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martedì 31 marzo 2015

Democratici: Reid lascia, leader Senato forse Schumer

Scritto per www.GpNewsUsa2015.eu il 31/03/2015

31/03/2015 - Del leader, non gliene hai mai dato nessuno. Con la sua aria mite e i suoi capelli bianchi, fini e molto spesso ribelli, Harry Reid è, però, indubbiamente un a brava persona. E questo glielo riconoscono in molti, colleghi di partito e avversari. Specie ora che ha annunciato il suo ritiro, dopo trent'anni di presenza in Congresso. L’addio non sarà brusco: nel 2016 non si candiderà più. Reid, dal 2005 capofila dei democratici al Senato di Washington, ha pubblicato la settimana scorsa un video messaggio su YouTube, indicando come possibile successore Chuck Schumer, senatore dello Stato di New York. Reduce da un incidente domestico, un infortunio subito mentre si allenava nella sua casa di Las Vegas, Reid spiega nel video che lividi in faccia e l'occhio ancora malconcio non hanno nulla a che vedere con la sua decisione: "Vogliono andarmene al top, non voglio essere come il pugile 42enne designato come vittima sacrificale", dichiara il senatore del Nevada, 75 anni, che pugile, a livello dilettantesco, lo è stato davvero. "Un lottatore", lo definisce il presidente Obama. "Nei suoi cinque mandati senatoriali, ha lottato per posti di lavoro buono, per un ambiente che sia migliore per i nostri figli, per una sanità accessibile a tutti … Non s’è mai tirato indietro rispetto a decisioni difficili, non ha mai avuto paura di scegliere ciò che era giusto invece di ciò che era facile". Il leader dei repubblicani al Senato Mitch McConnel saluta "un avversario formidabile". Di semplici origini, Reid si laureò in legge alla George Washington University: per pagarsi gli studi faceva il poliziotto a Capitol Hill. "Per una persona con le mie origini e il mio background que che è successo è stato davvero un miracolo", commenta nel suo video. (dispacci d’agenzie – gp)

Francia: Sarkozy; i mai domi, quelli che cadono e si rialzano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/03/2015

Nel cinema multisala della politica europea, oggi danno due classici, A volte ritornano (un horror del 1991, da un racconto di Stephen King, con Tim Matheson) e Duri a morire (Die Hard, 1995, terzo d’una serie poliziesca con Bruce Willis). Ma il protagonista di questi due remake è lo stesso, Nicolas Sarkozy, l’ultimo ‘ercolino sempre in piedi’ della politica internazionale, uno che, come Silvio Berlusconi, non vuole saperne di mollare e di ritirarsi, anche quando i risultati gli sono avversi e gli scandali sembrano sommergerlo.

Pareva un sopravvissuto già durante il suo mandato presidenziale, travolto dalla crisi, che non era colpa sua, ma c’era, e dai sospetti di corruzione. E pareva finito quando, estromesso dall’Eliseo e senza potere nel partito, il 1° luglio 2014 venne tenuto in stato di fermo per 15 ore –non era mai accaduto a un ex presidente francese-, prima di essere messo in stato d’accusa per reati finanziari.

Eppure, adesso eccolo lì: il partito di nuovo suo, l’Ump della ‘destra repubblicana’, vince le elezioni –sia pure le amministrative-; e lui è pronto a fare il battistrada nella campagna per le presidenziali del 2017, passando attraverso la verifica delle regionali di fine anno. Gli giocano a favore l’avversione della maggioranza dei francesi per la destra xenofoba e anti-europea di Marine Le Pen e la mancanza di carisma del presidente in carica e capofila socialista François Hollande. Gli può giocare contro la ripresa dell’economia, che è quasi inevitabile a questo punto, e qualche scheletro che dovesse uscire dai suoi armadi. Dove c’è un po’ di tutto, politica, donne, affari.

Per molti versi, il paragone con Berlusconi ci sta. Ma fra i due non c’è simpatia e neppure rispetto: il 23 ottobre 2011, Sarkozy e Angela Merkel –da indiani metropolitani post-datati - “seppellirono sotto un risolino” il premier di un’Italia a rischio amministrazione controllata da parte della troika. Tre settimane più tardi, Berlusconi lasciava il governo; e un suo ritorno –sarebbe il terzo- non pare imminente.

Di ‘mai domi’, ce ne sono di tipi diversi. E spesso sono di destra, conservatori. Ma le eccezioni di sinistra non mancano. Ci sono quelli che vincono, perdono, tornano e rivincono, come Sarkozy e Berlusconi, appunto, ma pure come Benjamin Netanyahu, premier israeliano, che fu premier dal 1996 al ’99, ma poi rimase al margine dei giochi per un decennio, fin che nel 2009 riconquistò il potere –ed ora è al quarto mandato-.

Non sono figure inedite, nella politica internazionale. Nell’ ‘800, un presidente degli Stati Uniti, Grover Cleveland, democratico, fu sconfitto da uno sfidante repubblicano, Benjamin Harrison, dopo il primo mandato, nel 1888, ma quattro anni più tardi, nel 1892, si prese la rivincita: batté Harrison e tornò alla Casa Bianca. E la Gran Bretagna, solo nel secolo scorso, ha la stucchevole alternanza, tra le due guerre, tra Stanley Baldwin, conservatore, e Ramsay McDonald, laburista; e, nell’immediato dopoguerra, ha la clamorosa caduta e risurrezione di Winston Churchill –e pure quella meno vistosa di Harold Wilson-.

Poi, ci sono quelli che, alla vigilia di un’elezione, vengono dati per spacciati, ma poi ce la fanno lo stesso, come accaduto a Margareth Thatcher nel 1987, quando partiva battuta dal leader laburista gallese Neil Kinnock, o poche settimane or sono a Netanyahu.

Poi ci sono quelli che fanno finta di farsi da parte, ma mettono il cappello sul posto e fanno in modo che a sedersici sopra sia un loro fantoccio. L’esempio è Vladimir Putin, costretto dalla Costituzione a cedere la presidenza per un quadriennio a Dmitry Mevdevev nel 2008 e poi pronto a riprendersela nel 2012 con l’intento di tenersela per altri due mandati.

Infine, ci sono quelli che ci provano e riprovano: prendono batoste, ma non mollano; e alla fine la spuntano. Richard Nixon fu battuto da John Kennedy nel 1960 alle presidenziali Usa; e nel 1962 perse il voto da governatore della California. Ma nel 1968 riottenne la nomination repubblicana e divenne il 37° presidente degli Stati Uniti, prima di finire con un tonfo nel Watergate. In Francia, François Mitterrand fu battuto dal generale De Gaulle nel 1965 e poi da Valéry Giscard d’Estaing nel 1974, prima di conquistare l’Eliseo nel 1981 e di ripetersi nel 1988.

E da noi? I nostri sono poco ‘ercolini’, ma di sicuro molto ‘sempre in piedi’. Solo nella Repubblica, andate, tonfi e ritorni al potere ne hanno fatti Fanfani, Segni, Leone, Moro, Andreotti, Rumor, Andreotti, Amato, Prodi e, da ultimo, Berlusconi. Campioni!

domenica 29 marzo 2015

Crisi: ottimismo Ue, euforia Italia, nube Grecia

Scritto per EurActiv.it il 29/03/2015

Ancora, e solo, nubi greche nel cielo dell’ottimismo europeo. Bruxelles attende da Atene la lista delle riforme fra timori di contraccolpi alla riapertura della Borsa, calata del 18% in un mese, dopo che Fitch venerdì ha declassato i titoli di Stati greci. Il governo Tsipras dice di volere una soluzione d’intesa con i partner europei, ma fa pure sapere di essere pronto “al peggiore scenario”: il che non suona incoraggiante.

Se non ci fosse la Grecia, l’Unione europea, e dentro di essa la zona euro, parrebbero un paradiso: previsioni di crescita tutte in rialzo, ‘drogate’ dall’euro debole e dal petrolio a prezzo bassissimo.

Ma Atene tiene l’Ue in apprensione, nonostante la volontà di collaborazione emersa dalla visita, all'inizio della settimana, del premier Tsipras alla cancelliera Merkel. La lista delle riforme deve arrivare entro domani e dovrebbe essere vagliata da un Eurogruppo non ancora convocato.

