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giovedì 31 marzo 2016

Terrorismo: Europa, uniti siamo pià sicuri, più forti, più liberi

Intervista a Gian Mario Ricciardi de Il Nostro Tempo del 31/03/2016

Dopo il dolore e il terrore, Junker e Valls in strada per il minuto di silenzio, che cosa rimane a Bruxelles?

Sangue, dolore, lacrime. E parole. Gli attacchi terroristici che hanno colpito e ferito la capitale del Belgio e dell’Unione hanno innescato il pianto pubblico di Federica Mogherini e un profluvio di dichiarazioni, magari dovute, certo ripetitive: una sequela di ‘bisogna’, ‘mai più’, ’sia fatta piena luce’ e imperativi categorici, che i leader dei 28 e delle Istituzioni ci hanno dispensato. Decisioni e risposte concrete, per ora, nulla: neppure la riunione ovviamente straordinaria dei ministri dell’Interno e della Giustizia dei Paesi dell’Ue ha sortito altro che impegni alla collaborazione fra forze dell’ordine e allo scambio d’informazioni fra intelligence, scontati e generici.

Però, tra impacci della polizia e imprecisioni nelle indagini – almeno queste le prime impressioni -, Bruxelles e i suoi cittadini di tutta Europa hanno offerto al Mondo intero una grande prova di dignità, orgoglio e coraggio: il giorno dopo le stragi, le scuole erano aperte, la metro circolava, gli uffici funzionavano: i belgi hanno fatto bene quello che sanno fare meglio, il loro dovere ogni giorno: un eroismo del quotidiano che è la risposta più giusta e nel contempo più difficile alla minaccia jihadista, non farsi prendere dalla paura, non rinunciare alla propria vita.

2) Anche dopo Parigi si chiese una sola intelligence. Ora di nuovo. C’è speranza che la solita passerella lasci il passo a qualche decisione: stessa intelligence, una procura europea?

Prendo a prestito parole e concetti del professor Roberto Castaldi, un federalista. Oltre a esprimere cordoglio per le vittime, è importante che i governi dei Paesi dell’Ue rispondano a due semplici domande: “Contano di più le vite delle persone o le gelosie tra i vari servizi segreti nazionali?; e gli Usa sarebbero più sicuri senza apparati di sicurezza federali, cioè, per intenderci, senza l’Fbi o, a livello d’intelligence, l’Nsa, ma contando solo su quelli dei singoli Stati membri?”.

E’ un modo efficace di porre il problema della mancanza d’una politica di sicurezza europea, oltre che estera e di difesa ed estera. Una prima minima risposta ‘federale’ agli attacchi in atto sarebbe la creazione di una polizia federale europea, che, sull’esempio del Secret Service degli Stati Uniti, tuteli le Istituzioni che rappresentano – direttamente, come il Parlamento o il Consiglio – o indirettamente – come la Commissione - 500 milioni di cittadini europei.

E un’ulteriore, forse decisiva, risposta sarà il rafforzamento della cooperazione, di polizia, giudiziaria, culturale, senza ulteriori cedimenti agli egoismi nazionali. La procura europea è già in fieri. Il resto andava già fatto e va ora fatto presto. Deciderlo non costa nulla, a parte un esercizio di volontà politica, senza compiacimenti verso populismi e protagonismi.

Uniti siamo più sicuri; e più forti; e più liberi. E – non suoni irrispettoso per le vittime degli ultimi 15 mesi e per le centinaia che le hanno precedute nel sacrificio- persino più ricchi, perché a mettere insieme le risorse si guadagna in efficienza e si risparmia.

3) Che cosa aspettiamo a muoverci?, che i giornali titolino “Il califfo a Bruxelles”?

Beh, in realtà già lo possono scrivere e, infatti, lo scrivono. A Bruxelles, con una passeggiata di mezz’ora, massimo 40’, camminando sempre in linea retta, si va dalla capitale dell’Europa, al Rond Point Schumann o a Maelbeek, alla capitale del Belgio, di fonte al Palazzo Reale o sulla Grand’ Place, e alla capitale della jihad, a Molenbeek: una passeggiata come dal Comunale a piazza Castello alla Gran Madre.

Il Califfo e i suoi accoliti non devono arrivare: già ci sono, nati in Francia o in Belgio o altrove in Europa; cresciuti nelle nostre città; spinti al radicalismo da cattivi maestri e dalla mancanza di prospettive. Proprio come, negli Anni Settanta, in Italia, i brigatisti non dovevano arrivare in fabbrica, a Mirafiori o all’Italsider, perché già c’erano.

4) 4000 terroristi in giro per il Vecchio Continente sono un’enormità di insicurezza. L’Europa può fare qualcosa per bloccarli e cosa?

Quello che può fare, e può essere tentata di fare, perché è relativamente semplice da fare, e oltretutto risponde a pulsioni populiste, ma che non deve a mio avviso fare, è chiudere le frontiere interne, cancellare la libertà di circolazione che noi chiamiamo ‘accordi di Schengen’. Questi terroristi, gli assassini e i kamikaze di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Zaventem e della stazione di Maelbeek, non arrivano da fuori.

Bisogna, piuttosto, controllare le frontiere esterne, non per intercettare i terroristi fra i migranti, che non ne troveremo, ma per verificare chi esce e chi torna, chi va a fare l’università della Jihad tra Siria e Iraq e torna imbibito di fanatismo e militarmente addestrato. Bisogna passare al setaccio comunicazioni e messaggi. Bisogna – e l’ho già detto – creare corpi di sicurezza federali e integrare l’azione di corpi di polizia e agenzie d’intelligence.

E, soprattutto, bisogna evitare che i figli dei migranti che accogliamo oggi crescano carichi d’odio e risentimento.

5) Dopo Charlie è stato un crescendo di attentati che hanno potuto contare su una serie impressionante di complicità. Che sta succedendo nei quartieri ghetto delle grandi città in Europa?

 Il Francia, il ministero dell’Istruzione le chiama ‘Zep’, zone di educazione prioritaria. Coincidono, spesso, con quelle che il ministero dell’Interno chiama ‘Zus’, zone urbane sensibili: formule ‘soft’, per indicare le aree dove formare i ragazzi è un’impresa per professori ad alta motivazione, pagati pure meglio, e dove il rischio di fondamentalismo è più alto. Al cinema, nel 2008, ne ha raccontata una per tutte, vincendo la Palma d’Oro a Cannes, Laurent Cantet, con La Classe (Entre le Murs): un insegnante, François Bégadeau, che interpreta se stesso, ricostruisce la sua esperienza d’un anno scolastico, fra ragazzi di etnie diverse, che quando parlano fra di loro non si capiscono e quando parlano con l’insegnante lui non li capisce.

In Francia, ce ne sono 751 di Zus: concentrate intorno a Parigi e tra l’Ile-de-France e il Belgio, dense intorno a Lilla, Marsiglia, Grenoble, Bordeaux, presenti anche in Alsazia e Lorena, quasi lungo il confine con la Germania, sono le banlieus e le città dormitorio delle estati violente – la più calda di tutte quella del 2005 -. Ci vivono i tre quarti dei musulmani francesi: 4,5 milioni su circa 6 milioni (la stragrande maggioranza provenienti dal Maghreb ex francese, marocchini, algerini, tunisini, oltre che maliani e sub-sahariani).

Ma i ‘mini-Califfati’, quartieri dove non mettere piede, soprattutto se sei la polizia, non sono prerogativa della Francia e, nemmeno del Belgio, che pure offre il paradigma di Molenbeek: zone dove la legge è un mix di anarchia e sharia; dove ci si ritrova indifferentemente in una gang o nella jihad e, magari, si passa dall'una all'altra; e da dove si parte per fare i ‘foreign fighters’ e si torna, se si torna, per fare i kamikaze. Ce ne sono in Svezia e Danimarca, Inghilterra e Spagna, Germania e Balcani.


Sono il frutto di scelte di ghettizzazione che, per garantire la percezione di sicurezza degli autoctoni, hanno segregato generazioni d’immigrati neri e arabi, favorendone la radicalizzazione. Che s’è poi spesso ‘perfezionata’ nelle carceri, sorta di università della jihad. Accadde anche in Italia: a Torino, coi meridionali negli Anni Cinquanta, quartieri di casermoni tirati su in fretta, dove la sera in famiglia gli operai ritrovavano gli usi ‘del paese’ e dove i torinesi non mettevano piede. Nonostante lingua, religione e nazionale fossero le stesse, ci volle una generazione e forse la vittoria nei Mondiali dell’ ’82 perché ci si sentisse non solo tutti italiani, ma pure concittadini. In Europa, il fenomeno è aggravato dalle differenze di etnia, lingua, religione; e dai fallimenti dell’integrazione.

Usa 2016: Susan Sarandon; non sono sicura che voterei Hillary contro Trump

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 31/03/2016

Susan Sarandon, icona liberal del cinema americano, a Hillary Clinton gliel’ha proprio giurata: stella di sinistra nel firmamento di stelle di Hollywood, generalmente democratico, non solo fa campagna per Bernie Sanders, ma non è neppure sicura che, l’8 novembre, voterebbe l’ex first lady se non altro per fermare Donald Trump.

