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martedì 30 settembre 2014

Informazione europea: verso una generazione di giornalisti più preparati

Scritto per EurActiv.it il 30/09/2014

Ci sono le premesse per una generazione di giornalisti italiani –la prossima- che non confonda più Consiglio europeo e Consiglio d’Europa, o Corte di Giustizia dell’Ue di Lussemburgo e Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, o una direttiva e un regolamento; e che sappia, senza sbagliare andando a spanne, che il Consiglio dei Ministri è l’organo legislativo dell’Unione europea, mentre la Commissione è l’Esecutivo, il ‘governo’.

L’esigenza di una migliore preparazione europea dei giornalisti italiani era già emersa da tempo, ma s’è fatta più acuta da quando –complice la crisi e il Patto di Stabilità, i tetti al deficit e le previsioni di rientro dal debito, la dialettica tra rigore e crescita- di Ue sui media s’è cominciato a parlare più che mai in passato. In modo critico, ma sovente a sproposito: non per le critiche, che possono pure essere fondate, ma per la mancanza di conoscenza dei fondamentali di chi dà le notizie –le fonti- e di chi le riporta –i media, appunto-.

In giro per l’Italia, quest’anno, da Verona a Catania, da Ancona a Bari, e a più riprese a Roma, ho personalmente constatato l’interesse suscitato dall’informazione europea, specie fra i giovani. Ma l’esempio più clamoroso l’ho avuto ieri, a Campobasso, al corso ‘giornalismo e politiche europee’ organizzato dalla Regione Molise, nell’ambito dell’AdriGov –l’Adriatic Governance Operational Plan della Euro-Regione Adriatico-Ionica, di cui è coordinatore Francesco Cocco- in collaborazione con molti altri enti e con il sostanziale concorso dell’Associazione Tia.

Oltre 150 le domande di iscrizione –non tutte hanno potuto essere accolte-, oltre cento le persone –giornalisti, ma anche funzionari e studenti- che affollavano la Sala del Parlamentino del Palazzo della Presidenza della Regione, ad ascoltare validissimi professionisti dell’informazione come Giorgio Giovannetti e vari altri e protagonisti di primo piano della comunicazione e della formazione.

Un successo che testimonia l’esigenza di saperne di più dell’Unione e dell’integrazione; e di avere gli strumenti per fare la tara alle notizie della politica non sempre filtrate da media consapevoli. E un successo che prova come una buona iniziativa può ricevere una risposta positiva anche lontano dai soliti circuiti dei ‘media show’.

domenica 28 settembre 2014

Coalizione anti-Is: Obama e i generali, scontro per militari sul terreno

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/09/2014

“Obama dove vai?, se gli anfibi dei soldati sul terreno non ce li hai”. I dubbi degli strateghi, davanti alle scelte militari del presidente americano -guerra al Califfato sì, ma solo dal cielo, senza uomini in campo- diventano concreti nelle parole del capo di Stato Maggiore degli Stati Uniti, generale Martin Dempsey; “Per riconquistare i territori occupati dallo Stato islamico in Siria, serve una forza di 12/15 mila uomini.

Dempsey chiarisce che non pensa a soldati americani, o della coalizione, ma a ribelli siriani: “Sono fiducioso che possiamo addestrarli”, aggiunge il generale, specificando che dovranno, però, avere “dei leader e una struttura politica. E per questo ci vorrà tempo".

In realtà, i militari americani non hanno –comprensibilmente- fiducia nella possibilità che i ribelli siriani ‘moderati’ acquisiscano in breve la forza d’urto e la capacità militare necessarie a contrastare gli jihadisti, che, nonostante i raid aerei, relativamente efficaci contro unità mobili e ben disseminate sul territorio, mantengono una notevole vitalità operativa.

Lo dimostra la vicenda di Kobane, città curda nel Nord della Siria, quasi al confine con la Turchia, accerchiata da giorni. I reporter della Bbc in loco hanno avvertito, la notte scorsa, esplosioni, ma l’attacco aereo non ha allenato la morsa integralista. Circa 150 mila curdi della zona hanno già cercato rifugio in Turchia.

Obama vuole mantenere la promessa di non rimandare truppe in Iraq, ma i generali temono che l’offensiva aerea si riveli inefficace o, almeno, non determinante. E il quotidiano online TheDailyBeast.com si chiede se il presidente e i generali possano viaggiare di conserva: “Obama s’è impegnato a non coinvolgere truppe di terra; i vertici delle forze armate intendono raccomandargli di farlo”. La pensa così Dempsey; e la pensa pure così il capo dell’Esercito, generale Ray Odierno, una lunga esperienza in Iraq.

Giorni fa, il Sunday Times scriveva che, nonostante lo abbia ripetutamente escluso, Obama dovrà, alla fine, inviare "truppe sul terreno" in Siria se vorrà effettivamente riuscire a “indebolire e distruggere" gli integralisti sunniti. La fonte era il deputato repubblicano Peter King, appena aggiornato dai vertici del Pentagono sulla strategia contro l’Is. King, membro della commissione Sicurezza interna e presidente della subcommissione anti-terrorismo e intelligence della Camera, crede che l'Occidente ha di fronte "una lunga e dura guerra".