Il governo Tsipras dichiara l’intenzione di rispettare gli impegni, in un quadro di “giustizia sociale”. Però, le notizie di un riacutizzarsi delle difficoltà in Grecia, ad esempio con carenze di medicinali, suscita allarme e preoccupazione.

L’Italia, invece, pare in preda all'euforia, a parte Maurizio Landini e la sua ‘Coalizione sociale’, secondo cui il Governo Renzi fa comunella con Confindustria e Bce. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si iscrive nella tradizione europeista del suo predecessore Giorgio Napolitano e afferma che, se il rigore è stato giusto, ora serve la crescita.

E il governo alza le stime di crescita nel Def allo 0,7% per il 2015, dicendosi nel contempo fiducioso che, a conti fatti, abbia ragione Confcommercio, che prevede una crescita dell’1% quest’anno e dell’1,4% nel 2016, con un impatto dello 0,2% in contro Expo e dello 0,3% in conto Giubileo –ma se il Giubileo comincia a dicembre, come farà mai a pesare così tanto?-.

Certo, se si tiene conto dell’intervento del presidente della Bce Mario Draghi al Parlamento italiano, per cui il Quantitative Easing da solo vale l’1% di Pil in più, resta in dubbio se la crescita sia davvero forte e stabile. Il governatore di BankItalia Vincenzo Visco avverte che il QE “si smorzerà”, una volta raggiunto l’obiettivo.

E allora sia Draghi che Visco esortano a perseverare sulla strada delle riforme. E Draghi, a chi ce l’ha con l’euro, ricorda che, ai tempi della lira, lo spread Italia/Germania era intorno a 500, mentre ora sta intorno a 100.

Nell'Unione, e nella zona euro, la crescita è più solida che in Italia: la Bce rivede le stime del Pil al rialzo del + 0,5% quest’anno e del +0,4% il prossimo. E s’aspetta che l’inflazione risalga verso fine anno, riavvicinandosi al 2%.

In Italia, i dati a consuntivo restano insoddisfacenti: a gennaio, il fatturato dell’industria è calato dell’1,6%, del 2,5% su base annua, nonostante una forte crescita del settore autoveicoli.

Confindustria, però, anticipa un ritorno alla crescita del Pil nel primo trimestre, con un +0,2%, e pure un miglioramento della produzione industriale e vede segnali di ripartenza dell’occupazione, per analizzare i quali, però, bisognerà attendere risultati più probanti.

L’Istat annuncia segnali positivi dal commercio estero extra Ue, in crescita a febbraio sia nell'export +4,5% che nell'import +1,1%, con un avanzo salito a 2,840 miliardi.

E il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ne ricava la considerazione che l’Italia ha la fiducia dei mercati e deve ora conquistare quella di cittadini e imprese. Che stenta ad affermarsi anche perché, ci ricorda l'Ocse, in Italia la corruzione percepita sfiora il 90%: il dato più elevato nel Mondo sviluppato.

Yemen: la 'tempesta decisiva' del re saudita (e i dubbi suoi e su di lui)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/03/2015

L'intervento militare arabo sunnita guidato dall'Arabia Saudita nello Yemen continuerà “finché non saranno raggiunti tutti gli obiettivi”: la sconfitta dei ribelli sciiti Houthi e la restaurazione della pace nel Paese: parola di re. Salman bin Abdulaziz, monarca saudita, lo dice al vertice della Lega araba a Sharm el Sheikh.

Il ‘giovane’ re di quasi 80 anni, ma sul trono da appena due mesi, conduce con piglio determinato l’Arabia Saudita su territori politici e militari inesplorati da oltre mezzo secolo. In Egitto c’era Nasser - ed era il nemico - l’ultima volta che i sauditi combatterono nello Yemen. Oggi, l’egiziano al-Sissi è il principale alleato.

Per Robert Fisk, che ne scrive su The Independent, l’Arabia Saudita, con questa guerra, sta facendo “un salto nell’abisso”. Il giornalista, forse il miglior conoscitore anglo-sassone del Medio Oriente, si chiede chi abbia davvero deciso di aprire il conflitto nella più povera delle Nazioni arabe: “I sauditi, del cui re si dice nel mondo arabo che non sia capace di prendere decisioni da capo di stato?, o magari i principi dell’esercito saudita, preoccupati che le loro stesse forze di sicurezza non siano leali alla monarchia?” e avvertano il richiamo dei messaggi integralisti di al Qaida e del Califfato? Di qui, in fondo, dall’Arabia Saudita venivano Osama bin Laden e 15 dei 19 terroristi kamikaze dell’11 Settembre 2001.

Al Vertice di Sharm, re Salman tiene a precisare che il Consiglio di cooperazione del Golfo risponde, con la missione ‘Tempesta decisiva’, a "una richiesta di intervento" del presidente yemenita legittimo Hadi, dopo che gli insorti Houthi non vollero “discutere della crisi a Riad".

Se i ribelli minacciano "la sicurezza regionale e la pace internazionale", anche l’intervento militare della coalizione araba è un grosso rischio: può scatenare un conflitto generale tra sciiti e sunniti. E gli Usa non sanno a chi dare i resti, tanto più che la retorica sciita descrive l’azione anti-Houthi come “una cospirazione saudita-americana”.

Non è (del tutto) vero. Washington appoggia l’intervento per ripristinare la legalità internazionale: Obama lo dice di persona a re Salman. E la marina Usa recupera nelle acque del Golfo di Aden piloti sauditi dispersi. Ma, nel contempo, l’America non vuole rompere con Teheran, mentre s’avvia a Losanna quella che potrebbe essere la fase finale dei negoziati sui programmi nucleari iraniani. La diplomazia internazionale, tramite il segretario generale dell’Onu Ban, si limita all’appello alle parti a negoziare per evitare “una lunga guerra”.

Riad non esclude il dialogo, se “i leader golpisti tornano alla ragione". Re Salman è contro gli sciiti, ma pure contro l’integralismo sunnita del sedicente Califfato: il “doloroso” momento è "il risultato di terrorismo e politiche settarie"; e insiste per fare del Medio Oriente una "zona denuclearizzata" (un ritornello anti-israeliano, che ora suona pure anti-iraniano). L’egiziano al-Sisi attribuisce la crisi “a interventi stranieri”, leggasi iraniani.

I raid aerei della coalizione araba hanno già colpito numerosi obiettivi nello Yemen e fatto vittime, specie a Sanaa, la capitale occupata dal settembre scorso dalle milizie Houthi. Fra i luoghi attaccati, la base aerea di al Dalaimi e un deposito dove la famiglia dell'ex presidente Saleh teneva migliaia d’armi della Guardia Repubblicana, oltre al palazzo presidenziale e ad altre postazioni militari.

Numerosi i raid nella provincia di Saadah, al confine con l'Arabia Saudita, roccaforte degli Houthi, e sul porto di Hodeida, sullo Stretto di Bab el Mandab, importante per i rifornimenti dall'Iran. Pure colpiti la base aerea di Tarek, nella regione di Taiz, e obiettivi nella zona di Aden. Dal canto loro, gli Houthi avrebbero compiuto incursioni in territorio saudita.

Che l’Iran non intenda stare a guardare e che il conflitto nello Yemen possa condizionare l’impegno contro il Califfato lo avalla una voce diffusa dal canale arabo della Bbc: il generale iraniano Soleimani, capo della Forza Qods delle Guardie della rivoluzione islamica, avrebbe lasciato l'Iraq per recarsi in Yemen. Suleimani era l’artefice delle operazioni contro lo Stato islamico a Tikrit, insieme ai vertici militari iracheni.

sabato 28 marzo 2015

Yemen: il cubo di Rubik degli arabi, alleati e nemici a geometria variabile

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/03/2015

Nel Medio Oriente, l’unica guerra che per ora non scoppia è quella paventata da due generazioni: un conflitto arabo-israeliano. Con l’esplosione della polveriera yemenita, il 'cubo di Rubik' d’una regione in fiamme mostra tutte le sue facce: Egitto, Arabia saudita, Califfato, Iran, Usa e, volta a volta, Yemen, Libia, Tunisia. Fuori dal quadro l’Europa, l’Onu, la Russia, ma anche Israele, che non appaiono al momento variabili decisive di questo gioco.

