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domenica 27 febbraio 2011

Libia: Onu, Ue, Usa, tutti armati di buone sanzioni

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/02/2011

A Ignazio La Russa, ministro della difesa, un tempo pretoriano di Fini, oggi guardaspalle di Mr B, capita di inciampare nelle parole: ieri, aveva detto una cosa (quasi) giusta, ma poi s’è corretto ed è venuto fuori un patatrac. “Il Trattato tra Italia e Libia non c’è già più, è già sospeso, è inoperante”, afferma a Livorno, dove fa visita ai soldati della Folgore in partenza per l’Afghanistan: E lui, che aveva sempre sostenuto che l’Italia non ha mai fornito armi alla Libia, si ricorda improvvisamente delle motovedette cedutele per bloccare i barconi degli emigranti e spèiega, a mo’ d’esempio, che “gli uomini della guardia di finanza, che erano sulle motovedette oper controlare i libici (senza per altro impedire loro di sparare su un peschereccio di mazzara del vallo, ndr) ora sono nella nostra ambasciata”.

E bravo l’Ignazio, che s’adegua al cambiamento di linea del premier: Silvio Berlusconi riconosce che l’ “amico”, fino a manco una settimana fa, Gheddafi non ha più il controllo del proprio Paese e, probabilmente, manco di casa sua e, dopo avere frenato per vari giorni constata: “Italia e Ue non possono essere spettatori” della crisi libica: “basta polemiche” (opera essenzialmente sua, finora, con i partner europei), bisogna “sostenere il popolo libico” e “fermare il bagno di sangue”, ma anche evitare “il rischio d’integralismo” e “gli sbarchi fuori controllo”.

Passa qualche ora e l’Ignazio si prende paura di avere fatto il passo più lungo del dovuto: il Trattato, precisa, non è sospeso, è solo inoperante, proprio mentre un altro amichetto suo, l’un tempo premier tecnico Lamberto Dini, constata che la sospensione è nei fatti, perché “non c’è la controparte”, cioè lo Stato Libia, “con cui applicarne le clausole”. E l’opposizione, più o meno all’unisono, gli chiede, invece, di andare oltre e di “abrogare subito il Trattato della vergogna”, altro che dell’amicizia –parole fra virgolette di PierFerdinando Casini-.

Intanto che La Russa spacca il capello in quattro, l’Onu, gli Usa e l’Ue vanno avanti: lo fanno magari un po’ tardi, ma vanno avanti. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite vara un insieme di sanzioni già messo a punto, dopo che il presidente Usa Barack Obama aveva ‘congelato’, venerdì, i beni dei Gheddafi sul territorio statunitense. Peccato che, secondo il Times, il Colonnello avrebbe appena trasferito tre miliardi di sterline a Londra.

Comunque, i soldi del dittatore non dovrebbero essere al sicuro neppur e lì, anzi: l’Unione europea sta definendo le sue sanzioni (e il premier britannico David Cameron ne è fra i maggiori sponsor) e sta pure progettando interventi umanitari, al di là di un primo intervento già stanziato per tre milioni di euro e del coordinamento dell’evacuazione degli stranieri. Intendiamoci, le sanzioni sono ormai poco più di una foglia di fico che organizzazioni internazionali e singoli Stati si mettono indosso per coprire connivenze e tolleranze di anni col dittatore di Tripoli, che adesso, invece, vogliono tradurre in giustizia davanti alla Corte dell’Aja se ne saranno provati crimini contro l’umanità.

Ma il blocco dei beni in Occidente e l’eventuale divieto d’ingresso nell’Ue non hanno impatto sull’epilogo della vicenda libica e neppure lo accelerano. A quello, possono piuttosto contribuire interventi militari, come un’interdizione di volo sulla Libia (una ‘no fly zone’, del tipo di quella unilateralmente attuata dagli usa sull’Iraq), che deve però essere decisa dall’Onu ed eventualmente attuata dalla Nato: servirebbe a evitare la repressione della rivolta dal cielo. Improponibile, invece, un’operazione di sbarco, che avrebbe solo connotazioni negative per le popolazioni libiche.

E’ però probabile che lo stallo sul destino di Gheddafi si sblocchi prima che la ‘no fly zone’ possa essere decisa e attuata. Un consulto militare in ambito atlantico potrebbe svolgersi a Napoli, secondo un’ipotesi suggerita a La Russa dal collega britannico Liam Fox. Ma c’è ancora chi s’oppone sia alle sanzioni che alle opzioni ‘interventiste’: il premier turco Recep Tayyip Erdogan dice che le conseguenze peserebbero sul popolo innocente e accusa l’Occidente di "ragionare" solo in termini di barili di petrolio e di “volere rendere il mondo un posto più sicuro ricorrendo sempre e solo alle sanzioni".

Erdogan ragiona, magari, in ottica islamica. Ma tutti i torti non li ha. Noi, saltati i tappi in Tunisia, Egitto, presto Libia, immediatamente ci preoccupiamo di quello che accadrà adesso: integralismi al potere?, ondate di terrorismo?, o, meno cruentamente, ma più verosimilmente, ondate di migranti sulle nostre coste? E già ci viene la nostalgia del tappo: mettercene un altro, per stare tranquilli noi, mica meglio e liberi loro.

sabato 26 febbraio 2011

Tunisia, Egitto, Libia, è già nostalgia del 'tappo'

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 25/02/2011

Saltano i tappi dell’Africa del Nord e del Mondo arabo, dal Mediterraneo magari fino al Golfo. Saltano i tappi di dittatori e autocrati di cui l’Occidente, non solo l’Italia, è stato miope amico fino all’ultimo, perché lo proteggevano dai rischi dell’integralismo e del terrorismo e gli garantivano approvvigionamenti energetici. E più maramaldi che mai eccoci ora inneggiare alla caduta, anzi
al rovesciamento da parte del popolo, di Ben Alì prima, Mubarak poi, oggi Gheddafi, domani chissà, quegli stessi che, fino al giorno prima della loro disgrazia, avevamo ricevuto con molti onori nei nostri palazzi, cui avevamo lasciato piantare le tende nei nostri giardini e catechizzare pubblicamente le nostre ‘vergini’. Con consumata ipocrisia, le cancellerie occidentali dichiarano unanimi la loro soddisfazione, le organizzazioni internazionali mettono a disposizione aiuti d’emergenza e programmi di cooperazione. Però, saltati i tappi, immediatamente ci preoccupiamo di quello che accadrà adesso: integralismi al potere?, ondate di terrorismo?, o, meno cruentamente, ma più verosimilmente, ondate di migranti sulle nostre coste? E già ci viene la nostalgia del tappo: mettercene un altro, come pare esserci riuscito in Egitto, dove Mubarak non c’è più, ma dove l’esercito ha in mano la situazione –e vedremo se e come si arriverà alle presidenziali di settembre-; e come, invece, non c’è ancora riuscito in Tunisia, dove la transizione non è stata completa e dove i fermenti d’insoddisfazione restano. E in Libia? Lì, l’incertezza è totale, ma noi stiamo già dicendo che l’integrità territoriale del Paese va salvaguardata, che Cirenaica e Tripolitania devono stare insieme, come se la Libia fosse un’entità statale storica e non, invece, un patchwork tribale passato dal dominio ottomano alla colonizzazione italiana, trovando solo nel dopoguerra l’indipendenza. E, allora, se nella nostra Europa degli Stati nazionali, abbiamo fatto in un battibaleno di uno, l’Urss, 15 e, poi, in modo magari più travagliato, di uno, la Jugoslavia, sette, perché sulla riva sud di quello stesso mare fino a ieri jugoslavo e oggi di Slovenia, Croazia, Montenegro, non potrebbero nascere due Stati dove ce n’era uno? Lasciamoglielo decidere a loro che cosa vogliono fare e se vogliono state insieme.

venerdì 25 febbraio 2011

Libia: immigrazione, l'Ue lascia sola l'Italia che esagera

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/02/2011

Davanti al rischio d’un esodo in massa dalle coste dell’Africa del Nord, l’Italia non raccoglie a Bruxelles la solidarietà che s’aspetta dall’Europa, o che almeno chiede. "Alcuni ministri hanno espresso una chiusura totale sul principio dello smistamento dei richiedenti asilo che potrebbero arrivare sulle nostre coste dopo la crisi in Libia", ammette, dopo un Consiglio dei Ministri dell’Ue svoltosi «con il freno a mano tirato», il ministro dell’interno Roberto Maroni, che aveva cercato mercoledi’ di precostituire un fronte dei Paesi del Mediterraneo in seno all’Ue, con una pre-riunione a Roma.

Che l’obiettivo di un meccanismo di distribuzione dei rifugiati non sarebbe stato centrato lo si era capito presto, ieri, a Bruxelles: appena s’è cominciato a parlare d’immigrazione, il ministro francese Brice Hortefeux, uno dei peggiori della ‘corte’ dell’Eliseo, se n’è andato. Segno inequivocabile che non si sarebbe deciso nulla. E Maroni commenta: "Non é solidarietà dire all'Italia e agli altri Paesi mediterranei che gli immigrati sono affari vostri", dopo la richiesta di definire «un sistema d’asilo europeo». Cosi’, il ministro leghista si scopre «più europeista di certi europeisti»: l’europeismo dell’opportunismo, che tiri fuori solo quando hai bisogno di quello altrui, non certo della convinzione.

Di fatto, l’Europa non mostra nè coesione nè solidarietà. Ma l’Italia non è vittima pura e innocente: l’Ue non bisogna invocarla solo nei momenti della crisi propria, ma bisogna praticarla anche nei momenti delle crisi altrui; e le questioni spinose non vanno affrontate quando c’è la crisi, ma quando c’è la serenità per farlo. E non giovano alla credibilità delle autorità di Roma le drammatizzazioni e le esagerazioni di cui sono stati interpreti il ministro degli esteri Frattini e lo stesso Maroni: quando, ad esempio, hanno denunciato la mancanza di assistenza di Bruxelles (che avevano inizialmente rifiutato); o quando ingigantiscono le dimensioni dell’esodo e ne enfatizzano la valenza terroristica.

Ancora ieri, a Bruxelles, Maroni ha rilevato : « Sono molto preoccupato per quanto accade in Libia: al Qaida dice che sostiene i ribelli ed è contro Gheddafi. E noi che cosa facciamo? Dobbiamo evitare che la Libia si trasformi in un nuovo Afghanistan”. Messa giù cosi’, pare quasi che noi, cioè l’Europa, si debba sostenere Gheddafi, che non solo ci protegge dalla fuga verso l’Europa dei poveri cristi, ma ci fa pure da scudo ai terroristi.

E neppure aiutano la causa dell’Italia sortite come quelle dell’assessore veneto ai flussi migratori Daniele Stival, che evoca «il mitra» come possibile risposta all’ondata migratoria dal Nord Africa, salvo poi ‘correggere il tiro’, tenendo, pero’, la mira ferma: «E’ solo un’immagine, ma altri Paesi, come Spagna e Grecia, usano le maniere forti, che funzionano». Sparare no, respingere si’. Il suo presidente Luca Zaia prende le distanze, ma denuncia l’Ue, «che ci lascia soli di fronte a una diaspora» e mette i paletti alla solidarietà da dispensare «al popolo, non ai delinquenti».

Insomma, per il momento, sulla Libia c’è solo un’Europa delle dichiarazioni –una, anche, ieri, congiunta con la Russia, dopo una visita alla Commissione europea del premier Putin ‘scortato’ da ben 12 ministri- e del coordinamento delle operazioni d’evacuazione dei propri cittadini. E’ vero che i 27 preparano « misure restrittive », cioé sanzioni, contro il regime di Gheddafi, ma la loro natura e l’esatta portata, oltre che la data e le condizioni d’entrata in vigore, devono ancora essere decise –guarda caso, fra i Paesi più restii ad adottarle ci sono l’Italia, Malta e Cipro, proprio tre in prima linea nel chiedere solidarietà per fronteggiare l’esodo dall’Africa del Nord-.

Sostegno a chi si batte per la libertà e, forse, la democrazia; condanna delle violenze; auspicio che Gheddafi se ne vada: una litania. C’è di che deludere Barack Obama, dopo che, al presidente statunitense, proprio la Libia, dopo la visita alla Casa Bianca del presidente francese Nicolas Sarkozy, fa riscoprire l'Europa. L’idea di Obama è: «Noi americani non conosciamo il problema. Lasciamo fare a loro, agli europei, che ne sanno di più». E lunedi’ il segretario di Stato Hillary Clinton verrà in Ginevra, proprio per consultarsi sulle snazioni con colleghi europei. E qui rischia di cascare l’asino: l’Almerica potrebbe accorgersi che l'Europa non c'è', non ha idea di quel che sta accadendo, nè ha progetti (men che meno quello militare di una ‘no flight zone’). Una cosa, Obama l’ha ben chiara: sulla Libia, del giudizio di Berlusconi non si fida, tant’è che, per un consiglio, chiama Sarkozy e il premier britannico David Cameron. Quelli con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu; quelli che ‘fra Grandi, ci si capisce’.

