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sabato 31 dicembre 2016

L'ultimo post. Buon 2017 su www.giampierogramaglia.eu


Buona Sera e Buon Anno. Questo è il mio ultimo post su questo mio vecchio blog: dal 1o gennaio 2017, sarò sul mio nuovo blog www.giampierogramaglia.eu, realizzato grazie all'indispensabile collaborazione informatica dello Studio Ahmpla e dove spero di ritrovarvi tutti.

Questo blog, avviato nella primavera del 2010 e che da allora ha ospitato praticamente tutta la mia produzione giornalistica, resterà comunque raggiungibile, sia dal nuovo blog che autonomamente.

Ringrazio tutti coloro che lo hanno visitato e, in particolare, quanti con le critiche e i suggerimenti hanno contribuito a tenerlo vivo e a migliorarlo. E spero che il nuovo blog possa crescere nel tempo anche grazie ai contributi e agli input di lettori e visitatori: per il momento, vi sono già stati caricati tutti i contenuti 2016.

A Tutti, l'Augurio di un 2017 Migliore. Buon Anno!

Usa-Russia: Putin fa il magnanimo aspettando Trump

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/12/2016
E’ un anno da Pallone d’Oro, per Vladimir Putin: il presidente russo fa sempre gol, quando va all'attacco e quando gioca in contropiede. Il giorno dopo l’annuncio della pace in Siria, Putin fa sfoggio di magnanimità nei confronti degli Stati Uniti e frena la spirale della nuova Guerra Fredda fra i due Paesi.
Giovedì, il presidente Obama aveva espulso 35 diplomatici e russi dagli Usa, coinvolti – è l’accusa – nelle operazioni di hackeraggio delle elezioni presidenziali dell’8 Novembre. Ieri, Putin ha deciso di non rispondere ‘occhio per occhio e dente per dente’, come si usa in questi casi e come gli suggeriva il Ministero degli Esteri russo, dandogli la lista nominativa di 35 americani da espellere.
Il contrasto tra il Cremlino e la diplomazia russa è stato, probabilmente, una pantomima. Putin strizza un’altra volta l’occhio a Donald Trump, il presidente eletto - anche grazie alle mene russe -, e dice di sperare in un “salto di qualità” nelle relazioni russo-americane dopo il suo insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio. Il disgelo potrebbe arrivare in primavera.
Con Obama e la sua Amministrazione, il discorso per Putin è chiuso. Oltre a ordinare l’espulsione dei 35 russi con le loro famiglie entro 72 ore, Obama ha disposto la chiusura di alcune residenze e centri russi e una raffica di sanzioni.
Secondo la stampa Usa, il presidente s’appresta a diffondere un dettagliato 'rapporto analitico congiunto' dell'Fbi e del ministero della Sicurezza Interna basato su materiale raccolto dalla Cia e dalle altre agenzie dell’intelligence americana e conferito alla National Security Agency. Vi si spiegherà come i funzionari russi espulsi, agendo sotto copertura diplomatica, avrebbero manipolato le elezioni americane, a favore di Trump e ai danni di Hillary Clinton.
Entro tre settimane, prima che Obama lasci la Casa Bianca, sarà poi pubblicato un rapporto ancora più dettagliato, ordinato dal presidente. Ma molti elementi relativi alle modalità con cui sono state ottenute le prove della violazione dei computer da parte dei russi e registrazioni di conversazioni resteranno classificati, per evitare di fornire indizi a Mosca su come sono stati scoperti o intercettate.
Se la freddezza di Putin non stupisce, l’attivismo un po’ scomposto di Obama colpisce e desta interrogativi anche sui media Usa. Da una decina di giorni in qua, il presidente a fine mandato mena fendenti diplomatici che non aveva mai menato in otto anni: contro Israele, facendo passare all’Onu una risoluzione anti - insediamenti e impelagandosi in polemiche con il premier Netanyahu, e contro la Russia.
Obama è uno che non sa perdere?, è ombroso e vendicativo? Certo, Trump gliene ha dette e fatte di tutti i colori, impegnandosi a smantellare - nei primi cento giorni alla Casa Bianca – il suo lascito in politica interna – la riforma della sanità – e a rivedere l’accordo sul nucleare con l’Iraq e la ripresa delle relazioni con Cuba, oltre che gli atteggiamenti verso la Russia, Israele e nel Medio Oriente.
Al Cremlino, c’è pure chi nota la coincidenza tra il cessate-il-fuoco in Siria negoziato da Putin, che pare reggere, e l’offensiva anti-russa di  un Obama – è l’illazione – stizzoso e rosicone.
Se l’immagine di Trump sui maggiori media tradizionali Usa resta negativa, quella di Obama non esce bene da questa ondata di decisioni apparentemente dettate più dal dispetto che dalla logica e dall'interesse nazionale.
Da una parte, l’attenzione s’allontana dalle mene russe nel voto Usa e dai vantaggi che ne avrebbe tratto il magnate e showman e si concentra sul botta e risposta tra Casa Bianca e Cremlino.
Dall'altra, Obama – e Putin - sembrano quasi creare le condizioni perché Trump faccia bella figura all'esordio in politica estera: migliorerà le relazioni con Israele e rimetterà in carreggiata quelle con la Russia, raccogliendo il ramoscello d’olivo portogli ieri da Putin.

Che, intanto, mostra pure attenzione all’Europa e invita a Mosca il presidente Mattarella: l’Italia è fra i Paesi dell’Ue meno inclini a usare le sanzioni contro la Russia.

venerdì 30 dicembre 2016

Siria: Putin con Erdogan annuncia la pace, Usa ed Ue esclusi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/12/2016

La pace russa fa un passo forse decisivo in Siria, mentre gli Stati Uniti dei due presidenti sono talmente assorbiti dai risvolti interni degli eventi mediorientali da assistere senza intervenire: Barack Obama e la sua Amministrazione non hanno più l’autorevolezza per farlo, Donald Trump non ha ancora il potere (ma a suon di tweet caccia il naso dovunque).

E, comunque, a Trump può anche andare bene così: il colpo di acceleratore di Putin verso la fine del conflitto sgombera l’orizzonte di un problema spinoso, anche se lascia senza voce in capitolo l’Occidente intero: l’America senza bussola e la solita Europa imbelle, costretta a prendere atto di quanto da altri concordato e ad esprimere una soddisfazione di maniera, all'unisono con l’Onu.

Il fatto che i negoziati conseguenti al cessate-il-fuoco ora annunciato, e in vigore dalla mezzanotte, si faranno ad Astana, Kazakhstan, e non in uno dei luoghi deputati della diplomazia equidistante, Ginevra o Vienna, significa che la partita è russa – o, al massimo, russo-turca - e che Putin la vuole giocare in casa (25 anni dopo la fine dell’Urss, l’unico cosmodromo russo continua a essere quello di Baikonur in Kazakhstan: segno che fra i due Paesi c’è intesa e fiducia).

E’ stato il presidente russo ad annunciare la firma della tregua tra il regime di Assad e i ribelli usciti sconfitti della battaglia di Aleppo: “Abbiamo lavorato a lungo – ha detto Putin, spartendo il merito dello sforzo di pace con il presidente turco Erdogan -; adesso serve pazienza e grande attenzione”.

Dopo quasi 70 mesi di guerra civile e oltre mezzo milione di morti, è davvero la volta buona? Se anche il cessate-il-fuoco tenesse e la trattativa di pace decollasse, la Siria non si trasformerebbe, da un giorno all’altro, in una Svizzera mediorientale: resta la presenza del sedicente Stato islamico, che ha perso terreno, ma continua a controllare porzioni di territorio; e resta la questione curda. Anche se gli eroi della presa di Idlib e della resistenza a Kobane, perduta e riconquistata, sono stati lasciati da Putin alla mercé del suo nuovo amico Erdogan, trattati alla stregua di quei terroristi di cui sono stati a lungo gli unici avversari sul terreno.

Del resto, il Medio Oriente prossimo venturo sembra una storia di uomini forti: Putin ed Erdogan, presidenti autoritari, l’immarcescibile al-Assad e il faraone al-Sisi. Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu sono per ora più interessati a celebrare l’amicizia ritrovata israelo-americana che preoccupati degli assetti tutto intorno, a patto che le milizie jihadiste siano tenute sotto scacco e che la stabilità regni, dopo il tempo dell’incertezza conseguente alle Primavere arabe, di cui restano tracce solo in Tunisia. Quanto all’Iran, l’intesa che preserva al potere al-Assad gli sta bene: Teheran ha sempre lavorato in tal senso.