La crisi yemenita, palese da mesi, è precipitata in una manciata di giorni: un conflitto di potere, dentro e fuori dal Paese, mascherato da ennesimo capitolo dello scontro confessionale tra sunniti e sciiti. In attesa del Vertice di oggi a Sharm el-Sheick, la comunità internazionale pare fuori gioco, ridotta agli appelli alla soluzione diplomatica. E il petrolio non s’impenna.

Riad e Il Cairo, con l’appoggio della Lega araba, discutevano da mesi la creazione di un’alleanza militare araba “multifunzione”: lo Yemen e la Libia, fonti di insicurezza per sauditi ed egiziani, erano in testa alla lista dei possibili teatri operativi, nota Eleonora Ardemagni, brillante analista del Medio Oriente.

L’azione militare in atto ha il sapore “del conflitto indiretto per l’egemonia regionale tra Iran e Arabia Saudita”. Per Riad, lo Yemen è una questione di politica interna e di sicurezza nazionale. Mentre il negoziato agli sgoccioli sul nucleare di Teheran scava un nuovo fossato fra sauditi e americani, “la natura politico-territoriale del conflitto nello Yemen rischia di essere distorta e travolta dagli interessi e dai rancori delle superpotenze regionali”. E infatti i governi sciiti di Iraq e Siria, come gli Hezbollah libanesi, tuonano, con l’Iran, contro l’iniziativa saudita.

La Coalizione araba a guida saudita e le forze regolari yemenite, fedeli al presidente in fuga, Hadi, hanno ieri ripreso "il totale controllo dello spazio aereo" del Paese ai ribelli sciiti Houthi e alle forze fedeli all’ex presidente Saleh, annuncia, in diretta su al Jazira, il generale saudita Ahmed al Asiri, portavoce militare.

Al Asiri precisa che i raid aerei hanno battuto le linee di rifornimento fra le postazioni ribelli, dopo che ieri avevano colpito installazioni militari, comprese batterie missilistiche, degli Houthi.

Secondo il generale, le forze armate yemenite continuano a difendere Aden, nel Sud del Paese, dove le istituzioni riconosciute dalle Nazioni Unite si sono trasferite dopo che la capitale Sanaa era stata presa dagli houthi; e hanno ripreso la base di Al Annad, la più importante nel Sud, caduta nelle mani dei ribelli dopo essere stata abbandonata dai militari americani e britannici.

I raid –dice al Asiri- continueranno "fino a quando sarà necessario". Non sono per ora previste operazioni di terra, ma non sono neppure escluse per il futuro: "Faremo tutto quanto necessario per proteggere il legittimo governo dello Yemen".

Iniziato giovedì sera a mezzanotte ora locale, l'intervento armato in Yemen contro i ribelli sciiti vede impegnate forze di 10 paesi musulmani, tutti sunniti, nell’operazione ‘Decisive Storm’, tempesta decisiva, che, in inglese, suona come la ‘Desert Storm’ della Guerra del Golfo del 1991.

Il grosso delle forze è fornito dall'Arabia Saudita: 100 aerei e fino a 150.000 truppe di terra. Mai Riad si era impegnata così militarmente: una conferma dell’interventismo saudita, dopo l'avvento al trono, il 23 gennaio, del nuovo sovrano Salman bin Abdulaziz al Saud. (primo atto, la gestione della produzione di greggio per fare cadere i prezzi, mettere in ginocchio la Russia e fare finire fuori mercato lo shale oil Usa).

Gli Emirati Arabi Uniti forniscono 30 aerei; il Bahrein ed il Kuwait 15; il Qatar 10. Dei membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, manca solo l'Oman, confinante a ovest con lo Yemen. Ma ci sono il Marocco, con 6 caccia-bombardieri, la Giordania con 6 aerei; il Sudan con 3. L'Egitto schiera 4 navi da guerra all'imboccatura del Mar Rosso, sullo stretto di Bab el Mandeb, 30 km di mare tra Gibuti e Yemen da cui passa il 40% del petrolio mondiale, e promette aerei e truppe se necessario.

La Turchia condivide politicamente l’attacco. Il Pakistan, sunnita ma non arabo, è pronto a dare appoggio navale e aereo. La coalizione è sostenuta dagli Stati Uniti, che danno supporto logistico e d’intelligence.

venerdì 27 marzo 2015

Yemen: una polveriera, prove di guerra tra sciiti e sunniti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/03/2015

Il presidente Hadi, un sunnita, in fuga via mare su un’imbarcazione; i ribelli Houthi, sciiti, sostenuti da truppe fedeli all’ex presidente Saleh, in marcia su Aden, dopo avere conquistato una base aerea Usa abbandonata; gli aerei sauditi che bombardano le postazioni degli insorti; il presidente Obama che assicura supporto d’intelligence e logistico alla coalizione araba guidata da Riad; Teheran, e Damasco, che denunciano l’aggressione saudita e americana e ne chiedono l’immediato stop.

Il conflitto nello Yemen precipita e si allarga pericolosamente, rischiando di compromettere –ma Washington non vorrebbe– pure i negoziati sul programma nucleare iraniano, giunti quasi in porto. Quello che finora appariva come un capitolo locale del grande scontro in atto nella Regione tra sciiti e sunniti si rivela un tassello di quella Terza Guerra Mondiale di cui ha recentemente parlato Papa Francesco.

Il presidente legittimo Abd Rabbo Mansour Hadi, sul cui capo i ribelli sciiti hanno posto una taglia di 100 mila dollari –una cifra apparentemente irrisoria, ma in questo Paese di 20 milioni d’abitanti la metà vive sotto la soglia della povertà-, è giunto ieri sera a Riad, dopo essere precipitosamente scappato da Aden con l’aiuto dei sauditi, davanti all'avanzata degli Houthi, che, partendo da Sanaa, la capitale, presa in gennaio, conducono un’offensiva verso Sud, innescata dagli attentati terroristici con centinaia di vittime della settimana scorsa.

Nella loro avanzata, gli Houthi hanno preso la base aerea di Al Annad, 60 chilometri da Aden, evacuata dai militari americani e britannici che di qui conducevano la campagna di bombardamenti con i droni dei santuari di Al Qaida nel Paese. Nella vicina Lahj, i ribelli hanno catturato il ministro della Difesa, generale Mahmud al Subaihi.

Proclamata capitale temporanea dal presidente Hadi, Aden, un porto nel Sud, sul golfo omonimo, è ora teatro –riferiscono testimoni- di scontri tra le milizie sciite, che hanno l’appoggio dell’Iran, e unità dei Comitati popolari, formazioni locali fedele al presidente. I ribelli hanno anche compiuto incursioni aeree sul compound presidenziale e sulle guardie che lo difendono. Si ignora il bilancio dei bombardamenti e dei combattimenti.

A questo punto, dopo che Stati Uniti e Gran Bretagna avevano ritirato dall’area tutto il loro personale militare, abbandonando i materiali e gli armamenti, l'Arabia Saudita è intervenuta: “Faremo di tutto –ha detto l’ambasciatore di Riad a Washington Adel al-Jubeir- per proteggere il popolo yemenita e il governo legittimo”.  I sauditi, che aveva già rafforzato il dispositivo di truppe e mezzi lungo il confine, hanno condotto a più riprese raid aerei contro le forze ribelli. Uno scenario in fondo già visto in queste settimane nel Grande Medio Oriente, con i raid egiziani in Libia contro le milizie jihadiste alla Sirte e a Derna: non a caso, Il Cairo ha dato il suo avallo all’operato di Riad.

La situazione è precipitata prima del vertice della Lega Araba a Sharm el Sheikh sabato e domenica. Arabia saudita, Emirati, Bahrein e Qatar hanno diffuso un comunicato congiunto in cui affermano di "avere deciso di contrastare nello Yemen le milizie Houthi, al Qaida e lo Sato islamico". Ai Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, s’è poi aggiunta la Giordania.

Nel tentativo di dare una qualche legittimità all’intervento esterno, Hadi aveva rivolto una richiesta di aiuto al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, sollecitando un sostegno di fronte alla ribellione. Vano, in questo contesto, l’appello dell’Alto Rappresentante dell'Ue per la politica estera e di difesa Federica Mogherini perché gli "attori della regione" agiscano in modo "responsabile e non unilaterale".