SPIGOLI: Libia, i conti in tasca all'Italia non tornano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/02/2011

Nei giorni della tragedia libica, la stampa internazionale fa i conti in tasca all’Italia: da una parte, il peso impressionante di quella che il FT, in un commento, chiamava ieri «la connection italiana» d’affari e finanza; dall’altra, la leggerezza insostenibile dell’influenza politica di Mr B sull’ ‘amico’ Gheddafi, pronto a rovesciargli addosso l’accusa di fomentare con armi la rivolta e la minaccia di scaricargli sulle coste l’esodo biblico di disperati migranti (ma questo è un altro articolo in questa pagina). Una mappa piuttosto impressionante dei miliardi investiti dal colonnello dittatore la traccia il Guardian: banche a Dubai, lussuose proprietà a Londra e acque e spa italiane ad Antrodoco e e Fiuggi, senza contare le presenze che contano in UniCredit e Fiat, Fininvest e Juventus. In un editoriale dal titolo ‘Il debole mostro’, ancora FT denunciava «la deferenza» di alcuni leader europei, e del Cavaliere in primo luogo, per essersi ben guardati dal criticare il regime libico quando farlo sarebbe stato coraggioso, ma certo non pretestuoso. Nella folta antologia delle gaffes diplomatiche di questa crisi, l’uno/due di Berlusconi (prima, non chiamo Muammar per non disturbarlo; poi, lo chiamo per spiegargli che non produciamo le armi che gli insorti starebbero usando) sta in vetta a tutte le ‘hit parade’. Ma alte nella classifica sono anche le esagerazioni del duo Frattini/Maroni sulle dimensioni (e ancor più sulla valenza terroristica) dell’ondata migratoria: esagerazioni che hanno contribuito a ridurre la credibilità e l’impatto delle richieste d’aiuto italiane.

giovedì 24 febbraio 2011

Libia: Gheddafi e l'ambasciatore che capisce tutto (o nulla)

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 23/02/2011

Hadi Hadeiba, ambasciatore della Libia presso l’Ue, è uno che capisce le cose al volo; o, forse, no. Martedi’, il giorno del discorso di guerra del colonnello Gheddafi, il diplomatico dichiara la sua indignazione e la sua condanna dei massacre compiuti, senza pero’ arrivare a dimettersi, come alcuni suoi colleghi hanno fatto in America e in Europa, perchè, dice, “sono l’ambasciatore della Libia, non di Gheddafi”. Mercoledi’, l’ambasciatore cambia registro: è e resta l’ambasciatore della Libia e di Gheddafi, anzi è fedele al Colonnello. Un errore giornalistico? Possibile. Oppure, le informazioni in provenienza dalla Libia oggi gli suggeriscono maggiore prudenza che ieri. Anche se, negli ambienti europei, c’è chi scommette che Gheddafi arriverà alla fine della corsa venerdi’. E, fra i giornalisti nord-africani che mantengono fili diretti con Tripoli e Bengasi, c’è chi racconta che il Colonnello vive isolato ed è ormai abbandonato dai suoi collaboratori. Consigliato (male, si direbbe) dall’agenzia d’esperti in comunicazione britannica che si occupa di Tony Blair, vestito da italiani (per quanto strano cio’ possa sembrare), Gheddafi è odiato dalla tribù dei Warfalla, che, con oltre un milione di persone, è la più grossa della Libia e che avrebbe avuto moltissime vittime negli scontri dei giorni scorsi, mentre la sua tribù, i Kadhadhafa, potrebbe persino progettare –è la tesi di uno specialista- di sacrificarlo, magari non solo figurativamente, per avviare un processo di riconciliazione. E’ proprio cosi’?, o magari l’ambasciatore che fa un passo indietro sta un passo avanti, con le notizie? Aspettiamo venerdi’. E chiediamoci, intanto, a chi toccherà dopo Tunisia, Egitto, Libia: il domino della caduta dei satrapi potrebbe investire il Bahrein, lo Yemen e chi ancora? Da Ovest ad Est, e da Nord a Sud, Marocco, Algeria, Giordania, Siria, Kuwait, gli staterelli del Golfo, l’Arabia Saudita, nessuno di questi regimi (o governi), per il momento, vacilla seriamente.

martedì 22 febbraio 2011

Libia: il trattato capestro che lega l'Italia a Gheddafi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/02/2011

Impaniata in un Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione con la Libia molto impegnativo, la cui responsabilità politica ricade su tutti i partiti che lo ratificarono nel 2009 –maggioranza e Pd a favore, IdV, Udc e radicali contro-, l’Italia non riesce ad avere un ruolo attivo in questa fase confusa e drammatica di proteste e fermenti, violenze e repressione. E l’amicizia tra il premier Berlusconi e il colonnello Gheddafi quasi la paralizza, invece di renderla protagonista: il Trattato ha una disposizione, l’articolo 6, che impegna le parti ad agire in conformità ai diritti dell’uomo ; dunque, sollecitare il leader libico a rispettare l’impegno non sarebbe, da parte del presidente del Consiglio, nè ingerenza nè disturbo, ma un richiamo ai patti.

Firmato a Bengasi il 30 agosto 2008, ratificato dal Senato in via definitiva il 3 febbraio 2009, il Trattato consta di un preambolo, di tre capitoli –principi generali, chiusura dei contenziosi del passato e nuovo partenariato bilaterale- e di 23 articoli, che comportano oneri non indifferenti per l’Italia. In questa situazione, poi, l’attuazione di alcune disposizioni appare particolarmente delicata.

Un esempio: l’articolo 20 riguarda la collaborazione nel settore della difesa e prevede «lo scambio di missioni di esperti, istruttori e tecnici e quello di informazioni militari, nonchè l’espletamento di manovre congiunte» e ancora «un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della difesa e delle industrie militari». Passaggi oggi scivolosi, con il rischio che armi o tecniche italiane siano utilizzate per reprimere con la forza le proteste. Senza dimenticare l’imbarazzo già provocato dalla presenza di finanzieri a bordo di una motovedetta ceduta dall’Italia alla Libia nell’ambito dell’accordo, là dove si parla di lotta contro l’immigrazione clandestina, che insegui’ un pescherecchio siciliano e gli sparo’ addosso.

E si noti che l’articolo 19, proprio quello della lotta all’immigrazione clandestina, prevede che tutta l’operazione avvenga a costo zero per la Libia : il 50% lo paga l’Italia e il 50% dovrebbe pagarlo l’Unione europea. Loro giocano a battaglia navale con le unità fornitegli e bloccano il flusso di eritrei e altri disgraziati dalle loro coste.

Ma è tutto l’impianto di questo Trattato è a rischio, nella situazione d’incertezza e violenza attuale: il partenariato puo’ funzionare solo in un contesto economico e sociale normale; e certo non è pensabile che il contenzioso sui debiti non pagati faccia progressi in questi frangenti: sono in ballo 620 milioni di euro, mentre gli indennizzi agli italiani cacciati dalla Libia sembrano definitivamente ‘passati in cavalleria’.

Il problema di fondo è che l’Italia non è riuscita a fare fruttare in influenza su Tripoli tutto il peso del Trattato e di rapporti economici e commerciali intensissimi : l’Italia, per la Libia, è il primo partner economico e il terzo investitore europeo ed è presente nel Paese con oltre cento aziende (mentre la Libia partecipa con suoi capitali a molte aziende italiane, dall’Unicredit alla Juventus –passando per la Fiat-). Invece che influenza, l’Italia sembra avere sviluppato sudditanza, nei confronti del colonnello e del suo regime; invece di acquisirne dalla forza delle relazioni capacità d’iniziativa, ne subisce un effetto paralizzante, come la paura di compromettere affari.

E, infatti, ieri, a Bruxelles, la posizione sostenuta dal ministro Frattini, preoccupato, come Malta e la Rep. Ceca, di tutelare « l’integrità territoriale » della Libia, é stata percepita, in termini diplomatici, come più «articolata» rispetto a quella molto dura britannica e tedesca, mentre la Finlandia voleva addirittura fare scattare sanzioni anti Gheddafi («Pensiamo alla transizione, non a crare condizioni per un nuovo scontro, con decine di migliaia di cittadini dell’Ue in Libia», ha smozato Frattini).

L’ansia dell’integrità non puo’ nascere solo dalle difficoltà che la riconduzione del Trattato comporterebbe in caso di nascita di due Stati, modellati su Tripolitania e Cirenaica. Certo, c’è anche il timore della ‘bomba immigrazione, che Frattini non minimizza di sicuro di fronte ai colleghi: paventa flussi «epocali» e «inimmaginabili» e ipotizza « centinaia di migliaia di persone » in fuga dalle coste libiche, perchè li’ «siamo sull’orlo di una guerra civile».

Alla fine, l’Italia accetta e fa propria la formula europea, che condanna le violenze, da qualsiasi parte vengano, e sollecita «un dialogo nazionale di riconciliazione». E ora, dopo che l’Ue ne condanna le violenze, Gheddafi puo’ ancora essere l’interlocutore privilegiato del governo italiano? «La sorte del leader libico non sarà decisa nè dall’Italia nè dall’Europa, non siamo noi a dire chi deve restare e chi se ne deve andare, non lo abbiamo fatto con Mubarak e non cominceremo a farlo ora». E’ vero, siamo fuori tempo: a tenere le distanze dal Colonnello, dovevamo pensarci, americani ed europei insieme, otto anni fa, quando lo ‘sdoganammo’ in cambio d’una minestra di lenticchie.

domenica 20 febbraio 2011

Libia: oltre ai moti di piazza, una faida tra i figli di Gheddafi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/02/2011

Le proteste contro il colonnello Muammar Gheddafi, amico di Mr B e padrone della Libia dal 1969, sono ancora indecifrabili e possono avere diverse matrici: dissenso politico, contrasto tribale, o faida familiare. E, forse, sono un mix di tutte queste componenti. La componente tribale è suggerita dal fatto che, mentre la Cirenaica, l’Est del Paese, è in fiamme, a Tripoli il Colonnello può permettersi di girare in auto scoperta, incontrando una folla di sostenitori.

E la faida familiare trova qualche avallo nelle posizioni apparentemente diverse assunte da alcuni dei sei figli del leader libico. Seif al Islam, cioè Spada dell’Islam, 38 anni, nomea da riformista e studi alla Londion School of Economics, pare non stare contro la protesta: ne dà notizie sul sito e sul giornale Oea, come una volta si chiamava Tripoli, e sostiene la richiesta di dotare la Giamahiria di una Costituzione. Seif rappresenterebbe la nuova guardia, contro l’attuale establishment guidato dal premier Baghdadi Ali al-Mahmudi

Invece, Saad, 37 anni, certo il figlio di Gheddafi più conosciuto in Italia, intenderebbe assumere l’incarico di sindaco di Bengasi per proteggere la popolazione: lo avrebbe detto lui stesso a una radio locale, secondo quanto riferito da abitanti di Bengasi alla Reuters. Fino a un po’ di tempo fa, Saad non pareva interessato al lavoro paterno: calciatore con sole due presenze in Serie A –l’esordio nel Perugia, contro la Juventus, poi una a Udine, mentre a Genoa lato Samp fu solo panchina- e una squalifica per doping, capitano della Nazionale, presidente della Federazione calcistica libica. Superata l’età dello sport attivo, Saad si sarebbe scoperto una vocazione filiale e politica e, secondo quanto riporta il sito 'Libya al-Youm', ritenuto vicino alle opposizioni, sarebbe stato tra i fedelissimi assediati dai manifestanti in un albergo di Bengasi. Per liberarlo, il governo avrebbe inviato un commando composto da 1500 uomini della sicurezza guidati –è sempre un affare di famiglia- dal genero del leader, Abdullah Senoussi.

Pure due fratelli più piccoli di Seif e Saad, Muatassim Billah, 32 anni, e Khamis, 31 anni, sono attivamente accanto al padre. Muatassim Billah, consigliere per la sicurezza nazionale (in tale veste, nel giugno 2009 seguì il Colonnello in visita in Italia) e Khamis, studi in un’accademia militare russa, comandante di un battaglione militare che sarebbe stato impiegato ad Al Baida, l’epicentro delle proteste, sembrano piuttosto schierati dalla parte della repressione.

In queste beghe, non si ha invece notizia della posizione di Hannibal, il figlio di Gheddafi arrestato a Ginevra nel luglio del 2008, dopo che due suoi domestici maltrattati lo avevano denunciato:quasi si scatenò una guerra tra Libia e Svizzera, con l’Italia dalla parte di Tripoli, con la crisi dei visti tra Libia e Ue e il fermo arbitrario di due cittadini svizzeri in Libia.

