della Difesa, è vero, dal 20 dicembre 1999 al 20 giugno 2001, nel governo di Giuliano Amato, assumendo le sue funzioni quando l’Italia aveva appena finito di combattere una guerra a mio avviso ingiusta, a fianco degli alleati della Nato contro la Serbia. Da ministro della Difesa, partecipò a riunioni dell’Alleanza atlantica. Ma non ha mai avuto incarichi europei, né si è mai segnalato per prese di posizione europee.

Fra i nomi che circolavano per il Quirinale, altri superavano meglio la ‘prova finestra’ della credibilità internazionale: Romano Prodi, presidente della Commissione europea e poi inviato dell’Onu; e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea; e pure Amato ed Emma Bonino.

Certo, quello è solo un criterio. E, sicuramente, non è il più importante, né è necessario. La credibilità e il prestigio internazionali del nuovo presidente potranno crescere “mandato durante”. Ma nei mesi a venire il Quirinale sarà un punto di riferimento più italiano che europeo e internazionale: Renzi, Gentiloni, Pinotti, Mogherini giocano senza libero alle spalle.


Parenti Serpenti: storie di potenti inguaiati dalle loro famiglie

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/01/2015

Che mine vaganti!, i parenti dei potenti: nel mare della politica, non sai mai come schivarle. Fratelli, figli, cognati, generi, persino mogli (o mariti), vere e proprie iatture. Padri e madri un po’ meno, forse perché, in genere, quando uno arriva al potere, non sono più così attivi da creare problemi - certo, con i premier giovani la storia può essere diversa -. E’ tutta una galleria di gente che traffica, usando – magari, senza che tu manco la sappia - l’influenza del tuo nome; o che, semplicemente, si comporta in modo da crearti imbarazzo.

Gli esempi sono bizzeffe: ci limitiamo a un’antologia. Trascurando – un po’ dispiace, perché già le stavate pregustando - le storie di sesso. E limitandoci al nostro mondo e al nostro emisfero: in fondo storie di malaffare, con un pizzico di nepotismo, in America latina o in Africa, nell’Asia centrale o nel Sud-Est asiatico, ci colpiscono di meno, sarà per un retro-fondo di razzismo o per robuste dosi di luoghi comuni.

Né prendiamo  in considerazione, infine, gli imbarazzi da incontri di massa. Esempio 1: quando invitate al vostro matrimonio teste coronate e capi di Stato di mezzo mondo, logico che poi vi troviate al ricevimento di nozze dittatori e violatori dei diritti dell’uomo, come accadde a William e Kate. Esempio 2: se invitate a una marcia anti-terrorismo tutti i leader che dicono di combatterlo, dovete poi marciare accanto a tiranni e repressori, com’è accaduto di recente a François Hollande, dopo gli attacchi terroristici a Parigi a inizio gennaio.

Invece, negli Stati Uniti, pensate al dramma di quel vice-presidente e poi presidente che si ritrova con un figlio buono a nulla, sommerso dai debiti, affogato nell’alcol, che dorme in auto e che ha domicilio fisso agli Alcolisti Anonimi. Eppure, un po’ di anni dopo quel figlio diventa a sua volta presidente, bruciando sul tempo il fratello che da sempre studiava per la Casa Bianca. E’ la storia della famiglia Bush: George sr e George jr, con il povero Jeb che ora prova diventare il primo presidente fratello di presidente. C’è chi ci vede un ‘miracolo americano’; ma qui il miracolo l’hanno fatto soprattutto i soldi di papà e pure le raccomandazioni, che consentirono a George d’evitare il Vietnam e d’imboscarsi nella Guardia Nazionale.

Molti presidenti degli Stati Uniti non hanno avuto fortuna con i fratelli, specie con i fratellastri. Billy, il fratello di Jimmy Carter, presidente debole, ma rispettatissimo Nobel per la Pace, si cacciava in un guaio dopo l’altro –anche giudiziario-, aiutato dall’inclinazione a bere. Il fratellastro di Bill Clinton, Roger, ha un percorso di droga e arresti. Quello di Barack Obama, Malik, che vive in Kenya, è accusato di simpatizzare per gli integralisti islamici e di finanziarli.

E in Europa? In Gran Bretagna, Margaret Thatcher, la dama di ferro, ebbe dei dispiaceri dal figlio Mark, baronetto per meriti della madre, pilota da corsa scapestrato –disperso alla Parigi-Dakar, fu recuperato dopo sei giorni di ricerche nel deserto-. Mark è stato al centro di controversie, scandali e processi ed è stato condannato a 4 anni per il suo coinvolgimento in un tentativo di colpo di stato nella Guinea Equatoriale.

In Francia, un cognato dal nome nobile, Jérome Chodron de Courcel, del presidente Jacques Chirac occupa, da oltre vent’anni, a prezzi di favore, uno spazioso appartamento in un quartiere prestigioso di proprietà della Città di Parigi. Il fratello di Bernadette, la moglie di Chirac, vi si installò nel 1984, quando il cognato non era ancora presidente della Repubblica, ma era sindaco di Parigi, il che è ancora peggio.

Le teste coronate del Vecchio continente non sono indenni dal flagello dei parenti. Anzi! Giuliana, amatissima regina d’Olanda, aveva come marito quel Bernardo che fu all’origine delle Conferenze Bilderberg - ospitò la prima nel 1954 in un hotel rococò di quella località, non lontano da Arnhem - e che fondò nel 1961 il WWF. Salvo poi ritrovarsi al centro dello scandalo di corruzione Lockheed, costato in Italia il posto di presidente a Giovanni Leone. Smascherato, non venne mai né processato né ovviamente condannato.

Nel vicino Belgio, il figlio terzogenito dell’ex re Alberto, e fratello dell’attuale re Filippo, Lorenzo, è un maneggione, in affari con Gheddafi e che traffica in Paesi senza pedigree dell’Africa più turbolenta

In Spagna, infine, re Juan Carlos, ormai vecchiotto, ci pensava da solo a mettersi nei guai, prima d’abdicare. Ma la figlia, l’Infanta Cristina, metteva in imbarazzo lui, e ora il fratello Felipe divenuto re, per gli affari suoi e del marito Inaki Urdangarin: entrambi sono stati rinviati a giudizio per frode fiscale e riciclaggio.

venerdì 30 gennaio 2015

Usa 2016: repubblicani: sorpresa!, Romney non scende in lizza

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 30/01/2015

2015/01/30 – Fuori uno. E uno grosso. Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2012, non parteciperà alla corsa alla nomination 2016. Lo ha annunciato lui stesso, in una conference call con il proprio staff. La decisione giunge a sorpresa, dopo che, il 10 gennaio, l’ex governatore del Massachusetts, organizzatore delle Olimpiadi di Salt Lake City nel 2002 aveva detto a un piccolo gruppo di potenziali sostenitori di stare valutando se candidarsi o meno. L’Ap scrive che Romney si sarebbe però reso conto, in questi 20 giorni, mentre sondava il terreno, che numerosi suoi donatori e/o sostenitori della campagna 2012 si sono schierati quest’anno con Jeb Bush, figlio e fratello di presidente, ex governatore della Florida. Una settimana fa, Romney e Bush i due si erano pure incontrati a Salt Lake City, disertando entrambi un Forum di conservatori nello Iowa. La defezione di Romney potrebbe giovare proprio a Bush, che, come il candidato 2012, punta sull'elettorato moderato. (gp)