La situazione nello Yemen è incandescente da settembre, quando gli Houthi, sostenuti fin dal 2004 da Teheran con equipaggiamenti e finanziamenti, s’impadronirono della capitale Sanaa, dissolsero il Parlamento e misero agli arresti il presidente, poi riuscito a fuggire ad Aden, da dove cercava d’organizzare una resistenza con il sostegno di clan tribali sunniti e di parte delle forze armate – un’altra parte è rimasta fedele all’ex presidente Saleh, sciita-.

In un articolo su AffarInternazionali.it, il generale Giuseppe Cucchi nota che la metà degli yemeniti sono sciita zayditi e che gli houti, che li rappresentano, dispongono di circa centomila combattenti. L’intervento saudita o internazionale non potrebbe configurarsi come un’ "operazione chirurgica". Ma l’Occidente –scrive il generale- deve uscire dalle sue contraddizioni: blandire l’Iran, ritenendolo indispensabile per combattere il Califfato, e nel contempo “lasciare via libera nella penisola arabica, per ragioni di opportunità energetica, a chi vuole ripulire rapidamente da ogni presenza sciita quello che considera come il proprio cortile”.

mercoledì 25 marzo 2015

Piano Juncker: Passera, una vergogna

Scritto per EurActiv.It il 25/03/2015
Il Piano Juncker "è una vergogna": il netto giudizio negativo è stato oggi espresso da Corrado Passera. L'Unione europea, ha detto l'ex ministro dello Sviluppo economico, dovrebbe mettere in tavola investimenti "non per 21, ma per mille miliardi", in un contesto economico eccezionalmente favorevole, tassi bassi, euro debole, petrolio ai minimi.
Passera rispondeva a domande durante una conversazione organizzata alla Sioi di Roma dall'Associazione italiana Fulbright, sul tema "il problema della crescita italiana: misure necessarie e sfide da cogliere". Fra i partecipanti alla conversazione, c'era pure il presidente della Sioi, Franco Frattini, ex ministro degli Esteri ed ex commissario europeeo.
Bocciato il Piano Juncker, che, partendo da 21 miliardi 'freschi' dovrebbe generare 315 miliardi di investimenti in tre anni nei 28 Paesi Ue, Passera, un passato di manager e ministro, attualmente presidente di Italia Unica, ha dato, invece, un giudizio positivo dell'impatto del Quantitative Easing lanciato dalla Bce presieduta da Mario Draghi.

Per Passera, nelle condizioni attuali una crescita dell'Italia "sotto il 2%" sarebbe "deludente" - le previsioni ci attribuiscono una crescita di qualche decimo di punto -: ci vuole, ha detto, una politica che abbia "un progetto di lungo periodo" e che non attui comportamenti discordi ai propri propositi, facendo, come avviene oggi, salire la spesa pubblica e le tasse e frenando gli investimenti.

Usa 2016: presidenza; il dopo Obama ideale? Non un altro Obama

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 25/03/2015

2015/03/25 - Gli americani non vogliono un altro Obama alla Casa Bianca. Facile commentare con una battuta quanto emerso da un recente sondaggio di Cnn e Orc International: stiano tranquilli, che non corrono il rischio di ritrovarselo, visto che il presidente democratico sta esaurendo il suo secondo mandato e non è più rieleggibile. Ma il dato implica la bocciatura del tipo di presidente che Obama è stato e delle scelte che ha fatto: il 57% del campione di elettori intervistato ha risposto che il successore dovrebbe cambiare gran parte delle politiche attuate dalla Casa Bianca dal 2009 in poi, mentre solo il 41% vorrebbe una continuità con l'azione di Obama. Certo, una buona componente di questo risultato sono l’ ‘effetto stanchezza’ e l’ ‘ansia alternanza’: dopo un po’, gli americani si stancano del loro presidente e vogliono cambiarne il volto e i modi. Per il 59%, il candidato ideale deve essere un leader già affermato e non un volto nuovo della politica: quasi un identikit di Hillary Clinton. E sempre il 59% preferisce un candidato con esperienza di governo piuttosto che un politico che abbia solo lavorato come legislatore nel Congresso o nelle assemblee parlamentari statali: meglio, quindi, un governatore che un senatore. Tutto indica che i motori della campagna 2016 si stanno mettendo in moto: i sondaggi, l’annuncio della candidatura alla nomination repubblicana di Ted Cruz, ieri l’incontro di Obama con Hillary alla Casa Bianca. Un colloquio durato oltre un’ora, durante il quale gli argomenti da trattare erano molti: il rapporto tra il presidente e l’ex segretario di Stato in campagna, gli strascichi delle polemiche che hanno recentemente colpito l’ex first lady, l’osmosi in corso di personaggi dallo staff di Obama a quello di Hillary. Non è ancora noto quando Hillary annuncerà la sua candidatura alla nomination democratica, ma molti si attendono una primavera fitta di annunci, perché i candidati, una volta dichiaratisi, possono davvero cominciare a raccogliere fondi per la loro campagna: ce ne vorranno tanti, di soldi, e cominciare presto a fare cassa può essere un vantaggio. Anche se Hillary parte quasi senza rivali fra i democratici, perché il vice-presidente Joe Biden esita –come è solito fare- e il governatore del Maryland Martin O’Malley non pare fare il peso. Hillary può solo temere di cadere in qualche trappola: dall'account personale di posta elettronica utilizzato quando era segretario di Stato ai soldi donati alla Fondazione di famiglia da molti governi stranieri, tra cui l'Arabia Saudita, i cui rapporti con gli Usa sono solidi, ma non sono idilliaci, sia per questioni di diritti umani e civili sia per l’appoggio a gruppi dell'estremismo islamico. "Ridia i soldi all'Arabia Saudita", la provoca il senatore Rand Paul, che denuncia l'incoerenza di Hillary nel promuovere il ruolo delle donne e poi accettare denaro da un Paese che "è in guerra con le donne". (gp)

martedì 24 marzo 2015

Usa 2016: sipario alzato su candidature repubblicani e democratici

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 24/03/2015

2015/03/24 - La formalizzazione della candidatura del senatore repubblicano del Texas Ted Cruz alza il sipario sulla corsa alla Casa Bianca, vissuta finora più d’indiscrezioni che di annunci. L'Election Day sarà l'8 novembre del 2016: i repubblicani proclameranno il loro candidato alla convention dal 18 al 21 luglio a Cleveland, in Ohio; i democratici lo faranno alla convention dal 25 al 28 luglio a Filadelfia, in Pennsylvania. Dopo Cruz, dovrebbe toccare alsenatore repubblicano del Kentucky Rand Paul, che intende ufficializzare la sua candidatura alla presidenza 7 aprile, durante un evento a Louisville nel Kentucky. Sempre in campo repubblicano -nelle previsioni, il più affollato- anche il senatore della Florida Marco Rubio potrebbe rompere gli indugi il mese prossimo, mentre le intenzioni tuttora incerte degli ex governatori dell’Arkansas Mike Huckabee e del Texas Rick Perry potrebbero chiarirsi entro la fine della primavera. Per l'ex governatore della Florida Jeb Bush non c'è ancora alcuna indicazione temporale, così come per il governatore del New Jersey Chris Christie, ma entrambi hanno già fatto passi espliciti verso la candidatura. In campo possono pure scendere l’ex senatore Rick Santorum, l'imprenditrice Carly Fiorina, il neurochirurgo Ben Carson e altri. Fuori dai giochi, per sua scelta, il candidato 2012 Mitt  Romney. Fra i democratici, Hillary Clinton dovrebbe formalizzare la candidatura ad aprile, l'ex governatore del Maryland Martin O'Malley intenderebbe farlo in maggio, il vice-presidente Joe Biden prenderà tempo fino all’estate per sciogliere le sue riserve. Fuori dai giochi, per sua scelta, la senatrice Elizabeth Warren. Un sondaggio della Cnn recente mostra che la Clinton, che vincerebbe a mani basse la nomination democratica, batterebbe oggi tutti i candidati repubblicani: chi la insidia di più è Paul con il 43% delle preferenze contro il 54% alla ex First Lady. Bush si ferma al 40% contro il 55%. (dispacci d’agenzia – gp)


lunedì 23 marzo 2015

Usa 2016: repubblicani, Cruz vuole "riaccendere la promessa dell'America"