Sarandon a parte, il mondo dello spettacolo resta però accanto alla Clinton, come testimoniano l’endorsement della rivista Rolling Stone e l’attivismo di George Clooney. E leader internazionali continuano a spendersi pro Hillary, in funzione anti-Trump, come l’ex presidente del Messico Vicente Fox, che affida all’ex first lady il compito di “salvare” gli Usa dal magnate dell’immobiliare, che potrebbe fare scoppiare “una guerra commerciale”.

Intervistata dalla Msnbc, Sarandon, 69 anni ben portati, ammette che Sanders "probabilmente incoraggerebbe la gente a sostenere la Clinton, se perdesse” le primarie. Ma lei pensa che “molti sono su una posizione del tipo 'Mi spiace ma non posso spingermi a farlo'”, cioè a votare Hillary. E al giornalista che le chiede che cosa farà lei, se l’alternativa sarà tra la Clinton e Trump, risponde: "Non lo so. Vedrò quando sarà il momento".

L'attrice non ne può più dello 'status quo' rappresentato dalla Clinton, non vuole un candidato che accetta fondi dall'industria petrolifera, dai colossi farmaceutici e da Wall Street 'tout court' e che votò per l’invasione dell’Iraq quand'era senatrice dello Stato di New York. Per la Sarandon, più che venire da Trump, il male è una situazione in cui “la polizia è militarizzata, le prigioni privatizzate, c’è la pena di morte, il salario minimo è basso, i diritti delle donne sono costantemente minacciati”.

La scelta pro Hillary è invece spiegata da Jann S. Wenner, co-fondatore di Rolling Stone, perché “idealismo e onestà sono qualità cruciali – un onore delle armi a Sanders -, ma voglio anche qualcuno con esperienza che sappia come battersi con durezza”. “E’ difficile non apprezzare Sanders – scrive Wenner -, ma essere un candidato della rabbia” e dello scontento “non basta”. Hillary è “il candidato più qualificato alla presidenza dei tempi moderni, come lo era Al Gore”, che fu battuto da George W. Bush nel 2000.

Sanders, intanto, definisce “oscena” la cena per raccogliere fondi organizzata da George e Amal Clooney il 15 aprile nella Bay Area di san Francisco in California: due posti al tavolo principale costeranno oltre 350 mila dollari, cioè “il 400% del reddito medio d’un cittadino di San Francisco”. Intervistato dalla Cnn, Sanders non critica Clooney, di cui si dice “un fan”, ma “il sistema corrotto di finanziamento della campagna elettorale”: “i grandi finanziatori hanno un peso sproporzionato sul processo politico”.

I Clooney non si limitano a organizzare l’evento ‘pro Hillary’ del 15 in California: il giorno dopo, ci sarà un’altra cena, partecipare alla quale costerà ‘solo’ 33 mila dollari. Nel Golden State, le primarie saranno il 7 giugno, con in palio 475 delegati democratici: il bottino più grosso per lo Stato più popoloso. (fonti vv - gp)

mercoledì 30 marzo 2016

Usa 2016: la conta dei delegati, Hillary oltre 70%, Trump sotto 60%

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 30/03/2016

Hillary Clinton ha rallentato la sua marcia nel Western Tuesday e potrebbe avere davanti a sé altre sconfitte in Stati dove la diversità, che è la sua forza, conta poco: l’ex first lady affronta insidie anche domani, in un sabato tutto democratico, con assemblee in Alaska, alle Hawaii e a Washington.

I repubblicani osservano, invece, una sorta di pausa pasquale: prossimo appuntamento significativo, il Wisconsin, dove martedì 5 aprile voteranno pure i democratici. Ma, salvo colpi di scena, la conta dei delegati non subirà uno scossone fino alle primarie di New York il 19 aprile

Rifacciamo un punto sulla situazione: Hillary Clinton sfiora il 70% dei delegati necessari a garantirsi matematicamente la nomination democratica; Donald Trump è quasi al 60% di quelli necessari per la nomination repubblicana, ma la somma dei delegati dei rivali rimane superiore alla sua e, quindi, la prospettiva di arrivare alla convention senza che nessuno abbia già vinto resta reale (‘convention aperta’).

La differenza fra i due partiti è nel meccanismo dei super-delegati che favorisce di fatto l’ex first lady: i super-delegati sono figure di spicco del partito democratico che possono scegliere chi appoggiare in qualsiasi momento.

Queste, comunque, le posizioni – fonte, il sito uspresidentialelectionnews.com -:

Democratici: delegati alla convention 4.765, delegati già assegnati 2.125, super-delegati già pronunciatisi 493, delegati da assegnare 2.147, maggioranza necessaria 2.383.

Hillary Clinton s’è finora assicurata 1.214 delegati popolari e 467 super-delegati ed è quindi a 1.681; Bernie Sanders ha conquistato 911 delegati popolari, ma ha solo 26 super-delegati ed è a 937.

Hillary ha vinto in 18 Stati: in ordine alfabetico Alabama, Arizona, Arkansas, Florida, Georgia, Illinois, Iowa, Louisiana, Massachusetts, Mississippi, Missouri, Nevada, North Carolina, Ohio, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia, oltre che nei territori delle Isole Samoa e delle Marianne. Sanders ha vinto in 11 Stati: Colorado, Idaho, Kansas, Maine, Michigan, Minnesota, Nebraska, New Hampshire, Oklahoma, Utah, Vermont.

Repubblicani: delegati alla convention 2.472, già assegnati 1.534, da assegnare 938, maggioranza necessaria 1.237.

Donald Trump ne ha 739, Ted Cruz 465, Marco Rubio 166, John Kasich 143; e, inoltre, Ben Carson 8, Jeb Bush 4 e 9 non sono vincolati.

Trump, cui è stato nel frattempo assegnato il Missouri rimasto in bilico, ha vinto in 20 Stati: Alabama, Arizona, Arkansas, Florida, Georgia, Hawaii, Illinois, Kentucky, Louisiana, Massachusetts, Michigan, Mississippi, Missouri, Nevada, New Hampshire, North Carolina, South Carolina, Tennessee, Virginia, Vermont, oltre che alle Marianne. Cruz ha vinto in 9 Stati: Alaska, Idaho, Iowa, Kansas, Maine, Oklahoma, Texas, Utah, Wyoming, oltre che a Guam. Rubio ha vinto in Minnesota, nel Distretto di Columbia e a Portorico. Kasich ha vinto in Ohio. (gp)

Usa 2016: repubblicani; dibattito, Trump “o io o niente”, Cruz “vinco io”

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 30/03/2016

Donald Trump ci ripensa e fa marcia indietro: se non otterrà lui la nomination repubblicana, non sosterrà nessun altro candidato conservatore. Il magnate dell’immobiliare lo dice in un dibattito sulla Cnn moderato da un giornalista vedette della rete ‘all news’, Anderson Cooper, e organizzato in vista delle primarie in Wisconsin il 5 aprile.

I suoi rivali hanno atteggiamenti diversi. Ted Cruz, il senatore del Texas, afferma che lui è in corsa “per vincere, non per fermare Trump”; e si dichiara sicuro di potercela fare, anche se non dovesse ottenere la maggioranza dei delegati prima della convention. John Kasich, il governatore dell’Ohio, lamenta di essere “ignorato” dai media, nonostante sia “il candidato migliore”; quanto al sostenerne un altro, ci va cauto, “Mi hanno disturbato alcune cose che ho visto. Vedremo che cosa succede” – evidentemente, non è pronto ad appoggiare i rivali, che non hanno dietro di sé il partito -.

Il dibattito ha chiuso una giornata difficile per lo showman, nonostante i sondaggi gli attribuiscano quasi il 50% dei consensi degli elettori repubblicani (ma, nel contempo, dicano che è globalmente in calo di popolarità e che non piace ai 2/3 degli americani). Trump minaccia di disertare l’incontro sulla Cnn, giudicandolo di parte – l’ha già fatto sulla Fox, che è la ‘all news’ più vicina alla destra -; poi ci va, dopo che il suo braccio destro nella campagna Corey Lewandowski viene formalmente accusato di avere percosso o comunque molestato una cronista del Breibart News, Michelle Fields.

L’episodio risale a due settimane or sono circa. Trump difende Lewandowski, “sono dalla sua parte … ho visto i filmati …”, che si dichiara innocente e ansioso di comparire in tribunale il 4 maggio. Ma Cruz prende le distanze nel dibattito: “Non c’è posto in campagna per insulti e violenza fisica”; e, prima, la battistrada democratica Hillary Clinton afferma che il magnate, con il suo linguaggio e il suo comportamento, “incita a comportamenti violenti”.

Cruz arriva in tv dopo avere ricevuto il sostegno dell’ex candidato alla nomination Scott Walker, governatore del Wisconsin, che invita a votarlo perché è “un conservatore vero”. Il senatore sostiene che contro il sedicente Stato islamico ricorrerebbe a “bombardamenti a tappeto”, mentre Kasich si dice contrario all’idea di pattugliare le comunità islamiche negli Stati Uniti.

