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giovedì 30 aprile 2015

Arabia Saudita: re Salman si sceglie un altro erede e svecchia il regime

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/04/2015 

Vatti a fidare, di quelli che arrivano al potere con l’etichetta di acque chete: appena tre mesi dopo essere salito sul trono saudita, re Salman bin Abdelaziz ha indicato un nuovo principe ereditario, suo nipote, il ministro dell'Interno, e ha scelto uno dei suoi figli come secondo nella linea di successione al trono.

Salman salta così una generazione in questa dinastia dove gli ottuagenari come lui sono giovanotti, rinforza il proprio potere e conferma quella capacità di scelte rapide e nette, che aveva già mostrato in diplomazia prima non peritandosi di scatenare una vera e propria guerra intestina sunnita, poi creando una coalizione anti-sciita e anti-integralista.

Nonostante avesse promesso di rimanere nel solco tracciato dal suo predecessore, il defunto re Abdullah, il nuovo monarca ha apportato numerosi cambiamenti al governo e ha dato un volto più bellicista al Paese. Di cui ora cerca di consolidare il rapporto con gli Stati Uniti, secondo un’interpretazione non da tutti condivisa.

Re Salman ha agito a colpi di decreti reali, 34 in un colpo solo, ridisegnando la linea di successione al trono, rimpastando il governo e defenestrando il fratellastro, principe Muqrin bin Abdelaziz, finora erede al trono. Secondo i media sauditi, che citano un comunicato di Corte, l'avvicendamento è stato chiesto Muqrin: non ci sono elementi per confermarlo o per smentirlo. Ma di certo Salman ha così rafforzato il suo potere e il controllo dinastico.

Il nuovo principe ereditario è suo nipote, Mohammed bin Nayef, 55, che era secondo a Muqrin. Mohammed, zar dell'anti-terrorismo saudita, è molto conosciuto negli ambienti internazionali: è ritenuto vicino agli Usa e inflessibile nella lotta all'estremismo islamico. Mohammed manterrà la carica di ministro dell’Interno, ma sarà pure premier: nell’agosto del 2009, sfuggì a un attentato e da allora è nemico acerrimo del terrorismo integralista. Il figlio del re, principe Mohammed bin Salman, trent'anni appena, ma già ministro della Difesa, diviene secondo nella linea di successione: attualmente, il suo è il volto della campagna militare saudita nello Yemen.

Finora, il regno è stato guidato da vari figli di Abdulaziz, il fondatore della dinastia degli al-Saud, Mohammed sarebbe il primo nipote del monarca fondatore a salire al trono, segnando così un salto di generazione e regolando per decenni, anche per mezzo secolo, la questione dinastica.

Il colpo di scena avviene mentre l’Arabia saudita, primo esportatore di petrolio al mondo, è attiva su vari fronti internazionali, economici, politici, militari: Riad ha deliberatamente innescato il calo del prezzo del petrolio sui mercati mondiali, non riducendo la produzione a fronte di una domanda debole; e guida la campagna nello Yemen contro le milizie Houthi, sciite e filo-iraniane, per ridare il potere al legittimo governo a guida sunnita –proprio il fatto di avere una madre yemenita avrebbe indebolito la posizione del principe Muqrin, 69 anni, a lungo a capo dell’intelligence-.

Il rimpasto, il secondo del suo regno, segna una cesura con il lascito di re Abdullah: Salman ha pure sostituito il ministro degli Esteri, principe Saud al-Faisal, che ricopriva l'incarico dall’ottobre 1975, cioè da quasi 40 anni, con l'ambasciatore a Washington, Adel al-Juber, il primo non “di famiglia” ad assumere il ruolo, un uomo che conosce bene la diplomazia statunitense. Alla Salute va il capo d’Aramco Khalid al-Falih, mentre il ministro del petrolio Ali al-Naimi resta al suo posto.

Si ignora se vi sia un nesso tra le decisioni del re e l’annuncio coincidente delle autorità saudite d’avere sventato un attentato kamikaze con un’autobomba contro l'ambasciata Usa a Riad da parte di una cellula del sedicente Stato islamico. La polizia ha arrestato 93 persone, fra cui 77 sauditi, accusate di far parte del gruppo jihadista. Il piano anti-Usa sarebbe stato in "fase di preparazione avanzata" ad opera di due siriani e di un saudita e sarebbe stato scoperto a marzo.

martedì 28 aprile 2015

Immigrazione: Italia/Ue/Onu, diplomazia d'alta quota in alto mare

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/04/2015 

E’ spettacolare, la diplomazia dell’immigrazione, dopo il Vertice europeo straordinario: un intreccio di dialoghi ad alta quota e di discorsi in alto mare. Se sia anche sostanziale, lo si comincerà a capire oggi, quando Federica Mogherini porterà le istanze italiane ed europee al Palazzo di Vetro dell’Onu e poi a Washington. Obiettivo: ottenere il consenso della comunità internazionale ad azioni contro gli scafisti schiavisti.

 Ieri, il premier Matteo Renzi ne ha parlato al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon in volo verso la nave San Giusto, che li attendeva al largo del Canale di Sicilia, dove partecipa a operazioni di ricerca e soccorso, nell’ambito di Triton –a bordo del velivolo, c’era pure la Mogherini, che ha così disertato a Kiev il Vertice tra l’Ucraina e l’Ue-.

Con Ban, Renzi ha parlato di immigrazione e di Libia. Temi che Ban Ki-moon affronterà anche oggi, in Vaticano, nel colloquio con Papa Francesco. Per l’Onu, la priorità è salvare vite umane. E Renzi afferma che l’Italia non è più sola, ora che ha il “sostegno dell’Onu” –lo aveva già detto dopo il Vertice europeo, “con il sostegno dell’Ue”-. 

Ma, in un’intervista, Ban esclude “una soluzione militare alla tragedia umana nel Mediterraneo". E quanto alla possibilità di distruggere i barconi prima che partano, il segretario generale ricorda che la priorità della Nazioni Unite è garantire "la sicurezza e la protezione dei diritti umani dei migranti e di quanti chiedono asilo". E' cruciale "un approccio complessivo che guardi alla radice delle cause e … alla realizzazione di canali di immigrazione legali”. Sulla Libia, Ban è "molto preoccupato dall'instabilità" del Paese, ma resta "convinto che non vi siano alternative al dialogo".

Nelle prossime ore, e comunque in settimana, l’Ue definirà una ‘roadmap’ per attuare le decisioni del Vertice. Ma la portavoce della Commissione europea Natasha Bertaud precisa che la questione della ripartizione dei rifugiati tra i 28 su base volontaria sarà affrontata nel vero e proprio Piano Ue per l'immigrazione che sarà presentato il 13 maggio. 

Il presidente dell’Esecutivo Juncker darà delle indicazioni domani, a Strasburgo, nella plenaria del Parlamento: la ‘roadmap’ preciserà, in particolare, tempi e modi del triplicamento delle risorse di Triton e della missione di politica di difesa e sicurezza –quella contro gli scafisti schiavisti- affidata alla Mogherini. 

Che deve trovare alleanze e un ‘portavoce’ nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove né l’Ue né l’Italia hanno un seggio –di Paesi dell’Unione, ci sono i membri permanenti Gran Bretagna e Francia, che si sarebbe detta disponibile, oltre a Spagna, che dovrebbe essere interessata, e Lituania, su cui non si può fare troppo affidamento-. 