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 23/03/2015

2015/03/23 - "Mi candido alla presidenza" perché "voglio riaccendere promessa americana": così, il senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz, ha ufficialmente lanciato la sua campagna per la Casa Bianca. Cruz, 44 anni, al Senato dal 2012, vicino al Tea Party, è il primo a scendere in campo con tutti i crismi. Prima con un tweet, poi dalla Liberty University, a Lynchburg, Virginia, Cruz è sceso in lizza parlando della sua fede religiosa e delle sue radici cubane, scegliendo per annunciare la candidatura il quinto anniversario dell’Obamacare, la riforma sanitaria contro cui s’è battuto e ancora si batte –celebre un suo discorso maratona di 21 ore in Senato-. "Per troppi americani la promessa dell'America sembra sempre più distante", ha detto. E ha continuato: "Immaginate un presidente che renda sicure le frontiere; immaginate una tassa con un'aliquota unica; immaginate un presidente che non boicotti Netanyahu”, snocciolando implicite critiche al presidente Obama. Cruz ha scelto per l’esordio un’università evangelica, dove fare leva sull'elettorato cristiano tradizionalista e fondamentalista: “Oggi, circa la metà dei cristiani non votano: immaginate invece milioni di fedeli in tutta l'America che vanno ai seggi per votare i nostri valori". Quel che avvenne nel 2000 e ancora nel 2004, con la doppia elezione di George W. Bush. Il neo-candidato, oltre che per l’abolizione della Obamacare, si batte contro i matrimoni omosessuali, non crede al cambiamento climatico ed è un falco in politica estera. Finito il discorso, Cruz, un avvocato che ha studiato ad Harvard e Princeton, è stato raggiunto sul palco dalla moglie Heidi in rosa, e dalle figlie Carolina e Catherine, entrambe in fucsia. Molto popolare tra i Tea Party, il senatore del Texas non parte però favorito per la nomination repubblicana ed esce oggi sconfitto nel confronto con la possibile candidata democratica Hillary Clinton. Fra i repubblicani, le candidature ‘in pectore’ sono molte: quelle dell'ex governatore della Florida Jeb Bush, del governatore del Wisconsin Scott Walker, dei senatori Marco Rubio della Florida e Rand Paul del Kentucky e varie altre. (dispacci d’agenzia – gp)

Crisi: Grecia ed economia, vento d’ottimismo su Ue e Italia

Scritto per EurActiv.it il 23/03/2015

Un vento d’ottimismo sta soffiando sull’Ue e sull’Italia: era un alito prima del Consiglio europeo della scorsa settimana; è diventata una brezza primaverile, subito dopo. Se sia giustificata, è difficile dirlo. Ma l’ottimismo è contagioso e, spesso, i suoi effetti positivi rendono possibili risultati altrimenti irraggiungibili.

Sul piano europeo, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker avverte “vicina” la soluzione del caso Grecia. E l’incontro da Berlino tra la cancelliera Merkel e il premier Tsipras, oggi, si carica d’attese, che i tedeschi cercano di smorzare, nonostante la vigilia sia contrappuntata delle consuete polemiche.

Der Spiegel se ne esce con una copertina che mostra la Merkel tra i gerarchi nazisti, col Partenone sullo sfondo. Ma la Bild dà in benvenuto in greco a Herr Tsipras, mentre Atene annuncia un piano di riforme dettagliato e Berlino non esclude concessioni purché la Grecia rispetti “ogni paragrafo dei nostri accordi”.

Sul piano italiano, il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan e il governatore di BankItalia Ignazio Visco distribuiscono a ogni occasione annunci di ripresa e dicono che la crescita sarà superiore al previsto. Per Visco, c’è un ottimismo nuovo –lo percepisce anche lui- e gli indicatori sono tutti favorevoli. Padoan vede davanti a noi “un’opportunità macroeconomica molto ampia”. E Unimpresa calcola che il calo dello spread su livelli pre-crisi, sotto quota 100, assicura un risparmio d’interessi di 12/13 miliardi sui titoli di nuova emissione nei prossimi anni.

Il ‘quantitative easing’ della Bce funziona, forse più psicologicamente che concretamente, mettendo –dice il presidente della Bce Mario Draghi- “l’Eurozona al riparo dall’effetto domino”, se mai dovesse verificarsi il ‘Grexit’, che il ministro dell’Economia tedesco Schaeuble ancora non esclude, ma cui nessuno crede.  Anche se banchieri e pure politici insistono che bisogna accelerare le riforme, se si vuole evitare una ‘doccia scozzese’, una volta smorzatosi l’effetto del QE.

Certo, i dati a consuntivo che escono sono spesso negativi. Ma forse sono i titoli di coda della crisi. BankItalia calcola il debito pubblico a 2.166 miliardi, vicino al record, nonostante le entrate vadano bene. Per l’Istat, siamo sempre in deflazione, ma meno del previsto (prezzi giù dello 0,1%, invece che dello 0,2%). E le cifre della disoccupazione restano inquietanti.

Anche gli schiamazzi euro-scettici e anti-euro perdono intensità, al di là del vigore polemico manifestato da Alessandro Di Battista, deputato grillino, che alla Camera inanella: “Siamo schiavi del nazismo nord europeo … Il nemico oggi è il potere centrale … I popoli del Sud Europa si devono unire …”. Salvo poi scoprire –il sondaggio è di oggi. Che quasi un greco su due approva Tsipras, ma oltre 8 su 10 non vogliono uscire dall’euro.

domenica 22 marzo 2015

Usa 2016: repubblicani; Ted Cruz li batte tutti, si candida per primo

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 22/03/2015

2015/03/22 – Ted Cruz li batte tutti: il senatore del Texas ispanico sarà il primo ad annunciare ufficialmente la sua candidatura alla nomination repubblicana alla Casa Bianca per il 2016. Nessuno, finora, neppure in campo democratico, è uscito allo scoperto così ufficialmente. Lo annuncia lo Houston Chronicle, lo rilancia la stampa conservatrice e, alla fine, lo conferma pure lo staff del senatore vicino al Tea Party: l’annuncio formale sarà fatto alla Liberty University di Lynchburg, in Virginia, la più grande università cristiana degli Stati Uniti, lunedì 23 marzo, a 595 giorni dall’Election Day dell’8 novembre 2016. Sulla candidabilità di Cruz, c’è però un grosso punto interrogativo: il senatore è nato nel 1970 a Calgary in Canada, dove il padre, cubano d’origine, lavorava per un’industria petrolifera; e la Costituzione statunitense prevede che i candidati alla Casa Bianca (oltre ad avere almeno 35 anni ed essere residenti negli Usa da almeno 14 anni) siano "cittadini (americani) naturali dalla nascita" ("natural born citizen"). I sostenitori di Cruz ritengono che tale requisito sia rispettato, perché la madre del senatore era del Delaware: grazie a lei, secondo alcuni costituzionalisti, Cruz rispetterebbe il criterio costituzionale. La Corte Suprema non s’è mai espressa su questo tema: in caso di contestazioni, l’ultima parola sarà sua. Del resto, proprio gli ultra-conservatori del Tea Party sono ben familiari con questo problema, vista la campagna con cui hanno sollevato dubbi insistiti sulla eleggibilità di Barack Obama, nato da padre keniota e da madre americana, finché il presidente non mostrò l'originale del certificato di nascita che attesta che venne al mondo alle Hawaii. Anche il rivale di Obama nel 2008, il senatore John McCain, dovette dimostrare di essere nato nella base navale Usa di 'Coco Solo' nell’area del Canale di Panama (dove il padre, ufficiale di marina, era di stanza). Alcuni suoi rivali nello stesso campo repubblicano sostenevano che fosse nato in un ospedale civile a Colon, territorio panamense, e non avesse quindi le carte in regola. (dispacci d’agenzie – gp)