C’è anche l’ipotesi che in qualche modo lo stesso Gheddafi, non solo la sua famiglia, stia a cavallo di quanto sta avvenendo, protesta, repressione, concessioni. E si continua a parlare della possibilità di un ritorno al potere di Abdessalam Jallud, un ex delfino del dittatore, come soluzione per uscire dalla crisi. Intanto alcuni familiari del Colonnello (la moglie, con la figlia Aisha e i suoi bambini) avrebbero lasciato la Libia, con un volo per Dubai: Aisha avrebbe da poco acquistato un palazzo proprio lì nel Golfo.

L’incertezza sulla valenza degli eventi in Libia è generale. La prudenza nelle valutazioni non è, invece, di tutti. Se il premier Berlusconi non chiama Gheddafi “per non disturbarlo”, Stefania Craxi, sottosegretario agli esteri, sostiene, in un’intervista a SkyTg24, che “le critiche al governo di Tripoli sembrano non scalfire il forte rapporto che esiste tra Gheddafi e il suo popolo”. A rieccoci, a fianco dell’amico, per dittatore che sia, fino all’ultimo. Se questo il trend, i figli ci creeranno qualche problema, candidandosi alla successione su posizioni diverse. Un auspicio: non puntiamo su Saad, noto, per l’iracondia e il caratteraccio, come l’Uday Hussein libico, il figlio di Saddam Hussein ucciso con il fratello Qusavy e un nipote di 14 anni dalle forze speciali Usa a Mossul il 22 luglio 2003.

SPIGOLI: Bce, Draghi in rosa, ma ci sono le montagne

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/02/2011

C’è un italiano in testa alla più importante corsa europea di quest’anno: l’avversario che lo precedeva e che pareva inattaccabile s’è improvvisamente fatto da parte e, adesso, la strada potrebbe essere in discesa: Ma i francesi, che a provare a vincere non rinunciano mai, gettano chiodi sul percorso del rivale, come facevano al Tour quando Coppi, o Bartali, erano in giallo. Allora, cercasi governatore della Banca centrale europea, la Banca dell’euro: il mandato di Jean-Claude Trichet, francese, sta per scadere; e il governatore della Bundesbank Axel Weber, generalmente ritenuto il favorito, è uscito di scena in un battibaleno. Una parola di troppo, un contrasto con la Merkel, le dimissioni e punto a capo. Così, Mario Draghi è diventato il battistrada, con la benedizione dei britannici, che non c’entrano nulla, ma la loro la dicono (FT, Draghi può guidare l’eurozona fuori dal pericolo, ed Economist) e persino degli americani ( WSJ, WP, etc.), che lo apprezzano come presidente del Financial Stability Board. E lui, Draghi, fa una buona mossa elogiando la Germania in un’intervista alla FAZ: come dire, alla Bce non ci sarà uno dei loro, ma uno che la pensa come loro; non c’è dunque bisogno di cercare in Germania un’alternativa a Weber. Ma ecco che Les Echos tira fuori l’inghippo, in un editoriale di Jean-Marc Vittori dal titolo “Il triangolo infernale della successione di Trichet”: “Il criterio di almeno uno dai ‘paesi del Sud’ in uno dei due posti chiave della Bce potrebbe eliminare Draghi, perché c'è già vicepresidente portoghese. E nessun altro ipotetico candidato soddisfa tutte le esigenze, a meno che –guarda un po’, ndr- di non trovare un altro francese, magari un rimpatriato dagli Usa”, come Olivier Blanchard, economista al Mit di Boston, o Dominique Strauss Khan, presidente dell’Fmi. Pare che DSK voglia effettivamente tornare: ma più che a Francoforte, gli piacerebbe installarsi all’Eliseo.

sabato 19 febbraio 2011

Wikileaks: Italia-Usa, una docilità a basso prezzo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/02/2011

Dal loro punto di vista, il problema non è Berlusconi: il problema è l’Italia di Mr B, che, però, a ben guardare non è tanto diversa, dal loro punto di vista, dall’Italia di Moro e di Andreotti, di Spadolini e di Craxi, di Ciampi e di Prodi. Ve la ricordate la ‘Bulgaria della Nato’ degli Anni Ottanta, l’epoca degli euromissili (epperò –va bene, mica me ne dimentico- anche quella di Sigonella)? In fondo, trent’anni dopo siamo ancora lì.

Il punto di vista è quello degli Stati Uniti, che ci vedono come un alleato la cui debolezza, e il cui desiderio di compiacere il partner potente, può permette loro di ottenere tutto quel che vogliono, dall’Iraq all’Afghanistan all’ampliamento della caserma Dal Molin (o almeno di provarci, perché poi capita che i vincoli europei dell’Italia –Ogm, ambiente- o l’indipendenza della magistratura –caso Abu Omar- deludano Washington). In cambio, basta un invito al ranch o una pacca sulle spalle in maniche di camicia all’Aquila, se l’interlocutore è Berlusconi; oppure, lo sdoganamento dall’etichetta di ‘rossi’ con un bell’invito alla Casa Bianca, se l’interlocutore è di sinistra.

E’ questo, in estrema sintesi e un po’ tagliato con l’accetta, perché i distinguo ci sono, su episodi, temi, protagonisti, il significato della ‘sfornata’ di documenti di Wikileaks che L’Espresso ha da ieri iniziato a pubblicare: 4000 files dal 2002 all’aprile 2010, usciti dalle rappresentanze diplomatiche degli Stati Uniti in Italia, con in calce anche le firme degli ambasciatori, che fossero di nomina ‘bushiana’ od ‘obamiana’.

Sotto il titolo in copertina ‘Quel premier è un clown’, L’Espresso scrive che dai dispacci “emerge un leader che ha sfruttato le istituzioni e danneggiato il Paese” e che –altro titolo- “ha reso comica l’Italia” compromettendone l’immagine in Europa e dando un tono ridicolo alla reputazione italiana in molti settori dell’Amministrazione statunitense. Ronald Spogli, rappresentante di Bush a Roma, descrive il premier come “il simbolo dell’incapacità e inefficienza dei governi italiani” e ne percepisce la volontà “di anteporre gli interessi personali a quelli dello Stato”.

Ma che questi fossero i giudizi già lo sapevano dai files di Wikileaks pubblicati l’autunno scorso. Quello che adesso salta fuori più chiaramente è che Washington usa le debolezze e la “devozione” berlusconiane. Perché aiutare un leader così debole? Alla vigilia di un G8 a rischio fallimento, lo spiega Elizabeth Dibble, l’incaricata d’affari allontanata da Roma, dopo gli eccessi di disinvoltura dei suoi cablo: “I dirigenti italiani sono ansiosi di sostenere le priorità del governo statunitense, desiderano essere in sintonia con la nostra politica in ogni modo”. E, allora, perchè negare a Mr B una foto a tu per tu nel centro dell’Aquila devastato, se l’immagine, che non costa nulla, può rendere su mille fronti?

Anche senza i sottomarini nucleari alla Maddalena, l’Italia resta una ‘portaerei americana’ nel Mediterraneo ed è pronta ad assecondare le scelte di Washington in Afghanistan e in Libano, contro l’Iran e pro Israele e sui fronti della lotta al terrorismo –più o meno puliti che siano stati i metodi-.

La ridda di reazioni ai nuovi files si sofferma più sulla forma che sulla sostanza. La maggioranza offre smentite e difese d’ufficio. L’opposizione sottolinea l’immagine dell’Italia “devastante” –il segretario del Pd Bersani- e il leader “pagliaccio incapace” –il presidente dell’Idv Di Pietro-, o ce l’ha col ministro della difesa La Russa, che ancora parla di ‘missione di pace’ in Afghanistan.

SPIGOLI: Ruby scandalizza l'Ap, vuole soldi per intervista

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/02/2011

Questa è la volta che la stampa americana si scandalizza davvero: finisce su molti siti Usa, col titolo “la Ruby di Berlusconi vuole essere risarcita”, un dispaccio esclusivo (capirete subito perché) della Ap che racconta uno scambio di mail tra l’agenzia di stampa e Ruby, la giovane marocchina non più minorenne al centro della vicenda per cui il premier italiano deve essere processato il 6 aprile. Allora, tra mercoledì e giovedì, la Ap, che mette in campo tre donne tre –Alessandra Rizzo, Colleen Barry e Trisha Thomas-, come tre donne tre sono i giudici milanesi, scrive a Ruby, chiedendole un’intervista televisiva. La ‘teenager’, come correttamente la definisce l’agenzia, perché ha 18 anni, afferma di non avere fatto nulla di male e sostiene che “tutto l’oro del mondo” non potrebbe compensarla per quello che ha passato. E si lamenta d’essere stata “trattata come una prostituta da tutti i media italiani e stranieri”: “Voglio essere risarcita per come sono stata ferita”. Beh, va bene, ma l’intervista? “Io non faccio nulla per nulla” –questa magari i giudici milanesi se la segnano- e, quindi, o 15mila euro o niente. E qui l’Ap ha un sussulto d’indignazione davvero, altro che bunga-bunga e festini hard: pagare per un’intervista, non si fa. Lo scambio di mail finisce lì, la storia invade l’America con tutto il suo background. E mentre la Cnn mette online il transcript dell’intervista a Nicole Minetti, il WSJ si chiede in un commento se Berlusconi non sia “sfatto dalla Dolce Vita”. Certo che avere a che fare con Ruby dev’essere uno stress: quella ragazza, anzi ‘teenager’, non fa niente per niente.

venerdì 18 febbraio 2011

SPIGOLI: Mr B nella bufera, l'Italia sotto il vento del Nord

Scritto per Il fatto Quotidiano del 18/02/2011

Se il Cavaliere è nella tormenta di Ruby e delle sue colleghe, l’Italia è “sotto il vento del Nord”, il vento della Lega, “il solo partito a non temere la prospettiva di elezioni anticipate”: Le Figaro, quotidiano francese fra i meno acidi, nelle cronache quotidiane, verso Berlusconi e il suo governo, dedica un reportage al partito “autonomista e popolare” che in vent’anni di vita parlamentare s’è imposto come un “attore chiave” della politica italiana. E non manca l’intervista a Umberto Bossi, con la foto del babbo del Trota che alza la fiala con l’acqua del Po nel rito che, ogni anno, violenta la tradizione risorgimentale delle sorgenti del fiume, al Pian del Re, sotto il Monviso.L’inviata Christine Fauvet-Mycia descrive la Lega Nord come “un partito di governo” e osserva –cosa che a molti italiani probabilmente sfugge- che è ormai la più vecchia formazione politica a sedere in Parlamento: “regna su Piemonte e Veneto”, condiziona la Lombardia, “allarga la sua base elettorale a destra e a sinistra” e “sembra in grado di fare il bello e il cattivo tempo” nell’Italia di Mr B, dove “ormai nessuno tratta alla leggera” il Bossi e la Lega, che impone il federalismo, che è “una rivoluzione copernicana”, e cavalca le paure della gente, Al giornale francese, Umberto il Padano non racconta nulla di nuovo, su Berlusconi, che sarebbe vittima dei giudici perché porta avanti il federalismo, e sui programmi della Lega. Che, se si andrà alle urne, Christine non ha dubbi, diventerà “il primo partito del Nord Italia: sarà storico” e, nel 150.o anniversario dell’Unità d’Italia, un po’ deprimente.

Libia: il silenzio di Frattini mentre Gheddafi ha i suoi guai

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/02/2011

Il 1.o febbraio, aveva detto: Quello che sta accadendo in Egitto, deve “essere una lezione per tutti”: ospite di Matrix, Franco Frattini aveva aggiunto di sperare che il leader libico Muhammar Gheddafi stesse “guardando la tv e riflettendo su quello che può fare per il suo popolo”. Il ministro degli esteri rispondeva a Emma Bonino, vice-presidente del Senato, che gli sollecitava una riflessione, in termini di diritti dell’uomo, sulla Libia e sondava la possibilità di rivedere l’Accordo tra Roma e Tripoli che mette la sordina alle violazioni dei diritti dell’uomo in Libia. ”Non credo che ci sia la possibilità di rivedere l’Accordo” sosteneva Frattini”, sottolinenando, poi, che la stabilità della Libia, come quella dell’Egitto e della Giordania, “è importante per tutti noi”. Qualche giorno prima, a ‘Che tempo che fa’, il ministro aveva riconosciuto al Colonnello dittatore il merito “di tenere sotto controllo una situazione altrimenti esplosiva”.

Lasciamo stare che la vigilia di Matrix, Frattini con i colleghi dell’Ue, aveva sponsorizzato una transizione ordinata in Egitto e che di lì a poco i leader dei 27 avrebbero addirittura chiesto una transizione subito, correndo dietro agli eventi invece che cercare di influenzarli: peli nell’uovo diplomatici. Quel che qui ci importa è che le parole del ministro dicono –e non è una sorpresa- che i patti con la Libia e l’amicizia con Gheddafi sono più importanti per l’Italia di Mr B del rispetto delle libertà fondamentali del popolo libico:

Fortuna che mica tutti la pensano così: il 20 gennaio il Parlamento europeo s’era rifiutato di firmare un assegno in bianco al Colonnello e aveva posto due condizioni precise per il via libera a un futuro eventuale accordo di cooperazione dell’Ue con Tripoli: protezione dei migranti e riconoscimento dello statuto di rifugiati.