giovedì 29 gennaio 2015

Usa 2016: repubblicani, i Koch ci mettono quasi 900 milioni di dollari


Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 29/01/2015

2015/01/29 - La rete di donatori conservatori legata ai magnati del petrolio e dell'energia Charles e David Koch prevede di investire 889 milioni di dollari nelle elezioni presidenziali, a sostegno dei repubblicani. Da soli, quindi, forniranno il 90% del miliardo di dollari, scrive il Washington Post, che si prevede spenderanno i repubblicani nel 2016. I democratici intendono raccogliere una cifra analoga. Il WP riferisce che l'impegnativa cifra è stata annunciata in una riunione a Rancho Mirage, Palm Spring, California; una kermesse organizzata dal gruppo Freedom Partners, braccio operativo dei Koch, cui hanno partecipato 450 persone, tra donatori e tycoon. La cifra indicata per il 2016 e più del doppio dei 407 milioni che i gruppi collegati a questa rete di donatori conservatori raccolsero nel 2012, quando il loro ‘campione’ Mitt Romney fu sconfitto da Barack Obama; ed è quasi il triplo dei 300 milioni che Freedom Partners sostiene di avere speso nelle elezioni di Midterm di novembre, quando  i repubblicani hanno preso il controllo assoluto del Congresso. Sesti ex-aequo nella classifica di Forbes degli americani più ricchi, una fortuna stimata in quasi 42 miliardi di dollari provenienti dall'industria petrolifera, Koch hanno creato una rete di quasi 300 donatori che di fatto ha una capacità di raccolta impressionante. Il gruppo deve ancora decidere se spenderne una parte già nelle primarie repubblicane e se schierarsi nella corsa per la nomination repubblicana, che si preannuncia tra le più contese della storia. Fatto del tutto eccezionale, i repubblicani hanno sollevato il velo di discrezione che di solito circonda la conferenza d'inverno di Freedom Partners; e hanno consentito ai giornalisti di seguire via Internet il dibattito a Palm Spring: c’erano i senatori Ted Cruz, Rand Paul, Marco Rubio e il governatore del Wisconsin Scott Walker, tutti possibili candidati alla nomination repubblicana. (AGI - gp)

MO: Israele, le frontiere tornano incandescenti, tiri, vittime

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Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/01/2015 

“Chi ci sfida, ricordi che cos’è successo a Gaza”. Benjamin Netanyahu, premier israeliano, non usa perifrasi per annunciare agli Hezbollah l’ineluttabilità della ritorsione, dopo che un veicolo militare israeliano è stato colpito da un missile anti-carro lungo il confine tra Libano e Israele: due soldati israeliani e un casco blu spagnolo sono rimasti uccisi, almeno sette militari sono feriti, riferiscono fonti ufficiali. La tv Al-Arabiya parla di quattro soldati uccisi e di numerosi veicoli danneggiati.

La missione Unifil sul confine tra Libano e Israele conta 10mila uomini di 36 diversi Paesi, fra cui circa 600 spagnoli e 1.100 italiani. Le unità sono state invitate a restare nelle loro basi, mentre l’Onu invita le parti “alla massima moderazione” e la Spagna chiede un’inchiesta sull’accaduto: il suo militare è stato vittima della ritorsione israeliana.

Le frontiere di Israele tornano incandescenti, mentre tutto il Medio Oriente, dalla terre del Califfo alla Libia, è scosso da convulsioni di guerra. E l’imminenza delle elezioni politiche israeliane non autorizza nessun ottimismo sulla moderazione della risposta alla provocazione; anzi, c’è il rischio d’una escalation. Il ministro degli esteri israeliano Avigdor Liebermann ha detto che la reazione “dovrà essere sproporzionata”. E, con una lettera al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Israele mette le mani avanti, riaffermando il diritto all’autodifesa, mentre le forze armate annunciano “un’offensiva coordinata”.

L'attacco è avvenuto nella zona di Har-Dov, nei pressi del villaggio di Ghajar. Colpi di mortaio sono caduti nell’area di Kfar Rajar e sul Monte Hermon. Proiettili hanno pure colpito postazioni fortificate israeliane sulle alture del Golan, ma senza fare né vittime né feriti.

L'azione è stata rivendicata dagli Hezbollah: il movimento sciita libanese, sostenuto dall’Iran e alleato in Siria del presidente al Assad, avrebbe avviato una "grande operazione", una vendetta dopo il raid israeliano contro un convoglio in Siria del 18 gennaio in cui erano morti diversi miliziani libanesi, tra cui il figlio dell'ex comandante dell'ala militare di Hezbollah, e un generale dei pasdaran iraniani.

Israele sta cercando, in questi giorni, di fare saltare i negoziati con Teheran sul programma nucleare iraniano e per ridurre le sanzioni contro il regime degli ayatollah.

Immediata la risposta, con tiri oltre frontiera di decine di colpi di artiglieria, nelle aree dei villaggi di Majidiyeh, Abbasiyeh e Kfar Chouba. Il capo di Stato maggiore Benny Gantz ha convocato una riunione d’emergenza per valutare la situazione. Fonti ufficiali affermano che non sono stati rapiti soldati: l'ipotesi di un tentativo di sequestro era inizialmente circolata, foriera di ulteriori tensioni e di anni di trattative.

La notte scorsa, jet israeliani avevano colpito postazioni dell'esercito siriano sulle alture del Golan,  annesse da Israele nel 1981, rispondendo al lancio, per fortuna senza conseguenze, di due razzi dal territorio siriano in una zona abitata dalla minoranza . L’incursione era solo un’avvisaglia di quanto sarebbe successo nelle ore successive. Il colonnello Peter Lerners, portavoce dell’Esercito, spiega: "Riteniamo il governo siriano responsabile per tutti gli attacchi che partono dal suo territorio e opereremo con tutti i mezzi necessari per difendere i civili israeliani".

mercoledì 28 gennaio 2015

Usa 2016: repubblicani; Jeb sta con Obama e striglia i suoi rivali

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 28/01/2015 

2015/01/28 - Jeb Bush ha pronunciato nei giorni scorsi un discorso che viene già considerato una sorta di programma della prossima campagna per la nomination repubblicana alla Casa Bianca e che contiene anche un messaggio al partito: la destra conservatrice è ingabbiata in una logica d’opposizione sterile all’Amministrazione democratica di Barack Obama ed è incapace di essere propositiva, anche ora che ha la maggioranza in Congresso sia alla Camera che al Senato. Ma la presidenza, dice Jeb, figlio e fratello di presidente –con lui i Bush farebbero un filotto dispari, il 41°, il 43° e il 45° della serie-, si conquista con un piano serio, non con fumose polemiche. Quale? Il suo, ovviamente, che prevede –la sintesi è di Ugo Caltagirone, corrispondente dell’ANSA dagli Usa- di abbassare le tasse sulla classe media facendo pagare un po' di più chi sta meglio, di fare trarre vantaggio dalla ripresa "non solo i portafogli di banche e imprese ma anche le buste paga", di riiormare l'immigrazione cercando il modo di mettere in regola milioni di clandestini. E che dire dell'oleodotto Keystone?, che i repubblicani vogliono e su cui il presidente minaccia il veto: "Approvarlo è stata una stupidaggine", dice Jeb. Pare di sentire parlare Obama, altro che un leader repubblicano. Ma l’ex governatore della Florida lo sa bene che, per arrivare alla Casa Bianca, bisogna occupare il centro e smarcarsi dalle ali estreme, populista e fondamentalista, del movimento conservatore.Però, per uno che parla così, la nomination può essere un problema. Mentre Bush 3° faceva questo discorso,  i suoi potenziali rivali infiammavano con proclami –o, almeno, alcuni di loro ci provavano- il Forum dei conservatori nello Iowa. Dove lui non è andato, come, del resto, Mitt Romney, l’altro cavallo di razza della competizione repubblicana, almeno a giudicare dal pedigree. Una sfida aperta, dunque, quella di Jeb, a coloro che gli saranno avversari nelle primarie: basta proclami e sterili attacchi al presidente Obama. "Serve un confronto serio su tutti i temi vitali per il futuro del nostro Paese, quello che manca in questo momento a Washington … Se si vuole tornate alla casa Bianca, lo si fa solo con un messaggio di speranza e di ottimismo, con un'agenda costruttiva e fatta di proposte serie. Non con la rabbia e con il rifiuto di tutto". Un messaggio forte e chiaro, dunque, a cambiare strategia: non più una campagna "alla Romney", insomma, che portò alla disfatta del 2012, figlia della deriva populista dei Tea Party. (gp)