Usa: la veterana e Netanyahu, i crucci di Obama

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 22/03/2015

2015/03/22 - Non è facile dire se a Barack Obama sia costato di più, emotivamente, commemorare Lucy Coffey o fare la telefonata di felicitazioni a Benjamin Netanyahu, Lucy era la veterana più anziana dell’Unione: è morta in settimana a 108 anni a San Antonio, nel Texas. Obama, che l’aveva ricevuta l’anno scorso alla Casa Bianca, ha ricordato che il passare del tempo non ne “aveva mai intaccato l’amore patriottico per il suo Paese e lo spirito da pioniere”. La Coffey si era arruolata nei corpi ausiliari dell'esercito nel 1943: aveva servito nel Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale ed era rimasta sotto le armi per quasi 30 anni prima di andare in congedo nel 1971. La sua scomparsa deve avere rattristato il presidente, ma era prevedibile. Invece, l’ennesimo successo elettorale dell’immarcescibile premier israeliano non era prevedibile. Anzi, le previsioni della vigilia davano Netanyahu perdente. E Obama avrebbe fatto con grande soddisfazione una telefonata di congratulazioni al duo dell’Unione sionista Herzog-Livni. Invece, dopo 48 ore di decantazione, la telefonata l’ha dovuta fare a Netanyahu, con cui i rapporti sono reciprocamente freddi: nella telefonata i due leader hanno ribadito “la profonda amicizia” fra i due Paesi –non certo fra di loro-, ma Obama ha pure rinnovato l’impegno Usa per la soluzione dei due Stati, Israele e la Palestina, che Netanyahu nega. E i negoziati con l’Iran sul nucleare, che vanno avanti e sono ormai giunti alla stretta finale, non li migliorano di sicuro. Un problema è che Netanyahu, oltre che un ostacolo alla pace in Medio Oriente, potrebbe pure diventare un fattore della campagna elettorale presidenziale Usa 2016, restituendo ai repubblicani i favori da loro fattigli invitandolo a parlare al Congresso a due settimane dal voto israeliano. A fine mese, John Boehner, lo speaker della Camera, sarà in Israele per congratularsi con Netanyahu: Boehner non ha finora manifestato aspirazioni presidenziali, ma il suo attivismo è notevole. E, forse per stopparlo, gli ultra-conservatori gli rimproverano un’eccessiva condiscendenza verso l’Amministrazione democratica sull’Obamacare. (gp)

sabato 21 marzo 2015

Ymen: terrorismo; attacco alle moschee, musulmani contro

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/03/2015
Non s’è ancora attenuata, nel Mediterraneo, l’emozione per la strage di Tunisi. E, sul Mar Rosso, l’integralismo sunnita compie un altro massacro: obiettivo, stavolta, non le Istituzioni democratiche d’un Paese musulmano o turisti in visita a un museo -una torma ‘di crociati’-, ma sciiti in preghiera nel centro di Sanaa, la capitale dello Yemen.
E’ venerdì, le moschee sono affollate, il bilancio è tragico: almeno 137 morti e 350 feriti. Kamikaze attaccano due centri religiosi frequentati dai ribelli Houthi, il movimento sciita che da settembre occupa, ma evidentemente non controlla, la capitale yemenita.
E’ la conferma, l’ennesima, che la guerra in atto è intestina al Mondo arabo, prima ancora d’essere uno scontro di civiltà tra musulmani e cristiani. Il sedicente Califfato rivendica l’atto con un tweet: gli attacchi –avverte- sono solo “la punta dell’iceberg”. Sarebbe la prima volta che l’organizzazione di al Baghdadi colpisce qui. L’intelligence americana è cauta nel valutare l’autenticità dei messaggi.
E Aqpa, la ‘filiale’ di al Qaeda nella penisola arabica, spesso orgogliosa di atti criminali, nega, stavolta, ogni coinvolgimento. Nella guerra delle bombe, ce n’è una tra sigle del terrore: il Califfato è ansioso di rivendicare qualsiasi azione possa aumentarne la visibilità e, quindi, la capacità di fare proselitismo tra fanatici e disperati.
Gli attacchi sono condotti da cinque ‘shahid’, cioè ‘martiri’, in due moschee della capitale e in una di Saadah (nel Nord). Le vittime sono soprattutto fedeli della setta sciita zaydista, la stessa di cui fa parte il movimento Houthi. A Sanaa, i kamikaze hanno colpito due dentro le moschee Badr e Hashoush, durante la preghiera del giorno di festa, e due fuori su un'autobomba. Il quinto ‘shahid’ è stato ucciso dalle forse di sicurezza a Saadah, roccaforte Houti, prima di farsi esplodere. Tra i morti, c’è un noto imam houthi della moschea Bad, Al-Murtada bin Zayd al-Muhatwar.
Intanto, raid aerei hanno colpito per il secondo giorno consecutivo Aden, nel sud dello Yemen, dove da alcune settimane risiede il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi. La contraerea dei lealisti è però entrata in azione per respingere l'attacco.
I guerriglieri Houti, detti anche 'Ansar Allah' (Partigiani di Allah), appartengono alla setta zaydista, dal nome di Zayd bin Ali, pronipote di Maometto, cui riconoscono il titolo di quinto Imam: essi rappresentano la minoranza sciita (circa il 40%) di un Paese prevalentemente sunnita.
La rivolta sciita contro il governo centrale risale al 2004: all’inizio, proteste contro l'ex presidente Saleh, deposto nel 2012 sull'onda delle Primavere arabe. Poi gli Houthi si sono rafforzati, sono scesi al Sud e hanno raggiunto la capitale, costringendo Hadi, sostenuto dai Paesi del Golfo, a scappare ad Aden.
La minoranza sciita è stata più volte oggetto di attentati dei ‘qaedisti’ di Aqpa, coinvolti pure nell’addestramento degli assassini che agirono a Parigi il 7 gennaio. Ma lo Yemen è sempre stato ben dentro la geografia del terrore, almeno da quando entrò nelle cronache degli attacchi suicidi contro obiettivi occidentali: il 12 ottobre 2000, un’imbarcazione imbottita d’esplosivo saltò in aria sotto bordo al cacciatorpediniere Usa Cole all’ingresso nel porto di Aden, dove doveva rifornirsi.
Dalla fine del XX Secolo, lo Yemen offre santuari ai terroristi di al Qaida: basi d’addestramento e terreno fertile per il reclutamento e l’indottrinamento. Le relazioni ufficiali con l’Occidente sono sempre ambigue: Saleh e Hadi erano formalmente alleati di Washington e i servizi d’intelligence yemeniti apparentemente collaborano, però in un clima più di diffidenza che di fiducia.
Gli attentati sono uno stillicidio, cui la stampa europea presta poca attenzione. Proprio il giorno dell’attacco a Charlie Hebdo, un’azione kamikaze contro l’accademia di polizia di Sanaa fece almeno 37 morti e 86 feriti.

Gli attentati a Sanaa e i bombardamenti su Aden mirano a fare deragliare il processo di transizione, commenta il capo della diplomazia Ue, Federica Mogherini, che esorta "tutte le parti a ritornare al dialogo e a negoziati inclusivi". C’è da dubitarne che le diano ascolto.

venerdì 20 marzo 2015

Tunisia: reazioni; Mattarella fa l'interventista, gli altri i retori

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/03/2015

Il pericolo costituito dal sedicente Stato islamico va affrontato senza indugio: la strage di Tunisi ne dimostra la gravità. E l'Italia è pronta a fare la sua parte. Il presidente Sergio Mattarella parla alla Cnn, mentre, a Bruxelles, i leader dei 28, riuniti per il Vertice europeo, rispettano in piedi un minuto di silenzio alla memoria delle vittime degli attacchi.

Così, il terrorismo torna sull'agenda del Vertice. Ma gli sherpa dei leader stanno ancora mettendo a punto la risposta da dare, le frasi da formulare: “Forse –fanno sapere diplomatici-, s’aggiungerà un capoverso sulla lotta al terrore alle dichiarazione finale”. I capi del Califfato già ne tremano, mentre distribuiscono messaggi di minaccia e di irrisione.

Intervistato da Christiane Amanpour, il volto dei ‘faccia a faccia’ di prestigio della rete ‘all news’ americana, Mattarella parla più chiaro e più netto di quanto non abbiano fatto il premier Renzi e il ministro Gentiloni, fermo alla retorica del terrorismo che “colpisce al cuore la speranza”.