Al Vertice Ucraina-Ue, s’è parlato delle riforme politiche ed economiche e del rispetto degli accordi di Minsk, alla cui completa attuazione l’Ue subordina la revoca delle sanzioni anti - Russia. Il che complica la vita alla Mogherini all’Onu, dove il consenso della Russia, e della Cina, mai favorevole a violazioni della sovranità nazionale, è determinante: un loro veto blocca tutto.

 Per l’arrivo di Ban a Roma, Amnesty international ha pubblicato un testo, secondo cui 1700 persone potrebbero già essere morte nel Mediterraneo quest’anno, molte di più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Per Amnesty, l’Onu "deve spingere i governi europei a estendere l'area di Triton e a rivedere le politiche d'asilo e immigrazione". "Finché Triton non coprirà l'area di Mare Nostrum, altre vite andranno perse in mare".

domenica 26 aprile 2015

Ue/Grecia: ai ferri corti, dopo il nulla di fatto a Riga

Scritto per EurActiv.it il 26/04/2015 

Ue e Grecia sono ai ferri corti, dopo l’ennesima settimana d’incontri e consultazioni inconcludenti e, almeno dal punto di vista delle Istituzioni europee, urticanti: il tempo passa, l’intesa non è vicina e Atene, nella percezione di Bruxelles, mena il can per l’aia. 

Le riunioni, informali, a Riga, nel fine settimana, dell’Eurogruppo e dell’Ecofin si sono concluse con un nulla di fatto: era magari prevedibile, ma l’ampiezza delle divergenze da colmare, a tre mesi dalle elezioni greche e dall’avvio dei negoziati con il governo Tsipras, innesca irritazioni e aumenta le diffidenze.

Di ritorno ad Atene, il ministro dell’Economia Yanos Varoufakis ha ribadito la sua determinazione “a raggiungere un accordo”. Ma a Riga i colleghi gli hanno testimoniato scarsa stima, bollandolo come “dilettante” e “perditempo”. Citando in un tweet Franklyn Delano Roosevelt, Varoufakis ha definito “benvenuto l’odio contro di me”, ammettendo che “le parole di questi giorni hanno lasciato il segno”.

I partner, anche i meglio disposti, insistono perché Atene fornisca la lista delle riforme che vuole attuare e sono evidentemente preoccupati dalla mancanza di progressi nelle trattative. Il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem evoca un “piano B”, che, però, non sarebbe il ‘Grexit’.

L’italiano Pier Carlo Padoan giudica il ‘Grexit’ “un’ipotesi lontana”, ma mette fretta alla Grecia e s’adegua così al ritornello dei colleghi. I tedeschi insistono che “il tempo sta scadendo” e “la Bce non può essere la soluzione”. E il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ribadisce anch’egli: “Il tempo sta scadendo, bisogna fare presto”.

La linea dell’Ue è “prima un accordo globale, poi gli aiuti”, mentre, giovedì, a margine del Vertice europeo straordinario, il premier Tsipras aveva chiesto ad Angela Merkel un’intesa ad interim entro aprile. L’ipotesi di un accordo a tappe non è impraticabile, a patto, però, che Atene inizi ad attuare le riforme. 

Alla Merkel, Tsipras avrebbe però detto che la Grecia “ha già accettato abbastanza compromessi. Ora è tempo d’accelerare per arrivare a un primo accordo ponte con i creditori entro aprile”. L’urgenza è giustificata: le casse di Atene, ormai esangui, potrebbero non arrivare a giugno, termine del periodo di proroga del secondo piano di salvataggio, che dovrebbe assicurare una tranche d’aiuti da 7,2 miliardi di euro. 

All’Eurogruppo e all’Ecofin, i ministri hanno anche discusso del quadro macro-economico, che resta debole e sottende diverse incertezze sulla stabilità finanziaria. Dai documenti degli ‘sherpa, della Commissione e della presidenza di turno lettone, emergono giudizi sugli sviluppi economici di medio periodo con molte ombre. E anche un allarme sul ribasso della crescita Ue potenziale, che è cominciato prima del 2008 e che la crisi finanziaria e poi la recessione hanno aggravato. 

In questo contesto, l’Italia continua a manifestare un certo ottimismo, nonostante l’agenzia di rating Fitch abbia confermato sia per l’Italia sia per la Spagna il giudizio BBB+ e l’outlook stabile sul debito pubblico. Madrid, comunque, pensa al rimborso anticipato di una parte degli aiuti Ue, che dovrebbe iniziare a ripagare nel 2022.

I segnali politici e statistici tendono al bello, pur con qualche contraddizione. Il Def ha avuto l’ok dal Parlamento, ma il Governo ha congelato il presunto tesoretto, che BankItalia vorrebbe utilizzare per riequilibrare i conti. I dati dell’Istat sull’occupazione – 92 mila assunzioni a marzo, un saldo positivo di 31 mila posti fissi – sono incoraggianti per i fautori del ‘jobs act’ e “propaganda” per i detrattori.  Sempre l’Istat calcola un aumento del Pil dello 0,1% nel primo trimestre e un boom dell’export a marzo (+13,2 rispetto a un anno fa, +2,2% rispetto a febbraio), innescato dal calo dell’euro.

Usa 2016: Time, Hillary e Jeb tra i 100 più influenti del Pianeta

--> Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 26/04/2015
25/04/2015 – Ci sono due aspiranti alla presidenza degli Stati Uniti fra le 100 personalità più influenti del Pianeta selezionate anche quest’anno da Time: non sorprende che siano Hillary Clinton, candidata democratica unica, e Jeb Bush, candidato repubblicano ‘in pectore’, anche se, per Jeb almeno, il riconoscimento appare preventivo. Stanno, ovviamente, nella categoria dei politici, insieme, ad esempio, a Barack Obama e a Raul Castro, ad Angela Merkel e a Vladimir Putin e ancora l’israeliano Benjamin Netanyahu, l’iracheno Haider al-Abadi, il greco Alexis Tsipras. Obama segna un record perché compare per la decima volta: la Clinton è all'ottava, la Merkel alla settima. L’elenco di Time non è una classifica, ma suddivide le personalità in cinque categorie: titani, pionieri, artisti, leader e icone. Fra le icone, Papa Francesco, che ha "infuso al suo papato un nuovo carattere centrato sull'umanità", ha scritto il vescovo sudafricano Nobel per la Pace Desmond Tutu, cui è stato affidato il compito di tracciarne il profilo. Non tutti i personaggi indicati sono universalmente noti: fra i titani, ci sono la stella del reality Kim Kardashian, e il suo compagno rapper Kanie West, ma anche il presidente di Apple Tim Cook, la presidente della Federal Reserve Janet Yellen; tra i pionieri, le attrici Reese Witherspoon ed Emma Watson, l’astronauta Scott Kelly, la ballerina Misty Copeland; fra gli artisti l’attore Bladley Cooper, il cantante country Tim McGraw, lo stilista Alexander Wang e l'umorista John Oliver. La pakistana, Malala Yousafzai, premio Nobel per la Pace, con i suoi 17 anni è la più giovane della lista, che comprende 40 donne. Il più anziano è il presidente tunisino Beji Caid Essebsi, 88 anni. (Time – gp)

sabato 25 aprile 2015

Immigrazione: Vaticano contro bombardamenti barconi, inutile e pericoloso


Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/04/2015

C’è chi parla a suocera perché nuora intenda. E c’è la suocera che finge di non capire che a lei si parla, e non alla nuora. Il Vaticano è deluso dall’accordo sull’immigrazione fra i leader dei 28 e lo dice all’Europa; ed è preoccupato dall’insistenza che nell’Ue è tutta, e solo, italiana sul bombardare i barconi. “E’ inutile e pericoloso”, tuona il cardinale Antonio Maria Veglio. Non contro l’Unione, che a bombardare è come minimo riluttante, ma contro chi, nel governo italiano, lancia proclami –il premier Renzi- e sciorina alternative –il ministro Pinotti-.