martedì 27 gennaio 2015

Usa 2016: repubblicani; il campo si affolla, Christie, Rubio, pure Palin e Trump

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 27/01/2015

2015/01/27 - Si affolla il campo degli aspiranti alla nomination repubblicana per Usa 2016. Ma, almeno finora, non vi sono sorprese: tutte mosse attese. A smuovere le acque è stato il Forum dei conservatori dello Iowa, lo scorso week-end. Dopo i ‘posizionamenti’ di Jeb Bush e Mitt Romney, i due cavalli di razza, e le prime mosse di Marco Rubio, lunedì il governatore del New Jersey Chris Christie, 52 anni, ha lanciato il suo comitato di azione politica (Pac), secondo quanto rivelato dal Wall Street Journal: è il primo passo formale in vista di una eventuale candidatura. Nello staff del Pac di Christie, che si chiama 'Leadership Matters for America', c’è anche uno collaboratore sperimentato di Christie, Matt Mowers, che s’è dimesso da direttore esecutivo del partito repubblicano del New Hampshire. Pochi giorni prima, il senatore della Florida Marco Rubio, 43 anni, aveva dato disposizioni ai suoi collaboratori perché preparino un piano di campagna: secondo indiscrezioni di Abc News, il senatore, vicino al Tea Party, che non era nello Iowa nel fine settimana, ha varato una serie di iniziative di raccolta fondi e ha programmato diversi viaggi negli Stati nelle prossime settimane. A cercare di raccogliere gli almeno 50 milioni di dollari, stimati necessari per le primarie repubblicane, sarà Anna Rogers, attuale direttore finanziario di 'American Crossroads', il gruppo conservatore creato da Karl Rove che ha messo insieme più di 200 milioni di dollari per aiutare i candidati repubblicani nelle ultime due elezioni. Rogers inizierà a lavorare al comitato politico di Rubio, che si chiama ‘Reclaim America’, dal 1° febbraio e dovrebbe diventare il direttore finanziario della campagna presidenziale. Nello Iowa, non c’erano né Bush né Romney, che si sono invece incontrati a Salt Lake City, nello Utah, la città di cui Romney, mormone, organizzò con successo le Olimpiadi Invernali nel 2002: un incontro “cordiale”, riferiscono le fonti, ma da cui non sono scaturiti né accordi né desistenze. Ovvio che ciascuno dei due veda nella candidatura dell’altro un ostacolo alla propria, ma fra i due non sembra esserci né disistima né inimicizia: "Non saranno i migliori amici, ma hanno un grande rispetto l'uno per l'altro", ha detto un consigliere di Romney. Il brivido più grosso agli elettori repubblicani lo hanno dato, lo scorso fine settimana, l’ex candidata alla vice-presidenza Sarah Palin e l’estroso miliardario Donald Trump, dicendosi entrambi interessati alla Casa Bianca. Chi non li può sopportare –e sono molti-, scrolla le spalle: li bolla come “candidati per hobby”. La Palin, personaggio estremamente controverso, 50 anni e cinque figli, nota per le posizioni anti-ecologiste, anti-aborto, anti-gay e pro pena di morte, dice: "Naturalmente sto pensando a correre, sono seriamente interessata al 2016". Trump, 68 anni, a capo di un impero immobiliare e star del reality tv 'The Celebrity Apprentice', è noto per la sua smania di protagonismo: sarebbe almeno la quinta volta che sostiene di volersi candidare. "Io sono l'unica persona in grado di rendere questo Paese nuovamente grande. Nessun altro". Tra i punti del suo ipotetico programma elettorale, no ad aumenti delle tasse, no alla stretta sulle armi da fuoco, no agli aiuti internazionali, sì ai dazi contro la Cina. (gp)

Is: i curdi si riprendono Kobane, la Stalingrado del Califfo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/01/2015

Forse, una svolta. O, forse, solo un episodio nella guerra in Siria e Iraq contro le milizie integraliste del sedicente Califfato: i peshmerga, i guerriglieri curdi, si sono ripresi Kobane, la città al confine tra Siria e Turchia, dove gli jihadisti avevano spinto l’estate scorsa la loro offensiva che pareva allora vittoriosa.

L’enclave curda, che potrebbe rappresentare in questo conflitto quello che Stalingrado significò nella Seconda Guerra Mondiale, era assediata dal 16 settembre.

La fonte, l’Osservatorio siriano per i diritti umani, è di parte. Ma vi sono immagini che avallano l’informazione. Da tempo, qui, l’inerzia del conflitto era cambiata, anche grazie ai raid e ai droni della coalizione messa insieme dagli Stati Uniti. Nei giorni scorsi, a Londra, il segretario di Stato Usa John Kerry l’aveva detto: “Abbiamo fermato l’avanzata integralista”. Ma, ora, il Dipartimento di Stato è prudente: "La battaglia continua".

Raid a parte, l’Occidente, però, è rimasto a guardare, limitandosi ad armare i peshmerga, uomini e donne determinati a difendere le loro case. E la Turchia, coi carri schierati al di là del confine, ben in vista, s’è limitata a gestire alla bell’e meglio l’emergenza umanitaria.

Al fronte, va male. Anche perché vendere petrolio di straforo è meno lucroso, col crollo dei prezzi, e comprarsi armi diventa più complicato. Così, lo Stato islamico sfoga la frustrazione seminando minacce: in un messaggio sul web, il portavoce Muhammad al Adnani esorta i lupi solitari ad agire in Europa. Intitolato "Die in your rage" (“Muori nella tua furia”), il testo incita a “colpire i crociati nel loro territorio e ovunque si trovino” e rinnova la "chiamata ai mujaheddin in Europa": “Ci vedremo a Roma”.

"Avete visto –aggiunge al Adnani- che cosa un singolo musulmano ha saputo fare con il Canada ed il suo Parlamento; e che cosa i nostri fratelli hanno fatto in Francia, Australia, Belgio". Riferimenti ad attentati jihadisti in tutto il mondo: l'attacco al museo ebraico di Bruxelles in cui a fine maggio 2104 morirono quattro persone; il blitz di Ottawa del 22 ottobre, in cui un uomo armato uccise un soldato davanti al monumento ai caduti e poi entrò nel Parlamento canadese sparando; l’episodio di Sydney -15 dicembre-, quando un iraniano di confessione sunnita prese decine di ostaggi in un bar, uccidendone due; e infine gli attacchi di Parigi al settimanale satirico Charlie Hebdo e a un negozio kosher, che fecero 17 morti.

Ma l’odio del Califfato non è solo per l’Occidente: c’è "gioia" per la morte del re saudita Abdullah, "Chiediamo ad Allah di spedirlo all'inferno e di distruggere la casa regnante saudita".

Le milizie non sono in rotta solo a Kobane. Le truppe irachene hanno ripreso il controllo della città e della provincia di Diyala, riferisce un generale iracheno. E nella provincia di Anbar, a Ramadi, un comandante dell’Is è stato ucciso con quattro jihadisti, durante rastrellamenti cui partecipano reparti dell’esercito, forze di polizia e combattenti tribali.

Con altri mezzi, l’intelligence bracca i terroristi. Cinque giovani calciatori portoghesi, trasformatisi in miliziani jihadisti, potrebbero portare l’MI5 a Jihadi John, il cittadino britannico divenuto il boia del Califfato. Secondo il Mail Online, i giovani, trasferitisi a Londra e lì convertitisi all’Islam, sarebbero in Siria e avrebbero partecipato a produzione e distribuzione dei video delle esecuzioni degli ostaggi. Uno dei cinque, Fabio Pocas, 22 anni, veniva dalle giovanili dello Sporting Lisbona, dove aveva militato Cristiano Ronaldo: Pocas poteva sfondare nel calcio professionista inglese, ma ha preferito la causa integralista.