E mentre il ministro Pinotti, sempre un passo avanti, vuole “più navi e più aerei nel Mediterraneo” – per fare che?, in questo caso -, Emma Bonino, che conosce il contesto, propone una conferenza dei donatori per sostenere l’economia e la democrazia tunisine.

"Quel che è avvenuto in Tunisia e molto doloroso e molto allarmante”, dice il presidente Mattarella. Il Califfato è una minaccia estremamente grave da contrastare in fretta, “perché il tempo è poco” e l’attacco è a largo raggio. “Il terrorismo fondamentalista ha colpito gli Stati Uniti l'11 Settembre e in tante altre occasioni … Ha colpito molti paesi dell'Europa, sta devastando la Siria, colpisce in tante altre aree del Pianeta… Ed è allarmante la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente e in alcuni paesi del Centro Africa”.

Il terrorismo fondamentalista, con le sigle che ne sono espressione, è “il nuovo vero nemico della civiltà, della democrazia, dei diritti umani. Non è un caso –osserva il presidente- che a Tunisi sono stati attaccati il Parlamento e un museo, cioè la democrazia e la cultura".

Ma il discorso non si ferma alla Tunisia. "Quello che preoccupa particolarmente –aggiunge Mattarella- è la situazione in Libia, che crea allarme” perché la gente è costretta a vivere nel disordine e nella paura della guerra civile e perché il Califfato vi si sta insediando, con il rischio “di fare diventare quel territorio, vicino all'Europa, una base per le sue operazioni di terrore".

Infine, “la condizione di caos in Libia favorisce i trafficanti di esseri umani”. Occorre dunque appoggiare “gli sforzi dell'Onu per raggiungere un cessate il fuoco e la costituzione di un vero governo libico. Poi bisognerà che l'Onu organizzi una missione che aiuti il governo a stabilizzarsi. L'Italia é pronta a fare la sua parte".

Concetti che, dal Vertice dei 28, usciranno meno netti. Se non ci fosse stato il massacro al Museo del Bardo, i leader dei Paesi dell’Ue avrebbe solo fatto un cenno alla lotta al terrorismo, dentro la sessione di lavoro prevista, oggi, in chiusura dei lavori, sulla Libia.

Ora, la discussione sarà più corposa, ma senza conclusioni concrete. C’è la consapevolezza che Tunisia e Libia sono situazioni diverse, richiedono risposte articolate. Ma si va poco oltre, specie sul fronte libico, dove non bastano di sicuro né le parole né gli aiuti economici e umanitari.

giovedì 19 marzo 2015

Israele: elezioni;Netanyahu, quando la paura vince la speranza

Scritto per Metro del 19/03/2015

In Israele, vince la paura sulla fiducia, vince l’anelito alla sicurezza sulle aspirazioni economiche e sociali. Quello che, a sorpresa, rispetto alle previsioni della vigilia, conferma premier Netanyahu è un voto che esalta l’eccezionalità della democrazia israeliana, pur così occidentale nelle sue forme e nei suoi riti.

Appena conclusa la conta delle schede, l’offensiva terroristica in Tunisia, l’attacco al Parlamento sventato, la strage di turisti nel museo del Bardo, il blitz delle forze dell’ordine, tutto ciò consolida, se mai fosse possibile, il sentimento d’insicurezza degli israeliani. E, nel contempo, mostra i rischi della polarizzazione del confronto, della repressione del dissenso, anche nell'unico Paese vicino all'approdo alla democrazia fra quanti hanno vissuto le Primavere arabe.

Netanyahu vince e diventa premier per la quarta volta puntando tutto sulla paura e l’insicurezza, due sentimenti forti nel suo popolo. Netanyahu batte la coppia rivale Herzog/Livni dell’Unione sionista, che scommetteva sulla voglia di lavoro e di crescita di un paese normale: lui, al contrario, inasprisce i torni anti-palestinesi (mai la Palestina sarà uno Stato), mulina la minaccia d’un Iran con l’atomica, porta al punto più basso le relazioni con gli Usa.

Il Likud ha almeno 29 seggi, è il primo partito, può fare una coalizione di destra relativamente omogenea con i partiti nazionalisti e confessionali e vuole pure inglobare nella maggioranza il partito Kulano di Moshe Kahlon. I partiti arabi, coalizzati per la prima volta, sono la terza forza con 13 seggi, ma restano fuori dai giochi.

Se c’è un posto dove la delusione per il risultato del voto in Israele è forte, quello è la Casa Bianca: Netanyahu va a fare campagna elettorale nel Congresso americano, sfruttando la sponda dell’opposizione repubblicana all'Amministrazione democratica; e potrà ora restituirà il favore, facendo pesare sulle elezioni presidenziali Usa 2016 la freddezza di Obama nei confronti di Israele e la disponibilità al dialogo verso gli arabi.

Il successo di Netanyahu significa che la pace in Medio Oriente, specie tra israeliani e palestinesi, resta lontana, anzi è più lontana; che le relazioni con gli Stati Uniti resteranno fredde; che quelle con l’Ue si manterranno corrette senza entusiasmi. L’eccezione di Israele è anche questo: sentirsi più sicuri deludendo gli amici e irritando i nemici.

Tunisia: reazioni, il frasario istituzionale dell'Italia in prima linea

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/03/2015

Pare d’essere tornati agli anni delle litanie anti-terrorismo dopo gli attentati delle Brigate Rosse: quei riti lugubri del ‘sia fatta piena luce’, senza che nessuno avesse davvero idea di che cosa stesse succedendo e di come si potesse contrastare il proselitismo del terrore.

Non che adesso sia facile capire che cosa succede nel Nord Africa, anche dove le Primavere arabe parevano germogliare democrazia; non che fosse facile prevedere la vampata di morte in Tunisia. Ma il governo che da settimane si candida per guidare l’intervento dell’Occidente –quale?, non si sa- nella Libia in guerra reagisce balbettando alla strage di Tunisi.

E l’opposizione, specie quella di destra populista e venata di xenofobia e anti-islamismo, ripropone la risibile equivalenza tra terrorismo e immigrazione.

Certo, le parole sono sempre inadeguate, in questi casi. Quelle dagli Usa di Obama e di Kerry, che si rifugiano nella formula dell’impotenza lessicale ed esprimono la condanna “più forte possibile”; come quelle dell’Ue di Donald Tusk, condoglianze alle vittime, solidarietà alle famiglie. Che dice Federica Mogherini, Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza europea? Lei sbaglia comunicato e deve correggersi: non è magari colpa sua, ma l’episodio è imbarazzante. Lo vedremo.

Per una volta, e non è la prima, la diplomazia vaticana è un passo avanti, per fermezza e compostezza. Il Cardinale Parolin denuncia “l’atto inumano”, esprime “una condanna assoluta”.

In Italia, l’unità di crisi della Farnesina catalizza le informazioni sulla situazione dei connazionali, cerca di fare da filtro con le famiglie. La confusione è tanta. Il premier Renzi inanella frasi di circostanza, mentre snocciola in Parlamento le formulette della buona novella alla vigilia d’un Vertice europeo che vede l’Italia esclusa, su richiesta di Atene e condiscendenza di Bruxelles, dal ‘super-direttorio’ sulla Grecia: in Italia, “l’incantesimo s’è rotto”; in Europa, “s’è voltata pagina con un nuovo vocabolario”. Dell’attacco, parla di “attentato in luogo simbolico”, dice che i terroristi “uccidendo i moderati uccidono ciascuno di noi”.

Il ministro Gentiloni, sempre spaesato nel ruolo, prima s’affida a un tweett (“Vicini alla Tunisia paese di speranza e democrazia colpito al cuore. Cordoglio per le vittime, fermezza e vigilanza contro il terrorismo”), poi fa una conferenza stampa cui neppure l’ANSA riesce a dedicare più di tre righe: "La nostra reazione deve essere di fermezza e di vicinanza" alla Tunisia; "un attacco di questo genere non può che rafforzare la nostra determinazione contro la minaccia terroristica", la cui “gravità politica è evidente".