Sono giorni che il Vaticano batte sul tasto dell’immigrazione e di una politica dell’accoglienza, non del respingimento e –tanto meno- del bombardamento. Papa Francesco aveva dato il là domenica, subito dopo la tragedia nel Canale di Sicilia: “La comunità internazionale agisca con decisione: sono fratelli nostri, fuggivano da povertà e guerra, cercavano la felicità”, come ogni essere umano ha il diritto di fare –e non solo perché glielo riconosce l’illuministica Costituzione degli Stati Uniti-. 

Poi, mentre i leader dei 28 si riunivano a Bruxelles, ha parlato padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli. Per il gesuita, dalle posizioni dell’Ue "non traspare il coraggio di cambiare rotta", perché "prevalgono ancora una volta le preoccupazioni per la sicurezza e la protezione dell'Europa su quelle per i migranti". Padre Ripamonti dice: "L'Europa deve difendere i rifugiati, non difendersi da loro. Proteggere gli uomini è più importante che proteggere le frontiere".

Adesso il cardinale Veglio, presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti, sbotta: "Non siamo soddisfatti dell’accordo di Bruxelles. Qualcosa è stato fatto, come il finanziamento - triplicato, ndr – di Triton. Ma cosi non si risolve il problema”. E la delusione perché “manca una politica delle migrazioni seria” diventa allarme: “Inutile e pericoloso bombardare i barconi”.

Fortuna che, nell’Unione, nessuno ci pensa davvero –e lo dicono solo Renzi e i suoi-. E il politico italiano in questo momento più in sintonia col Vaticano, il presidente Mattarella, invita a essere “inflessibili con i trafficanti di persone e con i terroristi”, ma esorta pure “a soccorrere gli uomini”.

Quel che s’appresta a fare con maggiore piglio e minori remore Frontex, l’agenzia dell’Ue che gestisce Triton e che sta ricevendo i rinforzi promessi: la prossima settimana una nave britannica sarà nel Mediterraneo meridionale, per operazioni di soccorso e di salvataggio. Fonti di Frontex ammettono: “Abbiamo ricevuto più mezzi di quanto non ci aspettassimo”.

Veglio rilascia un’intervista al Servizio Informazione religiosa, l’agenzia dei vescovi, vuole proprio fare sapere come la pensa il Vaticano: “Servirebbe una politica delle migrazioni seria", che non c’è. L’Osservatore Romano titola sul Vertice: "Avanti divisi", rilevando che "l'Europa non s’è mai data la premura di fare una politica delle migrazioni". Mentre "tutti sono disposti a dare soldi, a patto che i migranti non vengano a disturbare. Non è questa la soluzione".

Ma è l’idea di ricorrere a strumenti di guerra che inquieta di più Veglio: "Bombardare i barconi è un'idea stranissima. Ma cosa bombardano? C'è il diritto internazionale! Bombardare in un Paese è un atto di guerra. A cosa mirano? Solo ai piccoli battelli dei migranti? Chi garantisce che quell'arma non uccida anche le persone vicine, oltre a distruggere i barconi?".

E se anche fossero distrutti tutti i battelli, “il problema dei migranti in fuga da conflitti, persecuzioni e miseria continuerà ad esistere": "E’ inutile bombardare le imbarcazioni, le persone disperate troveranno sempre sistemi per fuggire, faranno altri barconi, passeranno via terra”.

Come fa la stragrande maggioranza dei migranti. Morendo anche così: ieri è toccato a 14 somali e afghani che, a una cinquantina di chilometri da Skopje, in Macedonia, camminavano lungo una ferrovia per non perdersi. Un treno li ha travolti e uccisi. “Finché ci saranno guerra, dittature, terrorismo e miseria, ci saranno i profughi, che andranno dove possono andare", dice Veglio. A costo di morire.

venerdì 24 aprile 2015

Lo Porto: il drone di Obama spara e uccide un italiano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/04/2015 

Ci sono anche in Europa i dottor Stranamore dal Drone Facile, pronti a usarli come toccasana contro i barconi degli scafisti schiavisti, come se fossero strumenti chirurgici – versione hi-tech delle bombe intelligenti -. Andatelo a spiegare ai familiari di Giovanni Lo Porto, 38 anni, cooperante siciliano, ucciso da un drone della Cia ai confini tra Pakistan e Afghanistan dopo oltre tre anni di prigionia – era stato rapito in Pakistan nel gennaio 2012 -. E chiedetelo a Barack Obama, che ai droni deve molti successi della sua Amministrazione nella lotta contro il terrorismo, o almeno nell’eliminazione di numerosi terroristi, ma che ha spesso dovuto esprimere le sue condoglianze per le vittime non previste, i “danni collaterali” di ogni guerra.
 
"E' con enorme dolore che ci siamo resi conto che in un'operazione antiterrorismo a gennaio sono stati uccisi due ostaggi innocenti, prigionieri di al Qaeda", ha annunciato la Casa Bianca. "I nostri pensieri vanno alle famiglie di Warren Weinstein, 72 anni, americano, ostaggio dal 2011, e Giovanni Lo Porto, italiano, ostaggio dal 2012". Quando il presidente Mattarella lo citò, nel discorso d’insediamento in Parlamento, il cooperante siciliano era già  morto. E quando Renzi andò a trovare Obama la settimana scorsa, il sospetto della Cia era quasi certezza: la riluttanza degli Usa ad armare i droni in possesso degli italiani, perché magari li usino in Libia, può anche avere radici in questa vicenda.
 
La notizia era ufficiale da mercoledì sera: il presidente Obama ne aveva personalmente informato proprio Renzi. Ma solo ieri è stata diffusa. Nel comunicato, la Casa Bianca spiega che nell'attacco contro un edificio di al Qaeda,sono stati uccisi "accidentalmente" entrambi gli ostaggi: "Non c'era motivo di credere che all'interno del compound fossero presenti" i prigionieri. Un po’ come fra qualche settimana potremmo scoprire che non c’era motivo di credere che dentro un barcone ormeggiato da qualche parte lungo le coste della Libia e pronto a essere utilizzato dagli scafisti dormivano decine di migranti.
 
Nell'operazione e' stato ucciso anche Ahmed Farouq, cittadino americano tra i leader di al Qaeda. E in  un altro raid nella stessa area è stato eliminato l'ex portavoce di Al Qaeda, Adam Gadahn. E' stato Obama a decidere di desecretare le informazioni sull'operazione anti-terrorismo, condotta a gennaio per colpire un complesso di edifici occupati da al Qaeda, in cui si nascondevano i vertici dell'organizzazione terroristica. Sulla presenza di "vittime collaterali" nel raid, la Cia ha cominciato a indagare da febbraio: il complesso era tenuto da giorni sotto sorveglianza e non era stata segnalata la presenza di civili.
 