Mordono probabilmente il freno l’Arabia saudita e le monarchie del Golfo, costrette a trangugiare, per il momento, un trionfo sciita. Vi sono lì germi di future instabilità.

Sul terreno, mentre in Iraq le forse di Baghdad lanciano una nuova massiccia offensiva su Mossul, la capitale dell’autoproclamato Califfo, attaccando cinque quartieri, raid e bombe anti-jihadisti uccidono decine di civili, tra cui numerosi bambini, in località della Siria ancora sotto il controllo delle milizie e dell’opposizione ad al-Assad. Lo denuncia un’organizzazione anti-regime.

Negli Usa, Obama apre un nuovo fronte anti-Trump, annunciando un inasprimento delle sanzioni contro la Russia per le interferenze degli hacker di Mosca sul voto negli Usa. Il magnate dà la colpa ai computer che “ci complicano la vita” e accusa il presidente d’atteggiamenti “incendiari”, prima d’una telefonata “chiarificatrice”, dopo la quale i due definiscono “senza problemi” la transizione – roba da Pinocchio -.

Il che non impedisce a Trump di rincuorare Netanyahu: “Sii forte, il 20 gennaio è vicino”. Con lui alla Casa Bianca, gli Stati Uniti non tratteranno più Israele “con disprezzo. L’Italia è ben contenta d’avere schivato una grana: si fosse votato in Consiglio di Sicurezza dopo il 1° gennaio, si sarebbe dovuta esprimere. Che cosa avrebbe fatto? Il premier Gentiloni fa esercizi d’equilibrio sulla trave: “Gli insediamenti non agevolano la soluzione dei due Stati. Ma cercare d’indurre Israele a negoziati isolandolo è un’illusione”.

giovedì 29 dicembre 2016

Accadde Domani: 2017; immigrazione, Ue sotto Opa pupulismo cerca risposte

Pubblicato su AffarItaliani.it il 29/12/2016

http://www.affaritaliani.it/politica/palazzo-potere/iai-immigrazione-l-ue-sotto-opa-populista-cerca-soluzioni-456549.html

martedì 27 dicembre 2016

Usa: Obama, "se c'ero io con Trump vincevo" e altri sassolini

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/12/2016

Mentre i repubblicani imbarazzano l’America, mischiando il Natale con l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, che un che di biblico lo ha, ma in senso apocalittico, Barack Obama si prende qualche soddisfazione ‘last minute’ e si concede qualche libertà in politica estera, specie con Israele –lui e Benjamin Netanyahu non si sono mai potuti sopportare l’un l’altro -. Il messaggio di Natale all’America e al Mondo suo e di Michelle è un capolavoro di sobrietà, di misura, di efficacia: già lo rimpiangi, prima ancora che se ne vada; anche perché sai quel che ti aspetta.

Trump, dal canto suo, fatta la squadra, ha un po’ ridotto il ritmo dei tweet. Adesso, sta progettando come cancellare, nei suoi primi cento giorni, l’eredità e il lascito del suo predecessore. A toglierlo dai libri di storia, però, non ci riuscirà: ci resterà di sicuro, come primo presidente nero Usa. Ma pure Donald una citazione se l’è già guadagnata: è il presidente più ricco mai eletto, il più anziano ad entrare per la prima volta alla Casa Bianca – Ronald Reagan compì 70 anni tre settimane dopo l’insediamento, lui li ha già compiuti da oltre sei mesi – e, sulla carta, il meno competente.

Obama è sicuro che, se fosse stato lui l’avversario del magnate e showman, avrebbe di nuovo vinto: lo dice in un’intervista alla Cnn con il suo consigliere David Axelrod. Peccato che un emendamento della Costituzione vieti un terzo mandato. "Se avessi potuto correre e avessi spiegato la mia visione – dice -, ritengo che avrei potuto mobilitare la maggioranza degli americani". Secondo il presidente, i suoi connazionali “condividono la direzione verso cui ci stiamo muovendo” e possono ancora essere mobilitati dai suoi messaggi di “speranza e cambiamento”.

Nell’intervista, Obama torna a criticare i democratici, che hanno ignorato interi segmenti dell’elettorato, facilitando la vittoria di Trump, e ad elogiare Hillary Clinton e la sua prestazione, "in circostanze difficili", penalizzata dal doppio standard impostole. L’onere della prova era sempre a carico suo, mentre il suo rivale passava indenne tra uno scandalo e una menzogna. Nonostante ciò l’ex first lady ha avuto oltre due milioni di voti popolari in più del suo rivale, che ha però prevalso con i Grandi Elettori, che è quel che conta.

Intanto, è a Pearl Habour il premier giapponese Shinzo Abe: restituisce la visita fatta a fine maggio dal presidente statunitense a Hiroshima, a margine del Vertice del G7. Parallelo il copione: Obama non si scusò per l’atomica sganciata il 6 agosto 1945 sulla città; e Abe non si scuserà per l’attacco di sorpresa condotto dall’aviazione nipponica contro la base alle Hawaii il 7 dicembre 1941, che fece circa 2.400 vittime e che innescò l’entrata degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale.

Obama è stato il primo presidente Usa a Hiroshima; Abe, invece, non è il primo premier nipponico in esercizio a visitare Pearl Harbor. Nel 1951, dopo avere firmato a San Francisco il trattato di pace, l'allora premier Shigeru Yoshida si fermò a Pearl Harbour e depose una corona di fiori al memoriale delle vittime. Alle Hawaii, in queste ore, c’è pure Ivanka Trump, la figlia del presidente eletto: presenza inopinata, ma che non ha nulla a che vedere con quella di Obama ed Abe: è lì con il marito Jared Kushner e i tre figli per festeggiare Hanukkah, che quest’anno coincide con il Natale.

In mezzo al Pacifico, giungeranno ovattati a Obama gli echi delle polemiche israeliane, dopo l’astensione degli Usa all’Onu su una risoluzione che condanna gli insediamenti nei Territori. Votando no, come quasi sempre fatto in passato in analoghe circostanze, gli Stati Uniti, che all’Onu hanno diritto di veto, avrebbero bloccato la risoluzione. L’astensione, che gli israeliani considerano “frutto di un complotto”, ne ha invece permesso l’adozione.

Netanyahu ha bollato il voto come una vergogna, ha annunciato che Israele non la rispetterà – sarà l’ennesima violazione israeliana di un documento internazionale -, ha sospeso i versamenti all’Onu, ha congelato le relazioni diplomatiche con i Paesi che hanno votato sì, fra cui Gran Bretagna, Francia, Spagna, Giappone. Per evitare il voto, il premier aveva pure chiesto l’aiuto di Trump, che non aveva esitato ad esercitare pressioni, specie su un suo futuro buon amico, il presidente egiziano generale al-Sisi.

Accadde Domani: 2017, l'ipoteca dei populismi sull'Anno Nuovo

Scritto per AffarInternazionali e pubblicato il 27/12/2016

L’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump il 20 gennaio e la serie scadenzata di voti politici in molti grandi Paesi europei, forse Italia compresa, mettono sul 2017 una sorta d’ipoteca populista; e proprio l’avanzata dell’anti-politica dall'Ue agli Usa ravviva gli interrogativi sull’asserita generale ‘crisi strutturale’ della democrazia rappresentativa in tutto l’Occidente.

Il sì alla Brexit nel referendum britannico del 23 giugno e l’affermazione di Trump l’8 novembre, due risultati appena attenuati dalla vittoria in Austria - nelle presidenziali del 4 dicembre -dell’europeista verde Alexander van der Bellen, lasciano temere successi dei movimenti populisti e nazionalisti, xenofobi e anti-Islam, euro-scettici ed anti-euro, nella raffica di elezioni nell'Unione dei prossimi nove mesi.

Se le prime date in neretto sull'agenda 2017 sono americane – il 9 gennaio, l’avallo del Congresso alla vittoria di Trump nelle presidenziali, nonostante la sua rivale Hillary Clinton abbia ottenuto oltre due milioni di voti popolari più di lui, e il 20 gennaio l’insediamento del nuovo presidente -, gli altri giorni da appuntare sono soprattutto europei.