Trump, che si presenta come “messaggero di un grande fenomeno”, conferma le sue posizioni anti-immigrati e anti-Islam ed elenca le sue priorità, “sicurezza, sicurezza, sicurezza, ma anche sanità e istruzione”. Cruz insiste, invece, sulla lotta contro la droga, raccontando della morte per overdose della sorella Mary. Trump, infine, nega di avere innescato la ‘guerra delle mogli’ con Cruz, “Non sono stato io ad iniziare”. (fonti vv – gp)

martedì 29 marzo 2016

Usa: Corte Suprema, diga repubblicana contro Obama (e il nuovo giudice)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/03/2016

La stragrande maggioranza dei cittadini americani pensa che il presidente Barack Obama abbia tutto il diritto di designare un nuovo giudice alla Corte Suprema, dopo l’improvvisa scomparsa a febbraio di Antonin Scalia, un italo-americano, iper-conservatore. E una maggioranza di americani condivide la scelta di Merrick Garland, persona integra e profilo bipartisan, un nome d’esperienza e garanzia.

Ma i repubblicani, che sono maggioranza sia al Senato che alla Camera, non la pensano così: e si preparano a cercare di sabotare, o almeno frenare, la ratifica della nomina, continuando nell’azione di disturbo al presidente che ha una valenza pure elettorale – l’embargo a Cuba, le sanzioni all’Iran, la riforma dell’immigrazione, la piena attuazione della riforma sanitaria sono altri fronti aperti -.

In realtà, il fronte del no a Garland, o meglio dell’inazione – la prima scelta repubblicana – è già incrinato: ci sono stati contatti con il giudice designato e almeno due senatori repubblicani sono ora pronti a votarlo. Ma il capo della maggioranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell non intende avviare la procedura di ratifica. C’è l’impressione che i leader conservatori vogliano fare della nomina merce di scambio con l’Amministrazione democratica e, magari, trarne pure vantaggio nella campagna, se non altro impedendo a Obama di battersi a fondo per il campione democratico, quando sarà stato scelto.

La Corte Suprema, che è composta di nove membri, nominati a vita, conta attualmente quattro giudici designati da presidente repubblicani e quattro da presidenti democratici. L’equilibrio, però, è solo apparente, perché Anthony Kennedy, il decano del consesso, indicato da Reagan nel 1988, ha progressivamente assunto posizioni più liberali e, nella Corte con Scalia, costituiva spesso l’ago della bilancia.

Gruppi di pressione si sono già formati, specie fra i conservatori, ma anche fra i ‘liberal’. Dietro, ci sono sempre grossi interessi finanziari e spesso guru della politica, manager, strateghi di campagne come Matt Rhoades, un uomo di Mitt Romney, o l’ancora potente Karl Rove, che fu braccio destro alla Casa Bianca di George W. Bush.

La grana, del tutto imprevista, della Corte Suprema turba la politica americana, mentre le primarie per le nomination democratica e repubblicana sono nel pieno. Fra i repubblicani, Donald Trump è nettamente avanti, ma il partito non si rassegna all’idea d’averlo come candidato e cerca alternative, senza per ora trovarle. Fra i democratici, la battistrada Hillary Clinton, che ha l’appoggio dell’apparato, è reduce da una batosta: ha perso 3 a 0 nei Western Caucuses – Alaska, Hawaii, Stato di Washington. Il suo rivale Bernie Sanders s’è così rifatto del cappotto di metà marzo, uno 0 a 5 tra Florida, Illinois, Missouri, North Carolina, Ohio.

Nonostante i risultati nettissimi –Sanders oltre il 70%, la Clinton sotto il 30%-, le ultime assemblee non modificano i rapporti di forza tra la battistrada e il rivale, anche perché i delegati in palio erano meno di 150. Ma il senatore del Vermont intacca il vantaggio dell’ex first lady e, soprattutto, ne mette in ulteriore risalto alcune debolezze, come la scarsa presa fra i giovani e là dove l’elettorato presenta meno diversità etnica. La Clinton, inoltre, patisce la formula dei caucuses, congeniale, invece, a Sanders.

Però, il margine di vantaggio dell’ex first lady resta largo: lei ha già circa 1.750 delegati, i tre quarti circa dei 2.383 necessari a garantirsi la nomination; il senatore circa mille. Dopo il Wisconsin fra una settimana, occhi puntati su New York il 19 aprile - la Clinton che fu senatrice dello Stato é data per favorita -; poi, sulla East Coast il 26 aprile. Lì si potrebbero già tirare le somme.

Usa 2016: una tomba (falsa) per Trump a Central Park -e un nipotino vero-

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 29/03/2016

Per Donald Trump, una giornata tra la vita – la nascita del terzo figlio della figlia Ivanka, l’ennesimo nipotino – e la morte: qualche buontempone di cattivo gusto ha collocato, l’altra mattina, a Central Park, una tomba fittizia del battistrada nella corsa alla nomination repubblicana, una lapide con la scritta 'Trump Donald J.' e l'anno di nascita '1946', senza quello di morte. La tomba è stata messa presso la ‘Tavern on the Green’, un famoso ristorante, all'altezza della 66a Strada.

L’autore dell’iniziativa resta al momento sconosciuto. La lapide è stata subito rimossa dagli addetti alla sicurezza del parco, ma la sua foto è subito rimbalzata su tutti i social network. Sull'epitaffio si leggeva: 'Ha portato di nuovo l'odio in America' (Made America Hate Again), parafrasi dello slogan del magnate dell’immobiliare, 'Facciamo di nuovo grande l'America' (Make America Great Again).

Lo ‘scherzo’ della tomba dà un’idea della polarizzazione di sentimenti che Trump suscita, anche a New York, che è la sua città e dove le primarie saranno il 19 aprile. E la lapide ha fatto più notizia della nascita, largamente prevista, di Theodore James, figlio di Ivanka e del marito Jared Kushner. Modella e imprenditrice, Ivanka ha ‘postato’ una sua foto sul letto d'ospedale con il piccolo tra le braccia.

Giorni fa, ‘nonno’ Donald, parlando a una lobby ebraica a Washington, aveva ricordato che Ivanka s’è convertita alla fede del marito, ebreo: “Mia figlia – aveva detto- sta per avere un bimbo ebreo”. Ivanka è stata molto presente nella campagna dello showman: è stata lei, ad esempio, a suggerirgli di essere più “presidenziale”, dicendogli – parola di Trump – “Papà, sei il più intelligente, ma devi agire in modo più presidenziale, quando ti attaccano non devi perdere la testa”.

Il che non ha però diminuito la rissosità di Trump, che adesso minaccia di fare causa perché il suo rivale Ted Cruz, nonostante abbia perso le primarie in Louisiana, avrebbe ottenuto più delegati di lui nello Stato. Nel voto del 5 marzo, Trump aveva avuto 11 mila in voti più di Cruz – quasi 125 mila contro quasi 114 mila -, ma Cruz si ritroverebbe ora con più delegati. E lo showman minaccia su twitter: "Giusto per dimostrare quanto possono essere ingiuste le primarie repubblicane, io ho vinto la Louisiana e ho ottenuto meno delegati di Cruz … Causa in arrivo". (fonti vv – gp)

lunedì 28 marzo 2016

Usa 2016: Bruxelles, risposta a terrorismo divide repubblicani e democratici

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 28/03/2016

Dopo gli attentati di Bruxelles, il sedicente Stato islamico è di nuovo tornato a essere protagonista della campagna per Usa 2016, mentre gli Stati Uniti, tra dichiarazioni di vicinanza e solidarietà, strigliano, comunque, gli alleati europei perché facciano di più contro la minaccia jihadista. Anche Hillary Clinton, ex segretario di Stato, ha detto: “E’ il nostro momento di essere vicini all'Europa, ma le banche europee la smettano di finanziare il terrorismo”.

E ci sono stati screzi fra gli aspiranti alla nomination sulla risposta da dare agli attacchi e sul come affrontare il pericolo costituito dall'autoproclamato Califfato.

Che, dal canto suo, ha utilizzato proprio alcune frasi di Donald Trump, in un video diffuso sul web per celebrare gli attentati di Bruxelles. "Bruxelles era 20 anni fa una delle più belle città del Mondo. Era bellissima, e sicura. Ora è uno spettacolo dell'orrore, uno spettacolo di orrore assoluto": queste le parole del magnate dell’immobiliare che aprono la clip di 9 minuti intitolata "Bruxelles Attacks".

La voce di Trump è coperta da immagini di combattenti jihadisti e degli attentati del 22 marzo, mentre sullo sfondo c’è un canto di battaglia. Una voce in arabo entra e afferma: "I jet dei crociati, tra cui i belgi, continuano a bombardare i musulmani in Iraq e in Siria, di giorno e di notte, uccidendo bambini, donne e vecchi e distruggendo moschee e scuole". Sottotitoli traducono il testo della canzone: “Fratelli alzatevi! Andiamo alla jihad!". Nel video compare anche il ministro dell'Interno francese Bernard Cazeneuve.