Il presidente americano s’è assunto la "piena responsabilità" per la morte dei due ostaggi: "Come marito e come padre posso solo immaginare il dolore e l'angoscia delle due famiglie" per la perdita dei loro cari. Porgendo loro le "scuse più sentite", Obama s’è detto convinto che "meritassero di conoscere la verità": "Alcune operazioni anti-terrorismo devono rimanere segrete ma gli Stati Uniti sono una democrazia e quindi è giusto" riferire quanto successo.
 
"L'operazione", ha aggiunto il presidente, "è stata coerente con le linee guida anti-terrorismo": "Si fanno errori, a volte mortali”, ha ammesso. Il ministro degli esteri Gentiloni ha attribuito la responsabilità di quanto accaduto “interamente ai terroristi”.
 
Lo Porto era stato rapito il 19 gennaio 2012, mentre rientrava a Multan, nel Punjab pakistano, con un collega della Ong tedesca Welt Hunger Hilfe. Nell'ottobre del 2014, il collega era stato liberato in una moschea alla periferia di Kabul. Al rientro in patria aveva raccontato che già da un anno i sequestratori avevano spostato Lo Porto. Weinstein viveva in Pakistan da sette anni e lavorava per un’azienda collegata all’UsAid, l’agenzia Usa per lo sviluppo internazionale. Era stato sequestrato il 13 agosto 2011 nella sua casa di Lahore. 

Con l’uccisione di Lo Porto, sono due gli ostaggi italiani ancora nelle mani di rapitori. Padre Dall’Oglio in Siria e il medico Ignazio Scaravilli in Libia. Non è la prima volta che un ostaggio italiano resta ucciso in un raid amico: era accaduto ad esempio nel 2012 in Nigeria, la vittima delle teste di cuoio inglesi fu l’ingegnere Franco Lamolinara.

Immigrazione: Vertice; soldi e mezzi dall'Ue sì, ma prenderseli non ancora

Scritto per Metro e, in altra versione a quattro mani, per Il Fatto Quotidiano del 24/04/2015 

A metterci più mezzi e più soldi –non tanti in assoluto, ma comunque il doppio di prima-, i leader dei 28 sono pronti. Un po’ meno a spartirsi i disperati che approdano vivi sulle coste italiane ed a cambiare le regole del diritto d’asilo, che oggi va chiesto nel Paese d’arrivo nell’Ue e non in quello di destinazione - anche perché molti, e fra questi i Grandi, Gran Bretagna, Francia, Germania, ma pure la Svezia, hanno un’incidenza di migranti nella loro popolazione maggiore dell’Italia -.
Quanto all’imboccare la via del decisionismo contro gli scafisti schiavisti, lì l’Ue vuole pensarci sopra due volte. E, intanto, affida alla Mogherini l’incarico di definire mandato e dettagli operativi di un’azione comunitaria tesa a contrastare la tratta di esseri umani, con l’obiettivo “d’individuare e distruggere le imbarcazioni” destinate a essere utilizzate dai trafficanti. Ma, prima di passare all’azione, bisognerà coinvolgere l’Onu, perché si tratta d’intervenire nelle acque e lungo le coste libiche, di un Paese terzo senza un Governo credibile e dove c’è una guerra di bande.
Affrontare la questione migratoria è "una priorità europea, non solo un problema degli stati membri del sud" dell’Unione, riconosce in apertura il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, chiedendo un minuto di silenzio, mentre fuori Amnesty celebra un funerale simbolico di tutti i morti nel Mediterraneo e a Malta ci sono le esequie dei 24 cadaveri recuperati
Sul tavolo del Vertice ci sono le 10 misure urgenti individuate dalla Commissione di Bruxelles subito dopo il naufragio di domenica. Ma se il premier Renzi, che ha un incontro preliminare con Hollande, Cameron e la Merkel, è "ottimista" sul "cambio di approccio" dell’Unione, chi s’interessa al dramma dei migranti è meno positivo: dalle carte dell’Ue, "non traspare il coraggio di cambiare rotta", perché "ci troviamo ancora una volta la preoccupazione per la sicurezza e la protezione dell'Europa e non per i migranti", dice padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli. "L'Europa deve difendere i rifugiati, non difendersi da loro". 

Cameron conferma l'offerta di una nave da sbarco, due motovedette e due elicotteri, ma insiste perché "le persone salvate siano portate nei Paesi sicuri più vicini come l'Italia e non chiedano asilo nel Regno Unito". Le risorse della missione dell’Ue Triton passeranno da 3 a 6 milioni al mese, ma non cambierà il mandato di sorvegliare le frontiere (e non di ricerca e salvataggio, come era invece per la missione italiana Mare Nostrum). La Commissione propone un progetto pilota per reinsediare nei vari Stati, su base volontaria, circa 5000 fra i rifugiati in arrivo e il ricollocamento di una parte dei migranti sbarcati in Italia, Grecia e Malta negli altri Paesi Ue.

giovedì 23 aprile 2015

Immigrazione: Ue, raddoppiare Triton e pensarci bene prima di decidere altro

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/04/2015

Una marcia funebre accoglierà i leader dei 28, oggi, a Bruxelles, per il Vertice europeo convocato nella scia di sdegno ed emozione creata dalla tragedia nel Mediterraneo di domenica: il funerale, simbolico, delle vittime del tentativo di raggiungere l'Unione attraverserà il quartiere europeo fino davanti al palazzo del Vertice. Amnesty international, che organizza il corteo con varie Ong e sigle della società civile, vuole così denunciare "la risposta vergognosa dell'Ue al bilancio di morte vertiginoso del Mediterraneo": Amnesty sollecita "l'urgente necessità di una operazione di ricerca e soccorso robusta e multinazionale", cioè una Mare Nostrum europea.

L'estensione di Triton, l’operazione attuale, mero pattugliamento dei limiti delle acque territoriali italiane, cioè dell’Unione, è uno dei 10 punti del piano proposto dalla Commissione europea ai leader dei 28. Che difficilmente andranno oltre un accordo su "misure molto pratiche" per "impedire che altre persone muoiano in mare", come si legge nella lettera di invito del presidente Donald Tusk a tutti i capi di Stato e/o di governo.

Anche per il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, la priorità è "salvare vite umane”: "bisogna rafforzare i mezzi che abbiamo a disposizione". "Al di là dell'immediato – aggiunge -, dovremo poi riflettere sull'efficacia degli strumenti e rafforzare la collaborazione coi Paesi d’origine e transito": non siamo più alle decisioni, ma alle riflessioni.

La costernazione di Angela Merkel, che trova “inconciliabili con i valori dell’Ue” le scene di morte nel Mediterraneo, e il pentimento di David Cameron, che ammette l’errore di varare in autunno un’operazione così limitata come Triton, non produrranno, quindi, iniziative radicali.

"Tutti sappiamo che quello delle migrazioni è un tema complesso –scrive Tusk-, che può essere affrontato solo se si punta alle cause a partire dalla radice”. E questo “richiederà tempo". Nell'immediato, per sventare altre tragedie, ecco il rafforzamento di Triton: ci sarà il raddoppio degli stanziamenti e magari la trasformazione in missione di soccorso in mare e salvataggio, allargando il raggio d’azione.