Va però ricordato che le crisi del Mondo, di cui Papa Francesco ha fatto un’agghiacciante sintesi, benedicendo l’umanità a Natale, restano aperte, senza una data di scadenza: Siria e Iraq, Yemen e Afghanistan, le ricorrenti tensioni mediorientali tra israeliani e palestinesi, la Libia e l’arco dell’integralismo a sud del Sahara, la Corea del Nord; e, ovunque e sempre, l’Idra dalle cento teste della minaccia terroristica. Tutte ombre con cui dovremo convivere ancora nel Nuovo Anno.

La carrellata di elezioni nell’Ue

La carrellata d’appuntamenti elettorali è eccezionale: il 2017 dell’Ue appare un percorso a ostacoli. A gennaio, il 22 e 29, ci sono le primarie della sinistra francese in vista delle elezioni presidenziali; il 15 marzo, si vota in Olanda; il 26 marzo nella Saar in Germania; il 23 aprile, c’è il primo turno delle presidenziali francesi; il 7 maggio, il ballottaggio francese e si vota nello Schleswig-Holstein ancora in Germania; il 14 maggio, si vota nella Renania del Nord – Westfalia, sempre in Germania; e, infine, il 24 settembre ci sono le politiche tedesche.

A questi appuntamenti, potrebbero ancora aggiungersi le politiche italiane. E restano da definire tempi d’avvio e ritmi del negoziato sulla Brexit, che, a oltre sei mesi dal referendum britannico, rimane un’incognita: una spada di Damocle sul capo dell’Unione e della Gran Bretagna.

Di come “costruire l’Europa federale nell'era dei populismi” si discute a Bruxelles e nelle capitali dei 28. Le famiglie politiche tradizionali europee cercano soprattutto di stornare l’insidia populista e, talora, avvertono la tentazione di rincorrere gli antagonisti sul loro terreno.

Dal dibattito fra europeisti, invece, emerge che chi ancora ci crede deve unire le energie per salvare e rilanciare il progetto d’integrazione, che, nato oltre settant'anni or sono nelle tenebre più profonde della Seconda Guerra Mondiale, celebrerà a Roma il 25 marzo 2017 il 60° anniversario della firma dei Trattati istitutivi delle tre iniziali Comunità europee, la economica (Cee), quella del carbone e dell’acciaio (Ceca) e quella dell’energia atomica (Euratom).

L’attuale processo ha perso slancio politico e ha pure perso l’appoggio dei cittadini, che, prostrati dalla crisi del 2008 e delusi dalle risposte dell’Ue, rimproverano all’Unione di non rappresentare, come sperato, un frangiflutti della globalizzazione e di non gestire il flusso dei migranti, garantendo la sicurezza.

Un modo, forse l’unico, per riscattare e fare ripartire l’integrazione è di rinnovarla, dando maggiore legittimità democratica all'azione politica europea e innestandovi una concreta prospettiva federale, nella convinzione che il vero ‘sovranismo’ non è la restituzione di sovranità ai singoli Stati, progressivamente irrilevanti, ma il conferimento di maggiore sovranità all’Unione europea, che può avere voce in capitolo nei consessi e nei processi internazionali.

La trasparenza e la democratizzazione sono una priorità della Commissione europea: il presidente Jean-Claude Juncker persegue, a tal fine, “una speciale partnership con il Parlamento europeo” e “un’accresciuta trasparenza” quando si tratta di contatti con gli stakeholders e i lobbisti.

I viottoli della speranza

C’è poco da sperare che i leader dei Grandi dell’Unione abbiano colpi d’ala europei in un contesto di sfide nazionali incerte e aperte com'è quello del 2017. Tanto più che le presidenze di turno del Consiglio dell’Ue sono sulla carta deboli: Malta nel primo semestre e l’Estonia nel secondo, due piccoli Paesi, entrambi esordienti nel ruolo.

Eppure, sarebbe l’ora d’aprire viottoli di speranza e ambizione tra le rovine di un’Unione sbriciolata nei suoi valori fondamentali - lo Stato di diritto e la solidarietà - e marginale nelle crisi mondiali, anche sull’uscio di casa, come la vicenda siriana dimostra.

Bisogna ridare ai cittadini il senso d’utilità di un progetto e l’orgoglio di appartenervi. E bisogna rispondere alle domande dei cittadini con azioni federali: gestire il flusso dei migranti e la riforma del diritto d’asilo che diventi europeo; concedere ai migranti che ne hanno diritto la cittadinanza europea piuttosto che quelle nazionali; e, ancora, affidare il controllo delle frontiere esterne all’Unione, neutralizzando le reciproche diffidenze; accelerare la promozione e la creazione d’una difesa europea, sfruttando come opportunità le sfide lanciate da Trump ancor prima d’insediarsi.

Infine, dare all’Europa una voce unica e forte nei consessi internazionali, dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu al Fondo monetario internazionale, dal G8 al G20. E migliorare la conoscenza di quanto esiste, estendendo la pratica dell’Erasmus a licei e realtà professionali – un ‘Erasmus dei giornalisti’ contribuirebbe, ad esempio, a un’informazione senza frontiere e senza pregiudizi -.

L’Italia in prima fila sulla scena internazionale

Il Governo italiano del dopo Referendum e del dopo Renzi ha l’agenda zeppa di questioni politiche, a partire dalla legge elettorale, e di problemi economico-finanziari, a partire dalle angustie di MPS. Ma il premier Gentiloni e i suoi ministri dovranno subito confrontarsi con scadenze internazionali che fanno dell’Italia una protagonista del 2017.

Con Bruxelles, Roma deve affrontare il negoziato sulla legge finanziaria, senza potersi aspettare, nella fase attuale, e dopo una stagione di pugni sul tavolo e toni guasconi, particolare bonomia, nonostante che la trattativa sia affidata a un ministro, Pier Carlo Padoan, che gode di credito presso i suoi interlocutori e la cui competenza è riconosciuta.

Il fronte europeo è, però, solo uno di quelli che vedranno l’Italia impegnata: il 2017 è molto denso di responsabilità internazionali. Dal 1° gennaio, l’Italia assume la presidenza del G7, che culminerà il 26 e 27 maggio nel Vertice di Taormina – dove almeno quattro leader saranno esordienti -, senza contare le riunioni settoriali nel nostro Paese; e sempre dal 1° gennaio l’Italia ritorna nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu sia pure solo per un anno, avendo spartito il biennio con l’Olanda; e, ancora, deve preparare le celebrazioni a Roma il 25 Marzo per il 60o anniversario della Cee.

Alla guida del G7, l’Italia dovrà coordinarsi con la presidenza di turno tedesca del G20 –il Vertice sarà ad Amburgo il 7 e 8 luglio -. Nel 2018, poi, l’Italia avrà la presidenza dell’Osce, raccogliendo l’impegnativa eredità di Germania e Austria.

L’attuale delicata situazione politica e la prospettiva di elezioni anticipate potrebbero anche indurre il governo Gentiloni a fare cabotaggio in acque internazionali; ma la densità delle responsabilità lo sconsiglia. Anche se la designazione agli Esteri d’un ministro senza né esperienza né vocazione internazionale come Angelino Alfano non garantisce la conoscenza dei dossier necessaria per agire in tempi brevi.

lunedì 26 dicembre 2016

Usa: la squadra di Trump, l'analisi delle scelte nome per nome

Pubblicato sul sito dell'Istituto Affari Internazionali il 26/12/2016: un video di Isabella Ciotti con anche Stefano Silvestri e Riccardo Alcaro

https://www.youtube.com/watch?v=d1rhPgf9IG8

venerdì 23 dicembre 2016

Terrorismo: Italia da stazione di transito a stazione di fine corsa

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 23/12/2016

L’Italia era una stazione di transito del terrorismo integralista. Ora, con l’uccisione di Anis Amri, è la stazione di fine corsa per l’autore della strage di Berlino. Il conflitto a fuoco della scorsa notte, davanti allo scalo di Sesto San Giovanni, hinterland milanese, un tempo rosso operaio, fa aumentare il tasso di pericolo di attentati in Italia?

La domanda fa correre un brivido lungo la schiena, dopo che Amaq, l’agenzia d’informazioni vicina al sedicente Stato islamico, ha diffuso un video in cui il terrorista tunisino ucciso annunciava "Veniamo a sgozzarvi come maiali"; e chiamava all’azione "Tutti i fratelli, ovunque essi siano. Amri diceva: "State in allerta e combattete sulla via di Dio. Ogni essere umano in grado di battersi vada a uccidere in tutta l’Europa i crociati maiali!".