In passato, la Clinton aveva accusato Trump di essere “il migliore reclutatore” dello Stato islamico con le sue sortite anti-Islam e l’idea di tenere i musulmani al bando dagli Usa. Adesso, invece, Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York, sostenitore di Trump, dice che l’ex segretario di Stato “potrebbe essere considerata un membro fondatore” dell’autoproclamato Califfato. Giuliani mette sotto accusa, in un’intervista a Fox News, il ritiro delle truppe Usa dall'Iraq dopo l’insediamento alla presidenza di Barack Obama: Hillary ha delle responsabilità – dice il sindaco dell’11 Settembre 2001 – “perché parte d’un’Amministrazione che s’è ritirata dall'Iraq e che non è intervenuta in Siria al momento opportuno”.

Dopo gli attacchi di Bruxelles, Trump e il suo rivale Ted Cruz hanno di nuovo evocato il ricorso alla tortura contro i terroristi e aumenti dei controlli sui musulmani. Il presidente Obama e pure Hillary hanno criticato queste sortite. E l’ex first lady ha anche aggiunto che Trump alla Casa Bianca sarebbe “”un regalo di Natale per il Cremlino”, considerate le posizioni ‘putiniane’ dello showman. (fonti vv – gp)

domenica 27 marzo 2016

Usa 2016: democratici, Sanders batte Hillary 3 a 0 e riduce il distacco

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 27/03/2016, post in versione diversa sul blog de Il Fatto Quotidiano

Bernie Sanders vince a mani basse nei caucuses democratici dell’Estremo Ovest degli Stati Uniti, dall’Alaska allo Stato di Washington alle Hawaii. Il senatore del Vermont intacca così il vantaggio di Hillary Clinton in termini di delegati nella corsa alla nomination democratica, anche se il margine dell’ex first lady resta molto largo: Sanders ha ora superato i mille delegati, ma la Clinton ne ha già circa 1750 dei 2.383 necessari per garantirsi la nomination. Come vittorie negli Stati, l’ex first lady è ferma a 18, il senatore ora ne ha 14.

Lo Stato d Washington aveva 101 delegati in palio, contro i 25 della Hawaii e i 16 dell'Alaska, tutti assegnati proporzionalmente. Nello Stato di Washington, Sanders ha avuto quasi i tre quinti dei voti (oltre il 72%), contro neppure il 28% alla rivale; in Alaska, ha superato l’80% contro meno del 20%; alle Hawaii, ha superato il 70% contro meno del 30% alla rivale.

Le caratteristiche demografiche dell’Alaska e dello Stato di Washington, con presenze nere e ispaniche relativamente ridotte, e il fatto che Hillary vi abbia fatto poco campagna spiegano in parte il risultato. Inoltre, il sistema delle assemblee s’è finora dimostrato più congegnale al senatore che alla ex first lady.

D’altro canto, la presenza di Sanders in corsa sta facendo lievitare l’affluenza alle primarie, persino più alta di quella del confronto nel 2008 tra la Clinton e Barack Obama, coinvolgendo molto giovani e ‘liberal’.

"Stiamo seriamente intaccando il vantaggio di Hillary ... abbiamo un sentiero verso la vittoria", è stato il commento di Sanders davanti a 8.000 supporter a Madison, in Wisconsin, dove le primarie ci saranno il 5 aprile. "E' innegabile che siamo in un momento di spinta ... E quello che vediamo è un'affluenza enorme: vincere significa anche coinvolgere la gente nel processo politico … Vinciamo con i giovani, il futuro dell’America", ha aggiunto Sanders, elencando i trionfi negli Stati del West dopo le disfatte subite nel Sud, conservatore e dove il voto dei neri pesa di più.

Ora il senatore punta su New York, il 19 aprile, dove la posta è di 247 delegati, ma dove Hillary viene data per favorita. Lo stesso dicasi per il 26 aprile, quando si vota in Pennsylvania, Delaware, Maryland, Connecticut e Rhode Island, con quasi 400 delegati in palio. (fonti vv - gp)

sabato 26 marzo 2016

Usa 2016: la 'guerra delle mogli' la combattono i mariti, Donald e Ted

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/03/2016 e ripreso da www.GpNewsUsa2016.eu

L’hanno subito chiamata la ‘guerra delle mogli’. Ma, in realtà, le mogli se ne stanno buone e zitte, almeno pubblicamente. E’ una ‘guerra dei mariti’; anzi, una scaramuccia nella ‘guerra dei mariti’, che, nella corsa alla nomination repubblicana alla Casa Bianca, le provano tutte per fermarsi l’un l’altro. Protagonisti dell’ennesimo siparietto di queste primarie, che fa ‘traffico’ sul web, sono – e chi l’avrebbe mai detto? - Donald Trump e Ted Cruz, il battistrada e l’inseguitore, quello che non ha peli sulla lingua e il baciapile, entrambi paladini a parole dei valori della famiglia.

Chi ne gode è Hillary Clinton, del cui marito non si può dire nulla di peggio di quanto non sia già stato detto. Invece, Bernie Sanders, la cui Jane – seconda moglie, con lui da 28 anni – è al di sopra di ogni gossip, e John Kasich, che ha esibito Karen, pure una seconda moglie, e le loro gemelline dopo la vittoria nell’Ohio, s’arrovellano se convenga loro starne fuori o entrarci.

Dunque, Trump, che è alla terza moglie, s’irrita per una foto di Melania, modella slovena, 45 anni ben portati –magari con qualche aiutino-: l’ha sposata nel 2005 e ne ha avuto un figlio, Barron. Prima di lei, c’erano state Ivana Zelickova, la ‘signora Trump’ per antonomasia, da cui è nata Ivanka, la figlia che gli sta più accanto in campagna, e Marla Maples.

La foto di Melania, scovata e rimessa in giro da Making America Great, un gruppo conservatore anti-Trump, che, nel nome, scimmiotta lo slogan elettorale del magnate dell’immobiliare (Make America Great Again), risale al 2000: nello scatto per l’edizione britannica del mensile GQ, destinato a un pubblico maschile, la modella compare senza veli distesa su una pelle d’animale.

“E che sarà mai?”, verrebbe da pensare, per uno navigato come Donald. Che, invece, se la prende. Con Cruz, mica con il gruppo conservatore, che condisce l’immagine con un commento pungente: “Ecco la prossima first lady … Oppure, votate Ted Cruz”.

Il che, a pensarci bene, suona persino offensivo per Heidi Cruz, perché sembra porre l’alternativa tra una ‘bona’ un po’ ‘leggera’ oppure una ‘ciospa’ tutta ‘figli e marito’. Trump, che ‘twitta’ facile, lancia “Quel bugiardo di Ted Cruz ha usato una foto di Melania … Stai attento, bugiardo Ted, o io la canto tutta su tua moglie”. Il senatore risponde da signore: “Donald, i veri uomini non attaccano le donne. Tua moglie è bella – sottinteso: l’hanno vista tutti – e Heidi è l’amore della mia vita”.

Così, mezza America si bea della foto di Melania: e l’altra mezza s’interroga sui segreti di Heidi. Si sa che quando Ted tornò da Washington ad Austin come vice del procuratore generale del Texas, lei lasciò il lavoro alla Casa Bianca e ne fece una malattia: un rapporto di polizia del 2005, già noto, riferisce che la donna vagava a piedi sul ciglio d’una strada, costituendo “un pericolo per se stessa”.

I Cruz ammettono “un periodo di depressione”, da cui Heidi uscì “con l’auto della preghiera” e “con l’amore e l’appoggio del marito e della famiglia”. Poi sono venute le figlie Caroline e Catherine e un lavoro alla Goldman Sachs, come capo dell’ufficio di Houston. Di lì, altre ombre, perché il New York Times a gennaio parlò di un prestito di 1,2 milioni di dollari non denunciato alla campagna di Cruz, in parte proveniente proprio da Goldman Sachs.

Però, Donald, mica sarà tutto qui? Il National Enquirer, un giornalaccio che al confronto ‘Chi’ è tutto oro colato, ma che ha qualche scalpo politico nelle sue bacheche, attribuisce a Cruz “almeno cinque amanti”; il senatore smentisce e accusa lo showman, in affari con l’editore Dave Pecker. Ve l’avevo detto: Non è la ‘guerra delle mogli’, ma dei mariti.

venerdì 25 marzo 2016

Terrorismo: Bruxelles, quante e dove sono le Molenbeek d'Europa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/03/2016

Il Francia, il ministero dell’Istruzione le chiama ‘Zep’, zone di educazione prioritaria. Coincidono, spesso, con quelle che il ministero dell’Interno chiama ‘Zus’, zone urbane sensibili: formule ‘soft’, per indicare le aree dove formare i ragazzi è un’impresa per professori ad alta motivazione, pagati pure meglio, e dove il rischio di fondamentalismo è più alto. Al cinema, nel 2008, ne ha raccontata una per tutte, vincendo la Palma d’Oro a Cannes, Laurent Cantet, con La Classe (Entre le Murs): un insegnante, François Bégadeau, che interpreta se stesso, ricostruisce la sua esperienza d’un anno scolastico, fra ragazzi di etnie diverse, che quando parlano fra di loro non si capiscono e quando parlano con l’insegnante lui non li capisce.