Ora, nessuno chiede a Frattini di pronunciarsi su una situazione incerta e di difficile lettura come quella libica, dove le notizie non solo sono contraddittorie, ma spesso pure improbabili. Però, l’Italia potrebbe forse assumere una linea meno incondizionatamente ‘gheddafiana’. Persone capaci d’analisi nella diplomazia italiana non mancano. L’ambasciatore, Claudio Pacifico, dal Cairo, dove rappresenta l’Italia, dopo averlo pure fatto a Tripoli, dice a Radio Vaticana: “In Libia si corre ancora di più il rischio che le proteste, invece di avere un loro obiettivo di crescita democratica, possano essere ostaggio di altri movimenti che con la democrazia non hanno nulla a che vedere”. Pacifico riceve una bacchettata sulle dita dalla Farnesina: le sue valutazioni sono a titolo personale e “non riflettono le posizioni del ministero degli Esteri e del Governo italiani”; il che, in termini non diplomatici, significa ‘statti zitto’.

Persino l’impalpabile lady Ashton, responsabile della diplomazia europea, è più loquace sulla Libia del ministro italiano: fa un appello a Tripoli perché tenga nella giusta considerazione “le legittime aspirazioni del popolo”, ricordando la necessità imprescindibile del rispetto dei diritti umani.

A scuotere Frattini dal suo torpore libico, ci prova il senatore Stefano Pedica, capogruppo di Italia dei Valori in Commissione Esteri:l’Italia non può fare affari ldice- con un governo che reprime manifestazioni pacifiche. E chiede il blocco dell’accordo di cooperazione, la sospensione dell’erogazione di aiuti in cambio dei respingimenti e la revisione della partecipazione libica nell’economia italiana, a cominciare dal settore finanziario.

giovedì 17 febbraio 2011

Baby boomers troppi e troppo tosti, nubi su vecchiaia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/02/2011

E’ dura, per i ‘baby boomers’, i nati nel dopoguerra, i figli della ‘great generation’ che sconfisse nazismo e fascismo nella Seconda Guerra Mondiale: dopo avere tirato la carretta per almeno quarant’anni –fanno eccezione gli italici ‘baby pensionati’-, adesso che s’apprestano ad andare in pensione o che ci sono appena andati, scoprono che dovranno badare a se stessi per il resto dei loro giorni, perchè i figli che lavorano e i nipoti che sono, se va bene, precari, sono pochi e non possono certo farsi carico del fardello dei loro vecchi che, per di più, rischiano di resistere fino ai cent’anni, visto l’allungarsi della vita media. Essi’, perchè i ‘baby-boomers’ sono proprio tanti: sono la generazione più numerosa mai messa al mondo dalla Vecchia Europa e dall’America, frutto delll’energia e dell’ottimismo dei sopravvissuti alla guerra e della necessità di colmare i vuoti del conflitto.

Ma sarà vero? Cosi’, almeno, la pensa Lord Warner, consigliere del governo di Sua Maestà del premier conservatore David Cameron, incaricato –aihnoi, anzi aihloro, i britannici- di stendere una bozza di riforma dell’assistenza sanitaria agli anziani: sostiene Lord Warner, se quanto scrive il Telegraph è giusto, che «sarebbe ingiusto aspettarsi che chi lavora paghi il conto della salute dei genitori che invecchiano» e che, per questo, rischiano di avere bisogno di cure. E siccome i ‘baby-boomers’ «se la sono cavata abbastanza bene» in vita loro e, magari, con il lavoro, hanno pure messo da parte qualcosa, comprato una casa, ora devono essere preparati a spendere quello che hanno accantonato per permettersi medicine e dottori. E magari a vendersi la casa per pagarsi un posto all’ospizio, quando non potranno più badare a se stessi, nè i loro figli potranno accurdirli, perchè ne hanno fatti pochi e quei pochi saranno impegnati a lavorare fin ben oltre i 65 anni per guadagnarsi da vivere.

Ora, a prima vista, le idee di Lord Warner non dovrebbero andare molto lontano, perchè penalizzano sia i quasi vecchi che i loro figli, che si vedranno privati della casa di famiglia su cui, magari, avevano fatto qualche pensiero. Ma il problema di una riforma del sistema pensionistico si pone in tutti i Paesi europei come negli Stati Uniti e ovunque c’è una generazione molto numerosa che va in pensione e che ha la speranza, o l’incubo, se Lord Warner la spunta, di vivere più a lungo, anche molto più a lungo, dei suoi padri, con milioni di potenziali centenari più o meno arzilli.

Il problema se lo pongono i singoli Stati, spesso ricorrendo ad aumenti anche drastici dell’età della pensione, cosi’ s’allunga il periodo di versamento dei contributi e s’accorcia quello di fruizione : lo hanno già fatto Gran Bretagna e Francia, Germania e Italia, in modo parziale e insufficiente, soprattutto Svezia e Danimarca, dove chi entra oggi sul mercato del lavoro rischia di restarci fin oltre i 70 anni.

Per fortuna, in Europa la posizione di Lord Warner non appare maggioritaria. Proprio ieri il Parlamento europeo, in sessione plenaria, a larghissima maggioranza, ha chiesto agli Stati dell’Ue di fare in modo che il sistema previdenziale garantisca a lungo termine un reddito adeguato al numero crescente di pensionati e di affrontare i temi della trasferibilità delle pensioni e delle ineguaglianze che pesano, in particolare, sulle donne. Popolari e socialisti concordi, l’Assemblea ha cosi’ dato l’avallo a un libro verde della Commissione europea dal titolo incoraggiante, ‘Verso un sistema di pensioni adeguate, durature e sicure in Europa’. Mandiamone una copia a Lord Warner (tra parentesi, i conservatori britannici hanno votato contro), in attesa che i capi di Stato e di governo dei 27 e i loro ministri dell’economia decidano come tradurlo in pratica.

SPIGOLI: Carlà canta Trenet, il più amato dalla sinistra

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/02/2011

A Carlà l’italienne, cioè a Carla Bruni , sposa italiana del presidente francese Nicolas Sarkozy, ma anche ‘top model’, cantante, attrice, hanno ‘scippato’ Dolce Francia, sua versione un po’ in italiano e un po’ in francese di Douce France, titolo culto di Charles Trenet, cantautore amatissimo oltralpe. ‘Al ladro, al ladro’: sul Nouvel Obs, l'agente di Carlà grida al furto dopo che il Midi Libre ha messo online un clip di 50" del remake della canzone e ne ha pubblicato le nuove parole. Viene il sospetto che sia tutta un’operazione pubblicitaria, per lanciare il quarto album che la Bruni, naturalizzata francese dopo il matrimonio con Sarko’, sta registrando in uno studio parigino e di cui la bilingue Dolce Francia potrebbe far parte (ma non è sicuro. Non si sa ancora quando uscirà l’album, ma si sa che conterrà una dozzina di motivi, quasi tutti parole e musica della Première Femme de France. Stando a un sondaggio, Trenet resta, a dieci anni dalla morte, il 19 febbraio 2001, a 87 anni, un’icona francese: il 60% degli intervistati ne ricorda le canzoni, prima di tutte proprio Douce France, poi La Mer. I fans di Trenet sono più numerosi a sinistra che a destra (65% contro 56%), specie nella fascia tra i 35 e i 49 anni: la ‘generazione Mitterrand’, nel segno del sostegno del cantautore al primo presidente socialista della V Repubblica. E cosi’ Carla’ tradisce, politicamente, Sarko’.

mercoledì 16 febbraio 2011

Mr B a giudizio immediato: il giro del mondo della notizia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/02/2011

I titoli della stampa estera sono stati talmente immediate e fragorosi che William Hill, allibratore britannico di primo piano, ha bruscamente tagliato le quote sulle dimissioni del Cavaliere, poco dopo che il Gip di Milano Cristian Di Censo aveva disposto che il presidente del Consiglio italiano sia giudicato con rito immediato. Dopo i flash della Reuters e le ‘breaking news’ della Bbc, William Hill dà le dimissioni di Berlusconi entro marzo al 4 a 1 (prima erano 11 a 2) ed entro giugno al 5 a 1 (contro 9 a 1). Pero’, si puo’ pure scommettere che Mr B resti al suo posto fino alla fine dell’anno e oltre: lo danno a 4 a 11.

La notizia del giudizio immediate ha fatto ‘suonare i campanelli’, come succedeva letteralmente ai tempi delle telescriventi, delle grandi agenzie mondiali, Ap, Reuters, Afp, ed è subito diventata ‘breaking news’ sui siti dei media grandi e piccolo di tutto il mondo: quotidiani americani e asiatici, televisioni all news come la Bbc e la Cnn, France24 e Fox, anche il canale in lingua araba di Al Jazira, che pure ha grossi fatti sotto mano nella sua area.

E’ che la storia, aihnoi, è ghiotta: c’è il potere ed il sesso, la ricchezza e la notorietà dei protagonisti. Delle 5 S che fanno grande una notizia (sangue, sesso, soldi, spettacolo e sport), manca solo il sangue –sublimato, pero’, dalla giustizia-. I titoli, almeno quello iniziali, sono molto corretti e oggettivi, stile ‘Berlusconi a giudizio il 6 aprile’ (e la Cnn, come la Bbc fedele interprete del giornalismo anglosassone, trova pure modo di ricordare che il premier sostiene che le accuse sono infondate).

Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, a Bruxelles per una riunione del Consiglio dei Ministri dell’Ue, viene assediato dai giornalisti (quasi tutti italiani, a dire il vero), che gli chiedono un commento. E lui, che il mese scorso non aveva esitato, davanti all’esplodere dello scandalo, a dirsi orgoglioso di fare parte di questo governo, adesso si rifugia in un classico ‘all’estero non si lavano i panni’ (peggio se sporchi).

Più della stampa francese, a gettarsi sulla notizia sono quella britannica e, un po’ sorprendentemente, quella tedesca, con la Bild, tabloid da 5 milioni di lettori, che piazza la storia in apertura. Fedeli a una linea sempre tenuta in questa vicenda, Guardian e Telegraph accompagnano l’annuncio del processo con la notazione, un po’ incredula, che Berlusconi nei sondaggi continua a cavarsela meglio dell’opposizione.

Molto ‘eccitata’ anche la stampa spagnola, che sta addosso al ‘caso Ruby’ dal primo giorno. Come Bild, El Pais apre il sito e nota che « tre donne formeranno il tribunale che processerà il premier italiano » -é quella che Famiglia Cristiana chiama ‘nemesi’ di Mr B e che il ministro Frattini, a guardia della ridotta berlusconiana, bolla come definizione «ingenerosa»-. El Mundo, più pruriginoso, calca la mano sull’ «abuso di potere» e sulla «prostituzione minorile» (e, come buon peso, ci mette una photo gallery con tutte le protagoniste note delle notti di Arcore). Quanto ai francesi Le Monde e a Le Figaro, sono magari più compassati, ma non si negano il titolo in prima.

Oltre Oceano, il NYT ha un titolo in evidenza, il WSJ colloca la notizia nella ‘top ten’ della giornata. Ma Mr B va oltre i tradizionali confini dell’informazione occidentale: invade i siti dell’America Latina e dell’Asia, arriva fino alla Xinhua, che sarebbe la Nuova Cina, l’agenzia di stampa cinese. Forse, a trattarlo con i guanti saranno state solo le stampe, non propriamente libere, di Bielorussia e Kazakstan e magari di Libia: li’, i suoi amici Lukashenko, Nazarbayev e Gheddafi vegliano su di lui. E, magari, lo aspettano alle loro feste. Lui porta il vino, o le donne.