Proprio Jihadi John avrebbe sgozzato, tra sabato a domenica, uno dei due ostaggi giapponesi minacciati in un video diffuso la scorsa settimana. Giappone e Giordania cercano ora di salvare l’altro, il giornalista Kenji Goto, costretto a mostrare le immagini del compagno di prigionia ucciso. In cambio di Goto, gli jihadisti chiedono in rilascio di una terrorista aspirante kamikaze in carcere in Giordania.

Una notizia di segno opposto arriva dall’Australia, dove un ex sindacalista ed ex deputato laburista, Matthew Gardiner, 43 anni, ora in Siria a combattere coi curdi contro i miliziani, rischia l’ergastolo: la legge australiana, infatti, non fa distinzioni, che si combatta con i curdi o con gli jihadisti.

Usa 2016: democratici; super-Hillary nei sondaggi, annuncio ad aprile

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 27/01/2015

2015/01/27 - Hillary Clinton vola nei sondaggi, contro i rivali alla nomination democratica e, soprattutto, contro i potenziali antagonisti repubblicani alla Casa Bianca. L’ex first lady vuole annunciare ufficialmente la candidatura ad aprile: Politico.com, però, è sicuro "al 100%" che correrà per Usa 2016, avendo già approvato il budget per la campagna elettorale ed anche scelto gli uomini chiave della sua squadra. Se si votasse oggi, non ci sarebbe storia: Hillary ‘straccia’ tutti i potenziali avversari in campo repubblicano, con vantaggi di oltre 10 punti sia su Jeb Bush sia su Mitt Romney, solo per citare i due nomi attualmente più accreditati. Secondo gli ultimi dati di Washington Post e Abc, l'ex segretario di Stato batte Bush 54% a 41% e Romney 55% a 40%. Politico.com cita diverse persone vicine a Hillary: l'annuncio ad aprile e l'inizio della campagna subito in primavera, partendo con una raccolta di fondi "di successo". L’ex first lady avrebbe già attribuito le posizioni più importanti della sua campagna, a partire –come abbiamo già segnalato-  dal consigliere speciale di Barack Obama, John Podesta, che sarà responsabile della campagna, una volta lasciata la Casa Bianca. Attesa ancora la scelta del direttore delle comunicazioni. Quanto al marito di Hillary, Bill Clinton, l’ex presidente è già strettamente coinvolto e avrebbe pure avuto una dritta dall'ex presidente George H.W. Bush, poco prima che Jeb Bush, il figlio, annunciasse che stava "attivamente esplorando" la possibilità di candidarsi alle presidenziali 2016. (dispacci d’agenzia – gp)

lunedì 26 gennaio 2015

Grecia: la vittoria di Tsipras è un successo europeo

Scritto per EurActiv.it il 26/01/2015
La vittoria ha sempre molti Padri. E un sacco di fratelli. Alexis Tsipras non s’immaginava di certo d’avere una famiglia tanto numerosa: gli si stringono intorno nel successo gli euro-critici di sinistra di tutta Europa –e fin qui ci sta-, i movimenti di protesta alla Podemos –e fin qui ci può stare pure-, ma persino gli euro-fobici xenofobi di destra ed estrema destra in nome del ‘dalli all’euro’ e ‘dalli all’Ue’ – e non ci può proprio stare-. E si percepisce il tentativo di omologare sotto l’etichetta del ‘nuovo che avanza’ la schiera dei leader senza cravatta –meglio se con camicia bianca-.
Sul palco mediatico del successo della sinistra radicale in Grecia, dietro la folla di chi sale sul carro, c’è un coro di prefiche che intonano il ‘de profundis’ dell’Unione e dell’integrazione. “Basta!”, grazie, please, epharisto: l’Ue non è morta e Tsipras non ne sarà il killer. Anzi, il premier di Syriza potrebbe suonare la sveglia a un’Europa che langue.
Nessuno vuole cacciare la Grecia dall’euro e tanto meno dall’Ue. E Tsipras non vuole uscire dall’euro e tanto meno dall’Ue. Dunque, la Grecia e i suoi partner devono ora negoziare, partendo, ovviamente, trincerati sulle rispettive posizioni. Dal consulto fra i presidenti delle Istituzioni dell’Ue e dalla riunione dell’Eurogruppo a Bruxelles, non vengono per ora cedimenti: “Se Atene vuole restare nell’euro, deve rispettare gli impegni presi. Di tagli del debito, non si parla”, firmato “falchi e colombe”, gli uni e le altre, però, “disponibili a discutere”.
Opposta, ma identica, la posizione di Tsipras: “gli accordi fatti dai nostri predecessori non ci stanno bene”, ma “parliamone”. Intanto, c’è una piccola intercapedine temporale, per lasciare decantare esaltazioni e preoccupazioni: il nuovo premier incontrerà i suoi colleghi al Vertice europeo di metà febbraio, dopo avere formato il governo –se ci riuscirà in tempi brevi, com'è possibile-.
Sui media europei, c’è chi alza le barricate del rigore, chi sventola la bandiera dell’instabilità, chi paventa il luogo comune dell’ ‘effetto domino’ e chi enfatizza la reazione dei mercati. E c’è pure chi, come la Bild, solletica le paure dei lettori parlando di “euro-terrore”. Le Monde tratteggia “un’Europa divisa tra gioia e paura”, con il rischio –questo sì reale- che il vomere di Syriza approfondisca il solco tra Nord e Sud dell’Unione.
Ma il voto in Grecia è, anzi, un trionfo dell’Europa e della democrazia che proprio in Grecia, ad Atene, venne inventata e sperimentata 2500 anni or sono. E, di sicuro, il risultato non coglie nessuno di sorpresa: c’è chi prova a cercare di sfruttare l’opportunità per accelerare il cambiamento di rotta in Europa verso la crescita, gli investimenti, l’occupazione; e chi s’appresta a disporre paletti e cavalli di frisia su questo percorso, per evitare sprechi e sciali, per innescare efficienza e competitività. Una dialettica che è dentro la nostra storia.

domenica 25 gennaio 2015

Grecia: Italia/Ue; Gozi, lavorare insieme per più crescita

Scritto per EurActiv.it il 25/01/2015, su dispacci d'agenzia

"Quella di Syriza in Grecia è certamente una vittoria importante. Ora vediamo le proposte che farà Alexis Tsipras. Contiamo che ne vengano nuove opportunità di proseguire il cambiamento in Europa che noi abbiamo avviato a favore della crescita, degli investimenti e della lotta contro la disoccupazione". Lo dice Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei, mentre si delinea il successo del partito di Alexis Tsipras nelle elezioni politiche greche.

Ma se l’Italia fa un’apertura di credito, c’è pure chi mette subito paletti, come il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, che a una tv tedesca dice: “E’ interesse del governo greco fare le riforme necessarie a risolvere i problemi strutturali del Paese. La Grecia deve aderire alle condizioni del salvataggio”.

Domani alla riapertura delle borse, quando ormai si conosceranno con esattezza le dimensioni del successo di Syriza, gli operatori agiranno sapendo se il movimento anti-austerity'avrà i 151 voti necessari per formare da solo il nuovo governo -ipotesi meno gradita al mercato- o dovrà trovare alleati più moderati, come i socialisti del Pasok o il To Potami del giornalista televisivo Stauros Theodorakis.

Il governo italiano, nelle parole di Gozi, “rispetta” il risultato del voto in Grecia ed è “pronto a lavorare con il nuovo governo greco”. Ma, in Italia, i commenti politici della sinistra radicale sono tutti entusiasti, mentre euro-critici di tutti gli schieramenti ed euro-scettici denunciano concordi la sconfitta delle politiche Ue “rigore e riforme”.