In Francia, ce ne sono 751 di Zus: concentrate intorno a Parigi e tra l’Ile-de-France e il Belgio, dense intorno a Lilla, Marsiglia, Grenoble, Bordeaux, presenti anche in Alsazia e Lorena, quasi lungo il confine con la Germania, sono le banlieus e le città dormitorio delle estati violente – la più calda di tutte quella del 2005 -. Ci vivono i tre quarti dei musulmani francesi: 4,5 milioni su circa 6 milioni (la stragrande maggioranza provenienti dal Maghreb ex francese, marocchini, algerini, tunisini, oltre che maliani e sub-sahariani).

Ma i ‘mini-Califfati’, quartieri dove non mettere piede, neppure se sei la polizia, anzi soprattutto se sei la polizia, non sono una prerogativa della Francia e, nemmeno del Belgio, che pure offre ora Molenbeek a paradigma dei ‘belgistan d’Europa’: zone dove la legge è un mix di anarchia e sharia; dove ci si ritrova indifferentemente in una gang o nella jihad e, magari, si passa dall'una all'altra; e da dove si parte per andare a fare i ‘foreign fighters’ e si torna, se si torna, per fare i kamikaze.

Sono il frutto di scelte di ghettizzazione che, per garantire la percezione di sicurezza degli autoctoni, hanno segregato generazioni d’immigrati neri e arabi, favorendone la radicalizzazione. Che s’è poi spesso ‘perfezionata’ nelle carceri, sorta di università della jihad. Accadde anche in Italia: a Torino, più che a Milano, con i ‘meridionali’ negli Anni Cinquanta, quartieri di casermoni tirati su in fretta, dove la sera in famiglia gli operai ritrovavano gli usi ‘del paese’ e dove i torinesi manco provavano ad avventurarsi. Nonostante lingua, religione e nazionale fossero le stesse, ci volle una generazione e la vittoria nei Mondiali dell’ ’82 perché ci si sentisse non solo tutti italiani, ma pure concittadini.

In Europa, ora, il fenomeno è aggravato dalle differenze di etnia, lingua, religione; e dai fallimenti dell’integrazione che  i ‘belgistan’ testimoniano. In Svezia, il Paese più accogliente con i rifugiati, in rapporto alla popolazione, un terzo degli abitanti di Malmoe è islamico. In Danimarca, il Paese fra i Nordici più refrattario all'accoglienza, c’è, nell’hinterland di Copenaghen, una cittadina dove vige la sharia. In Germania, Berlino conserva quartieri turchi, come Neukoelen, dove la polizia avrebbe individuato infiltrazioni di jihadisti – un tempo erano lungo il Muro, ai confini del Mondo -. In Olanda, le zone a rischio sono decine (40, secondo un centro studi sul terrorismo islamico): l’Aja fu la scena dell’assassinio del regista Theo Van Gogh; Amsterdam ha il quartiere Kolenkit.

Diversa la situazione in Inghilterra, se non altro perché diversi sono i percorsi dell’immigrazione dal Commonwealth. Il che non ha però impedito il formarsi di sacche di radicalismo, già tragicamente protagoniste di attentati letali. Molti pakistani hanno la maturità per fare una saga artistica e culturale della propria integrazione, come molti turchi in Germania. E molti musulmani hanno successo in affari, come il proprietario del Leicester, il club di Ranieri in testa al campionato. Ma a Londra e nelle città dell’Inghilterra post industriale i ‘quartieri ghetto’ non mancano.

Pure la Spagna, che fu il primo bersaglio europeo di al Qaeda, ha presenze radical-islamiche. E poi ci sono la Bosnia e tutti i Balcani, dove gli odi etnici e religiosi s’intrecciano e i traffici di droga e d’armi possono servire di copertura e foraggiamento alla causa integralista. Come a Molenbeek.

Usa 2016: la conta dei delegati, la Clinton e Trump largamente avanti

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 25/03/2016

Hillary Clinton ha rallentato la sua marcia nel Western Tuesday e potrebbe avere davanti a sé altre sconfitte in Stati dove la diversità, che è la sua forza, conta poco: l’ex first lady affronta insidie anche domani, in un sabato tutto democratico, con assemblee in Alaska, alle Hawaii e a Washington.

I repubblicani osservano, invece, una sorta di pausa pasquale: prossimo appuntamento significativo, il Wisconsin, dove martedì 5 aprile voteranno pure i democratici. Ma, salvo colpi di scena, la conta dei delegati non subirà uno scossone fino alle primarie di New York il 19 aprile.

Rifacciamo un punto sulla situazione: Hillary Clinton sfiora il 70% dei delegati necessari a garantirsi matematicamente la nomination democratica; Donald Trump è quasi al 60% di quelli necessari per la nomination repubblicana, ma la somma dei delegati dei rivali rimane superiore alla sua e, quindi, la prospettiva di arrivare alla convention senza che nessuno abbia già vinto resta reale (‘convention aperta’).

La differenza fra i due partiti è nel meccanismo dei super-delegati che favorisce di fatto l’ex first lady: i super-delegati sono figure di spicco del partito democratico che possono scegliere chi appoggiare in qualsiasi momento.

Queste, comunque, le posizioni – fonte, il sito uspresidentialelectionnews.com -:

Democratici: delegati alla convention 4.765, delegati già assegnati 2.125, super-delegati già pronunciatisi 493, delegati da assegnare 2.147, maggioranza necessaria 2.383.

Hillary Clinton s’è finora assicurata 1.214 delegati popolari e 467 super-delegati ed è quindi a 1.681; Bernie Sanders ha conquistato 911 delegati popolari, ma ha solo 26 super-delegati ed è a 937.

Hillary ha vinto in 18 Stati: in ordine alfabetico Alabama, Arizona, Arkansas, Florida, Georgia, Illinois, Iowa, Louisiana, Massachusetts, Mississippi, Missouri, Nevada, North Carolina, Ohio, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia, oltre che nei territori delle Isole Samoa e delle Marianne. Sanders ha vinto in 11 Stati: Colorado, Idaho, Kansas, Maine, Michigan, Minnesota, Nebraska, New Hampshire, Oklahoma, Utah, Vermont.

Repubblicani: delegati alla convention 2.472, già assegnati 1.534, da assegnare 938, maggioranza necessaria 1.237.

Donald Trump ne ha 739, Ted Cruz 465, Marco Rubio 166, John Kasich 143; e, inoltre, Ben Carson 8, Jeb Bush 4 e 9 non sono vincolati.

Trump, cui è stato nel frattempo assegnato il Missouri rimasto in bilico, ha vinto in 20 Stati: Alabama, Arizona, Arkansas, Florida, Georgia, Hawaii, Illinois, Kentucky, Louisiana, Massachusetts, Michigan, Mississippi, Missouri, Nevada, New Hampshire, North Carolina, South Carolina, Tennessee, Virginia, Vermont, oltre che alle Marianne. Cruz ha vinto in 9 Stati: Alaska, Idaho, Iowa, Kansas, Maine, Oklahoma, Texas, Utah, Wyoming, oltre che a Guam. Rubio ha vinto in Minnesota, nel Distretto di Columbia e a Portorico. Kasich ha vinto in Ohio. (gp)

giovedì 24 marzo 2016

Terrorismo: Bruxelles, le virtù nel quotidiano e gli errori nell'emergenza

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/03/2016

E’ un Paese di gente solida, dove ciascuno si applica a fare bene quel che deve fare: magari, non chiedetegli la fantasia, a un belga, ma lo zelo, la diligenza, la generosità ce li mette di sicuro. E pure un senso dell’umorismo che, come nell'arte, dà sul surrealismo. E’ un Paese capace di tirare avanti senza sbandare 535 giorni senza governo – un record, per quel che è dato sapere, mondiale -, perché, mentre i partiti negoziavano e i formatori si succedevano e si consumavano, nell'Esecutivo in carica per gli affari correnti ciascuno faceva il suo senza sbavature: senza governo, il Belgio ha persino gestito nel 2013 un semestre di presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, che, quando lo ha fatto l’Italia, nel 2014, sembrava un’impresa da fare tremare le vene dei polsi.

Ma è un Paese che, da almeno un quarto di secolo, pare sul punto di sgretolarsi: i fenomeni di smembramento nazionalista degli Stati della Guerra Fredda, l’Unione sovietica in primo luogo, ma anche la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, hanno reso pensabile quello che prima manco lo era, cioè la divisione del Belgio. Che ha due anime, linguistiche, religiose, politiche, economiche. Bruxelles ne è la cerniera: capitale al contempo, di una Regione che le coincide, di uno Stato e dell’Unione, oltre che, ora, della provincia d’Europa del Califfato.

C’è il Sud tutto ondulato della Doyenne, la Liegi-Bastogne-Liegi, tra le Ardenne e le Fagnes, francofono, socialista, tendenzialmente laico, meno ricco, specie dopo che l’industria pesante tradizionale, l’acciaio, è andata in crisi irreversibile. E c’è il Nord tutto piatto della Ronde, il Giro delle Fiandre, fiammingo, conservatore, cattolico, ricco. I fiamminghi, che sono maggioranza, hanno nelle scarpe sassolini di generazioni culturalmente sottomesse, fin quando la loro lingua acquisì pari dignità del francese nell'educazione nazionale e nella funzione pubblica: il rinascimento linguistico fiammingo negli Anni Settanta fu traumatico e a sprazzi persino violento.