La risposta è ovvia: “Sì”, il rischio aumenta, perché in qualche aspirante martire, per imitazione o per convinzione, s’accenderà di sicuro la scintilla della ritorsione.

Ma la domanda è oziosa, o almeno mal posta: ammesso che l’intercettazione di Amri sia stata casuale e non preordinata, che cosa avrebbero dovuto fare l’agente Christian Movio, 36 anni, rimasto ferito nella sparatoria, e il suo collega ancora in prova, Luca Scatà, che ha risposto al fuoco del killer di Berlino?, avrebbero dovuto ‘non impicciarsi’?, voltarsi dall’altra parte, quando quell’uomo li ha insospettiti?

In altri tempi, Anni Settanta e giù di lì, l’Italia era usa a imbarazzanti compromessi (e, forse, ne è talora tentata pure oggi): cercava d’acquisire la benigna neutralità del terrorismo internazionale – che, allora, ruotava intorno alla questione palestinese – chiudendo un occhio in situazioni discutibili e lasciando magari partire personaggi pericolosi, ma potenzialmente scomodi da tenere in carcere o processare.

Se adesso non succede, che sia merito di un apparato di sicurezza più efficiente e consapevole o dell’intuizione e solerzia professionale di singoli elementi, meglio così. C’è da esserne orgogliosi, senza ignorare il pericolo e adottando tutte le misure precauzionali opportune. Una circolare, ora emanata dal capo della Polizia Franco Gabrielli, invita tutto il personale alla "massima attenzione", proprio perché "non si possono escludere azioni ritorsive".

Piuttosto, la presenza di Amri in Italia suona di per sé allarmante: se, in fuga da Berlino, il terrorista del mercatino di Natale, l’assassino, fra gli altri, di Fabrizia Di Lorenzo, è arrivato con il treno, via la Francia, a Torino e a Milano, vuol dire che qui da noi pensava di potere trovare accoglienza o almeno copertura per continuare la fuga o per restare latitante fino alla prossima sortita.

L’uomo che, nel suo video-messaggio di appena due minuti, recita in arabo le tradizionali preghiere e giura fedeltà “al principe dei fedeli Abu Bakr al Baghdadi al al Huseini al Qurayshi", l’autoproclamato Califfo, stava forse scappando, sentendosi braccato; oppure attuava un piano ben preordinato, avendo punti d’appoggio sul territorio.

Nel primo caso, ci sarebbe comunque l’ipotesi che qualcuno voglia emularlo. Nel secondo caso, ci sarebbe operativa in Italia una rete di simpatizzanti jihadisti pronti a sostenere i sodati del Califfo. L’uccisione di Amri è un fattore di rischio; ma anche la sua presenza in Italia di per sé lo era. L’acquiescenza sta al terrorismo come l’omertà alla mafia: entrambe figlie della paura e dell’ignavia, conducono alla sconfitta.

Christian Movio e Luca Scatà hanno fatto la loro parte. Noi cittadini facciamo la nostra: senza odio e con solidarietà; senza accanimento, ma con fermezza.

giovedì 22 dicembre 2016

Ue: 2017, le prove della democrazia e le sfide dei populismi

Scritto per gli Appunti di Media Duemila il 21/12/2016

Il sì alla Brexit nel referendum britannico del 23 giugno e il successo di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca l’8 novembre, due risultati appena attenuati dalla vittoria in Austria il 4 dicembre dell’europeista verde Alexander van der Bellen, lasciano temere affermazioni dei movimenti populisti e nazionalisti nella raffica di elezioni che attendono i maggiori Paesi dell’Unione europea nei prossimi nove mesi.

Come “costruire l’Europa federale nell’era dei populismi” è stato il tema di un dibattito organizzato a Roma dalla Gioventù federalista europea e da UniMed: introdotto dal professor Franco Rizzi, docente e segretario generale di Unimed, e moderato da Ugo Ferruta, segretario del Movimento federalista europeo di Roma, l’incontro ha avuto come protagonista Sandro Gozi, già sottosegretario agli Affari europei.

L’avanzata dei populismi dall’Ue agli Usa pone pure interrogativi su un’eventuale ‘crisi strutturale’ della democrazia rappresentativa in generale in Occidente: tema su cui il circolo di cultura politica Cassiodoro organizzerà una riflessione il 18 gennaio, nella Sala della Lupa a Montecitorio.

Dal dibattito di Roma, emerge che chi ancora ci crede deve unire le energie per salvare e rilanciare il progetto d’integrazione europea, che, nato oltre settant’anni or sono nelle tenebre della Seconda Guerra Mondiale, celebrerà a Roma il 25 marzo 2017 il 60° anniversario della firma dei Trattati istitutivi delle tre iniziali Comunità europee, la economica (Cee), quella del carbone e dell’acciaio (Ceca) e quella dell’energia atomica (Euratom).

L’attuale processo ha perso slancio politico e ha pure perso l’appoggio dei cittadini, che, prostrati dalla crisi del 2008 e delusi dalle risposte dell’Ue, rimproverano inoltre all’Unione di non fare loro da frangiflutti della globalizzazione e di non garantire loro sicurezza e tranquillità gestendo il flusso di migranti.

Un modo, forse l’unico, per riscattare e fare ripartire l’integrazione è di rinnovarla, dando maggiore legittimità democratica all’azione politica europea e innestandovi una concreta prospettiva federale, nella convinzione che il vero ‘sovranismo’ non sta oggi nella restituzione di sovranità ai singoli Stati, progressivamente irrilevanti, ma nel conferimento di maggiore sovranità all’Unione europea, che può avere voce in capitolo nei consessi internazionali.

Quella della trasparenza e della democratizzazione è anche una priorità della Commissione europea: il presidente Jean-Claude Juncker persegue “una speciale partnership con il Parlamento europeo” e “un’accresciuta trasparenza” quando si tratta di contatti con gli stakeholders e i lobbisti; e vuole focalizzare l’attenzione del suo team “su quello che davvero conta” invece che disperdere le energie in troppi rivoli – le iniziative legislative sono così scese da 130 nel 2014 a 23 nel 2015 -.

Ma l’impressionante carrellata d’appuntamenti elettorali trasforma il 2017 in un percorso a ostacoli: a gennaio, il 22 e 29, ci sono le primarie della sinistra francese in vista delle elezioni presidenziali; il 15 marzo, si vota in Olanda; il 26 marzo nella Saar in Germania; il 23 aprile, c’è il primo turno delle presidenziali francesi; il 7 maggio, il ballottaggio francese e si vota nello Schleswig-Holstein in Germania; il 14 maggio, si vota nella Renania del Nord – Westfalia, sempre in Germania; e, infine, il 24 settembre ci sono le politiche tedesche. A questi appuntamenti, potrebbero ancora aggiungersi le politiche italiane.

C’è poco da sperare che i leader dei Grandi dell’Unione abbiano colpi d’ala europei in un contesto di sfide nazionali incerte e aperte. Ma è l’ora di aprire viottoli tra le rovine d’un’Unione sbriciolata nei suoi valori fondamentali - lo Stato di diritto e la solidarietà - e marginale nelle crisi mondiali, anche sull’uscio di casa, come la vicenda siriana dimostra. 

Costruire l’Europa con chi?, come?; ma soprattutto perché? Bisogna ridare ai cittadini il senso d’utilità di un progetto e l’orgoglio di appartenervi, migliorare la comprensibilità di ciò che esiste, estendere l’esperienza dell’Erasmus ai licei e a realtà professionali – un ‘Erasmus dei giornalisti’, ad esempio, contribuirebbe a un’informazione senza frontiere e senza pregiudizi -.

Ma ci vogliono pure iniziative che rispondano alle domande dei cittadini andando in senso federale: la gestione del flusso dei migranti e la riforma del diritto d’asilo che diventi europeo; la concessione ai migranti che ne hanno diritto della cittadinanza europea e non di una cittadinanza nazionale; e, ancora, la gestione delle frontiere esterne affidata all’Unione, neutralizzando reciproche diffidenze sui controlli effettuati da altri; e, sempre più ambiziosamente, l’accelerazione della promozione e della creazione di una difesa europea, trasformando in opportunità le sfide lanciateci da Trump ancora prima di insediarsi alla presidenza degli Stati Uniti. Infine, dare all’Europa una voce unica e forte nei consessi internazionali, dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu al Fondo monetario internazionale, dal G8 al G20.