Certo, queste sono misure tampone. Per eradicare il fenomeno bisogna pure “combattere i trafficanti e scoraggiare le loro vittime dal mettere a rischio la propria vita” e, contemporaneamente, rafforzare “la solidarietà fra gli Stati”, cioè la condivisione dell’onere dell’accoglienza.

Le misure immediate che saranno adottate oggi saranno, per Tusk, “un primo passo nello sviluppo di un approccio Ue alla questione delle migrazioni più sistemico e geograficamente completo".

Difficile trovare nella lettera del presidente del Vertice e nelle parole dei leader dei 28 un riflesso del decisionismo sciorinato dal premier Renzi. Anche se Tusk fa sapere di condividere la linea dell’Italia sulle azioni contro il traffico di migranti: "Il punto di vista su come colpire gli schiavisti è molto simile –dice una fonte vicina all’ex premier polacco-. E bisogna trovare il consenso di tutti".

Quanto alla situazione in Libia, Juncker parla di “un processo di riconciliazione”, per il quale c’è “bisogno di un interlocutore affidabile e stabile dall'altra parte del Mediterraneo".

Le azioni che saranno condotte –come e da chi resta, al momento, indeterminato- per sequestrare e distruggere le imbarcazioni utilizzate dalle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico “saranno –dice un alto funzionario dell’Unione europea- limitate a obiettivi mirati e individuati attraverso le operazioni di intelligence” e "non saranno operazioni di guerra". Quanto alla necessità di un mandato dell’Onu, questa –è la tesi- dipenderà dall' ampiezza delle operazioni necessarie. E l’attenzione manifestata dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e dal presidente Usa Barack Obama lascia comunque sperare in un via libera della comunità internazionale.

martedì 21 aprile 2015

Immigrazione: i pirati della Somalia e gi schiavisti della Libia, moduli diversi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/04/2015
Un giorno d’inverno del 2009, il capitano Richard Phillips lascia la sua famiglia nel Vermont per condurre la Maersk Alabama, nave porta container Usa, carica di 17mila tonnellate di aiuti umanitari del Programma alimentare mondiale, da Salalah (Oman) a Mombasa (Kenya), solcando l’Oceano Indiano. In alto mare, però, la nave viene abbordata da pirati somali: Phillips viene sequestrato, ma la U.S. Navy arriva in suo soccorso, lo libera e neutralizza gli assalitori.
E’ un fatto vero. Ma molto avranno riconosciuto la trama di ‘Captain Phillips – Attacco in mare aperto’, film con Tom Hanks. Quel fatto contribuì alla mobilitazione internazionale anti-pirateria al largo della Somalia: prede dei pirati furono anche navi italiane, come la Savina Caylin, una petroliera, e la Enrico Ievoli, mentre la nave da crociera Melody e la cisterna Valdarno riuscirono a sottrarsi agli attacchi.
Il dispendioso spiegamento di unità militari Usa, Nato, Ue al largo del Corno d’Africa ha effettivamente sortito effetti positivi: i danni causati dai pirati somali ai trasporti marittimi si sono ridimensionati, nel giro d’alcuni anni. E, ora, l’Italia ipotizza qualcosa di simile nel Mediterraneo, al largo della Libia, che, proprio come la Somalia, è uno ‘Stato fallito’, senza un potere centrale forte e con il territorio controllato da tribù e fazioni. Bersaglio, questa volta, non i pirati, ma i trafficanti di persone, i nuovi ‘schiavisti’.
‘Ocean Shield’ è il contributo della Nato allo sforzo internazionale per reprimere il fenomeno della pirateria tra Golfo di Aden e Mare arabico, con due gruppi navali che dal 2008 s’alternano nell'Oceano Indiano spingendosi fino alle Seychelles.
La Marina militare italiana assicura la partecipazione di una propria unità a uno dei due. La fregata Libeccio, nel 2009, sventò tre sequestri di navi mercantili e soccorse pure un peschereccio somalo in difficoltà, traendone in salvo tutto l’equipaggio.
Partita come ‘Allied Provider’, l’operazione è poi divenuta ‘Allied Protector’ fino all’attuale ‘Ocean Shield’. Parallela alla missione della Nato, c’è quella dell’Ue ‘Eunavfor Atalanta’, che è stata più volte prorogata, visti i successi conseguiti, con la riduzione degli attacchi.
Nato e Ue basano le loro operazioni su una serie di risoluzioni dell’Onu del 2008, che, nel caso della Libia, non ci sono ancora. Fra i compiti, c’è quello di assicurare il regolare flusso in Somalia degli aiuti umanitari del programma alimentare delle Nazioni Unite, attraverso la scorta dei mercantili coinvolti. Ma la presenza delle unità di ‘Ocean Shield’ e ‘Atalanta’ ha sventato diversi sequestri e ora fa da deterrente ai pirati.
Contro la pirateria c’è da tempo una giurisdizione universale. Per il traffico delle persone il quadro giuridico è meno chiaro. Il diritto internazionale marittimo prevede che lo Stato che blocchi una nave pirata possa arrestarne l’equipaggio e processarlo presso i propri tribunali. Però, molti pirati fermati lungo le coste somale sono stati poi ricondotti a terra a causa della riluttanza degli Stati a tenerli in custodia e processarli. Usa, Ue e Gran Bretagna hanno fatto un accordo con il Kenya perché i pirati vengano lì processati e detenuti: lo stato  delle galere kenyote costituisce un ulteriore deterrente.

lunedì 20 aprile 2015

Immigrazione: Libia, i video del Califfo nel caos di uno 'stato fallito'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/04/2015

L’ennesimo video della fabbrica dell’orrore del sedicente Califfato mostra l’esecuzione di 29 copti etiopi e minaccia i cristiani: la propaganda integralista sostiene che la scena si svolge sulle rive del Mediterraneo, di quel mare che un tempo fu Nostrum, ma che è stato pure loro, lungo quelle coste libiche dove sventola la bandiera nera e da cui partono i barconi dei disperati.

E un’altra propaganda, quella della diplomazia internazionale, afferma che un accordo tra le fazioni in lotta sarebbe finalmente imminente in Libia: Bernardino Leon, inviato dell'Onu, lo cerca da mesi, finora senza risultati. Ora ci saremmo vicini, o almeno più vicini che mai in passato. Vedremo.

Non abbiamo elementi per avallare le asserzioni dell’autoproclamato Stato islamico di avere portato 29 copti sulle rive del Mediterraneo per metterli a morte, anche se la protesta di Addis Abeba sembra almeno confermare la veridicità del rapimento e dell’esecuzione.

Ma non vi sono dubbi che la Libia sia in questo momento uno Stato fallito, come la Somalia, dove gli interlocutori sono troppi, nessuno affidabile. C’è un governo internazionalmente riconosciuto che fonda la propria legittimità su una consultazione elettorale a bassissima partecipazione e che, abbandonata la capitale Tripoli, s’è rifugiato a Tobruk, sulla costa –agli italiani ricorda soprattutto pagine della seconda guerra mondiale, specie il fuoco amico che abbatté Italo Balbo-, non lontano dal confine con l’Egitto, che di questa fazione è il grande protettore.