E’ un Paese che fatica a trovarsi un’anima e dei simboli d’unità nazionale, C’è il re, ma l’ultimo vero carismatico è stato Baldovino, perché Alberto, con Paola, la regina italiana, è sempre stato sentito come una figura di transizione, nonostante abbia regnato vent’anni, e Filippo, il figlio, sul trono dal 2013, deve ancora farsi una credibilità e una reputazione. E c’è la squadra di calcio, i Diavoli Rossi, che sono oggi sul trono del Mondo, dove non erano mai stati, nella classifica della Fifa, davanti ad Argentina, Spagna, Germania, e che fanno sognare i tifosi verso l’Europeo, con una formazione così multietnica che rende Molenbeek e Salah e i suoi compagni ancora più un rebus. E poi c’è il ciclismo, la vera grande passione nazionale: sulle strade delle classiche di primavera, i belgi sono milioni; e, come allo stadio, tifano belga, non fiammingo o vallone.

Invece, in politica è un’altra storia. Il Sud vota a sinistra con costanza, esprime spesso il premier – l’attuale, Charles Michel, è un riformatore di Namur; il suo predecessore era un italo-belga socialista di Charleroi, Elio Di Rupo-, non ha slanci, ma neppure pulsioni indipendentiste. Il Nord sente le sirene dell’autonomia e dell’indipendenza, insegue movimenti populisti e xenofobi o d’estrema destra, che magari sono fuochi di paglia, ma segnalano il disorientamento e l’incertezza dell’opinione pubblica.

Se onesta e affidabilità proteggono le Istituzioni pubbliche dal degrado cui sono esposte altrove, l’efficienza degli apparati di sicurezza è compromessa dalle resistenze al dialogo fra le comunità dello stesso Paese. Così, le forze dell’ordine e l’intelligence belghe, quando sollecitate e messe sotto pressione, possono persino apparire goffe, al punto che c’è chi sospetta dietro le loro inefficienze una subdola connivenza – ipotesi che appare gratuita e, comunque, non sostanziata da prove -. Ma ci sono norme talmente datate, all’epoca della guerra contro il terrorismo, da apparire ridicole, come quella che impedisce di fare perquisizioni tra le 21.00 e le 05.00.

Di fatto, le cronache belghe sono costellate di dabbenaggini poliziesche – loro le chiamano ‘bavures’ -: la strage dello stadio di Heysel, il 29 maggio 1985, quando 5 poliziotti 5 separavano gli ‘animals’ del Liverpool dagli inermi tifosi juventini; le indagini, mai risolutive, sugli attentati anti-Nato e sugli assassini folli del Brabante Vallone; i casi di pedofilia degli Anni Novanta e del Duemila; e, ora, la libertà di movimento lasciata agli integralisti dopo gli arresti di Verviers e le stragi di Parigi. I due fratelli kamikaze dell’aeroporto e della metro erano ben noti alle forze dell’ordine: incasellati come delinquenti comuni, non sono stati considerati adepti del Califfo potenziali. Fino a martedì. Ma era tardi.

Terrorismo: Bruxelles, la risposta non sono le parole, ma le decisioni

Scritto per Metro del 24/03/2016

Sangue, dolore, lacrime. E parole. Gli attacchi terroristici che mercoledì hanno colpito e tramortito la capitale dell’Unione hanno innescato il pianto pubblico di Federica Mogherini e un profluvio di dichiarazioni magari dovute, certo ripetitive: un profluvio di ‘bisogna’, ‘mai più’, ’sia fatta piena luce’ e imperativi categorici, che i leader dei 28 e delle Istituzioni ci hanno dispensato. Decisioni e risposte concrete, per ora, nulla: troppo presto, è vero.

Ma il professor Roberto Castaldi prova ad orintare le scelte dell’ue dopo gli attentati all’aeroporto di Zaventem e nella stazione della metropilitana di Maelbeek: su EurActiv.it, e in un Forum di federalisti, scrive che, oltre a esprimere il proprio cordoglio per le vittime, sarebbe importante che i governi dei Paesi dell’Ue rispondessero a due semplici domande: contano di più le vite delle persone o le gelosie tra i vari servizi segreti nazionali?; e gli Usa sarebbero più sicuri senza apparati di sicurezza federali, cioè, per interderci, senza Fbi o, a livello d’intelligence, Nsa, ma contando solo su quelli dei singoli Stati membri?”. Sono risposte dovute –osserva Castaldi – “a tutti i cittadini europei, ma soprattutto alle famiglie delle vittime degli attentati terroristici che si sono susseguiti in vari Paesi europei”.

E’ un modo efficace di porre ill problema della mancanza di una politica di sicurezza europea, oltre che di difesa ed estera – ah!, la lacrime della Mogherini, che ne dovrebbe essere il simbolo e l’espressione -. Il professor Francesco Gui, animatore dei federalisti a Roma, osserva che una risposta ‘federale’ agli attacchi di martedì sarebbe la creazione di una polizia federale europea, che, sull’esempio del Secret Service degli Stati Uniti, tuteli le sedi delle Istituzioni che rappresentano – direttamente, come il Parlamento o il Consiglio – o indirettamente – come la Commissione - 500 milioni di cittadini europei.

E un’ulteriore, forse decisiva, risposta sarà il rafforzamento della cooperazione, di polizia, giudiziaria, culturale, senza ulteriori cedimenti agli egoismi nazionali. Uniti siamo più sicuri; e più forti; e più liberi. E – non suoni irrispettoso per le vittime degli ultimi 15 mesi e per le centinaia che le hanno precedute nel sacrificio- persino più ricchi, perché a mettere insieme le risorse si guadagna in efficienza e si risparmia.

Deciderlo non costa nulla. Basta farlo.

Repubblicani: Jeb Bush crea la sorpresa, sta con Cruz

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 24/03/2016

Jeb Bush sta con Ted Cruz: è un po’ una sorpresa, ma è così. Fuori da un mese dalla corsa per la nomination repubblicana, l'ex governatore della Florida, figlio e fratello rispettivamente del 41° e 43° presidente degli Stati Uniti, , dà pubblicamente sostegno al senatore del Texas Ted Cruz, iper-conservatore ed evangelico, l’avversario meglio piazzato del battistrada Donald Trump.

"Ted è un conservatore di sostanza e di principi, abile nell'attrarre elettori e vincere primarie, tra cui martedì le assemblee dello Utah", ha detto ieri Jeb, un moderato, il cui endorsement pareva piuttosto destinato al governatore dell’Ohio John Kasich, il moderato fra i candidati ancora in lizza.

L’ex governatore della Florida ha invece scelto il ‘voto utile’: "I repubblicani possono riconquistare la Casa Bianca", se sosterranno "un candidato che può unire il partito" di fronte "alle divisioni e alla volgarità che Trump ha portato nell'arena politica".

Il suo endorsement non è la prima scelta a sorpresa degli aspiranti alla nomination usciti di scena: Chris Christie, governatore del New Jersey, un altro moderato, aveva già stupito il mese scorso, puntando su Trump, forse in cambio – s’è ipotizzato – di una candidatura alla vice-presidenza.

La campagna di Trump continua a suscitare notevoli ostilità. il magnate dell’immobiliare sta trasformando in un hotel di lusso lo storico palazzo del Poste, a Washington, su cui oggi campeggia la scritta gigante ‘Trump’. L’albergo dovrebbe aprire in autunno, intorno all’Election Day: proprio lì, lo showman ha tenuto giorni fa una conferenza stampa, dopo avere incontrato alcuni influenti esponenti repubblicani.

Non c’erano, però, i vertici del partito, dallo speaker della Camera Paul Ryan in giù. Un ‘super Pac’ anti-Trump, cioè un comitato per la raccolta di fondi contro la candidatura del magnate, ha preso nota della lista dei partecipanti per negare loro futuri finanziamenti, e continua a provare a scovare un’alternativa.

Le cronache degli ultimi giorni riferiscono episodi controversi: c’erano stati tafferugli a un comizio dello showman nello Utah e il blocco di un’autostrada in Arizona da parte di suoi contestatori. Che continuano a rischiare di essere malmenati ai suoi meeting, com’era di nuovo successo domenica. C’è chi espone cartelli ‘Affittasi, ma non a sostenitori di Trump’ e chi manda lettere di minaccia alla sorella del magnate. Che, però, continua a dare spettacolo: lunedì, ha assunto su due piedi, dopo un’intervista volante, una donna che gli chiedeva lavoro a un comizio; e martedì, a chi gli schiedeva se aprirebbe un hotel a Cuba, dov’era in visita il presidente Obama, ha risposto “Sì, ma porrei condizioni”. (fonti vv – gp)

mercoledì 23 marzo 2016

Terrorismo: Bruxelles, gli sgherri del Califfo insanguinano i simboli dell'Europa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/03/2016

Bruxelles – Lo Stato, se l’è quasi perso per strada, nei litigi fra fiamminghi e francofoni. L’Unione, che ne ha fatto il suo centro, non è mai stata così a repentaglio, rosa da egoismi e divisioni. A dare retta a nazionalisti ed euro-scettici, c’è solo da aspettare – e neppure molto – per vedere diroccato il Palazzo Reale e lasciati in abbandono i palazzi delle Istituzioni dell’Ue. Ma i terroristi del Califfo hanno fretta: di mostrare al Mondo che ci sono ancora, di colpire al cuore l’Europa ammazzando gente che va al lavoro.