Impensabile e impossibile, nel 2017, realizzare tutto ciò. Ma indispensabile e necessario cominciare a muoversi in queste direzioni e renderlo percepibile ai cittadini: il fermento dell’Unione sarebbe, per tutti, un segnale di risveglio e riscossa.

mercoledì 21 dicembre 2016

Ankara – Berlino: il terrore è un'Idra dalle cento teste

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 20/12/2016

Questa mattina, prendendo la metropolitano per andare a lavorare, la presenza dei due militari in mimetica all'ingresso della stazione m’ha colpito, come se fosse la prima volta che li vedevo. Ho notato che erano due ragazzi particolarmente alti e robusti e pure sorridenti; e che avevano la divisa perfettamente ben curata, come se fossero appena montati. Ma ho soprattutto rimarcato che c’erano, con un misto di preoccupazione e rassicurazione.

La minaccia terroristica, preferiamo tenerla in un cantuccio della memoria, quasi dimenticarla, ignorandone anche i segnali esteriori più evidenti – i militari nelle nostre città, a Roma come a Parigi e altrove -. Salvo poi tirarne fuori di colpo la consapevolezza, con tutto il suo corredo di ansia e di paura.

Ad ogni attacco, reagiamo come se fossimo presi di sorpresa, come se non ce l’aspettassimo. In realtà, sappiamo sempre che può succedere, ma - man mano che la memoria dell’ultima strage s’appanna -  cominciamo a sperare prima e a illuderci poi che non succeda più, che sia stata l’ultima volta, che le teste dell’Idra del terrore siano state mozzate tutte e cento.

Eppure, i presupposti per una recrudescenza del terrorismo c’erano tutti: in Medio Oriente, la situazione ad Aleppo e l’andamento del conflitto in Siria e in Iraq – quando il sedicente Stato islamico arretra sul terreno, cerca spesso di colpire altrove -; in Europa, la prossimità del Natale, che da una parte abbassa, istintivamente, i nostri livelli di guardia individuali e, dall'altra, può esacerbare sentimenti anti-cristiani; e tutto ciò senza addentrarci nel ginepraio turco, dove i possibili moventi e i potenziali sospetti sono sempre più d’uno, gli integralisti, i curdi, l’opposizione militare e laica al regime islamista che rinnega la tradizione d’Ataturk.

Non c’è difesa da una minaccia che può colpire ovunque e chiunque, senza preavviso e con gesti anche individuali. La linea del terrore va ora da Ankara a Berlino. Ma la domenica era stata rosso sangue ad Aden nello Yemen e al castello di Karak, in Giordania, un residuo delle Crociate. L’Idra è sempre viva. Ed i tweet del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump, che sono denunce all’Islam senza distinguo, minacciano, in prospettiva, di nutrirla di nuovo odio.

martedì 20 dicembre 2016

Turchia-Russia: l'assassino dell'ambasciatore mirava a Erdogan e Putin

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/12/2016

Le pallottole letali che hanno ucciso Andrei Karlov erano idealmente destinate ai presidenti Putin e Erdogan per il loro ruolo nella vicenda siriana: il giovane poliziotto delle unità anti-sommossa che ha ucciso l’ambasciatore russo ad Ankara intendeva punire la Russia e la Turchia che, con l’Iran, hanno un ruolo di punta nella vicenda di Aleppo e nei fragili accordi degli ultimi giorni per l’esodo dei civili dai quartieri orientali della seconda città siriana.

Non è un’illazione. L’attentatore stesso l’ha urlato, dopo avere sparato: “Questo è per Aleppo”, roccaforte della resistenza siriana tornata sotto il controllo del regime del presidente Assad, grazie al sostegno delle truppe di Mosca e con la collaborazione diplomatica – e non solo – di Teheran.

L’uccisione dell’ambasciatore coincide con la pubblicazione, da parte del sedicente Stato islamico, di un elenco di sedi diplomatiche russe individuate come obiettivi; e cade alla vigilia d’un incontro a Mosca fra i capi delle diplomazie russa, turca e iraniana, proprio sulla crisi siriana. Non sono certo solo coincidenze.

“L’attacco giova a quanti non vogliono che Mosca ed Ankara migliorino le loro relazioni”, dice Viktor Ozerov, un responsabile della difesa e sicurezza della Federazione russa, citato da Interfax. “Questa è una seria minaccuia a tutto lo spettro delle relazioni russo-turche: economiche, politiche e per quanto riguarda gli sforzi congiunti di risolvere la crisi in Siria. Quanto avvenuto va a vantaggio di chi non vuole che i nostri rapporti migliorino”. A caldo, l’interpretazione di Ozerov è condivisa dal Cremlino e dal Ministero degli Esteri russi. Putin ha sollecitato all'intelligence un rapporto.

Certo, fa specie che la qualità delle relazioni fra Russia e Turchia diventi bersaglio d’attentato, quando, appena un anno fa, i due Paesi erano sull'orlo della rottura, dopo l’abbattimento di un caccia russo ad opera della difesa aerea turca. Ma Putin ed Erdogan sono leader dalle decisioni, e dalle svolte rapide, che non fanno della coerenza il punto focale delle loro azioni. Si sono riavvicinati dopo il presunto golpe turco e hanno entrambi profittato della labile presenza diplomatica americana in questa fase per avere più voce in capitolo in Siria e nel Medio Oriente, l’uno a sostegno del regime di Assad e l’altro a contenimento dei curdi.

Fra i due presidenti, che s’erano già parlati al mattino, discutendo proprio la situazione di Aleppo, c’è stata una telefonata, dopo l’assassinio dell’ambasciatore. L’attentato danneggia l’immagine d’Erdogan, che non riesce a garantire la sicurezza nel proprio Paese: la repressione dell’opposizione politica ed etnica – curda – e della libertà d’espressione, usando la leva del colpo di Stato forse tentato e sicuramente fallito, non impedisce alla Turchia d’essere teatro, quasi quotidianamente, d’attacchi sanguinosi di varia matrice, integralista o curda. Il profilo dell’attentatore di Ankara evoca pure figure che appartengono alla storia turca, come i lupi grigi.

L’uccisione dell’ambasciatore di Mosca mette in allarme tutta la diplomazia internazionale e suscita diffusa condanna. Fra i primi a condannarla, gli Stati Uniti, che denunciano l’atto di violenza “quale ne sia l’origine”. E Washington suggerisce agli americani in Turchia di evitare i paraggi dell’ambasciata, dove sarebbero stati uditi degli spari.

mercoledì 14 dicembre 2016

Usa: petroliere, miliardario, amico di Putin, Trump dà gli Esteri a Tillerson

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/12/2016

La squadra è (quasi) al completo: a sua immagine e somiglianza. Miliardari e generali accomunati dalla fascinazione per l’uomo forte, che sia Donald Trump o Vladimir Putin, e generosi benefattori del partito repubblicano, tutti paiono scelti con la tecnica ‘della persona giusta al posto sbagliato’. Le ultime nomine confermano questa tendenza: Rex Tillerson, 64 anni, petroliere a tempo pieno, ceo della ExxonMobil, sarà il segretario di Stato; Rick Perry, 66 anni, ex governatore del Texas, andrà all'Energia.

C’è un responsabile dell’Ambiente, Scott Pruitt, 48 anni, procuratore generale dell’Oklahoma, scettico sui cambiamenti climatici e vicino all'industria del carbone. C’è un segretario alla Sanità, Tom Price, 62 anni, fra i critici più aspri dell’Obamacare, contrario alla libertà di scelta delle donne sull'aborto. E c’è una responsabile dell’Istruzione, Betsy DeVos, 58 anni, che vuole usare i soldi delle tasse perché le famiglie possano mandare i loro figli alle scuole private.

Sul carro di Tespi della nuova Amministrazione, sono pure saliti due ex rivali di Trump nella corsa alla nomination repubblicana: Ben Carson, 65 anni, un ex grande neurochirurgo, divenuto un guru dell’ovvio, all’Edilizia popolare – ne avversa i programmi, ma lì sta –; e l’ultimo arrivato Perry, quello che nei dibattiti non ricordava le tre priorità del suo programma, all’Energia – è texano, quindi di petrolio ne capisce -.