Prima dell’inizio dell’Eurogruppo, domani, a Bruxelles, vi sarà una colazione di lavoro dei cosiddetti ‘quattro presidenti’ (del Consiglio europeo, del Parlamento euopeo, della Bce e dell’Eurogruppo stesso), per valutare insieme la situazione.

L'Italia è esposta verso la Grecia per circa 40 miliardi di euro, considerando prestiti bilaterali e quote di partecipazione nel fondo salva-stati Esm, nella Bce e nell'Fmi. Lo calcola Bloomberg secondo cui pù esposte del nostro Paese ci sono Germania (60 miliardi) e Francia (46 miliardi).

I 322 miliardi di debiti della Grecia, secondo i dati del Ministero delle Finanze greco resi pubblici alla fine del terzo trimestre 2014, sono solo per il 17% in capo a soggetti privati. Il 62% è in capo ai governi dell'Eurozona, l’11% alla Bce e il 10% all'Fmi.

I governi dell'Eurozona, tra prestiti bilaterali concessi in occasione del primo salvataggio nel 2010 e fondi elargiti attraverso l'Esm, sono esposti complessivamente per 195 miliardi di euro. Essi, inoltre, hanno sostenuto la Grecia, in proporzione alle loro quote di partecipazione, anche tramite la Bce, di cui l'Italia detiene il 12,3% del capitale, e l'Fmi, di cui il nostro Paese è socio con il 3,2%. In sintesi, l'esposizione dell'Italia ammonta a circa 40 miliardi, più della Spagna (26 miliardi), dell’Olanda (12 miliardi) e di tutti gli altri.

L'esito del voto greco tiene in apprensione i mercati, preoccupati per il destino del debito d’Atene. Gli analisti paiono però escludere reazioni isteriche, un po' per l' ‘effetto paracadute' del Quantitative Easing lanciato giovedì dalla Bce e un po' per il fatto che - dopo il piano d’aiuti condizionato alle misure di austerity imposte dalla troika (Fmi, Ue, Bce) - l'esposizione verso i privati, secondo i dati elaborati da Ig Markets, è scesa dal 59% al 17% del totale.

Insomma, qualora dovesse aprirsi una discussione sul taglio del debito greco - punto cardine del programma del movimento di Tsipras -, stavolta, a differenza che nel 2010, il problema sarà in primo luogo dei governi e della istituzioni europee (e non di banche e fondi): il timore del contagio è ridotto e l’impatto sull’Eurozona potrebbe essere “marginale”.

Lo stesso Tsipras ha del resto detto di non avere come obiettivo l'uscita dall'euro. Dunque, dovrà cercare un compromesso con i suoi creditori, anche per non vedere i bond di Atene esclusi dagli acquisti della Bce.

Usa 2016: repubblicani; primarie, Iowa, parata potenziali candidati

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 25/01/2015

2015/01/25 - Parata di potenziali candidati alla nomination repubblicana per le presidenziali 2016 nel week-end a Des Moines, capitale dello Iowa, lo Stato che, nel gennaio 2016, aprirà la stagione delle primarie. L’occasione è una riunione di oltre mille conservatori che si autodefiniscono ‘sociali’ e che hanno una matrice religiosa: avranno un ruolo chiave nei ‘caucuses’, le tradizionali ‘assemblee elettive’ che assegnano i delegati in questo Stato rurale del Mid-West. Le presenze, fra gli altri, del governatore del New Jersey Chris Christie, del senatore del Texas Ted Cruz e del governatore del Wisconsin Scott Walker e di molti altri hanno trasformato lo Iowa Freedom Forum in una sorta di lancio non ufficiale della campagna per le primarie nello Stato. Ma pesano pure le assenze: non ci sono, infatti, i due che sono oggi considerati i battistrada nella corsa alla nomination repubblicana, l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, candidato alla Casa Bianca nel 2012, e l’ex governatore della Florida Jeb Bush, figlio e fratello di presidente. E non ci sono neppure i senatori del Kentucky Rand Paul e della Florida Marco Rubio. Ci sono, invece, ma non è detto che poi si candidino, l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, che vinse qui le primarie del 2012, avviandosi a un inatteso testa a testa con Romney per la nomination, la candidata alla vicepresidenza nel 2008 Sarah Palin, e due figure di punta dell’imprenditoria repubblicana, Carly Fiorina e Donald Trump, che, fuori dai denti com’è nel suo stile, ha scartato sia Romney (“Ha fallito”) che Bush (“L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un altro Bush”). Lo Iowa è uno Stato tendenzialmente religioso, dove, fra i repubblicani, nel 2008 vinse il pastore battista Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas, e nel 2012 il cattolico tradizionalista Santorum. Spesso, nelle presidenziali, i suoi Grandi Elettori vanno al candidato repubblicano. (vv – gp)


sabato 24 gennaio 2015

Grecia/Ue: dopo QE, e aspettando Tsipras, Ue nella bufera, Italia euforica

Scritto per EurActiv.it il 24/01/2015

La più serena, e magari la più saggia, appare Angela Merkel: la cancelliera tedesca assorbe senza scomporsi -e, anzi, attutisce- la bufera sulle decisioni di Mario Draghi, su cui lei non si pronuncia, rispettando –dice- l’autonomia della Bce; sopporta l’indigestione fiorentina di Matteo Renzi; e stempera le fibrillazioni sul voto in Grecia, negando che questi siano “giorni decisivi” per ‘Ue e l’euro.

Ma intorno a lei è una ridda di dichiarazioni e di ansie, complice quella ‘fiera delle vanità’ mondiale che è il Forum di Davos in Svizzera, dove nulla si decide, ma tutto si discute. I botta e risposta si susseguono, prima e dopo che la Banca centrale europea vari in Quantitative Easing, cioè l’acquisto di bond per 60 miliardi di euro al mese fino a settembre 2016 e una condivisione dei rischi al 20%.

QE: una ridda di pareri

E’ chiaro che i banchieri di tutta Europa, Draghi compreso, e i campioni del rigore sono preoccupati che basti l’annuncio del QE a frenare le riforme nei Paesi che ancora le debbono fare o ultimare. E non basta a rassicurarli la solita carambola verbale del premier italiano, che, magari galvanizzato dall’incoraggiamento della Merkel, assicura che ora metterà “il turbo” alle riforme. La cancelliera, comunque, invita ad “evitare segnali che indeboliscano gli sforzi per le riforme”.

Nonostante l’ok della Corte di Giustizia dell’Ue alla Bce, non tutti al Nord sono certi che la mossa di Draghi rispetti i Trattati. Il presidente della Bundesbank Jens Weidman, che il QE non l’ha né approvato né digerito, ribadisce il suo scetticismo: la decisione comporta dei “rischi”, i governi possono essere indotti a trascurare “la salute dei conti pubblici”.

Draghi non contraddice la Merkel. Anzi, l’asseconda: “Bisogna fare le riforme –dice-, che danno più credibilità” alla ripresa; e, a tal fine, i governi europei “raddoppino gli sforzi”, sui fronti della competitività e del lavoro-; anche se quello che davvero serve “è una vera unione economica”. Quanto allo spettro dell’uscita della Grecia dall’euro, ne “soffrono tutti”.

Italia: clima di euforia

In Italia, però, c’è quasi un clima d’euforia. Confindustria stima che il QE farà crescere il Pil dell’1,8% in due anni –una percentuale stratosferica, rispetto ai dati da recessione  cui siamo ormai abituati- e farà risparmiare alle aziende 3,2 miliardi di euro in interessi. Il governatore di BankItalia Ignazio Visco sostiene che “l’Italia va nella direzione giusta”, che sta tornando “la fiducia col rilancio di consumi, investimenti e occupazione” e che il programma della Bce sarà “efficace per entità e durata”.