Viva le piazze!, abbasso i barconi!, da eroi a terroristi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/02/2011

Viva le piazze!, abbasso le barche!, anzi a fondo (tanto, che ce frega, sono ‘marocchini’). E’ uno strabismo miope, quello dell’Europa, non solo dell’Italia, rispetto a quanto prima avveniva nel Nord Africa e in Medio Oriente, poi alla rivolta delle piazze e ora alla fuga dalla povertà di migliaia di disperati. Per decenni, onori e rispetto al Faraone e agli altri satrapi, che ci garantivano la stabilità della Regione e tenevano il tappo sull’integralismo, pur se a prezzo dell’oppressione dei loro popoli (tanto, che ce frega, sono ‘marocchini’). Poi, di colpo, anzi quasi, perchè un giorno o due ci abbiamo pensato su, viva le piazze di Tunisi e del Cairo, e magari pure quelle di Algeri domenica, di Bengasi domani, dello Yemen, del Bahrein, ovviamente dell’Iran, che gridano la voglia di libertà (e di pane) e decretano senza violenza la fine dei regimi. Ma, appena gli eroi delle piazze, i paladini della democrazia, anche se non sappiamo bene nè chi sono nè cosa pensano, si rovesciano sulle spiagge, alla ricerca di un lavoro, un guadagno, un futuro, ecco che –parola del ministro degli interni Maroni- diventano subito potenziali terroristi, che vanno fermati prima di partire, intercettati, rispediti indietro. E il ministro Frattini gonfia la paura della gente, teme «un afflusso enorme sulle coste europee». Ora, delle due l’una: o quelli sui barconi sono gli insorti delle piazze (e allora abbiamo appena assicurato loro aiuti e sostegno e dovremmo accoglierli, se non a braccia aperte, almeno in modo non ostile); oppure, quelli sui barconi sono i pretoriani dei regimi abbattuti, in fuga non dalla fame, bensi’ dal timore di ritorsioni(e allora dovremmo ricordarci che fino a ieri erano i nostri agenti nel Nord Africa, repressori anche per conto terzi, cioè per conto nostro). Un po’ di coerenza, signori al potere e cittadini, se non di umanità. Daniel Cohn-Bendit, leader verde europeo, ha detto al Parlamento europeo: «E’ quanto meno bizzarro l’improvviso risveglio delle capitali europee che scoprono che Mubarak (o Ben Ali’, ndr) era un dittatore». E rilancia l’idea di un’agenzia di valutazione del rispetto dei diritti dell’uomo: una Standard & Poor della democrazia che bocci i dittatori (e i loro amici).

SPIGOLI: emigrazione, Italia fa guerra a Ue stile Pearl Harbour

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/02/2011

L’Italia trasforma lo sbarco di tunisini in fuga dalla povertà a Lampedusa in una sorta di guerra con l’Unione europea: una guerra lanciata senza neppure dichiararla, stile Pearl Harbour, perchè il ministro Maroni denuncia il mancato aiuto europeo prima ancora di chiederlo, anzi dopo averlo rifiutato. E la stampa assiste un po’ allarmata, ma anche un po’ divertita, alle punture di spillo fra Roma e Bruxelles. Si diverte più di tutti il FT che nota beffardo come l’Italia, che «comincia a fare i conti con una nuova Africa» -e, fin qui , il tono è serio-, non tenga il passo del cambiamento: «Il sito del ministero degli Esteri, lento ad aggiornarsi, un mese dopo l'uscita di scena di Ben Ali, promuove ancora la Tunisia come meta ideale per gli investimenti, grazie alla sua ‘stabilità politica e sociale’». E il giornale economico europeo, subdolo, aggiunge: «Si può perdonare Frattini, viste le strette relazioni di Berlusconi con gli autocrati dell'area», tra cui proprio Ben Ali. I media europei sono unanimi nel notare che le tensioni, al culmine domenica, sono poi andate placandosi, man mano che il flusso degli esuli rallentava, e che le promesse d’aiuto alla Tunisia e d’assistenza all’Italia fioccavano, fino alla telefonata di ieri, vero e proprio calumet della pace, tra il presidente Giorgio Napolitano e il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. Il tema è stato seguitissimo; e l’Ap portava negli Usa titoli come «I tunisini votano con i piedi, fuggono dal paese» e «L’Italia chiama l’esodo biblico».

martedì 15 febbraio 2011

SPIGOLI: le donne aprono i tg d'Europa, non quelli di Mr B

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/02/2011

Domenica sera, le donne d’Italia in piazza contro Mr B facevano l’apertura del tg della Zdf, il secondo canale della tv pubblica tedesca, e di molti altri notiziari europei, mentre erano solo il terzo titolo del Tg1 e addirittura il quarto di Canale. Eppure, la stampa estera, ieri, premiava la scelta della Zdf e bocciava quelle di Minzolini e Mimun. Oltre che le piazze, le donne d’Italia hanno davvero conquistato l’attenzione dei media. E il FT coglie l’occasione per un editoriale senza riverenze , dal titolo che è un programma politico non inedito per il quotidiano finanziario europeo: «Arrivederci, Silvio. La carriera politica di Berlusconi di sicuro un giorno arriverà alla fine. Sarebbe meglio per il suo Paese e per l'Unione europea, se questo momento arrivasse ora invece che dopo». E l’Economist traduce in vignetta lo stesso concetto, con lo stivale che dà un calcio al Cavaliere Mentre il Daily Mail prende a prestito per farci il titolo uno slogan della piazza: «Se non ora quando? Un milione di donne furiose chiedono la testa del premier». Titoli e temi che, con la rabbia delle donne, ritornano su Bbc e Guardian, Times e Independent, Telegraph ed El Pais, El Mundo ed Abc, Libération et Le Figaro, Nouvel Obs e Les Echos. Raramente un fatto politico e sociale italiano ha avuto tanto successo contemporaneamente su tanti media stranieri. Anche in America, dove il WSJ titola che «le donne chiedono le dimissioni di Berlusconi» e il NYT che «le italiane protestano per gli scandali» del Cavaliere. A capirlo, che la storia era cosi’ grossa, magari anche il Tg1 e Canale5 ci aprivano.

domenica 13 febbraio 2011

SPIGOLI: morire a Venezia, no, ma restarci in eterno sì

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/02/2011

Mentre i giornali di mezzo mondo, come ad esempio l’Independent, sono zeppi di spunti per venire in Italia, e specialmente a Venezia, a trascorrere un San Valentino romantico, e un sondaggio dice che l’Italia è il posto da sogno degli inglesi per una vacanza amorosa, El Pais ci svela che è ormai possibile “passare l'eternità a Venezia”, perché le ceneri dei defunti possono essere legalmente disperse in città e nella laguna. Con un filo di sottile, e forse involontario, umorismo macabro, Gianfranco Bettin, assessore all’ambiente, afferma che “molti aspettavano questa notizia”. Uno sarebbe stato di sicuro Gustav von Aschenbach, ambiguo protagonista di Morte a Venezia, romanzo di Thomas Mann portato sullo schermo da Luchino Visconti con Dirk Bogarde protagonista: l’idea, scrive Lucia Magi sul quotidiano spagnolo, gli avrebbe strappato un ultimo malinconico sorriso prima di spegnersi di fronte al mare della Serenissima. Ma la decisione del Comune di Venezia d’autorizzare la dispersione delle ceneri dei defunti non è solo poetica: ci sono problemi di spazio, specie nel cimitero sull’Isola di San Michele, dove, fra gli stranieri famosi, sono sepolti il poeta Ezra Pound, il Nobel della Letteratura Joseph Brodsky o il compositore Igor Stravinsky; e ci sono aspetti economici, perché il rito costerà 250 euro a un residente, ma il doppio a un ‘foresto’. E così al flusso di turisti per i matrimoni Venezia potrà sommare quello per i funerali: il bianco e il nero: Fortuna che presto sarà Carnevale e le maschere porteranno a Piazza San Marco colori più vivaci.

sabato 12 febbraio 2011

Egitto: Obama mette una toppa alle gaffes degli Usa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/02/2011

Questa volta, il presidente degli Stati Uniti ha parlato a cose fatte. Quattro ore dopo l’annuncio delle dimissioni di Hosni Mubarak, Barack Obama rinnova l’auspicio d’una transizione verso la democrazia «ordinata»: «L’Egitto non sarà più lo stesso, ma questo non è la fine della transizione, è solo l’inizio». Mubarak era responsabile della «fame di libertà» del suo popolo, che con la sua rivoluzione ha mostrato «il potere della dignità umana» e ha cambiato non solo il proprio Paese, ma il Mondo.

La dichiarazione del presidente, trasmessa in diretta dalla tv egiziana, tampona le gaffes dell’Amministrazione statunitense sulla crisi egiziana: cambi di rotta cosi’ palesi da ispirare alla Reuters una cronologia delle ‘virate’ di Washington di fronte agli avvenimenti al Cairo; e passi falsi diplomaticamente clamorosi, come la previsione , quasi un annuncio, fatta giovedi’ a un’audizione in Congresso dal direttore della Cia Leon Panetta, secondo cui Mubarak si sarebbe «molto verosimilmente» dimesso la sera stessa.

La sortita di Panetta aveva innescato una doppia reazione: una, sicura, la sortita, poco dopo, di Obama in Michigan, prima del discorso di Mubarak, che sembrava preludere alle dimissioni del rais; e una, un’illazione, credibile, il rifiuto del presidente egiziano di farlo per non piegarsi –questa la spiegazione- ai diktat dall’estero. Con il risultato di costringere, poi, Obama a definire «non sufficienti» i passi del rais.

In precedenza, c’erano stati altri esempi di scarso tatto (e di inadeguata conoscenza della situazione): un incontro cosi’ burrascoso da parere un litigio tra Hillary Clinton, segretario di Stato, e il ministro degli esteri egiziano Ahmed Abul Gheit; e il ruolo divenuto imbarazzante dell’inviato di Obama al Cairo, Frank Wisner, fattosi paladino di Mubarak e come tale sconfessato dalla Casa Bianca.

Adesso, in fondo, dire le cose giuste è quasi facile, anche se ci vuole prudenza, perchè non è mica chiaro come la transizione si svilupperà e in che mani finirà il potere. Certo, per alcuni versi le parole di Obama echeggiano quelle del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e del ‘ministro degli esteri’ europeo Lady Ashton, che dicono, quasi all’unisiono, che «la voce del popolo è stata ascoltata».

Ma, oltre che alla voce degli egiziani, gli Stati Uniti tendono l’orecchio pure alle voci dei loro alleati nella Regione: l’Arabia Saudita, che pare a tenuta stagno ma che, dopo avere accolto Ben Ali’ in fuga dalla Tunisia, ora accusa il colpo dell’ uscita di scena di Mubarak; e Israele, che con Mubarak perde un’interlocutore arabo che non aveva mai messo in dubbio la pace costata la vita al suo predecessore Anwar el Sadat.

Gli Stati Uniti hanno tradizionalmente un interlocutore fidato nell’esercito egiziano, che ha finora favorito la transizione e mantenuto il rispetto della piazza e che, solo martedi’ scorso, ha ricevuto il pubblico elogio del segretario alla difesa Robert Gates, per essersi comportato «in modo esemplare» tenendosi da parte, pur essendo presente, durante le proteste. Un elogio ripetuto e sottolineato, ieri sera, dal presidente Obama.

Obama ha saputo delle dimissioni di Mubarak «mentre partecipava a una riunione nello Studio Ovale», ha detto un portavoce. E poi “ha guardato per parecchi minuti alla tv le immagini dal Cairo”. Mentre lui preparava il suo commento, il suo vice,
Joe Biden, nel Kentucky, addobbava l’attesa con qualche ovvietà: “un giorno storico”, un “momento cruciale”; i giorni a venire saranno «delicati e gravidi di conseguenze”.

Si’, ma quali? L’andamento della crisi suscita interrogative sulle capacità d’analisi della diplomazia e dell’intelligence americane. E Biden, infatti, non si fida e va sul sicuro: «La transizione deve produrre un cambiamento irreversibile e approdare alla democrazia». Come, domani è un altro giorno.

venerdì 11 febbraio 2011

Mr B a Strasburgo? Venga, ma prima lo processi l'Italia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 11/02/2011

Ci provo’ anche Saddam Hussein, a rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, ma gli ando’ male: il suo ricorso contro i Paesi della coalizione che avevano attaccato l’Iraq, fra cui l’Italia, venne giudicato “inammissibile”. E sappiamo tutti com’è poi andata a finire la storia: tragicamente, per il presidente iracheno rovesciato dall’invasione.

Il precedente non è proprio incoraggiante, se Silvio Berlusconi volesse davvero avviarsi sul cammino di Strasburgo, come pare suggerire il ministro degli esteri Franco Frattini con l’avallo del ministro della giustizia Angelino Alfano (“Le parole di Frattini sono sempre ponderate: se lo ha detto, c’è da crederci”). Il responsabile della Farnesina, magistrato di formazione, afferma che la violazione della privacy è materia da Corte europea e dice il ricorso di un premier contro il proprio Paese non sarebbe « straordinario » perché « ogni cittadino ha diritto di sollecitare tutela al giudice competente ».

Adusi ai ricorsi più astrusi, i funzionari della Corte non strabuzzano gli occhi all’annuncio di Frattini e non danno corda a chi, in Italia, definisce « ridicola » l’iniziativa. Anzi, tirano fuori dai loro computer una lista bell’e pronta di tutti gli (ex) capi di Stato o di governo che hanno chiamato in giudizio il loro Paese: ci sono casi in Russia e in Lituania, in Bulgaria e in Grecia, anche in Germania. Ma –attenzione!-s’è sempre trattato di leader non più al potere. Mr B sarebbe il primo leader in carica a citare in giudizio il proprio Paese (a meno che non voglia prima dimettersi).