Se poi a Perry servisse un aiutino, lo può sempre chiedere al neo-segretario di Stato Tillerson. L’annuncio ‘ufficiale’ della nomina dell’ex ceo di un colosso petrolifero l’ha dato con un tweet – e come?, se no - lo stesso Trump, ufficializzando le indiscrezioni che circolavano da giorni, subito dopo avere informato Mitt Romney, il candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2012, che abbozza (“E’ stato un onore essere preso in considerazione”), e altri esclusi eccellenti.

Giù dal carro restano, per il momento, tre dei compagni di strada di Trump più fedeli, che parevano tutti destinati a essere ricompensati: sono il governatore del New Jersey Chris Christie, l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani e l’ex speaker della Camera Newt Gingrich. Christie paga, forse, l’inimicizia del genero di Trump Jared Kushner; Giuliani sconta gli attacchi dei media per conflitti d’interesse presunti; e Gingrich s’è fatto da parte da solo, magari sentendo odore di bruciato.

La scelta di Tillerson ripropone gli interrogativi e le inquietudini sull'orientamento filo-russo, ma soprattutto filo-Putin, del team Trump, proprio mentre infuria la polemica sull'aiuto del Cremlino, via hacker, alla vittoria elettorale del magnate e showman.

Tillerson, texano, ingegnere, per circa 40 anni alla ExxonMobil, salendone tutti i possibili gradini, è già, secondo Forbes, 25° nella classifica degli uomini più potenti al Mondo e potrebbe ora guadagnare posizioni. Considerato uno degli americani più vicini a Putin, con cui ha avuto rapporti d’affari fin dagli Anni Novanta, s’iscrive di diritto al club dei fans di Vlady del team Trump, come il generale Michael Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale, e il segretario per il commercio Wilbur Ross, 79 anni, ovviamente miliardario, che frequenta da tempo uomini d’affari russi formatisi nel Kgb – proprio come Putin -.

Che Tillersone sia un buon manager, non c’è dubbio. Che questo ne faccia un segretario di Stato adeguato, resta da vedere. Contro la sua nomina, hanno preso pubblica posizione diversi leader repubblicani, tra cui i senatori Marc Rubio e John McCain. Ci sarà battaglia al Senato, quando si tratterà di confermarlo nell'incarico.

Ma il petroliere ha anche avuto attestati di stima da James A. Baker III, segretario di Stato ai tempi di Bush padre, oltre che dall'ex vice-presidente Dick Cheney, da Condoleezza Rice, che fu consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato, e da Bob Gates, ex capo del Pentagono. Nessuno di questi esponenti repubblicani è iscritto al club dei fans di Putin.

martedì 13 dicembre 2016

Italia: Dopo Renzi, i test di politica estera del nuovo Governo

Scritto per AffarItaliani il 13/12/2016

Il Governo italiano del dopo Referendum e del dopo Renzi ha l’agenda zeppa di questioni politiche, a partire dalla legge elettorale, e di problemi economico-finanziari, a partire dalle angustie di MPS. Ma il premier Gentiloni e i suoi ministri dovranno subito confrontarsi con impegni internazionali d’interesse italiano o che, addirittura, vedono l’Italia protagonista.

Già alla fine di questa settimana, al Vertice di Bruxelles del 14 e 15, dove l’Unione europea cercherà di mettere insieme i cocci d’una integrazione claudicante e d’una solidarietà appannata, l’Italia dovrà provare a fare valere le sue posizioni su un dossier per lei importante come l’immigrazione, oltre che sulla politica di difesa e sicurezza comune.

E’ la nuova frontiera Ue, cui l’imminente insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump dà slancio e urgenza: la prospettiva di un ‘impoverimento’ della Nato e di un allentamento dei rapporti d’alleanza accresce l’attrazione e le tentazioni d’una difesa comune.

All'incontro fra i capi di Stato e di governo dei 28, l’Unione arriva avendo recuperato l’insperato consenso austriaco, con le presidenziali del 4 dicembre vinte dall'europeista Van der Bellen sull’euro-scettico - e xenofobo - Hoefer, ma con addosso il peso di un’Italia uscita stordita, divisa ed incerta, dal referendum costituzionale.

Con Bruxelles, Roma deve affrontare il negoziato sulla legge finanziaria, senza potersi aspettare, nella fase attuale, e dopo una stagione di pugni sul tavolo e toni guasconi, particolare bonomia. Qui, però, la trattativa è affidata a un ministro che gode di credito presso i suoi interlocutori e la cui competenza è da tutti riconosciuta: Pier Carlo Padoan.

Il fronte europeo è, però, solo uno di quelli che vedranno l’Italia impegnata: il 2017 è molto denso di responsabilità internazionali. Dal 1° gennaio, l’Italia assume la presidenza del G7, che culminerà nel Vertice di Taormina – dove almeno quattro leader saranno esordienti -; e sempre dal 1° gennaio l’Italia torna nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu; e, ancora, deve preparare le celebrazioni a Roma per il 60o anniversario dei Trattati istitutivi delle Comunità europee, il 25 marzo.

L’attuale delicata situazione politica e la prospettiva di elezioni anticipate potrebbero anche indurre il governo Gentiloni a fare cabotaggio in acque internazionali; ma la densità delle responsabilità lo sconsiglia. Anche se la designazione agli Esteri d’un ministro senza vocazione internazionale come Angelino Alfano non garantisce fin da subito l’esperienza e la conoscenza dei dossier che sarebbero state auspicabili per agire in tempi brevi.

domenica 11 dicembre 2016

Usa: Cia/Fbi, quando l'intelligence ci mette il dito (e il naso)

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/12/2016 

Chi di Fbi ferisce, di Cia perisce; o, almeno, rischia di farlo. Nelle ultime battute della campagna per Usa 2016, James Comey, il direttore della polizia federale, aveva giocato sporco a due riprese a favore di Donald Trump, riaprendo e richiudendo a comando l’inchiesta sull’emailgate contro Hillary Clinton. E adesso la Cia del direttore uscente John Brennan, di osservanza democratica, semina di trappole la strada verso la Casa Bianca del presidente eletto.

Per l’intelligence americana, hacker russi “aiutarono Trump a vincere” le elezioni: alla Casa Bianca starebbe per andare un uomo votato più da Putin che dai cittadini americani (che, in effetti, hanno dato più suffragi popolari alla sua rivale).

Il magnate replica via twitter: “E’ l’ora di guardare avanti”, che richiamerebbe il pre-machiavellico ‘cosa fatta capo ha’, se non fosse integrato dall’inevitabile “e di rifare grande l’America”. il suo staff, invece, segna un autogol: “La Cia sono quelli che dissero che Saddam aveva armi da sterminio”: certo, ma a dare loro retta all’epoca fu un’Amministrazione repubblicana, alle cui direttive gli 007 americani s’adeguavano.

In questa transizione eccezionalmente stridente, fra Barack Obama e il suo successore, lo scontro fra il vecchio e il nuovo si combatte su più terreni, mentre le speranze democratiche e progressiste di bloccare Trump sulla soglia della Casa Bianca sono ridotte al lumicino, dopo che un giudice ha detto stop alla riconta dei voti nel Michigan. Salvo l’inedita ribellione di decine di Grandi Elettori, il 19 dicembre, quando si riunirà il Collegio Elettorale, Trump sarà ufficialmente confermato presidente.

A quel punto, le punture di spillo fra chi lascia e chi subentra saranno solo testimonianza dello iato fra le due Amministrazioni. La Cia di Obama, ad esempio, è timorosa che si rimetta in discussione l’accordo sul nucleare con l’Iran e che si torni, nella lotta contro il terrorismo, a torture ammesse dall’Amministrazione Bush e poi bandite, come il ‘waterboarding’, di cui Trump ha più volte fatto l’elogio.

Brennan avverte che denunciare l’intesa con Teheran sarebbe “disastroso”. Ma il suo successore designato Mike Pompeo, deputato del Kansas, Tea Party, origini italiane, considera “una priorità” cancellare l’accordo “con lo Stato che è il principale sostenitore del terrorismo nel Mondo”.

La squadra di Trump non è concorde, sul tema. Il nuovo segretario alla Difesa, James N. Mattis, un ex generale che comandò una divisione dei Marines a Baghdad durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, ha diffidenze verso Teheran, ma non intende stracciare il patto sul nucleare. Per contro, il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael T. Flynn, altro ex generale, è ossessionato dallIran, un po come Pompeo.