Poi c’è un governo islamista, non proprio integralista, ma quasi, che sta a Tripoli nel vuoto creato dalla fuga del governo legittimo e che ha il punto di forza militare nelle milizie di Misurata, le sole ad opporsi sul campo alle bande del Califfato. Gli interlocutori internazionali cercano di fare dialogare Tobruk con Tripoli, che, tra l’altro, controlla i campi petroliferi al confine con la Tunisia, che fanno riferimento all’Eni, e ne permette, anzi ne garantisce, il regolare funzionamento.

Gli jihadisti integralisti hanno la loro roccaforte, l’unica per il momento in tutto il Paese, alla Sirte, la città di Gheddafi. S’erano spinti a Est a Derna, da dove, però, i raid egiziani li hanno sloggiati.

Tutto questo avviene lungo la costa di questo Paese grande tre volte l’Italia, che, per il resto, sarà pure uno scatolone di sabbia o magari un immenso giacimento di gas e di petrolio, ma il cui controllo è praticamente impossibile, nell'intreccio di ostilità tribali e contrasti politici ed economici.

Anche per questo, a un’azione militare sul terreno nessuno pensa seriamente, tranne forse l’Egitto, che in Cirenaica si sente quasi a casa. E quando l’Italia si dice pronta ad assumere la leadership d’un intervento in Libia, s’ignora quale sia il piano –se c’è- e quali ne siano gli obiettivi, al di là della stabilizzazione del Paese che la diplomazia cerca di ottenere con un’intesa tra le parti.

Mancano pure interlocutori unicovi e affidabili: a Tobruk, ad esempio, Abdullah al-Thani, 61 anni, è il premier, ma Halifa Belqasim Haftar, 72 anni, generale, uno dei comandanti di Gheddafi in Ciad, poi indotto all’esilio negli Usa, si presenta come l’uomo forte –per conto di chi, non è chiaro-.

Immigrazione: Ue, le prefiche dell'Unione tra dinieghi e 'scaricabarile'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/04/2015

Le prefiche dell’Europa tornano a recitare le loro litanie, dopo l’ennesima tragedia nel Mediterraneo d’un barcone d’immigrati, la più grave di tutte, la più prevedibile. Perché chi toglie Mare Nostrum e pretende di sostituirla con Triton, che è un’operazione più ridotta e con una missione più modesta, al limite delle acque territoriali e non oltre, sa che il rischio è questo e, implicitamente, lo accetta.

Adesso, il premier Renzi chiede un Vertice europeo straordinario in settimana e presumibilmente lo otterrà, anche se la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, lettone, non è sensibile al problema: ci sono contatti con i leader dei 28 per un consulto d’emergenza. E oggi si vedono, a Lussemburgo, i ministri degli Esteri dei 28: era previsto, ma il dramma immigrazione diventa il tema principale.

E parte il tamtam delle ovvietà. Federica Mogherini, responsabile della politica estera e di sicurezza europea, che oggi presiede la riunione, chiede che l’Ue agisca senza indugi e che i Paesi del Sud non siano lasciati soli. Francois Hollande, presidente francese, chiede di agire d’urgenza e propone un incontro congiunto Esteri / Interni –altri se ne sono già fatti, senza esito-.

Il coro dello sdegno e dell’orrore è a 28 voci. Ed esponenti delle istituzioni porteranno il cordoglio dell’Ue sui luoghi della tragedia, come fecero José Barroso e Cecilia Malmstroem nell’autunno 2013. A cominciare dal presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, oggi in Italia.

Il Papa, che scelse Lampedusa come prima tappa del suo ministero, e che ha il coraggio delle parole, piange “i fratelli che cercavano la felicità”, un’aspirazione legittima. Ma, oltre la retorica spesso ipocrita del dolore e dello sdegno, bisogna avere chiare su responsabilità, possibilità e contesto. Che non sempre sono quello che appare.

La Commissione europea non ha, al momento, né il mandato politico né la disponibilità finanziaria per fare di più di quanto non stia già facendo. E, anzi, le dimensioni di Triton, con la partecipazione di quasi tutti i Paesi Ue e pure di Paesi extra-Ue, sono un progresso e un successo, rispetto ai mezzi di Frontex Plus, l’azione europea precedente. E i Trattati non vincolano l’Ue a una politica comune dell’immigrazione e dell’accoglienza.

Bisogna, dunque, che i Governi dei 28 prendano la decisione politica di dare dimensione europea allo sforzo di evitare le tragedie dei barconi e mettano a disposizione delle autorità comunitarie soldi e mezzi. Senza di che si resta confinati a uno scambio di recriminazioni sterile; o ai ‘conti della serva’ di chi recrimina che l’Italia riceve dall’Ue meno di quanto le versa –vero, ma è così per tutti i Grandi Paesi e lo sarebbe di meno se noi utilizzassimo bene i fondi europei-.

C’è sul tappeto una proposta italiana, che è sensata, ma che è aleatoria nella realizzazione e che richiede, comunque, tempi lunghi: quella di creare, nel Nord Africa, centri di accoglienza e selezione degli aspiranti migranti, verificando sul posto chi può legittimamente richiedere asilo e chi invece aspira a migrare per ragioni economiche e intercettando eventuali improbabili infiltrazioni di terroristi e integralisti. Ma, finché in Libia c’è la guerra, il piano è difficile d’attuare.

In questo modo, certo, si supererebbe anche il vincolo degli accordi di Dublino, per cui l’asilo deve essere richiesto nel Paese d’approdo e non là dove si vuole arrivare.  

E qui veniamo al contesto. Gli arrivi di immigrati via mare nell’Unione rappresentano, comunque, anche in questa fase di emergenza, una parte ridotta, inferiore al 10% su base annua, dell’insieme degli arrivi. E Paesi come la Gran Bretagna, la Francia, la Germania e persino la Svezia ogni anno concedono più asili, molti di più, dell’Italia. E, infine, la Commissione europea calcola che l’Ue abbia bisogno nei prossimi 15 anni di 30 milioni di migranti, per fronteggiare il calo demografico e le esigenze economiche: ci vuole, quindi, accoglienza, non respingimenti.

domenica 19 aprile 2015

Ue/Grecia: Atene irrita Bruxelles, negoziato in stallo, ma l'Italia non rischia

Scritto per EurActiv.it il 19/04/2015 

La Grecia turba l’Ue a Washington e la irrita a Bruxelles: passano le settimane, ma la soluzione della trattativa apertasi dopo le elezioni di fine gennaio non s’avvicina. E Atene ‘flirta’ con Mosca, in un intreccio di indiscrezioni e smentite sui possibili aiuti russi (finanziari e/o energetici).

La prossima settimana, i ministri dell’Unione e dell’eurozona torneranno a riunirsi, dopo una pausa di circa un mese. I responsabili delle Finanze si vedranno a Riga, in modo informale, ma si sono già visti a Washington in settimana, alle sessioni di primavera del Fondo monetario internazionale. 

Grecia protagonista a Washington e a Bruxelles 

Dove la Grecia è entrata in molti discorsi. Il presidente della Bce Mario Draghi dice che “il futuro del Paese è nelle mani del governo di Atene” e che è “prematuro speculare su un’uscita della Grecia dall’euro”, ma che “è meglio essere equipaggiati”. Il ministro greco Yanos Varoufakis gli fa eco: è “fiducioso e ottimista” e non crede che “la comunità internazionale stia perdendo la pazienza”, anche se a misurare certe dichiarazioni delle Istituzioni internazionali qualche dubbio dovrebbe averlo.