E, così, Bruxelles, la tranquilla Bruxelles, la noiosa Bruxelles, la ‘città per chi fa famiglia’, o vuole metterla su, ridiventa capitale. Ma del terrore. Certo, che c’era da aspettarselo, che gli integralisti colpissero qui e che colpissero le Istituzioni europee: sia per mostrare che l’arresto di Salah, venerdì, non li ha neutralizzati, sia per attaccare i simboli della cooperazione tra le forze di sicurezza europee che, da quando funziona un po’ di più, migliora l’efficienza del contrasto all’integralismo.

E si torna a parlare delle lacune delle forze dell’ordine e dell’intelligence belga. Le prime sono eccellenti quando va tutto bene, ma non sono addestrate all’eccezionalità, gli attentati anti-Nato degli Anni Ottanta, la banda degli assassini folli del Brabante Vallone, la strage dell’Heysel, i casi di pedofilia degli Anni Novanta e ancora del Duemila, adesso la trasformazione di uno dei Comuni della Capitale, Molenbeek, in capitale della jihad in Europa.

L’intelligence non ha visto e, secondo alcuni giornalisti – ma non c’è riscontro - non ha voluto vedere, per una sorta di patto ‘noi non vi disturbiamo – voi non ci colpite’ venuto meno con le stragi di Parigi del 13 novembre. Ma il contagio dell’integralismo sarebbe pure a Vilvoorde, fino a vent’anni fa prati all’inglese e villini per funzionari della Nato, e a Forest e nel rione afro del Matongé, dove sarebbe sbarcato Boko Haram – del resto, il Belgio ha molti più legami con l’Africa Nera che con il Nord Africa -.

E gli jihadisti sono capaci di attuare un piano coordinato, attentati in serie e imparabili fatti per uccidere a caso e destare paura: lo fanno in proprio senza aspettare gli ordini del Califfo, perché la rivendicazione pare un timbro messo a cose fatte, dopo che gli untori della paura hanno colpito.

Ci sono volte che gli attentati colpiscono luoghi che tutti conoscono, dove tutti sono stati perché sono crocevia dell’umanità: Manhattan, la metropolitana di Londra, il centro di Parigi. E ci sono volte che le bombe scoppiano dove noi siamo stati migliaia di volte nella nostra quotidianità, dove amici e colleghi tuttora vivono le loro routine: l’aeroporto di Zaventem a Bruxelles e le stazioni della metropolitana di Schumann e di Maelbeek, le due fermate del ‘quartiere europeo’ della capitale belga, diventano di colpo luoghi del quotidiano violati e insanguinati. Schumann, un cantiere perennemente aperto, dove i lavori sono sempre in corso; e Maelbeek, dove, quando esci, perdi sempre l’orientamento e non sai mai se sei nella direzione giusta.

Venerdì scorso, il 18 marzo, la sera di Bruxelles era stata traversata da sirene che scortavano i leader dei 28 via dal Quartiere europeo, dopo un Vertice sui migranti, l’ennesimo, mentre, più a ovest, altre sirene conducevano Salah in carcere: suoni, in fondo, di sollievo, un’intesa fatta, un terrorista preso. Questa mattina, 84 ore più tardi, la scena è del tutto diversa: le sirene convergono sul Quartiere europeo, suoni d’angoscia, altri terroristi hanno colpito - e, intanto, a Idomeni, a Lesbo, altri teatri di dramma e dolore, l’accordo sui migranti non funziona -.

Fra le dichiarazioni che ingolfano l’informazione in queste ore, ce n’è una dei leader dei 28: dice che l’Unione saprà sormontare la minaccia terroristica. A Parigi la Torre Eiffel ed a Berlino la Porta di Brandeburgo si colorano con i colori del Belgio. La risposta non è agitare lo spettro dei migranti, perché i terroristi sono cittadini europei; e non è solo alzare il tiro su Raqqa e sulle milizie jihadiste. La risposta sarà il rafforzamento della cooperazione, di polizia, giudiziaria, militare culturale, senza ulteriori cedimenti agli egoismi nazionali. Uniti siamo più sicuri; e risparmiamo un sacco di soldi da investire in integrazione.

Usa 2016: primarie, una vittoria per ciascuno. Liti su Bruxelles

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 23/03/2016

Mentre il Dipartimento di Stato invita, con un ‘travel warning’, i cittadini statunitensi a non recarsi in Europa né a muovercisi, dopo gli attacchi di ieri a Bruxelles, Donald Trump e Hillary Clinton s’impongono con largo margine nelle rispettive primarie in Arizona: Trump, quasi al 50% dei suffragi, batte Ted Cruz di una ventina di punti e John Kasich di oltre 30; la Clinton va oltre il 60%, il suo rivale Bernie Sanders è sotto il 40%.

Cruz e Sanders hanno nettamente vinto le assemblee dello Utah, dove Trump è solo terzo, pure dietro Kasich, mentre in quello che viene definito il Western Tuesday, pure l’Idaho, dove votavano solo i democratici, va al senatore del Vermont.

E Sanders s’è imposto su Hillary – i risultati sono stati diffusi lunedì – pure nelle primarie dei democratici all’estero (Global Presidential Primary, 34.750 votanti): ha avuto il 69% dei suffragi contro il 31% – il senatore ha vinto anche in Italia -. Dei 13 delegati in palio, Sanders ne ha presi 9 e la Clinton 4. I repubblicani non hanno un meccanismo di voto per i residenti all’estero.

Nel ‘travel warning’ il Dipartimento di Stato sottolinea l'esistenza d’una minaccia "a breve termine" di possibili nuovi attentati: "Gruppi terroristici continuano a pianificare attacchi a breve termine attraverso l'Europa, avendo come obiettivo eventi sportivi, siti turistici, ristoranti, e trasporti".

Per tutta la giornata di martedì, le esplosioni di Bruxelles hanno innescato commenti e polemiche fra gli aspiranti alla nomination, al di là delle espressioni di cordoglio e di solidarietà con le vittime e le loro famiglie, il Belgio e l’Europa. In interviste televisive, Trump ha parlato della capitale dell’Ue come di “un campo di battaglia”: “Ed è solo l’inizio”, ha aggiunto. E ha proseguito: “Dipendesse da me, a Salah Abdeslam bisognerebbe praticare il waterboarding, anzi io farei molto di più … Dobbiamo essere molto vigili sulle persone cui permettiamo di entrare” negli Stati Uniti.

Il magnate dell’immobiliare ha riproposto la sua ricetta di messa al bando dei musulmani, tornando a proporre di “chiudere le frontiere”. Una misura che l’ex fist lady Hillary Clinton ha come al solito respinto, definendola, tra l’altro, “irrealistica”, mentre il senatore del Vermont Bernie Sanders pensa che sarebbe “incostituzionale” e “sbagliata”: sia la Clinton che Sanders parlano di cooperare di più con gli alleati, a cominciare dall’intelligence, e puntano ad unire la comunità internazionale contro il terrorismo integralista.

Il senatore del Texas Ted Cruz ha detto che, come presidente, userebbe “a pieno la forza e la furia” delle forze armate degli Stati Uniti per sconfiggere il sedicente Stato islamico. Cruz ipotizza pure pattuglie armate nelle aree musulmane “per metterle in sicurezza” e prevenirne la radicalizzazione – anche se la misura pare piuttosto destinata a indurla che a prevenirla -.

Il governatore del’Ohio John Kasich ha criticato il presidente Barack Obama, che da Cuba è andato come previsto in Argentina, senza interrompere le sue visite in America latina (una critica condivisa da Cruz). Parlando a Minneapolis, Kasich ha sostenuto che il ‘comandante in capo’ doveva tornare a Washington, sentire l’intelligence, chiamare i leader europei, coordinare la risposta – Obama, invece, lo ha fatto durante il suo viaggio -. Secondo il governatore, il presidente affronta con eccessiva “leggerezza” la minaccia terroristica. (fonti vv - gp)

Usa-Cuba: Obama all'Avana e il paradosso di Guantanamo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/03/2016

Desiderosi di normalizzare le relazioni fra i loro due Paesi, e orgogliosi di farlo, Barack Obama e Raul Castro si chiedono l’un l’altro, come suggello del passo compiuto, l’impossibile, o almeno quello che né l’uno né l’altro sono in grado di fare da soli. Obama sollecita il rispetto dei diritti dell’uomo e la libertà d’espressione, il che equivale alla rinuncia, da parte di Cuba, al suo attuale sistema politico. Castro chiede la fine dell’embargo, che Obama è pronto a concedere, ma che non ha il potere di decretare da solo senza l’avallo del Congresso che, a maggioranza repubblicana, non ha per ora nessuna intenzione di concederlo.

Nella visita di Obama all'Avana, conclusasi ieri – il presidente Usa è partito per Buenos Aires, essendo l’Argentina la sua prossima tappa -, c’è anche il nodo, irrisolto, di Guantanamo: un nodo doppio, perché tra Cuba e Washington c’è il problema della base e tra l’Amministrazione e il Congresso c’è il problema della prigione nella base.