La crociata degli hacker dalla Russia per Trump (e contro Hillary) non è un tema inedito. Il WP lo ritira fuori mentre il presidente eletto prosegue nello Iowa il giro di ringraziamento degli elettori, spesso giocato su slogan protezionistici:Comprate americano, assumete americani.

Il Washington Post cita una valutazione segreta della Cia, secondo cui Mosca sarebbe intervenuta, con i suoi hackers, nelle elezioni statunitensi non per minare la fiducia dei cittadini nel sistema e nella democrazia, ma proprio per favorire Trump. Gli 007 statunitensi avrebbero individuato personaggi legati al governo russo che avrebbero fornito a Wikileaks migliaia di email hackerate ai danni del partito democratico e di altre organizzazioni collaterali alla campagna Clinton.

Le conclusioni della Cia sarebbero già state presentate a senatori statunitensi. Il presidente Obama ha appena disposto una verifica "completa" delle attività di hackeraggio collegabili a Usa 2016, chiedendo un rapporto esaustivo prima che lasci la Casa Bianca il 20 gennaio. Trump, però, pare più attento a quel che si dice di lui e del suo show ‘The Apprentice’ che ai dati dell’intelligence.

La Cnn riferisce che il presidente magnate snobba i briefing delle agenzie d’informazione – ne ascolta uno la settimana e delega gli altri al suo vice Mike Pence, mentre Obama vi partecipa sei giorni su sette -.

Trump è invece solerte nello smentire le voci di un impegno attivo nel suo show anche dalla Casa Bianca: ''Non ho nulla a che fare con The Apprentice, tranne il fatto che l'ho ideato e che vi ho una grossa partecipazione azionaria. Non vi dedicherò neanche un minuto'', puntualizza, senza però negare conflitti d’interesse potenziali.

giovedì 8 dicembre 2016

Usa: Trump/Obama, frizione continua, persona dell'anno che divide

Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 08/12/2016

Time lo ha scelto come persona dell’anno – ed era quasi scontato -. Ma la motivazione non è proprio lusinghiera. Per il settimanale, Donald Trump è il "presidente degli Stati divisi d'America": batte Hillary Clinton, ormai insignita del titolo di ‘eterna seconda’, e una terna di personaggi discussi e discutibili, il russo Putin, il turco Erdogan – due suoi amichetti prossimi venturi – e pure l’ideatore di Facebook Zuckerberg, uno che è tutto meno che simpatico.
E’ la 90° volta che Time assegna la prestigiosa copertina. La galleria dei vincitori comprende i satana del XX Secolo: Adolf Hitler fu uomo dell’anno nel ‘38, Josif Stalin lo fu due volte in tempo di guerra.

Time segnala che è difficile misurare l’intensità del terremoto Trump sulla politica e l’economia americana e mondiale: "Davanti a questo barone dell'immobiliare e proprietario di casinò diventato star di un reality e provocatore senza mai aver passato un giorno da uomo pubblico e senza avere mai gestito altro interesse che il suo, ci sono le rovine fumanti di un vasto edificio politico che ospitava partiti, politologi, donatori, sondaggisti, tutti quelli che non lo avevano preso sul serio e non avevano previsto il suo arrivo” alla Casa Bianca.

L’avvicinamento di Trump all’inaugurazione del suo mandato, il 20 gennaio, è tutt’altro che discreto: ogni giorno che passa, il fossato tra il presidente eletto e quello uscente s’allarga. Trump, che pensa d’arrivare sul Campidoglio in elicottero, piccona il lascito di Barack Obama: i grandi disegni internazionali, Cuba, l’Iran, gli accordi commerciali multilaterali; e le riforme interne, cominciando da quella sanitaria; ed anche le decisioni spicciole e politicamente insignificanti, com’è la commessa alla Boeing per il nuovo AirForceOne. Dallo Studio Ovale, Obama replica: “L’elezione di Trump non cancellerà le conquiste fatte”; ma non ci crede neppure lui.

Capita che le impuntature del magnate, spesso affidate ai suoi micidiali tweet ad ore impossibile, roba da mattutino dei monaci di clausura, siano frutto di disinformazione o di malanimo – con l’aereo della Boeing se l’è presa subito dopo che l’azienda di Seattle aveva contestato la sua volontà di aprire contenziosi economici con mezzo Mondo, citando cifre assolutamente sballate -. Ma capita pure che si rivelino meno ingenue di quanto lui stesso non le voglia fare apparire.

Un esempio: la criticatissima telefonata con la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen non sarebbe stata affatto casuale – “Ho risposto a una telefonata ricevuta: che male c’è?” -, ma sarebbe anzi stata frutto di mesi di lavorio preparatorio di Bob Dole, candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 1996 e una sorta di curatore degli interessi dell’isola tra Usa e Cina.

Per riparare un po’ i danni, il presidente magnato ha scelto come ambasciatore a Pechino un vecchio amico del presidente Xi, il governatore dello Iowa Terry Branstad: una decisione bene accolta, ma che non basta certo a sciogliere tutti i nodi del contenzioso Usa-Cina.

Trump ha proseguito il suo giro di ringraziamento degli elettori americani in North Carolina e ha ieri aggiunto un tassello alla sua squadra, scegliendo come responsabile della Sicurezza interna l’ennesimo generale, John Kelly, un marines proprio come James ‘cane pazzo’ Mattis,  il nuovo capo della Difesa Usa. Nomine che richiedono una deroga del Congresso alle attuali norme: “Se non ci stanno – ha detto Trump in North Carolina, con Mattis accanto -, saranno in molti ad arrabbiarsi”.

Kelly, 66 anni, non è un patito di Trump: ufficiale duro e rigoroso, un figlio caduto in Afghanistan nel 2010, ha collaborato in fasi diverse con l’Amministrazione Obama e dovrà gestire dossier delicati e prioritari come il controllo dell’immigrazione e la gestione degli ‘irregolari’. Per il segretario di Stato, la casella più importante rimasta vuota, bisogna ancora attendere.

Un altro generale, Michael T. Flynn, che sarà consigliere per la Sicurezza nazionale, ha invece perso qualche punto: suo figlio, Michael G., che era nel ‘transition team’ del presidente eletto, ne è stato cacciato perché diffondeva sui social notizie false e diffamanti su collaboratori di Hillary Clinton, accusati senza prova di pedofilia e altre nefandezze.

mercoledì 7 dicembre 2016

Usa: Trump presidente, una squadra di generali, razzisti, miliardari

Pubblicato da www.AffarInternazionali.it lo 07/12/2016 e, in altra versione, da la Voce e il Tempo

Dal giorno che Donald Trump ha conquistato la Casa Bianca, pur avendo ottenuto oltre due milioni di voti popolari in meno di Hillary Clinton, l’1,5% dei suffragi espressi, il tam-tam dei media batte lo stesso annuncio: “Il presidente sarà diverso dal candidato”. Ora, a parte che non si capisce come un uomo di 70 anni possa cambiare la sua indole da un giorno all'altro, specie dopo essere stato premiato per i suoi atteggiamenti aggressivi, sessisti, grossolani, è un fatto che tutte le scelte finora fatte inducono a pensare esattamente l’opposto.

Prendiamo la composizione della squadra di governo, le cui caselle Trump riempie più celermente di tutti i suoi predecessori, almeno a partire da Ronald Reagan. Il magnate e showman snocciola nomine, che vanno (quasi) tutte nello stesso senso: pare di stare in uno di quei film sul razzismo dell’aristocrazia del denaro del Profondo Sud, l’Alabama di ‘A spasso con Daisy’, o il Mississippi di ‘The Help’. Ma Steve Bannon, il super-consigliere, megafono mediatico dei suprematisti bianchi, sarebbe a suo agio nel Texas de ‘La Caccia’.

Le scelte cadono su ex generali e miliardari in servizio permanente effettivo. Pochi invece i politici.