Puo’ farlo? In linea di principio, nulla osta. Il servizio stampa della Corte europea spiega: “Le persone che ritengono che loro diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti umani siano stati violati da uno Stato che aderisce alla Convenzione possono portare il loro caso davanti alla Corte”. Pero’, per essere ammissibili, i ricorsi devono soddisfare alcuni requisiti. Uno, in particolare, ci riguarda, o almeno riguarda Silvio e i suoi paladini: prima di essere portato alla Corte di Strasburgo, il caso deve essere stato giudicato nel Paese competente da tutti i livelli di giurisdizione possibili, fino al più alto. E, dunque, se Mr B vuole la giustizia europea, deve prima lasciarsi giudicare da quella italiana: non c’è alternativa.

Una volta che il ‘caso Ruby’ arrivi, ma forse è più corretto dire, a questo punto, arrivasse, a Strasburgo, la lista d’attesa è lunga quanto nei tribunali italiani, pure spesso qui condannati per la loro lentezza. All’inizio dell’anno, i casi pendenti erano 139.650, oltre la metà dei quali riguardano Russia, Ucraina, Romania e Turchia; mentre le sentenze pronunciate nel 2010 sono state 1.499 (riguardanti 2.607 ricorsi). Con la Russia, la Turchia e la Polonia, l’Italia è il Paese che, da quando la Corte esiste, nel 1959, vi ha subito più processi e più condanne.

SPIGOLI: Frattini posa il telefono e si mette in moto

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 11/02/2011, non pubblicato

«Frattini si occupi di Mubarak, non di Ruby, la nipote (per di più finta)». L’invito, ironico, rivolto al ministro degli esteri dal presidente del gruppo Idv alla Camera Massimo Donadi non cade nel vuoto. Ertosi a difensore dei capi di governo oppressi, Franco Frattini s’appresta ad annunciare, proprio oggi, un calendario di contatti che, nei prossimi giorni, dovrebbero riallineare l’Italia e la Farnesina con i cambiamenti avvenuti e in corso dalla Tunisia all’Egitto. Basta stare al telefono (e fare la guardia al bidone del Pdl): il ministro si mette in viaggio. L’agenda di Frattini è fitta: lunedi’ sarà ad Amman , dove vedrà re Abdallah II e il nuovo premier Maaruf Baakhit; e mercoledi’, riceverà a Roma il ministro degli esteri russo Serguiei Lavrov, uno che sta nel Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu), che s’è appena riunito per valutare la situazione nel Medio Oriente. Il giorno dopo, arriverà in visita il ministro degli esteri tunisino del nuovo corso Ahmed Ounaies: Frattini gli assicurerà l’impegno dell’Italia affinché l’Europa favorisca in concreto –leggi, con soldoni- l’avvicinamento fra le due sponde del Mediterraneo. Intendiamoci, in nessun caso Frattini è battistrada : Ounaies è già stato a Bruxelles e altrove; e Abdallah ha a Washington interlocutori privilegiati. E l’Egitto? Beh, li’ ancora ieri sera era troppo presto per capirci qualcosa. Vogliamo mica andarci a cacciare in un ginepraio… E la Libia? Li’, Frattini ha una linea ferma: spera che il colonnello Gheddafi capisca dalle lezioni di Tunisi e del Cairo «quel che puo’ fare per aiutare il suo popolo», ovviamente restando al suo posto, perchè «la stabilità della Libia, come quella dell’Egitto e della Giordania è importante per tutti noi». Lunga vita ai satrapi e ai loro amici!

giovedì 10 febbraio 2011

Libia: Gheddafi il Gattopardo e l'intifada libica

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/02/2011

Pare più spietata della 'maledizione di Tecumseh', che, tra il 1840 e il 1960, fece strage di ben sette presidenti americani. La 'maledizione dell'amico' (di Mr B)s'intreccia con il domino delle sommosse nel Nord Africa e in Medio Oriente: dopo il tunisino Ben Ali, gia' deposto, e l'egiziano Hosni Mubarak, che se la passa male e che al massimo arriva a settembre, tocca al dittatore libico Muammar Gheddafi sentirsi tremare la terra sotto i piedi. A meno che il colonnello, che e' il decano dei satrapi arabi e forse del mondo intero -e' al potere dal 1969-, non stia lui manovrando 'alla Gattopardo' per cambiare qualcosa senza in realta' cambiare nulla.

La Conferenza nazionale dell'opposizione libica, piattaforma che raggruppa le principali formazioni anti-regime, ha convocato per giovedì 17 febbraio, fra una settimana, una "manifestazione di massa" in tutta la Libia contro il governo di Tripoli.

Ne da' notizia il quotidiano panarabo Ash Sharq al Awsat, finanziato dai sauditi ed edito a Londra, citando un comunicato della stessa Conferenza nazionale dell'opposizione libica. La data del 17 sarebbe stata scelta "in ricordo delle vittime dell'Intifada scoppiata a Bengasi" nel febbraio 2006, quando manifestazioni contro la pubblicazione in Europa di vignette ritenute offensive dell'immagine del profeta Maometto degenerarono in violente proteste anti-regime, proprio nei pressi del consolato italiano.

"Ci appelliamo a tutte le forze dentro e fuori la Libia - si legge nel comunicato della Conferenza - perché ricordino quell'evento con attività e manifestazioni a vari livelli. Ci auguriamo di aver appreso la lezione dalla vittoria dell'Intifada tunisina": una speranza che suona minaccia per Gheddafi.

La convocazione della manifestazione non e' un fulmine a ciel sereno. Da quando si sono avvertiti fermenti nelle piazze di Tunisi e poi d'Algeri e infine del Cairo, le autorita' di Tripoli tengono d'occhio l'eventualitá di proteste antigovernative. Dal 1o febbraio, il Ministero degli Esteri libico ha costituito un'unita' di crisi, con a capo il ministro Moussa Koussa e con il coinvolgimento dei ministri della Pubblica Sicurezza, generale Younis Al Obeidi, e dell'Economia, Mohammed Al Hwueji. E segnali di insofferenza attraversano il Paese via Facebook, Twitter e vari blog, che gia' pianificavano "dimostrazioni a Tripoli e Bengasi per l'8 -ma poi la giornata sarebbe trascorsa tranquilla, ndr- e il 17 febbraio".

La prima riunione dell'unitá di crisi, riferiscono fonti locali, citate da ANSAMed, s'e' svolta a Bengasi, capoluogo della Cirenaica, il 3 febbraio. E sempre in Cirenaica, regione considerata piu' a rischio di proteste anti-governative, negli ultimi giorni era stata segnalata la "presenza discreta" di un numero di forze dell'ordine superiore al consueto.

Altri segnali di "allerta" e di inquietudine vengono dalle ambasciate straniere. In particolare i diplomatici italiani a Tripoli hanno diffuso una nota in cui si sottolinea che "l'Ambasciata continuava monitorare la situazione nel Paese, alla luce di quanto avviene nella Regione". E anche se "non vi sono al momento motivi di preoccupazione circa possibili riflessi in Libia di quanto sta accadendo, in particolare in Egitto", la nota ricordati agli espatriati i numeri dei funzionari
dell'Ambasciata e i punti di raccolta "in casi di necessitá come catastrofi naturali o situazioni di emergenza".

Alla reattivita' dell'Ambasciata d'Italia a Tripoli non pare, pero', corrispondere analoga sensibilita' da parte delle autorita' romane. Martedì, il ministro dell'Interno Roberto Maroni, parlando a Napoli, ha ribadito la validita' degli accordi con la Libia per arginare l'immigrazione clandestina e fare fronte all'instabilita' nel Maghreb: insomma, un elogio del Gheddafi gendarme per conto nostro, in barba alla democrazia e al rispetto dei diritti dell'uomo.

Il passa parola dell'opposizione si somma alle voci di tensioni dentro il regime, dove si guarda al momento, che verra', della successione a Gheddafi. Quanto e' avvenuto e sta avvenendo tutto intorno indebolisce, di fatto, l'ipotesi 'dinastica' di passaggio di potere di padre in figlio e puo' quindi dare fiato ai giochi di palazzo. Ma che qualcosa si stia muovendo lo indica l'attivismo del colonnello nel rispondere ai bisogni "del popolo", dalla casa alle infrastrutture - all'inizio del mese, e' stato varato un piano da 150 miliardi di dinari, quasi 90 miliardi di euro. Bastera' a sopire i fermenti? I diplomatici americani non ci credono: dopo la Tunisia e l'Egitto, la Libia, scrivono in cablo regolarmente finiti sul sito The Daily Beast via Wikileaks. Ditelo, please, a Mr B, che c'e' un altro amico che traballa.

SPIGOLI: bimbi rom arsi vivi e lo 'scarica barile' del sindaco

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/02/2011, non pubblicato

Allora non è solo Il Fatto a pensare che il sindaco Alemanno ha le sue responsabilità, nella morte, domenica, di quattro piccoli rom arsi vivi dell’incendio della loro baracca, sull’Appia Nuova, verso Ciampino. : La stampa internazionale che si occupa del caso non è tenera con Alemanno e, come del resto il ministro Maroni non ne apprezza il gioco dello ‘scarica barile’ Per El Pais, la tragedia “dimostra che l’Amministrazione capitolina ha passato due anni a vantare un imponente e suggestivo ‘piano nomadi’ che, in realtà, non è mai stato attuato. Ed è troppo facile, per il sindaco, dare la colpa alla “maledetta burocrazia” che gli avrebbe impedito di realizzare le proprie scelte e d’allestire campi adeguati, dopo avere smantellato quelli esistenti (o, almeno, alcuni dei circa cento intorno alla capitale, dove vivono almeno 150mila rom).El Pais punta esplicitamente il dito contro la passività di Alemanno, mentre la Bbc, fedele a un modello di giornalismo anglosassone più distaccato, si limita a mettere in successione gelidi capoversi. Citando i media italiani, attribuisce al sindaco la frase: “Non possiamo accettare che vi siano persone che continuano a vivere in capanne di plastica che basta un nonnulla a trasformare in un braciere”; e poi ricorda che l’Amministrazione aveva promesso l’anno scorso che avrebbe chiuso tutti i campi illegali e costruito ‘villaggi’ dove i rom potessero vivere in sicurezza. E, invece, nonostante i soldi ci siano, come il ministro leghista ha ricordato al sindaco smemorato, Silvia, 20 anni, una rom che sta nel campo dei quattro bambini arsi vivi, testimonia alla Bbc: “Sono terrorizzata di vivere qui. Chiunque può venire qui a farci del male e ucciderci”.

mercoledì 9 febbraio 2011

Egitto: gli Usa e Obama cercano una formula e uno slogan

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/02/2011

Trent’anni di politica estera degli Stati Uniti nel Medio Oriente da ripensare e da riprogrammare nell’arco di due settimane, cercando di capire che cosa davvero sta accadendo e può ancora accadere al Cairo e a Tunisi, ma anche nello Yemen e altrove dall’Africa del Nord fino al Golfo.

Al presidente Barack Obama, che ha fatto dell’apertura al dialogo con il Mondo arabo un biglietto da visita della propria politica estera, a costo di trovarsi in imbarazzo con Israele, i consiglieri certo non mancano: le pagine dei commenti dei più autorevoli quotidiani Usa come i siti dei think tanks più prestigiosi sono zeppi di analisi e previsioni. Ma il problema è trovarne uno che ci azzecchi, dopo che nessuno dei Soloni d’America, di questa o della precedente Amministrazione, aveva sentito scricchiolare il pilastro della politica araba degli Stati Uniti, l’Egitto che rischia di venire giù. Ora si guarda con allarme allo Yemen, che è un nido del terrorismo, e con preoccupazione all’Arabia Saudita, che resta però solida, mentre i movimenti nel Nord Africa, la Tunisia, l’Algeria, il Marocco, interessano sì gli americani, ma appaiono più vicende di pertinenza franco-europea.

In chiave elettorale, le vicende egiziane e le altre più o meno analoghe tutto intorno potrebbero anche risultare ininfluenti negli Stati Uniti, se non si tradurranno in rischi per la sicurezza interna e per la pace di Israele. Anzi, il ‘domino della caduta dei satrapi’ appena partito, senza che ne sia ancora chiara la direzione, può persino togliere un fastidio dall’agenda di Obama: a fine 2010, infatti, il presidente dovrà, o dovrebbe, rendere conto della promessa fatta nell’autunno scorso di compiere passi verso la pace tra israeliani e palestinesi nel giro di un anno. Logico non riuscirci, ora, in queste condizioni, con gli israeliani alla finestra per capire che cosa accade in Egitto e con i palestinesi pure sul chi vive per capire che cosa accade, se accade qualcosa, nella striscia di Gaza.
Però, alla campagna elettorale, che, per lui, inizierà nel gennaio del 2012, anche se entrerà nel vivo solo in primavera, quando i repubblicani avranno scelto il loro sfidante, Obama dovrà arrivarci con una strategia mediorientale credibile e a tenuta stagno rispetto alle lobbies filo-israeliane che, negli Stati Uniti, sanno influenzare, quando non controllano in modo diretto, la grande stampa.