Un paradosso che Castro evoca – senza troppo crederci, per la sua parte -, ma che pesa su Obama – per la sua -. Perché la chiusura della prigione dei presenti terroristi, istituita nel 2002, in violazione di ogni norma di diritto internazionale, e dove sono tuttora detenuti circa 150 “nemici combattenti”, contro i quali non è mai stato formulato un capo d’accusa, è una promessa della campagna elettorale di Obama I, nel 2008.

Anche con quella promessa, Obama sconfisse Hillary Clinton nelle primarie democratiche; e quindi il candidato repubblicano John McCain nell’Election Day. Ma, per oltre sette anni, il presidente Obama non ha saputo –o potuto- mantenuto la promessa del candidato Obama, con l’alibi –forte- di u Congresso non convinto-. Nel gennaio 2009, il presidente firmò gli ordini di chiusura, che, però, non sono mai stati attuati, non essendo, tra l’altro, stato deciso che fare dei detenuti.

Le istallazioni più aberranti sono state chiuse e smantellate. E l’Amministrazione Usa ora sostiene che i principali diritti previsti dalla convenzione di Ginevra sono "sostanzialmente rispettati", anche se lo statuto di "prigionieri di guerra", non può essere riconosciuto a "combattenti irregolari, attentatori o terroristi". All'inizio dell’anno, Obama ha di nuovo prospettato la chiusura, basandosi, con il Congresso, su una ragione non etica, ma economica: quel carcere costa troppo. Ma non è affatto sicuro che la cosa vada in porto entro la fine del suo mandato.

Che se poi la prigione chiudesse e i detenuti ne partissero, il governo di Cuba non sarebbe contento lo stesso: L’Avana reclama la restituzione pura e semplice della base posta all'estremità orientale dell’isola, ritenendo nullo il contratto di locazione perpetua che risale al 1903 – di fatto, un derivato della guerra ispano-americana del 1898 -. Per non legittimare le tesi Usa, Cuba non incassa neppure l’affitto annuo di 4000 dollari per 120 kmq, roba che manco i fitti in centro del Comune di Roma: l’esecutivo cubano post-rivoluzionario giudica illegale la presenza militare americana sull'isola e non riconosce gli impegni assunti dai governi precedenti.


Con oltre 9.500 marinai e marines, la base di Guantanamo è l'unica installazione militare statunitense in un Paese comunista. E non saranno Obama e Castro a deciderne il ritorno a Cuba: questo è lavoro per prossimi presidenti.

martedì 22 marzo 2016

Terrorismo: Bruxelles, bombe nella casa degli europei

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 22/03/2016

Ci sono volte che gli attentati colpiscono luoghi che tutti conoscono, dove tutti sono stati perché sono crocevia dell’umanità: Manhattan, la metropolitana di Londra, il centro di Parigi. E ci sono volte che le bombe scoppiano dove noi siamo stati migliaia di volte nella nostra quotidianità, dove amici e colleghi tuttora vivono le loro routine: l’aeroporto di Zaventem a Bruxelles e le stazioni della metropolitana di Schumann e di Maelbeek, le due fermate del ‘quartiere europeo’ della capitale belga, diventano di colpo luoghi del quotidiano violati e insanguinati. Schumann, un cantiere perennemente aperto, dove i lavori sono sempre in corso; e Maelbeek, dove, quando esci, perdi sempre l’orientamento e non sai mai se sei nella direzione giusta.

Certo, che c’era da aspettarselo, che i terroristi colpissero a Bruxelles e che colpissero le Istituzioni europee: sia per mostrare che l’arresto di Salah non li ha neutralizzati, sia per attaccare i simboli della cooperazione tra le forze di sicurezza europee che, da quando funziona un po’ di più, migliora l’efficienza del contrasto all'integralismo.

Ma anche se sei sicuro che stanno per colpire, anche se Salah ti dice che stava preparando, di sicuro non da solo, nuovi attentati, ciò non basta a impedire gli attacchi kamikaze contro obiettivi indiscriminati, la folla anonima, dove nessuno è bersaglio fin quando che ti sta accanto non si fa saltare in aria. A meno di militarizzare la nostra vita e le nostre città, senza  la garanzia che funzioni e con la certezza che così la diamo vinta agli untori della paura.

Venerdì scorso, il 18 marzo, la sera di Bruxelles era stata traversata da sirene che scortavano i leader dei 28 via dal Quartiere europeo, dopo un Vertice sui migranti, l’ennesimo, mentre, più a ovest, altre sirene conducevano Salah in carcere: suoni, in fondo, di sollievo, un’intesa fatta, un terrorista preso. Questa mattina, 84 ore più tardi, è una scena tutta diversa: le sirene convergono sul Quartiere europeo, suoni d’angoscia, altri terroristi hanno colpito - e, intanto, a Idomeni, a Lesbo, altri teatri di dramma e dolore, l’accordo sui migranti non funziona -.

Fra le dichiarazioni a caldo che ingolfano l’informazione in queste ore, quella del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk: ricorda che le istituzioni europee sono ospitate a Bruxelles anche grazie a generosità e disponibilità del governo e del popolo belga; e afferma che l’Unione saprà ricambiare la solidarietà e aiuterà Bruxelles, il Belgio e tutta l’Europa ad affrontare la minaccia terroristica. Il primo gesto è quello di fare con efficienza il proprio lavoro.

La polizia belga ha molti limiti e la cronaca dirà se altri ne ha mostrati in queste occasioni. Una risposta ‘federale’ agli attacchi odierni sarebbe la creazione di una polizia federale europea, che, sull'esempio del Secret Service degli Stati Uniti, tuteli le sedi delle Istituzioni che rappresentano – direttamente, come il Parlamento o il Consiglio – o indirettamente – come la Commissione - 500 milioni di cittadini europei. Ma la vera risposta sarà il rafforzamento della cooperazione, di polizia, giudiziaria, culturale, senza ulteriori cedimenti agli egoismi nazionali. Uniti siamo più sicuri; e più forti; e più liberi.

Usa 2016: Obama a Cuba, candidati fanno passerella a lobby ebraica

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 22/03/2016

Mentre il presidente Barack Obama compie la sua storica visita a Cuba, gli aspiranti alla nomination democratica e repubblicana si contendono il voto ebraico negli Stati Uniti di fronte alla convention dell’Aipac, l’American Israel Public Affairs Committee, la più potente lobby ebraica americana. Tutti meno l’ebreo Bernie Sanders, che non ci va: sembra un paradosso (e un po’ lo è).

La visita di Obama ha e avrà risvolti elettorali su Usa 2016. Ma il presidente cubano Raul Castro evita d’esprimere preferenze tra Hillary Clinton e Donald Trump: “Io non voto negli Stati Uniti”, dice, dribblando una domanda. Obama insiste per il rispetto dei diritti dell’uomo nell’isola, Castro per la fine dell’embargo.

Le passerelle all’Aipac avvengono a distanza. Hillary Clinton afferma che “la sicurezza d’Israele non è negoziabile” – una frase che, più o meno, dicono tutti -, ma sottolinea anche la responsabilità a combattere il fanatismo. E ricorda che una donna, Golda Meir, ha già guidato Israele: che cosa aspettano gli Stati Uniti?

Donald Trump vira senza imbarazzi rispetto a sue posizioni recenti contestate dagli ebrei americani e alza la posta: “La mia priorità numero uno è smantellare l’accordo con l’Iran” sul nucleare e pure “rivedere il rapporto con la Nato”, che “costa troppo”. Affermazioni più allarmanti per gli europei che rassicuranti per gli israeliani.

Ted Cruz, iper-conservatore ed evangelico, è su una linea analoga a quella di Trump: s’impegna, come Trump, a spostare l’ambasciata degli Usa in Israele a Gerusalemme, “capitale eterna” – l’impegno preso dal Congresso è stato costantemente disatteso dalle ultime Amministrazioni, sia democratiche che repubblicane – e a reimporre sanzioni all’Iran. John Kasich scalda meno la platea: “Non possiamo essere neutrali nel difendere i nostri alleati”, dice, sottolineando che Israele è “partner fondamentale degli Stati Uniti per la sicurezza in Medio Oriente”.

Trump, il cui intervento all’Aipac è segnato da proteste e contestazioni fuori dal Verizon Center, vive a Washington una giornata complicata, tra esponenti del partito, che continua a osteggiarlo, e la comunità ebraica, che lo guarda con diffidenza, nonostante i suoi propositi. Il magnate occupa, comunque, la scena nella capitale e non risparmia le critiche a Hillary, che, dice, non ha né la forza né l’energia per fare il presidente, mentre apre a sorpresa all’idea di un ticket con Cruz.

Di fronte all’Aipac, Hillary sfoggia competenza in politica estera, forte dell’esperienza da segretario di Stato: Trump colma –un po’- il gap annunciando un pool di consiglieri sugli affari internazionali. La Clinton prende pure le distanza dall’Amministrazione Obama, annunciando che lei inviterebbe alla Casa Bianca il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Lo showman è più contenuto del solito e gioca la carta dell’ebraismo di famiglia: la figlia Ivanka, nota, s’è convertita alla fede del marito e “sta per avere un bambino ebreo”. (fonti vv - gp)