Neppure l’ipotesi che l’Ue possa chiederci una correzione del deficit superiore allo 0,25% del Pil pattuito preoccupa il governo, che afferma di avere fornito alla Commissione europea tutti i dati richiesti, o i mercati. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è certo che “l’esame di marzo dell’Ue non è un problema” ed esclude ulteriori manovre. Per lui, le misure della Bce sono “importanti” e vanno “nella giusta direzione”, come “sostegno alla ripresa e spinta alla crescita”.

Eppure, gli indicatori economici continuano a non essere buoni: l’Fmi ci taglia le stime di crescita, già modeste, per il 2015 e ’16 e lo stesso fa Confindustria, prima di entusiasmarsi per il QE.

Grecia: il caldo e il freddo

Dalla Grecia, e sulla Grecia, arrivano segnali contraddittori: Alexis Tsipras, leader di Syriza, partito di sinistra radicale, in testa nei sondaggi, modula i linguaggi a seconda che parli sulle piazze greche o sui giornali europei. Nei comizi, sfida l’Ue e la troika: “Non rispetteremo gli accordi con la troika fatti dai governi precedenti. L'austerità non fa parte dei Trattati'. Nelle interviste, è più morbido: vuole rinegoziare gli impegni con l’Unione e respinge il ‘soccorso nero’ di Marine Le Pen, eurofobo e xenofobo, perché “il voto a noi è un voto contro fascismi”.

Intorno alla Grecia, l’Unione soffia il caldo e il freddo. Wolfgang Schaeuble, ministro delle Finanze tedesco, è rigido: “La Grecia è fuori, se si rifiuta d’attuare le riforme”. Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, olandese, è meno drastico: “Lavoreremo con chiunque vinca le elezioni in Grecia … Se serve, noi siamo pronti a fare di più … L’Eurozona resterà intatta”. Il governatore Visco intravvede un “rischio di frammentazione finanziaria”, ma è convinto che “gli Stati interverranno”.

venerdì 23 gennaio 2015

Usa: diritti civili; Obama, spero sì Corte Suprema a nozze gay

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 23/01/2015

2015/01/23 - Barack Obama si augura che la Corte Suprema adotti "la giusta decisione" ed autorizzi le nozze gay a livello federale in tutta l’Unione. In un'intervista su YouTube a tutto campo, https://www.youtube.com/watch?v=GbR6iQ62v9k&feature=youtu.be, il presidente degli Stati Uniti ha portato avanti la ‘nuova frontiera’ dei diritti civili che aveva annunciato nel discorso d’insediamento per il secondo mandato e che ha confermato, martedì scorso, nel discorso sullo stato dell’Unione, quando, per la prima volta in quel contesto, ha pronunciato le parole transessuale e bisessuale. Attualmente, le nozze fra persone dello stesso sesso sono legali in 37 Stati dell'Unione (su 50), oltre che nel Distretto di Columbia, dove sorge Washington. Venerdì 16 gennaio, rompendo con la loro posizione tradizionale (respingere le istanze sui matrimoni fra persone dello stesso sesso, perché materia da lasciare ai singoli Stati), i nove giudici della Corte Suprema  hanno deciso che valuteranno se le nozze gay siano legali ovunque negli Usa in base a quanto sancito dalla Costituzione. Il caso sarà discusso ad aprile e la sentenza non sarà pronunciata prima di giugno. (dispacci d’agenzia – gp)

giovedì 22 gennaio 2015

Usa 2016: sondaggi; Obama va su, Hillary stabile, Romney e Jeb giù

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 23/01/2015

2015/01/22 - Il presidente Barack Obama torna su, nell'indice di gradimento degli americani, e i potenziali candidati alla nomination repubblicana alla Casa Bianca vanno giù, prima ancora di qualsiasi annuncio ufficiale sulle loro intenzioni. Sia Mitt Romney che Jeb Bush sono in calo nei favori del pubblico, mentre la probabile candidata democratica Hillary Clinton conserva livelli di popolarità stabili e piuttosto alto. Secondo un rilevamento NbcNews / Wall Street Journal, oggi solo il 27% degli americani ha un giudizio positivo di Romney - sconfitto nel 2012 dal presidente Obama-, mentre il 40% esprime un giudizio decisamente negativo su di lui. Tra i repubblicani, lo sostiene il 52%. A settembre - quando ancora non si parlava di una sua ricandidatura - il tasso d’approvazione generale era al 32%, quello dei repubblicani al 60%. Quanto a Jeb Bush, figlio e fratello di ex presidenti, ex governatore della Florida, il 13% delle persone interpellate non sa nemmeno chi sia, il 19% lo giudica positivamente ed il 32% negativamente. Tra i repubblicani, i suoi fans sono appena il 37%. A novembre, il gradimento globale di Jeb Bush era al 26%. Questi dati sono stati raccolti prima del discorso sullo stato dell’Unione del presidente Obama, che ne ha ulteriormente rafforzato la popolarità. Notizie migliori, invece, per Hillary Clinton: il 45% degli americani ne ha una buona opinione, contro il 37% che la giudica negativamente. Tra i democratici, ben tre su quattro la vedono di buon occhio. (ANSA –gp)

mercoledì 21 gennaio 2015

Usa: Stato dell’Unione; Obama convince americani, delude repubblicani (e russi)

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 21/01/2015

2015/01/21 - Per i cittadini americani, Barack Obama, col discorso sullo stato dell’Unione, è andato nella giusta direzione: un sondaggio di Cnn e Orc International rivela che il 72% degli intervistati la pensa così. Invece, il presidente non è piaciuto né ai repubblicani né ai russi: c’era da scommetterci a priori. Obama pare dunque uscito da una crisi d’immagine che negli ultimi due anni aveva fatto crollare la sua popolarità. Il 51% degli intervistati promuove a pieni voti l'intervento svolto davanti al Congresso in seduta plenaria, contro il 44% del 2014. Inoltre, il 60% è d'accordo sulla riforma dell'immigrazione. Ma il 74% pensa che il presidente dovrebbe cercare un compromesso bipartisan con il Congresso su tutte le principali questioni aperte, mentre Obama sembra, in questa fase, piuttosto incline al decisionismo. Per i repubblicani, il discorso sullo stato dell’Unione è stato “deludente”: “un’occasione peduta”, ha detto la portavoce del partito nella circostanza, Joni Ernst, neo-eletta e salita alla ribalta delle cronache per lo spot in cui castra maiali e spara. "Solo provocazioni e minacce di veto", ha tuonato il leader della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell. Mitt Romney, sfidante di Obama nel 2012, forse di nuovo in corsa nelle primarie per il 2016, ha accusato il presidente di "ignorare il fatto che e' stato eletto un Congresso che spinge per un governo più piccolo e tasse più basse". L'ultra conservatore senatore texano Ted Cruz, pue lui potenziale candidato alla nomination repubblicana, ha ironizzato: "Obama ha la stessa soluzione per ogni problema: più tasse e più governo". Con i repubblicani sta –pare un paradosso- il ministro degli esteri russo Serguiei Lavrov: i tentativi degli occidentali di "isolare ancora di più la Russia non avranno successo –dice-. La Russia non prenderà la strada dell'autoisolamento". E’ una replica al passaggio di Obama secondo cui "oggi l'America si erge forte e unita con i propri alleati, mentre la Russia è isolata e ha l'economia a pezzi". Infine, ovvio che Hillary Clinton approvi il presidente e il discorso sullo stato dell'Unione: in un tweet, sottolinea che ''il discorso punta a un'economia che funziona per tutti. Ora dobbiamo accelerare e portare risultati alla classe media''. (dispacci d’agenzia – gp)

Terrorismo: notizie e video d'orrore quotidiano (ma non tutto è vero)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/01/2015

“Califfo loro, che sei in Iraq, e pure altrove, dacci oggi il nostro orrore quotidiano” per terrorizzare gli infedeli e per incutere timore nei fedeli. E per la gioia dei siti che da noi ci sguazzano, anche quando le notizie sono talmente orripilanti e i video talmente ributtanti che c’è solo da sperare che non siano veri –e, per fortuna, non sempre lo sono-.