Il ministro italiano Pier Carlo Padoan non esclude una crisi greca, ma assicura che essa non avrà “nessun impatto” sull’Italia, il cui debito –dice- “si stabilizza”, perché “l’area euro è più forte”. "Tocca ad Atene fare proposte concrete su un programma di riforme da sottoporre alle istituzioni e all'Eurogruppo … Il negoziato va avanti, non è semplice: ora sta al governo greco farsi avanti”.

E mentre gli appuntamenti di Washington confermano il miglioramento del clima economico internazionale –la ripresa della zona euro si rafforza e ne migliorano le prospettive, il QE della Bce funziona e proseguirà come previsto fino a settembre 2016-, dalla Grecia giungono voci –e smentite- di casse quasi a secco e di stipendi pubblici e pensioni a rischio, anche se il governo assicura che  tutto sarà pagato normalmente anche e maggio –il che non rappresenta di per sé un’enorme rassicurazione-. 

L’agitazione dei mercati e l’impazienza delle Istituzioni 

I mercati, però, rimasti a lungo indifferenti al tiramolla Ue-Grecia, da qualche giorno temono il contagio: Borse giù e spread su, fin quasi a quota 150. E le banche centrali dei Paesi dell’Europa sud-orientale si svincolano dal debito con Atene.

Non ci sono scadenze vincolanti immediate, anche se l’Eurogruppo attendeva una lista di riforme entro il 20 aprile per poterne discutere nell’informale di Riga il 24 e se c’è in gioco una fetta di aiuti da 7,2 miliardi. Il capo dell’Fmi Christine Lagarde dice che l’importante è avere un’intesa prima dell’estate. Ma la Commissione europea dichiara la propria “insoddisfazione” per gli scarsi progressi fatti e invita a intensificare i lavori e l’Fmi, intanto, ribadisce il no a diluire il debito.

L’idea comune alle Istituzioni internazionali è che la trattativa è in stallo e che Atene non fa passi avanti sulle riforme, mentre la situazione politica e sociale greca torna a deteriorarsi. 

Un quadro di riferimento improntato all’ottimismo 

Il quadro di riferimento internazionale, europeo e italiano, resta, invece, improntato all’ottimismo, nonostante in Italia i tecnici del Parlamento lancino un allarme sul Def, individuando il rischio d’una manovra aggiuntiva da 6 miliardi, e BankItalia calcoli che a febbraio il debito è ancora salito a 2.169,2 miliardi, un nuovo record.

L’Fmi ritocca al rialzo le stime per l’Italia: +0,5% Pil nel 2015, +1,1% nel ‘16, con disoccupazione rispettivamente al 12,6 e 12,3% -l’Italia resta, però, dopo Cipro, la peggiore della classe dell’euro-.

Per Padoan, “i nostri conti sono pienamente nell’ambito delle regole Ue” e le stime sulla crescita sono “prudenti”. BankItalia vede segnali più favorevoli, anche se la ripresa è ancora incerta, e invita ad andare avanti con le riforme per rilanciare crescita e lavoro.

venerdì 17 aprile 2015

Usa 2016: repubblicani, Rubio sollecita una “scelta generazionale”

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 17/04/2015 

2015/04/17 – E’ il più giovane di tutti, almeno per ora, ed è il più sfrontato. Anche perché ha poco da perdere: (quasi) nessuno pensa che possa arrivare fino in fondo, almeno non questa prima volta. Marco Rubio, senatore della Florida di origini cubane, è il terzo esponente repubblicano ad avere  ufficialmente annunciato la sua candidatura alla nomination del partito per le presidenziali del 2016. In lizza ci sono già altri due senatori, Ted Cruz del Texas e Rand Paul del Kentucky. L’annuncio, fatto lunedì scorso, il giorno dopo quello di Hillary Rodham Clinton, ha avuto un impatto mediatico non eccezionale, nonostante l’evento alla Torre della Libertà di Miami abbia richiamato migliaia d’esuli cubani e potesse sfruttare l’effetto traino della pacificazione tra Usa e Cuba al vertice delle Americhe di Panama la settimana scorsa. Il senatore Rubio sollecita gli elettori a compiere quella che definisce una "scelta generazionale": un riferimento poco elegante a Hillary, 67 anni e –dice Rubio- ferma “al passato”; ma che si confà anche al battistrada repubblicano di questa campagna, Jeb Bush, ex governatore della Florida, figlio e fratello rispettivamente del 41° e 43° presidente degli Stati Uniti. Come Jeb, Rubio è un centrista: punta su elettori lontani dagli estremismi populisti del Tea Party. "Mi sento particolarmente qualificato" per guidare il Paese, dice ai suoi finanziatori. E ai suoi sostenitori: "E' giunto il tempo per la nostra generazione di guidare un nuovo secolo americano”. (dispacci d’agenzia – gp)

giovedì 16 aprile 2015

Italia-Usa: Renzi da Obama, dialogo tra un esuberante e un sobrio

Scritto per Formiche il 15/04/2015

Ci sono tutti i presupposti perché Barack Obama e Matteo Renzi confermino la tradizionale e solida buona intesa tra Usa e Italia, nel loro incontro nello Studio Ovale venerdì 17 aprile –tranquilli!, negli Stati Uniti il numero che porta male è il 13-. Ma Matteo con Barack deve superare l’handicap dei precedenti.

Obama mostrava un’intolleranza quasi fisica rispetto a Silvio Berlusconi, di cui non sopportava l’esuberanza: le immagini del G8 dell’Aquila nel luglio 2009 o del G20 di Pittsburgh nel settembre dello stesso anno lo dicono molto meglio dell’ovvia reticenza in merito delle dichiarazioni ufficiali e sono parte della spiegazione della rarefazione dei contatti dopo di allora. Il presidente americano scelse come interlocutore italiano, a parte le occasioni multilaterali, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che invitò pure a prendere un te alla Casa Bianca, nel tentativo di capire che cosa stesse succedendo in Italia, e pure in Europa.

Ai successori di Berlusconi, invece, Obama aprì un credito di fiducia: Mario Monti ed Enrico Letta non erano indiziati di esuberanza fisica e avevano l’uno l’autorevolezza accademica e l’altro l’accuratezza tecnocratica per portare alla Casa Bianca un’immagine dell’Italia diversa, più positiva –all’epoca, si sarebbe detto ‘sobria’- e più credibile. Ma il credito di fiducia americano verso di loro non trovò riscontro in Italia: i due premier finirono travolti da manovre politiche e si rivelarono interlocutori effimeri.

Renzi, che con Monti e Letta ha in comune il fatto di non essere stato ‘legittimato’ come premier dal voto popolare, deve quindi convincere gli americani di esserci per durare –e questo gli può essere relativamente facile, nell'attuale panorama politico italiano- e per fare quel che dice di volere fare –e questo gli è meno facile-. Inoltre, Matteo deve tenere a freno l’esuberanza, ché Obama non è uomo da pacca sulle spalle come Clinton né da battute come Bush (che non sempre le capiva, ma ne rideva).

Sul piano della sostanza, almeno dal 2012 tra Usa e Italia c’è sintonia sulla necessità di mettere l’accento sulla crescita più che sul rigore in economia e sulla creazione di posti di lavoro. Solo che loro riescono a farlo e noi in Europa molto meno di loro e in Italia, almeno fino a ieri, al 31 marzo, per nulla.