Se gli esperti d’America devono rifarsi una credibilità, l’Europa non sembra poter essere la lanterna che illumina la strada dell’Amministrazione statunitense: dopo avere inizialmente scelto una collocazione a metà strada tra Il Cairo e Washington, più o meno dalle parti di Gerusalemme, i leader dei 27 hanno fatto, al loro Vertice della scorsa settimana, una sorta di ‘copia e incolla’ della posizione Usa, mostrando più inclinazione verso una consunta ‘real politik’ –cambiamento, moderato, subito, ma non troppo- che verso gli slanci idealisti che Emma Bonino, una che al Cairo ci vive, e Anthony Dworkin hanno loro suggerito sul Financial Times: “Stare dalla parte dei democratici d’Egitto” (a patto di sapere chi sono). In America, questa è la linea di Elliot Abrams, ideologo neoconservatore, che fu assistente segretario di Stato nell’Amministrazione Bush e che suggerisce di “rimettere la libertà” al centro dell’agenda.

A Obama, c’è chi prova a spiegare gli errori del passato (e, fin qui, sono buoni quasi tutti, una volta che i nodi vengono al pettine); c’è chi, come Nicholas Burns, diplomatico più d’effetto che di sostanza, gli sottolinea le difficoltà del momento; e c’è chi, come Zalmay Khalilzad, ambasciatore di tutte le sedi più ostiche, gli suggerisce un piano a corto termine, stile un passo alla volta, senza però ben sapere dove si va a parere. Stephen Sestanovich, ‘testa d’uovo’ del Council on Foreign Relations ed ex ambasciatore, preconizza tre cambiamenti inevitabili nella visione mediorientale degli Stati Uniti: in primo luogo, il ‘domino’ “cementa il primato del Grande Medio Oriente nella politica estera americana”, dal Pakistan al Marocco una sola linea; secondo, l’attenzione dovrà focalizzarsi su quanto avviene dentro ogni Paese, non limitarsi alle politiche estere di ogni Paese; terzo, ci vorrà una formula nuova per tradurre in slogan elettorale il nuovo pensiero mediorientale degli Stati Uniti. O, almeno, per dare l’impressione che c’è un nuovo pensiero. Obama, c’è da scommetterci, ha già chiesto ai suoi consiglieri di trovargli la frase giusta: la politica, come l’intendenza, seguiranno.

SPIGOLI: a Gomorra la cultura chiede asilo in Germania

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/02/2011

Nel comune dove Papi andò a festeggiare il compleanno di Noemi che diventava maggiorenne, sventola il tricolore tedesco. Per sottrarsi alla camorra, e magari alle chiacchiere, Casoria vuole l’annessione alla Germania? Non proprio, ma un po’ sì: tormentato proprio dalla camorra, il Museo di arte contemporanea del centro in provincia di Caserta ha infatti chiesto alle autorità tedesche una sorta di gemellaggio protettivo. La vicenda, rivelata dalla stampa locale, ha trovato buona eco sulla stampa internazionale, specie su El Pais, che ricorda come, da Casoria e dalla festa di Noemi, partì la deriva degli scandali sessuali di Mr B che ha innescato la rottura definitiva con Veronica Lario e “ha raggiunto il suo zenit con il caso Ruby”. . El Pais fa pure notare che Casoria non è lontana da Pompei, che con i recenti crolli è diventata "il simbolo dell'incuria" del governo italiano verso il patrimonio culturale. E cita Roberto Saviano, secondo cui Casoria è "puro territorio di Gomorra". Antonio Manfredi, direttore e fondatore del Contemporary Art Museum (Cam), spiega ai giornalisti d’essere pronto a traslocare insieme al suo staff e a mille opere del valore complessivo di 10 milioni di euro. Dopo anni di minacce e di atti vandalici per la programmazione anti-camorra, Manfredi s’è deciso e ha ha scritto personalmente al cancelliere tedesco Angela Merkel, chiedendole uno spazio e anche ossigeno finanziario. Manfredi aveva scelto Casoria per il suo museo proprio perché quella è terra di camorra, "per responsabilità morale verso un territorio disagiato". E perché ora sceglie la Germania? Perché “è l’unico Paese d’Europa che non taglia la cultura”. E dire che sono i campioni del rigore… Ma, senza la camorra e senza Bondi, spendere bene è più facile.

martedì 8 febbraio 2011

SPIGOLI: guerra del cioccolato in Francia, forza Nutella!

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/02/2011

In un’epoca lontana, l’Italia era il terreno di battaglia della Potenze d’allora, la Francia, la Spagna, l’Impero. Adesso, invece, nell’era della globalizzazione, un’azienda italiana, anzi piemontese, ed una multinazionale d’impronta americana combattono in Francia la ‘guerra del cioccolato’. Kraft, che a noi della ‘generazione Carosello’ suona sinonimo di sottolette e maionese, e che già controlla il 14% delle vendite di cioccolato in Francia, vuole togliere alla Ferrero la leadership del mercato. Ma l’azienda di Alba, forte dei suoi ‘assi pigliatutto’ Nutella e Kinder, la tiene in scacco, con il 22% delle vendite. Les Echos, quotidiano economico francese, racconta la ‘guerra del cioccolato’ e narra l’ ‘appetito da orco’ della Kraft in Francia, dopo essersi pappata, a mo’ di colazione, i biscotti Lu, acquistati dalla Danone nel 2007. Ora, dopo la stasi da crisi nel 2009, i consumi di cioccolato oltralpe sono di nuovo saliti nel 2010 a un buon ritmo, il 3%, e i margini di crescita sono robusti: infatti, i francesi consumano in media ‘solo’ quattro chili di cioccolato a testa l’anno, contro gli otto dei britannici, che, per di più, s’accontentano di prodotti per noi scadenti, a basso tenore di cacao. Kraft, forte di marche di prestigio d’ogni sorta e d’ogni origine, francesi, svizzere, belghe, come Milka e Suchard, Toblerone e Côte d'Or, che gli danno un predominio nel cioccolato a quadretti, punta sull’innovazione e sui mercati delle Feste, uova di Pasqua e confezioni di Natale. La Ferrero, fortissima sulla tradizione, tiene di riserva i suoi Rocher.

sabato 5 febbraio 2011

SPIGOLI: Egitto, l'Ue vuole cambio subito e ci mette i soldi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/02/2011

I leaders dei 27 leggono le dichiazioni di Barack Obama e le parafrasano in europeo: nelle conclusioni del Vertice di Bruxelles, chiedono che la transizione in Egitto cominci « ora », subito –un’accelerazione, rispetto alla transizione « rapida » prevista nella bozza del documento-. Le autorità del Cairo devono “rispondere alle aspirazioni del popolo egiziano con le riforme politiche, non con la repressione”. Nel testo, i capi di Stato e di governo dei Paesi Ue non citano il presidente egiziano Hosni Mubarak. Tutte le parti in causa, il potere, ma anche la gente in piazza, « devono impegnarsi – dicono i 27 - in un dialogo significativo, dare prova di moderazione, evitare violenze e cominciare –subito- una transizione ordinata verso un governo di larga coalizione ». E il Vertice dell’Ue insiste che le “aspirazioni democratiche devono essere soddisfatte col dialogo e le riforme, nel pieno rispetto di diritti umani e libertà fondamentali, attraverso libere e giuste elezioni”. L’Europa, che dà un giro di vite alle sanzioni contro la cricca di Ben Ali’, s’impegna a una nuova parnership con Tunisia ed Egitto: in concreto, più soldi e più strumenti per le politiche di sviluppo di quei due Paesi ‘affrancati’ (da regimi, detto per inciso, coccolati e protetti da Washington e Bruxelles). Con la benedizione dei leader, la responsabile della diplomazia europea, Lady Ashton, che, poco prima del Vertice, aveva parlato col vice-presidente egiziano Omar Suleiman, compirà presto una missione in Tunisia e in Egitto, dopo avere presieduto, oggi a Monaco, un incontro ‘al top’ del Quartetto, la formazione che segue gli sviluppi del processo di pace in Medio Oriente (Usa, Ue, Onu e Russia). E l’Italia, in tutto cio’? Forse mal ‘briefato’, il premier Berlusconi usa un linguaggio non conforme alle conclusioni del Vertice –parla di « continuità nella transizione » e rende omaggio al presidente egiziano- e si dice «in continuo contatto» con tutti i suoi amici in Medio Oriente –gli israeliani e chi altro?, visto che Ben Ali’ l’hanno cacciato e Mubarak stanno per farlo-.

Ue: Vertice, governance, sacrifici in arrivo per l'Italia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/02/2011

L’unica cosa di gusto italiano servita al Vertice europeo di ieri a Bruxelles è stato, probabilmente, il Morellino di Scansano messo in tavola alla colazione di lavoro. Ma c’è il rischio che neppure quell vino abbia reso digeribile il menu a Silvio Berlusconi: a pranzo, infatti, s’è parlato di governance economica e del patto di competitità proposto ai partner da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, in termini cosi’ drastici che, per mandarlo giù, ci voleva l’alka seltzer, altro che il Morellino.

Sul metodo, più che sulla sostanza, la levata di scudi contro il patto franco-tedesco, e contro la ‘germanizzazione’ dell’Unione, è forte. Ma l’Ue conferma di volere fare “ulteriori passi” per rafforzare la governance economica nella zona euro e trova un accordo di massima per il rafforzamento dell’attuale fondo ‘salva Stati’, in attesa di renderlo permanente.

I 27 vogliono « un salto di qualità nel coordinamento delle politiche economiche » e un maggiore grado di convergenza nella zona euro. Ma il ritmo del rafforzamento della governance, dettato da Francia e Germania, rischia di lasciare con il fiato corto l’Italia e gli altri Paesi che hanno un debito stratosferico e un deficit di bilancio elevato. Se Berlusconi preferisce fingere d’ignorarlo, Tremonti sa bene che il rispetto degli impegni che vengono discussi comporterà sacrifici eccezionali per vari anni.

Dal duo Merkel-Sarkozy, viene l’iniziativa di un vertice straordinario dei 17 leader della sola zona euro, da tenersi ai primi di marzo, prima del prossimo Consiglio europeo a ranghi completi, il 24 e 25 marzo, che dovrebbe varare la strategia di uscita dalla crisi e ‘mettere il timbro’ sulle modifiche al trattato necessarie per rendere permanente il meccanismo ‘salva Stati’.

Convocato dal presidente Herman van Rompuy per discutere di energia e di innovazione, il Vertice lascia sullo sfondo i due temi, su cui c’è poco da discutere: tutti d’accordo per rendere davvero unico il mercato dell’energia di qui al 2014, badando al risparmio, puntando sulle alternative e divesificando “fonti” e “rotte” dell’approvvionamento energetico, e per stimolare l’innovazione.

I problemi stanno altrove: la Merkel e Sarkozy, che dicono di andare avanti « mano nella mano », mettono sul tappeto, bell’e confezionato, il patto per la competitività. Van Rompuy, che è un po’ l’uomo di fiducia della ‘coppia di ferro’ dell’Ue, scrive, in un messaggio via twitter, che « il rafforzamento del coordinamento si aggiunge al pacchetto finanziario per una maggiore competitività ».

Ma il metodo dell’asse Parigi-Berlino non va giù a molti nella forma e crea problemi nella sostanza a quanti, come l’Italia, sanno che faranno poi fatica a stare ai patti. La Commissione europea nega di avallare il patto franco-tedesco. Il Parlamento europeo avverte i leader di preferire « il metodo comunitario » e ricorda loro di avere in mano la chiave delle modifiche al Trattato: senza il suo ok, non si va da nessuna parte, su auella via. La Polonia e molti piccoli che pesano, fra cui il Belgio, bocciano la mossa Merkel-Sarkozy. I sindacati europei ne temono una stagione di conflitti sociali.

venerdì 4 febbraio 2011

SPIGOLI: Mr B demiurgo di un neo-femminismo italiano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/02/2011

E tre! Per la terza volta in pochi giorni, NYT e IHT colpiscono la corazzata Berlusconi (ma mica l’affondano: alla battaglia navale, la corazzata vale quattro caselle: ci vuole almeno un’altra bordata). Di nuovo la prima pagina, ma stavolta l’apertura e non la spalla, per raccontare agli americani, e al mondo anglofono, che
per le donne italiane Berlusconi non è divertente. Firmato –sarà un caso?- da due colleghe, Elisabetta Povoledo e Rachel Donadio, il servizio dice che la rabbia delle donne in Italia cresce “mentre gli scandali ne sottolineano le opzioni limitate in una politica tradizionalmente bizantina e dominata dai maschi". E se Mr B dice di ridere delle accuse, il premier “scopre che, per la prima volta nella sua lunga carriera, un numero crescente di italiani non ridono con lui”. L’attenzione di NYT e IHT per le vicende italiane non è affatto un caso isolato, sulla stampa internazionale, che segue in parallelo gli sviluppi dello scandalo e, per così dire, della politica. Ma le due testate sorelle hanno un’attenzione analitica, e caustica, pari solo a quella dei più vicini FT, Le Monde, El P Pais. Povoledo e Donadio raccontano che oltre 72mila persone hanno già sottoscritto una petizione ‘femminile’ anti-Berlusconi, annunciano la manifestazione nazionale del 13 febbraio e sentono sul tema donne eccellenti della società italiana, dell’imprenditoria e della politica, della cultura e della società. La rabbia, si legge nell'articolo, cresce soprattutto fra quante non si riconoscono nell’immagine dominante della donna italiana: “la cosiddetta velina”. Il servizio ricorda i ritardi dell’Italia in Europa negli indicatori reali dell’emancipazione femminile, a partire dal lavoro: “gli scandali più recenti sottolineano un messaggio inquietante che viene dai vertici politici: per farsi strada in Italia, una donna deve vendere l’anima, se non il corpo, a uomini potenti”. Va a finire che Mr B sarà un giorno ricordato come il demiurgo per antitesi di un neo-femminismo italiano.

giovedì 3 febbraio 2011

Egitto: Obama conta i giorni di Mubarak

I giorni di Mubarak si contano a Washington e nelle capitali occidentali, più inclini a 'mollare' il rais egiziano dopo che il presidente statunitense Barak Obama l'ha invitato ad avviare « immediatamente » una transizione del potere pacifica.