Potrebbe alzare il tono della reazione la Mogherini. Ma inciampa in un riferimento al sedicente Stato islamico, che prima viene additato a responsabile dell'attacco al museo del Bardo a Tunisi e poi sparisce dalla versione riveduta e corretta, dove si parla solo di "organizzazione terroristica" dietro l'attacco che "ancora una volta mette nel mirino Paesi e popoli del Mediterraneo". "L'Ue –assicura la Mogherini- è determinata a mobilitare tutti i suoi strumenti per sostenere la Tunisia”, che  "ha sicuramente ancora molti problemi, ma è un Paese che ha visto un ciclo elettorale compiersi in modo ordinato, ha una Costituzione molto avanzata, un ruolo molto vivo della società civile e riforme economiche che stanno andando avanti in modo positivo. Bisogna dimostrare che la strada è percorribile, che le giovani generazioni del mondo arabo hanno un futuro non legato a violenza e terrorismo".

Le responsabilità italiane nella Regione stanno per aumentare, con la monina dell’ambasciatore Fernando Gentilini a inviato speciale dell’Ue in Medio Oriente. Purché la politica non faccia mancare al valido diplomatico gli input giusti.

mercoledì 18 marzo 2015

Ue/Grecia: Vertice; ok Tusk al 'super-direttorio', Italia esclusa

Scritto per EurActiv.it il 18/03/2015

Sulla carta, doveva essere il Vertice dell’Unione dell’Energia: un incontro tranquillo, per impostare progressi nell’integrazione. Sarà, invece, un Vertice nel segno della condanna del terrorismo, dopo gli attacchi di oggi in Tunisia, e dei timori per la pace e la sicurezza in tutto il Medio Oriente, mentre prosegue, fuori dagli schemi e tra le polemiche, la ricerca di un’intesa almeno politica sulla Grecia.
Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha sciolto la riserva e ha convocato per domani sera, a margine del Vertice dei capi di Stato o di governo dei 28, una riunione "ristretta" sulla Grecia, come chiesto dal premier Alexis Tsipras, una sorta di 'super-direttorio'.
All'incontro, che si farà dopo la cena in cui i leader avranno discusso della situazione in Ucraina e delle relazioni con la Russia, parteciperanno, oltre al premier greco e al ‘padrone di casa’ Tusk, i presidenti della Commissione Jean-Claude Juncker, dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem e della Bce Mario Draghi, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Francois Hollande. Non ci sarà l’Italia e, dei grandi dell’euro, neppure la Spagna.
Alla convocazione del consulto “ristretto”, del tutto inconsueto, s’è giunti dopo che Juncker s’era detto "preoccupato e non soddisfatto" per l’evolvere del negoziato fra la Grecia e le istituzioni (Commissione, Bce, Fmi), in vista d’una proroga del piano d’assistenza finanziaria. Dopo l’incontro col premier francese Manuel Valls, Juncker ha invitato i protagonisti della trattativa a “se ressaisir”, che tradotto può significare "a riprendersi”, ma anche a "darsi una regolata", dopo gli insulti e le provocazioni dei giorni scorsi.

E le polemiche non sono mancate neppure nelle ultime ore, a seguito di indiscrezioni di stampa secondo cui la Commissione europea avrebbe messo un veto su progetti di legge umanitari greci. Mentre ad Atene si levavano già gli scudi, Pierre Moscovici, responsabile degli Affari economici e monetari, è intervenuto, affermando che l’Esecutivo comunitario "sostiene pienamente l'obiettivo del governo greco di aiutare i più vulnerabili, che sono stati più colpiti dalla crisi" e smentendo veti.

Moscovici ha pure ribadito la "piena fiducia" per l'equipe tecnica che discute delle riforme greche, rivendicando la sua "totale comprensione per quanto succede ad Atene". "C'e' un accordo chiaro - ha ricordato -, quello firmato all'Eurogruppo il 20 febbraio, che va rispettato. Dobbiamo lavorare con le autorità greche in modo costruttivo e valutare l’impatto sui conti pubblici che tali misure avranno. Non accetto falsi processi".

La lettera d’invito di Tusk ai colleghi indica, fra i temi del Vertice, l'Unione energetica, le relazioni con la Russia e la situazione in Ucraina, l'accordo di libero scambio cogli Usa (Ttip) e la situazione in Libia, cui si aggiungerà certamente quella in Tunisia.

Dopo il consueto intervento iniziale del presidente del Parlamento Martin Schulz, la prima sessione sarà dedicata all'Unione energeticaA cena, i leader parleranno dei rapporti con il vicinato orientale, in vista del Vertice di Riga in maggio, e delle relazioni con la Russia tenendo conto della situazione in Ucraina.

Venerdì, ci sarà il dibattito sarà sulla situazione economica e sulle riforme strutturali anche sul Ttip, dove l'obiettivo è un accordo cogli Usa entro l'anno. A tale sessione parteciperà il presidente Draghi.

Il Vertice si concluderà con l'analisi della situazione in Libia, giudicata "molto preoccupante", e di come l'Ue possa sostenere gli sforzi per "stabilizzare il Paese e promuovere una soluzione politica".




martedì 17 marzo 2015

Ue/Grecia: Tsipras chiede 'super-direttorio', esclude Italia

Scritto per EurActiv.it il 17/03/2015

Tsipras chiede un Vertice ristretto, a margine del Consiglio europeo di giovedì 19 e venerdì 20, ed è “molto probabile” che l’ottenga, riferiscono fonti dell’Ue a Bruxelles. Ma l’Italia non è coinvolta nel ‘super-direttorio’.

A 48 ore dal Vertice europeo, il premier greco Alexis Tsipras ha chiesto un incontro col presidente della Bce Mario Draghi, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e i leader di Germania e Francia, la cancelliera Angela Merkel e il presidente Francois Hollande.

Lo ha riferito una fonte dell'Esecutivo ellenico, precisando che la richiesta è stata fatta al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. La formula è del tutto insolita, ma – indicano fonti dell’Ue - potrebbe essere accettata: un rimedio eccezionale al male eccezionale dello stallo – e forse peggio - nelle relazioni tra la Grecia e l’Unione.

Tsipras spera che dal Vertice dei 28 di marzo possa emergere la "soluzione politica" da lui auspicata nel negoziato con i creditori sul debito di Atene, dopo che i giorni scorsi sono stati un crescendo d’insulti e provocazioni, specie tra la Grecia e la Germania. Ma ci sono pure stati atti di distenzione, come l’invito a Berlino della Merkel a Tsipras.

"Avremo un accordo sulla Grecia questa settimana", afferma il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz intervistato dall'agenzia di stampa greca Ana. "C'è un'intesa di principio - spiega - con l'Eurogruppo. La Grecia deve presentare proposte per le riforme, la cornice degli investimenti nel Paese e la ripresa dell'economia. Siamo alla stretta dei negoziati. Occorre trovare una soluzione entro fine mese".

Anche perché un fallimento delle trattative e, quindi, un'uscita della Grecia dall'Eurozona avrebbe "serie conseguenze" per l'area euro, sostiene l'agenzia Moody's, al di là di quello che sembrano pensare il ministro dell’economia tedesco Wolfgang Schaeuble e altri leader europei, forse contagiati dall’ ‘ottimismo della crescita’ che in questi giorni s’è diffuso nell’Unione e, quasi paradossalmente, soprattutto in Italia, il Paese dei 28 che finora ha visto meno ripresa.

Pure le banche centrali, di solito prudenti, si sbilanciano. Il presidente della Bce Draghi dice che la ripresa si sta consolidando nell’Eurozona: “Possiamo essere ottimisti sulle prospettive”, purché si “continui a spingere sulle riforme”. Per BankItalia, “stiamo uscendo dalla Guerra dei Sette Anni”, tanto è durata la crisi: “Ci sono tutti i presupposti per ripartire, ma la ripresa è timorosa e va incoraggiata”.

Intanto, in attesa dei ‘fuochi d’artificio’ istituzionali al Vertice, proseguono i negoziati classici. Oggi, c’è stata una conferenza telefonica fra i tecnici che fanno parte dell'Euro working group, l'organismo presieduto da Thomas Wieser che prepara i lavori dell'Eurogruppo. Secondo quanto s’apprende, i delegati dei 19 Paesi della zona euro, della Commissione e della Bce hanno discusso dello stato di avanzamento dei colloqui tecnici avviati la settimana scorsa fra il governo di Atene e le tre istituzioni competenti (Ue, Bce, Fmi, la ex troika) sulla proroga del programma di aiuti alla Grecia.