Sulla scena internazionale, l’Afghanistan e la lotta al terrorismo, l’accordo sul nucleare con l’Iran e la crisi in Ucraina vedono l’Italia in sintonia sostanziale, o comunque dichiarata, con gli Stati Uniti. Renzi proverà a tirare per la giacca Obama sulla Libia, ma è da escludersi che ne ottenga impegni, al di là della condivisione della gravità della situazione e della necessità di addivenire a un’intesa tra le parti. Il presidente americano non vuole finire nell'ennesimo pantano.

mercoledì 15 aprile 2015

Usa 2016: democratici e repubblicani, la priorità sono i soldi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/04/2015 

Trovare i voti. Ma, prima, trovare i soldi per cercare i voti. Le campagne elettorali negli Stati Uniti sono idee, slogan, promesse, primarie, dibattiti, famiglie sul palco, convention spettacolari, tonfi e ascese. Con un punto fermo: senza soldi, in fondo non ci arrivi. E quella 2016 s’annuncia fin d’ora come la campagna più costosa della storiia.

Mitt Romney, candidato dei repubblicani nel 2012, s’è fatto da parte prima ancora che cominciasse la conta dei suffragi: ha rinunciato dopo avere saputo che molti donatori che lo avevano sostenuto quattro anni or sono avrebbero foraggiato questa volta Jeb Bush.

Le campagne dei democratici e dei repubblicani sono diverse sotto molti punti di vista: i messaggi e il modo di veicolarli. Ma l’obiettivo di raccogliere quanto più fondi possibile è comune. Nel tempo, i democratici hanno scoperto prima dei repubblicani la tv e internet e i social media –ma oggi si sta ad armi pari. Per Usa 2016, Hillary, ha un problema opposto ai suoi potenziali avversari: lei, che è arcinota, deve evitare di strafare. Così, nel suo primo video, non è lei la protagonista, ma l’America degli ‘ordinary people’, della gente qualsiasi: lei si propone come il campione di quell’America.

I candidati repubblicani, quelli già dichiaratisi e quelli che s’apprestano a farlo, hanno invece il problema di farsi conoscere e riconoscere, ancora prima che di farsi apprezzare. E, inoltre, impegnati nelle primarie in una battaglia fratricida, spenderanno lì molti soldi, mentre Hillary potrebbe attraversare le primarie relativamente indisturbata e, quindi, senza svenarsi troppo.

Però, le attuali regole del finanziamento elettorale, che non limitano drasticamente, come in passato, le donazioni dei grandi gruppi, favoriscono i repubblicani sui democratici: il ‘metodo Obama’,, raccogliere somme enormi via internet con piccole donazioni individuali potrebbe non bastare, davanti alla libertà d’azione dei Pac (Political action committee, con limiti di spesa) e Super-Pac (senza limiti di spesa, ma che non finanziano direttamente una campagna). Ma Pac e Super-Pac c’erano già nel 2012 e non bastarono a Romney per vincere.

Certo, Hillary e i democratici non possono lasciare i grandi finanziatori ai rivali repubblicani. Così, Politico.com ha recentemente seguito le ‘primarie di Goldman Sachs’ che Hillary e Jeb, i due battistrada dei rispettivi schieramenti, avrebbero discretamente –ma neppure troppo- disputato nelle ultime settimane: obiettivo, accaparrarsi i favori (e, quindi, i finanziamenti) della più potente banca di Wall Street.

Hillary, che mira a raccogliere più fondi di quanti non riuscì a metterne insieme Obama, ha –lei personalmente e il marito Bill- un rapporto di lunga data con i responsabili di Goldman Sachs. E Jeb li sta corteggiando con una serie di visite a New York.

Il mese scorso, nello stesso giorno Bush ha partecipato a un evento al Ritz Carlton organizzato da Dina Powell, che guida la Goldman Sachs Foundation e che lavorò alla Casa Bianca con George W. Bush, fratello dell’ex governatore della Florida, ed è intervenuto a un evento curato da Jim Donovan, un dirigente della banca, nel 2012 fra i principali sostenitori di Mitt Romney.

Charles Geisst, storico di Wall Street al Manhattan College, commenta: "A Goldman Sachs piace giocare sui due i fronti, in particolar modo in questo caso, perché entrambi i candidati, Bush e Clinton, potrebbero in definitiva rivelarsi utili”. La banca, dunque, foraggerà entrambi, come spesso fanno, a conti fatti, le grandi corporations: avere un presidente amico è fantastico, ma rischiare d’averne uno nemico è terribile.

Usa 2016: Hillary, c'è del nuovo anche nell'usato sicuro

Scritto per Metro del 15/04/2015 e ripreso su www.GpNewsUsa2016.eu 

Dialogo non proprio immaginario con un collega più scettico di me sugli Stati Uniti: “Quale sarà – mi chiede – il match 2016 per la Casa Bianca?”; “Bush contro Clinton”, azzardo io; “Maddai, quello era il 1992: George Bush, presidente dal 1989, dopo essere stato il ‘vice’ di Ronald Reagan per otto anni, fu battuto dallo sfidante democratico Bill Clinton”; “Ti assicuro, sarà probabilmente così pure nel 2016, ma non gli stessi, altri due”; “Ah, un caso di omonimia?”; “Beh, non proprio. Bush è Jeb, il figlio del 41° presidente degli Stati Uniti e il fratello del 43°, George W., che intanto è stato alla Casa Bianca dal 2001 al 2009. E Clinton è Hillary Rodham Clinton, la moglie di Bill, first lady dal 1993 al 2001, senatrice dello Stato di New York dal 2001 al 2007, candidata alla nomination democratica nel 2008, segretario di Stato dal 2009 al 2013”; “Non ci credo: sempre gli stessi nomi, dinastie, longevità politiche, pare l’Italia, non l’America”.

Invece, nel dna della politica ‘made in Usa’ degli ultimi 70 anni almeno c’è anche tutto questo: le dinastie, a cominciare dai Kennedy; gli ‘a volte ritornano’, ché la ‘seconda chance’ è un ingrediente essenziale del sogno americano, a cominciare da Richard Nixon, battuto nel 1960, vincitore nel ’68; e, infine, le partite rigiocate, come accadde negli Anni Cinquanta, quando i democratici mandarono due volte l’ambasciatore Adlai Stevenson contro il generale Dwight Eisenhower (e persero due volte).

Certo, verso Usa 2016 la voglia di usato sicuro e di brand conosciuti pare davvero forte, se si pensa che una possibile alternativa alla sfida Clinton-Bush è un match Kerry-Bush, quasi una riedizione tale e quale di quello 2004: Kerry è lo stesso –John, allora senatore, attualmente segretario di Stato-, Bush il fratello.

Ma non è a mio avviso giusto schernire gli americani, come se gli alfieri dell’innovazione, il Paese di Steve Jobs, di Facebook e delle startup nei garage, si limitassero a scelte politiche dal sapore antico. Clinton-Bush sa di vecchio, ma una donna alla Casa Bianca per la prima volta, dopo un nero per la prima volta, sarebbe una novità forte. E, fra 4 o 8 anni, magari toccherà ad Andrew Cuomo, altro nome da usato sicuro, figlio di Mario. Ma sarebbe il primo italo-americano. E continuità e innovazione andrebbero ancora a braccetto.