Martedi’ sera, dopo il discorso con cui Hosni Mubarak s’è impegnato a lasciare la presidenza, ma non prima delle elezioni di settembre, Obama e' stato con lui al telefono 30 minuti: non gli ha chiesto di andarsene da un giorno all’altro, come anche ieri ha fatto la gente scesa nelle strade delle città d’Egitto, ma gli ha detto di essere convinto che «una transizione ordinata deve essere significativa, deve essere pacifica e deve cominiciare subito, ora».

Per dialogare con il rais, senza passare la giornata al telefono, il presidente statunitense ha mandato al Cairo un suo inviato, Frank Wisner, ex ambasciatore in Egitto che conosce bene Mubarak. "Quando due vecchi amici si ritrovano, possono effettivamente avere una conversazione", dicono al Dipartimento di Stato.

Figlio di un pezzo grosso della Cia, Wisner e' un 'fixer', una persona che risolve i problemi. George W. Bush lo aveva mandato in Kosovo al momento della dichiarazione di indipendenza.

Resta da vedere qual e' il mandato di Wisner: l'Amministrazione Usa ha ormai capito che il rais se ne deve andare. Ma ci sono incognite che pesano: come e, soprattutto, per fare posto a chi? Mentre Wisner consegna a Mubarak il messaggio di Obama, l’attuale ambasciatore al Cairo, una donna, Margaret Scobey, tiene contatti telefonici con Mohamed ElBaradei, l’ex capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica di Vienna, un Nobel per la Pace che molti in Occidente vedono al posto di Mubarak (ma gli egiziani che manifestano non paiono pensarla allo stesso modo).

L'uscita di scena ormai scontata del rais pone grossi interrogativi mediorientali, a Washington come a Gerusalemme e altrove, e frena, almeno nel breve termine, l'ipotesi gia' flebile di sviluppi di pace nella Regione. A Obama, puo' pure andare bene: nessuno gli potra' presentare il conto, con quello che sta accadendo nel Medio Oriente, se israeliani e palestinesi non avranno fatto la pace a fine anno, come da impegni l'autunno scorso. Intanto, la politica esteri Usa va avanti su altri fronti: Obama ieri ha firmato gli strumenti di ratifica del Trattato Start con la Russia, per la riduzione degli armamenti nucleari strategici.

MO: l'Italia di Mr B conta meno di quella di Andreotti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/02/2011

Quando le relazioni tra due Paesi sono affidate ai rapporti personali tra i loro leader, più che a un fitto intreccio di contatti e interessi politici, economici, culturali, la loro fragilità è molto maggiore. E la presenza sulla riva sud del Mediterraneo e nel Medio Oriente dell’Italia di Silvio Berlusconi, che pure fa del Sistema Paese un ritornello e che a parole trasforma le ambasciate in avamposti dell’imprenditoria, soffre proprio della personalizzazione dei rapporti del premier con il tunisino Ben Ali e con l’egiziano Hosni Mubarak (e il fatto che Ruby sia divenuta, il tempo d’una telefonata, ‘nipote del Faraone’, è solo un aneddoto ininfluente in questo discorso).

Un diplomatico italiano di rango e di esperienza, che ha partecipato, nelle ultime settimane, alle consultazioni multilaterali sulle crisi in atto, dalla Bielorussia –dopo le elezioni presidenziali di dicembre, un plebiscito per Aleksander Lukashenko tra brogli e arresti degli oppositori- al ‘domino dei satrapi’ nel Mediterraneo e nel Golfo, ammette che l’esposizione personale di Mr B, in termini di amicizia e di vicinanza, verso leader discussi non lo ha aiutato a rendere credibile la posizione dell’Italia, quando si tratta di discutere sanzioni che colpiscono personalmente Lukashenko, privato del visto d’ingresso nell’Ue, o Ben Ali (congelamento dei beni).

Certo, neppure aiuta la relativa latitanza del ministro degli esteri Franco Frattini, che a Bruxelles si vede (troppo) poco e che, naturalmente, quando arriva non trova il terreno in discesa. Senza contare che Frattini, neppure a Bruxlles, rinuncia a giocare all’uomo d’ordine del Pdl e affronta, sia pure rispondendo a domande di giornalisti, questioni di politica interna. Possibile che la lezione, anche d’opportunismo, se vogliamo, di Giulio Andreotti sia stata dimenticata? Quando il Divo era ministro degli esteri, si rifiutava di rispondere a chi gli poneva domande di politica interna durante una missione internazionale perchè era lì a rappresentare l’Italia e non un partito.

Fatto è che l’Italia della cosiddetta II Repubblica sembra pesare meno, nel Medio Oriente, di quanto non pesasse quella della bistrattata I Repubblica. Conta pure un relativo sbilanciamento pro-Israele, almeno dal punto di vista arabo, nel tentativo di aree del Pdl di cancellare l’indelebile peccato originale anti-semita. E conta anche una politica estera energetica oggi più attenta ai fornitori dell’ex Urss e dell’Asia centrale che a quelli tradizionali arabi e del Golfo: l’Eni di Scaroni guarda ad Est quanto l’Eni di Mattei guardava a Sud. Ed è significativo, infine, che nessuna ambasciata Ue nel Sud del Mediterraneo sia affidata a un diplomatico o funzionario italiano: una situazione pregressa all’entrata in funzione, il 1.o dicembre 2010, del Servizio diplomatico europeo, ma che la presenza alla testa della politica estera europea di Lady Ashton non ha modificato né migliorato.

Sul fronte mediorientale in senso lato, sccede che l’Italia incassi sconfitte europee anche quando, sulla carta, parte da leader e con buone alleanze. E’ accaduto lunedi’ a Bruxelles, dove il Consiglio dei Ministri degli Esteri dei 27 non ha trovato l’accordo su una dichiarazione sulla libertà religiosa, un’iniziativa lanciata proprio dal ministro Frattini dopo gli attacchi terroristici compiuti, a fine 2010, contro i cristiani d’Oriente, specie contro i copti in Egitto. E dire che Frattini non s’era mosso da solo: la lettera che sollecitava un passo dell’UE in tal senso portava anche le firme della francese Michèle Alliot-Marie e del polacco Radoslaw Sikorski ed aveva avuto l’appoggio della presidenza di turno ungherese del Consiglio dell’Ue.

Un testo era pronto, ma Frattini l’ha giudicato troppo vago, perchè la Gran Bretagna e i Nordici, Svezia in testa, ma anche le cattolicissime Spagna e Irlanda, non volevano che contenesse riferimenti specifici a una confessione religiosa, ma che si limitasse a riferirsi genericamente alle comunità religiose: volevano, cioè, avesse un linguaggio ecumenico e non assumesse il significato d’una crociata cristiana. Risultato: fallito un tentativo di conciliazione italiano –citare gli attentati contro i cristiani, ma anche quelli contro gli sciiti di Kerbala in Iraq, per la serie ‘un colpo al cerchio e uno alla botte’-, il testo è rimasto in un cassetto di Lady Ashton, che dice “ci rifletteremo e ci torneremo” (nel linguaggio comunitario, puo’ suonare pietra tombale). Frattini si duole: “E’ stata scritta una pagina non bella”; e spiega: “Ho ritenuto che l’Europa non sarebbe stata credibile senza una menzione” dei cristiani in una risoluzione sulla libertà religiosa, perchè “il laicismo esasperato è dannoso alla credibilità” dell’Europa.

Come i personalismi esasperati e un velato integralismo nuocciono alla credibilità dell’Italia nell’Ue e nel Medio Oriente. E, di certo, non la ricollocano in prima linea nei Paesi del domino dove cadono le tessere cui i leader italiani sono personalmente legati.

mercoledì 2 febbraio 2011

SPIGOLI: un relitto svela i segreti della medicina di Galeno

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/02/2011

Il relitto di una nave greca naufragata al largo della Toscana nel 130 a.C. sta svelandoci segreti ‘sommersi’ della medicina antica: la notizia arriva da Washington e affascina la stampa americana, Washington Post e New Scientist, AOL News e Minnesota Post e decine di altre testate online e tradizionali. ‘Il relitto del Pozzino’, come viene comunemente chiamato, ha fornito “le prime prove fisiche” di com’erano fatti, e di che cosa erano fatti, i medicinali prescritti da dottori dell’Antichità come Galeno e prodotti da farmacisti famosi come Pedanius Dioscorides, attivo in Roma nel I Secolo a.C.. A bordo della nave, ben conservata sul fondo del mare, c’erano vetri siriani e ceramiche greche, scatole di legno e fiale, tutto originario del Mediterraneo orientale. Una parte del carico aveva a che fare con l’arte medica: strumenti, portapillole, contenitori. Dentro uno di questi, stagno all’acqua per oltre due millenni, delle pillole, o delle tavolette, rimaste incredibilmente secche. La scoperta risale al 1989, ma solo ora, vent’anni dopo, gli archeobotanici della Smithsonian Institution hanno potuto analizzare quei reperti. Le analisi mostrano che le pillole erano fatte con oltre dieci sostanze vegetali, dall’ibisco al sedano, dalla carota alla cipolla e persino al girasole, che finora si credeva arrivato in Europa dall’America poche centinaia di anni or sono. Alcune di quelle piante hanno qualità mediche tuttora riconosciute: rimarginano ferite, curano il mal di testa, tirano un po’ su. Adesso, medici e biologi s’interrogano: quelle medicine antiche potrebbero ancora funzionare contro le malattie moderne? Cavia cercasi, per testarne l’effetto. Male, almeno, non dovrebbero farne.

martedì 1 febbraio 2011

SPIGOLI: Egitto, l'Ue s'impantana tra Il Cairo e Washington

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/02/2011

E Bruxelles si ritrova a metà strada tra il Cairo e Washington, vicina a Gerusalemme: i ministri degli esteri dei 27 riconoscono come “legittime” le aspirazioni democratiche del popolo egiziano e chiedono la tenuta in Egitto di elezioni libere ed eque, ma non sollecitano il presidente Mubarak a lasciare il potere, perchè –dice Lady Ashton, responsabile della diplomazia europea, “spetta agli egiziani decidere il loro futuro”. Al consulto fra i ministri, si rivede, per la prima volta da molto tempo, l’italiano Frattini, che vuole «una transizione ordinata ed elezioni libere», ma trova pure modo di parlare delle dimissioni di midi. Questo è il primo momento di confronto europeo su quanto sta accadendo dal Nord Africa al Golfo, dove s’è ormai innescato il domino dei regimi corrotti e dispotici, senza che pero’ sia chiaro se a rimpiazzali saranno governi democratici o sostemi integralisti. Di qui, prudenza e incertezza. E, venerdi’, la situazione in Egitto, in Tunisia e nel Mondo arabo sarà discussa dai capi di Stato e di governo dei 27 al Vertice europeo. Più coraggiose che sull’Egitto le conclusioni sulla Tunisia e sulla Bielorussia. I 27 hanno congelato gli averi europei del deposto presidente tunisino Ben Ali e di sua moglie, oltre che di buona parte della loro cricca, senza pero’ impedirne, a priori, l’ingresso nell’Ue. E hanno pure colpito con sanzioni gran parte della nomenklatura bielorussa: 160 persone, con il presidente Lukashenko, sono state private del visto e non potranno più entrare nell’Ue (i loro beni erano già bloccati). Salta l’intesa, invece, su un’iniziativa a protezione dei cristiani nel Mondo: della ‘crociata’ di Frattini, se ne riparlerà.