La ricerca del segretario di Stato: ridda di nomi

Trump è ancora alla ricerca di un segretario di Stato potabile, che gli dia credibilità internazionale e che accetti d’entrare nella sua Amministrazione. Nelle quotazioni della stampa, i favoriti sono tre: Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2012, mai in sintonia con la campagna del magnate; Rudolph Giuliani, sindaco di New York l’11 Settembre 2001, il leader repubblicano più vicino a Trump; e David Petraeus, generale in congedo ed ex direttore della Cia. Nessuno dei tre ha un profilo ideale: Romney è l’anti-Trump per antonomasia fra i repubblicani; Giuliani è stato indebolito da rivelazioni dei media su rapporti d’affari con Paesi terzi, che configurano conflitti d’interesse; Petraeus uscì di scena nel 2012 per uno scandalo che ne offuscò l’immagine (e l’affidabilità).

Così, la rosa dei nomi s’allarga. Il New York Times rimette in pista l’ex ambasciatore degli Usa all’Onu John R. Bolton, un diplomatico competente, ma rigido e scostante nell’approccio: e cita pure Jon M. Huntsman, ex governatore dello Utah, ex ambasciatore in Cina e candidato nel 2012 alla nomination repubblicana; Joe Manchin III, un senatore democratico della West Virginia; e, infine, Rex W. Timmerson il presidente e ceo di Exxon Mobil. Il presidente eletto ha anche sondato il senatore del Tennessee Bob Corker e il generale dei marines John Kelly – il figlio maggiore cadde in Afghanistan nel 2010 -, nomi apparentemente deboli per quel ruolo.

L’eterogeneità delle ipotesi indica che la ricerca del segretario di Stato è complessa: non è facile trovare un candidato preparato e affidabile che accetti di lavorare al fianco di un presidente capace di creare, in ogni momento, più o meno consapevolmente, un incidente diplomatico. Trump rimette in discussione la distensione con Cuba, al momento stesso della morte di Fidel Castro; intende ripristinare l’uso della tortura nella lotta contro il terrorismo, nonostante le reticenze delle agenzie di sicurezza che ci sono già passate; infiamma le relazioni con la Cina, rispondendo alla telefonata della presidente di Taiwan Tsai Ing-wen (“Che male c’è?, mi ha chiamato lei”).

La sicurezza in mano ai militari: il nodo dell’Iran

Il segretario alla Difesa è James N. Mattis, 66 anni, generale in congedo che comandò una divisione dei Marines a Baghdad durante l’invasione dell’Iraq nel 2003: avido lettore di storia militare, ha nomignoli come ‘il monaco guerriero’, per il suo carattere ascetico – non è mai stato sposato -, oppure ‘cane pazzo’. Ai suoi soldati, impone di studiare usi e costumi delle terre dove sono mandati in missione.

Mattis guarda con preoccupazione all’Iran, ma non è favorevole a stracciare l’accordo nucleare definito con Teheran. In merito, John Brennan, direttore della Cia uscente, ha lanciato un monito alla futura Amministrazione: denunciare l’intesa sarebbe “disastroso” e potrebbe aprire una corsa agli armamenti in Medio Oriente. Ma il successore di Brennan sarà Mike Pompeo, 59 anni, deputato del Kansas, origini italiane, un Tea Party vicino al vice-presidente Mike Pence: per lui, la priorità è l’abolizione dell’accordo con l’Iran, perché fatto “con lo Stato principale sostenitore del terrorismo al Mondo”.

Il consigliere per la Sicurezza nazionale sarà il generale Michael T. Flynn, 57 anni, un democratico uscito dall’Amministrazione Obama ed entrato nelle fila repubblicane in campagna elettorale. Come ambasciatrice all’Onu, altra figura importante della politica estera e di sicurezza, Trump ha scelto Nikki Haley, 44 anni, governatrice della South Carolina, origini indiane, che non lo aveva sostenuto nella campagna. Mentre il capo dello staff alla Casa Bianca sarà un repubblicano ‘doc’, fra i pochi ad essergli stato vicino: Reince Priebus, 44 anni.

Tesoro, Giustizia e altre nomine

Alcune delle nomine finora fatte vanno esattamente in senso opposto alle promesse più improbabili del Trump candidato, a dimostrazione che la coerenza non è una caratteristica del presidente eletto: s’era presentato come l’incubo di Wall Street e della finanza protetta da Hillary Clinton e sceglie due finanzieri miliardari, Steven Mnuchin e Wilbur L. Ross, al Tesoro e al Commercio. Mnuchin, 54 anni, ha gestito gli aspetti finanziari della campagna presidenziale,  ha legami con Hollywood e con Wall Street, ma non ha esperienza di gestione della cosa pubblica. Ross, 79 anni, fa l’investitore ed entra in squadra, come molti altri, perché è un grande finanziatore del partito repubblicano – suo vice è Todd Ricketts, 46 anni, proprietario dei Chicago Cubs che hanno appena vinto il campionato di baseball e figlio del fondatore di Ameritrade: nessuno di questi appare in sintonia con i minatori degli Appalachi e il metallurgici della Pennsylvania che hanno consegnato a Trump la Casa Bianca con i loro voti.

Il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, 69 anni, sarà segretario alla Giustizia: è favorevole all’espulsione degli immigrati irregolari ed è contrario all’aborto ed ai matrimoni fra omosessuali. Nel suo cv, venature razziste, costategli il posto di giudice federale, e una battuta sul Ku Klux Klan: “Mi piacevano, ma poi ho saputo che fumano marijuana”.

Trump ha pure nominato uno dei suoi rivali per la nomination repubblicana, Ben Carson, 65 anni, neurochirurgo nero, all’Edilizia pubblica – va già bene che un creazionista come lui non sia finito altrove -; Tom Price, 62 anni, deputato della Georgia, fra i critici più radicali dell’Obamacare, andrà alla Sanità; Elaine Chao, 63 anni, origini asiatiche, già ministro con George W. Bush, ai Trasporti; e Betsy DeVos, 58 anni, altra miliardaria, donatrice repubblicana, all’Istruzione - vuole dare i soldi dei contribuenti alle famiglie perché possano mandare i loro figli alle scuole private -.

domenica 27 novembre 2016

Usa 2016: Trump, il precedente di Reagan?, un parallelo azzardato

Scritto per Il Fatto Quotidiano dopo l'Election Day di Usa 2016 e non utilizzato

Un presidente che viene da un altro mondo?, estraneo alla politica e all’Amministrazione? Sai che novità! Gli Stati Uniti lo hanno già avuto. Ed è pure stato un grande presidente: Ronald Reagan, che fu alla Casa Bianca dal 1981 al 1989, aveva un passato da attore di film western di serie B. Fu capace di sconfiggere, in rapida successione, il capo indiano Tecumseh, la cui maledizione datata prima metà del XIX Secolo lo condannava a morte – lui, invece, schivò la pallottola dell’attentatore quel tanto che bastava per sopravvivere all’agguato – e la stagnazione dell’economia liberando l’energia del liberismo – con l’aiuto della sua grande amica Margaret Thacher, premier britannico – e di vincere, d’un colpo solo, la Guerra Fredda e l’Unione Sovietica, dopo averla sfidata sulla soglia di casa con gli euromissili ed avere poi fatto comunella a Reykjavik con Mikahil Gorbaciov.

Magari, fra qualche anno qualcuno occuperà questa stessa colonnina di giornale per raccontare come Donald Trump sarà stato un grande presidente, avrà sconfitto il terrorismo internazionale, ridotto a compagno di bisboccia Vladimir Putin e restituito l’America alla sua grandezza – termine di riferimento?, l’America di Reagan, ovvio -.

Ma a una qualsiasi analisi il parallelo tra Reagan e Trump appare per il momento azzardato. Perché Reagan, quando arrivò alla Casa Bianca, aveva abbandonato da parecchi anni, da quando cioè aveva appena superato i cinquanta, la colt e gli speroni da set ed aveva già esercitato un doppio mandato di governatore della California, il più popoloso Stato dell’Unione e allora la 7° economia mondiale. Eletto nel 1966, rieletto nel 1970, nel 1974 non si era più presentato perché voleva già prepararsi alla Casa Bianca: aveva fatto un tentativo da indipendente fallito, si mise in corsa nel 1976 per la nomination repubblicana, la ottenne nell’ ’80 e vinse.

Trump, che entra alla Casa Bianca più anziano di un anno di quando vi entrò Reagan la prima volta, non ha nessuna esperienza di gestione della cosa pubblica e, fino a questa campagna, non aveva mai manifestato l’interesse a farsela. Chissà se, per selezionare i ministri, userà i sistemi del boss del suo show tv The Apprentice.