Vale per le storie di ieri: 13 adolescenti uccisi a raffiche di mitra a Mosul, perché guardavano in tv una partita della nazionale di calcio irachena, impegnata nella Coppa d'Asia in Australia; e due ostaggi giapponesi minacciati in un video di esecuzione con macabro rituale.

La strage dei ragazzini risalirebbe al 12 gennaio, quando l'Iraq batté per 1-0 la Giordania: a parlarne il sito di un gruppo di resistenza al Califfato che si chiama "Raqqa viene massacrata nel silenzio" - Raqqa è in Siria -. I miliziani che controllano Mosul avrebbero fermato gli adolescenti nel quartiere di al-Yarmuk e li avrebbero giustiziati pubblicamente, dopo aver annunciato dagli altoparlanti che l'accusa contro di loro era di violazione della 'sharia'. I cadaveri sarebbero rimasti a terra: i genitori non sarebbero andati a recuperarli per paura di essere a loro volta uccisi.

Della vicenda, non si ha conferma. Tempo fa, la tv di Stato irachena, in una sua serie, s’era fatta beffe del Califfato con il calcio: gli jihadisti organizzavano la Coppa del Mondo e battevano, tra minacce e colpi di scimitarra, una ‘nazionale mondiale’ forte, fra gli altri, di Messi e Del Piero.

Nessun dubbio, invece, sul video dei due ostaggi giapponesi: il sedicente Stato islamico pretende dal governo nipponico, che ha già detto di no, 200 milioni di dollari, per non ucciderli. Il premier Shinzo Abe, indignato, intende mantenere l'impegno a fornire aiuti non militari proprio per 200 milioni di dollari ai Paesi della coalizione anti-Califfato.

Nel video di 100 secondi, il terrorista pare essere Jihadi John, l’ex dj londinese di 23 anni divenuto un boia jihadista –su di lui, pesa una taglia di 10 milioni di dollari offerta dal Senato Usa-. L’uomo ha il volto coperto, un coltello in mano ed è completamente vestito di nero: dall’accento, potrebbe essere lo sgozzatore di altri ostaggi occidentali, i giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff, il cooperante pure americano Peter Kassig, i volontari britannici David Haines e Alan Henning.

Davanti a lui, in ginocchio, con la solita tunica arancione ‘color Guantanamo’ di queste circostanze, i due sequestrati: Kenji Goto Jogo, giornalista ‘free lance’ di 48 anni, la cui ultima comunicazione veniva da Kobane, e Haruna Yukawa, 42 anni, uno che andava alla ventura, rapito a metà agosto ad Aleppo e già protagonista di un video su Youtube.

Il Califfato è una fabbrica d’orrori incessante. Giorni fa, aveva pubblicato un video, girato a Mosul, con l'esecuzione di due uomini accusati di omosessualità e scaraventati giù da una torre. E, prima, c’era stato il video del braccio mediatico jihadista, al-Hayat Media, intercettato dal Site, l’organismo americano che monitora i siti integralisti: mostrava un bambino di 10/12 anni sparare e uccidere con una pistola "due agenti russi" prigionieri in ginocchio. L’uomo che sospingeva all’esecuzione il “cucciolo di leone”, Abu Saad Dagastani, di origine russa, sarebbe stato poi ucciso il 14 gennaio a Kobane, secondo fonti integraliste e curde.

A rischiare la vita dove al Baghdadi detta legge, sono soprattutto –dice l’Onu- le donne istruite, che hanno un’attività professionale e s’impegnano in politica” (tre le avvocatesse già uccise nel 2015), oltre agli omosessuali e alle minoranze. Il califfo sarebbe rimasto seriamente ferito in un raid aereo ad al Qaim in Siria e sarebbe “sopravvissuto per miracolo”, secondo il premier iracheno al Abadi: notizia pure questa impossibile al momento da verificare.

Senza contare le notizie di violenze e di lutti che arrivano da dove ancora si protesta per le vignette: dal Niger -45 le chiese bruciate, decine le vittime, secondo le autorità- alla Cecenia, dove ci sarebbe stata una marcia di 800mila musulmani. E le tragiche gesta di Boko Haram, che la fa da padrone tra Nigeria e Camerun: l’ultima impresa, una razzia con vittime per rapire 80 persone, 50 bambini.

Usa: Stato dell’Unione; Obama, apriamo un capitolo nuovo

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 21/01/2015

2015/01/21 - Obama è tornato. E l’America pure. Almeno così dice il presidente degli Stati Uniti, nel suo settimo e penultimo discorso sullo stato dell’Unione, il primo davanti a un Congresso tutto controllato dall’opposizione repubblicana: “Voltiamo pagina e apriamo un nuovo capitolo a favore della classe media”, di fronte al Congresso riunito in sessione plenaria e all’America davanti alle televisioni, alle 21.00 ora di Washington. "La crisi è superata. L'America è risorta dalla recessione" ed è ora necessario che tutti godano della ripresa, a partire dalla classe media che più ha sofferto negli ultimi anni. Un discorso –dicono adesso molti commentatori- che se fosse stato fatto prima delle elezioni di Mid-term del novembre scorso avrebbe evitato ai democratici una sonora sconfitta. Ma da quel voto Obama è cambiato: non vuole vivere da ‘anatra zoppa’ l’ultimo biennio alla Casa Bianca, sfida il Congresso repubblicano, intende agire sulla leva delle tasse, aumentando il carico fiscale sui super-ricchi e su grandi banche e imprese per rafforzare il sistema di sgravi e agevolazioni a favore delle famiglie. Il presidente appare rilassato, ma determinato nel rilanciare la sua agenda di politica interna e internazionale, la riforma dell’immigrazione, la fine dell’embargo con Cuba –qui, cita Papa Francesco-, la lotta al terrorismo. Obama non ha più molto da perdere e non lo nasconde: "Non devo più fare campagne elettorali, ne ho già vinte due", scherza. E, serio, fa sapere che porterà avanti le sue istanze anche a colpi di decreto e di veti: sulle nuove sanzioni all'Iran ("garantiranno solo un fallimento della diplomazia, assicurando che l'Iran riavvii il suo programma nucleare"), sulle modifiche alla riforma della sanità che porta il suo nome, sul gasdotto Keystone e ancora sui tentativi di bloccare la riforma dell'immigrazione. Sul fronte terrorismo, il presidente assicura che gli jihadisti del sedicente Califfato saranno sconfitti, e chiede che il Congresso autorizzi l'uso della forza, "per mostrare al mondo che siamo uniti" nella lotta. E ricorda le vittime degli attacchi: "Da una scuola in Pakistan alle strade di Parigi, siamo con la gente che nel mondo è stata colpita dai terroristi". E tra gli applausi molti deputati e senatori sollevano matite gialle per ricordare le vittime della strage al settimanale francese Charlie Hebdo. Il discorso tocca la piaga del razzismo che ancora affligge l'America e la questione femminile, perché nel 2015 è “inaccettabile” che le donne, a parità di lavoro, non guadagnino come gli uomini; e non elude il riconoscimento delle nozze e dei diritti per i gay. Così, per la prima volta, nel discorso sullo stato dell’Unione entrano i termini 'trasgender' e 'bisessuale'. (gp)

martedì 20 gennaio 2015

Usa 2016: Repubblicani, Romney scherza su candidatura, non smentisce

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 20/01/2015

2015/01/20 - Ci sono volte che una smentita –non richiesta- vale più di una conferma. Mitt Romney ha scherzato su una sua nuova candidatura alle primarie repubblicane per la Casa Bianca, giudicata imminente in ambienti a lui vicini. Parlando alla convention invernale repubblicana a San Diego, in California, l’ex governatore del Massachusetts, battuto nel 2012 da Barack Obama, ha detto: "Girano voci secondo cui starei per imbarcarmi in un'impresa in cui ho fallito in passato … Lasciate che metta in chiaro in modo inequivocabile che non intendo candidarmi per un seggio al Senato". La battuta è stata accolta da una fragorosa risata. Ma subito dopo Romney, 67 anni, ha confermato che sta facendo "serie valutazioni per il futuro" e s’è detto convinto che i repubblicani possano riprendersi la Casa Bianca, se sapranno "comunicare una visione chiara" di dove vogliono condurre il Paese e di ciò in cui credono. Romney ha parlato da candidato, anche quando ha apertamente attaccato il presidente Obama e l'ex segretario di Stato Hillary Clinton, possibile candidata democratica alle presidenziali 2016. "Con il presidente Obama i ricchi sono diventati più ricchi, l'ineguaglianza dei redditi s’è aggravata e mai come prima ci sono in America persone che vivono in povertà", ha affermato. E ha aggiunto che "i risultati della politica estera di Obama e Clinton sono stati devastanti". All'evento era presente anche sua moglie Ann: a chi le chiedeva se fosse d'accordo nel vedere suo marito impegnato in una nuova campagna elettorale, ha risposto, riferisce il New York Times, di essere "felice", pur se "ancora non sappiamo". Proprio la moglie Ann appariva l’ostacolo maggiore all'ennesima campagna elettorale del milionario mormone. (dispacci d’agenzie – Gp)

Yemen: prove di colpo di stato tra milizie sciite e al Qaida

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/01/2015

Venti di colpo di Stato nello Yemen, un Paese che ospita centri di indottrinamento e addestramento dell’integralismo terrorista e che, almeno dal 2000, è una maglia importante della rete jihadista, pur recitando da amico dell’America e dell’Occidente. Le connessioni yemenite degli assassini francesi di Charlie Hebdo rendono più fragile e più precaria la situazione nel Paese, un intreccio di tensioni etniche e religiose, tribali e politiche.

Nel pomeriggio d’una giornata cruenta, dopo almeno cinque ore d’intensi combattimenti, un esile ‘cessate-il-fuoco’ tra miliziani sciiti e forse lealiste pareva tenere a Sanaa, la capitale, dopo che c’erano stati scontri tutt’intorno a un palazzo presidenziale. Tragico il bilancio: almeno nove morti e decine di feriti -67, molti dei quali civili, alcuni in condizioni gravissime, secondo fonti ufficiali-.

Riuniti intanto a Bruxelles, i ministri degli Esteri dei 28 dell’Ue si scambiavano dati e valutazioni sui ‘foreign fighters’ –quelli europei sarebbero tra i 3 e i 5 mila- che costituiscono “una minaccia per la sicurezza”, e ribadivano l’opportunità di sbloccare in fretta nuove norme su una banca data dei passeggeri aerei, attualmente frenate dal Parlamento europeo. Inoltre, le delegazioni dell’Ue in diversi Paesi esteri disporranno d’ora in poi di ‘attachés alla sicurezza’, primo nucleo d’un servizio d’informazioni europeo. Balbettii politici, se confrontati con la virulenza della minaccia.

Alla tregua a Sanaa si arriva dopo una riunione tra il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi e alcuni suoi ministri e i miliziani sciiti, conosciuti con il nome di Houti, o Ansaruallah. Il ‘cessate-il-fuoco’ è confermato da testimoni oculari e da abitanti della capitale, citati dalle agenzie internazionali. Non è chiaro se l’ex presidente Saleh, a suo tempo ricevuto nello Studio Ovale della Casa Bianca, abbia un ruolo, e quale, nel precipitare della situazione.

Gli scontri di ieri seguono di 48 ore il rapimento, da parte dei miliziani sciiti, del capo di gabinetto del presidente Hadi, Ahmed Awad ben Moubarak, uno degli artefici della riforma costituzionale, che prevede la trasformazione dello Yemen in uno Stato federale con sei regioni.

I miliziani sciiti sono cresciuti in forza e numero dopo l’ingresso a Sanaa il 21 settembre. Essi contestano il progetto di nuovo assetto statale, perché li priverebbe di uno sbocco sul Mar Rosso.

Nella loro avanzata, ieri mattina, i miliziani Houthi hanno pure preso una base militare sulla collina di Nahdain, che sovrasta il complesso presidenziale, permettendo tuttavia ai soldati regolari d’andarsene con le loro armi, e hanno occupato le sedi della televisione e dell'agenzia di Stato Saba e l'abitazione del capo della sicurezza del presidente Hadi. I guerriglieri sciiti hanno pure attaccato il convoglio del premier Khaled Bahah, che tuttavia sarebbe rimasto illeso.

Il ministro dell'Informazione, Nadia al-Saqqaf, ha esplicitamente parlato di "colpo di Stato tentato", prima che la situazione si acquietasse. Impossibile, tuttavia, prevedere gli sviluppi della situazione, né dire quale controllo il governo legittimo effettivamente eserciti sul Paese, dove al Qaida mantiene da tempo una presenza importante. Proprio ad al Qaida nello Yemen si sono richiamati, il 7 gennaio, i fratelli Kouachi, compiendo a Parigi la loro strage.

Quirinale: ora ancora più di prima, Forza Emma!

Scritto per Metro e pubblicato il 20/01/2015 

Scuola di giornalismo all’Ifg di Urbino: la classe dei praticanti 2014-’16 deve tratteggiare un profilo del presidente che verrà, tenendo conto della lettera della Costituzione, oltre che di dichiarazioni e ‘desiderata’ delle forze politiche. Nei loro articoli, le espressioni che più ricorrono sono “arbitro” - c’è chi aggiunge “imparziale”, il che appare superfluo, perché l’arbitro è tale per definizione -, “personalità super partes”, “simbolo dell’unità nazionale”, non necessariamente un politico, figura “di alto profilo e grande spessore”, dotata “di prestigio nazionale e internazionale”. Molti ricordano i principi d’alternanza politica –dopo un uomo di sinistra un cattolico o un conservatore- o di genere –una donna-. Quasi tutti insistono sulla necessità che il nuovo presidente non sia “divisivo”.

A leggerne i pezzi, i futuri colleghi hanno la stoffa da cronisti politici: giochi di partito e calcoli d’interesse non lasciano (quasi) spazio a fresche utopie. Il successore di Giorgio Napolitano deve non incappare in una serie di veti incrociati e soddisfare un mosaico di condizioni, se quel che dicono leader e partiti conta.

Di sicuro, il presidente che verrà dovrà essere riconoscibile e bene accetto ai cittadini italiani – che non dovrebbero chiedersi ‘chi è?’, affondando nei ricordi per ritrovarne memoria, com’è il caso d’alcuni riesumati della Prima Repubblica i cui nomi servono forse solo a fare cortina di fumo – ed anche riconoscibile e rispettato dai leader europei e internazionali.

Ci sono Paesi, come la Germania, la cui credibilità internazionale si riflette sul loro presidente, quale che egli sia. E ci sono Paesi, come l’Italia, che devono contare pure sulla credibilità personale del loro presidente per ancorare la loro vacillante credibilità internazionale.

Se questi due criteri –riconoscibilità nazionale e credibilità internazionale- sono importanti, molti dei nomi che circolano s’elidono da soli. Due che sicuramente superano bene la ‘prova finestra’ della credibilità internazionale sono Romano Prodi, presidente della Commissione europea e poi inviato dell’Onu, e Mario Draghi, che è presidente della Banca centrale europea. Entrambi si sono chiamati fuori, ma i no preventivi sono spesso difensivi.

Con loro, una donna: Emma Bonino, conosciuta e rispettata in Europa e nel Medio Oriente, un’italiana tosta e decisa e capace di pensare con la propria testa - anche troppo, per i parametri della politica nostrana -. Oggi, però, è facile accantonarla: la Bonino sta combattendo un tumore, una battaglia che assorbe tempo ed energie. Forza Emma!