Questo lo dicono tutti, Obama, Cameron, Renzi, i generali. Certo, le truppe sul terreno non devono necessariamente essere americane o occidentali. Ma sui ribelli siriani, come sui regolari iracheni che, dopo anni d’addestramento e d’equipaggiamento americano, si squagliano davanti alle milizie, non c’è da fare troppo conto.

Una mano potrebbero darla i turchi, che sono soldati tosti: il presidente turco Erdogan, all’inizio defilato rispetto alla coalizione, adesso s’è deciso a entrarci e s’è pure convinto che i raid non bastano e che serve un'azione di terra. Le forze armate turche potrebbero cercare di creare una zona di sicurezza in Siria al confine con la Turchia, arginando gli sconfinamenti di chi fugge dalla guerra. In un'intervista al quotidiano Hurriyet, Erdogan, di ritorno dall’Onu, ha detto che si sta negoziando per determinare chi possa partecipare a un'operazione di terra: "Ogni Paese avrà un proprio compito … Qualunque sia il nostro lo assolveremo". Il Parlamento di Ankara si pronuncerà il 2 ottobre.

In Siria, sono proseguite le missioni aeree Usa e arabe, su obiettivi dell’Is nell’Est del Paese. Testimoni riferiscono di almeno 31 esplosioni nella provincia di Raqqa, la capitale del Califfato. Attacchi sarebbero stati pure compiuti vicino al villaggio di Tadmar, nella provincia di Homs. Sono complessivamente sette gli obiettivi centrati, per il Pentagono.

In Iraq, l'esercito iracheno, che ha ricevuto dalla Russia 10 elicotteri d’attacco, annuncia di avere inflitto alle milizie 70 perdite e di avere ripreso 24 villaggi della provincia sunnita di Diyala, a nord di Baghdad. Due Tornado britannici siano già entrati in azione, dopo il sì di Westminster ai raid: le missioni della coalizione hanno centrato tre obiettivi nella zona di Erbil.

sabato 27 settembre 2014

Coalizione anti-Is: c'è pure Cameron; e l'Italia valuta sforzo in più

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/09/2014

Una gragnola di voti britannici sulle milizie jihadiste, già sotto le bombe dei raid americani, francesi e arabi. I Comuni di Londra, riuniti in sessione straordinaria, approvano a larghissima maggioranza (524 sì, 24 no) una mozione del governo che autorizza attacchi aerei in Iraq –ma non in Siria- contro il califfato. “Nessun soldato britannico –però- sarà schierato nelle zone di combattimento”: da Washington a Londra, l’equivoco della guerra a metà rimane irrisolto.

La Gran Bretagna fa un passo in più dentro la coalizione messa insieme dagli Stati Uniti. Dopo il sì agli attacchi di Belgio, Olanda e –ieri- Danimarca (sette caccia F-16), anche l’Italia, finora ferma a un aereo cisterna, potrebbe rivedere la sua posizione: “Valuteremo se serve uno sforzo in più”, dice il ministro della Difesa Roberta Pinotti.

Parlando con Obama, il presidente turco Erdogan, finora defilato nella coalizione, promette: “D’ora in poi, faremo del nostro meglio" contro l'Is.

Ai Comuni, il premier Cameron avverte che la lotta allo Stato islamico durerà "non mesi, ma anni". Sei caccia Tornado della base britannica di Akrotiri, a Cipro, sono pronti a entrare in azione, dopo avere già compiuto voli di ricognizione sulle postazioni jihadiste in Iraq.

Bisogna fermare l’avanzata integralista "perché è una minaccia diretta alla Gran Bretagna", afferma Cameron. In tutto l’Occidente resta altissima l'allerta terrorismo: a Londra, e in Germania, ci sono stati altri arresti; e nove sospetti sono stati fermati tra la città spagnola di Melilla e quella marocchina di Nador - capo della cellula era il fratello di un militare spagnolo -.

Anche se è giallo sulla portata delle minacce di cui ha parlato all’Onu il premier iracheno al Abadi. Usa e Francia non ne avallano l’attendibilità. In Italia, dice il ministro dell’Interno Alfano, non risulta nessuna minaccia specifica, ma la sorveglianza è stata ulteriormente rafforzata sugli obiettivi più sensibili.

Tra giovedì e venerdì, aerei della coalizione, americani e arabi, hanno bombardato, per la seconda notte consecutiva, le installazioni petrolifere sotto il controllo dello Stato Islamico in due province siriane, Deir Ezzore e Hasakeh, e un centro di comando. Il pompaggio del petrolio è sospeso in sei località, quattro carri sono stati distrutti.

Le missioni congiunte su Iraq e Siria proseguono da martedì, ma dal Qatar, uno dei Paesi del Golfo in prima linea, viene un monito: “I raid non avranno successo finché al Assad resterà al potere”, dice lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani alla Cnn.

Sarebbero almeno 50 gli jihadisti uccisi dai raid aerei nella provincia irachena di Anbar - una decina le incursioni su tutto l’Iraq -. Eppure, l'Is continua ad avanzare in Siria verso il confine turco: conquistate decine di villaggi attorno la città curda di Kobane, che resiste, i miliziani avrebbero ora preso una collina fin qui tenuta dai peshmerga.

Secondo l’anti-terrorismo Ue, sono oltre 3000 gli europei che combattano con le milizie jihadiste. Pure i servizi di sicurezza russi ne sono preoccupati: degli stranieri arruolati dallo Stato islamico -fino a 50 mila-, alcuni arrivano dalla ex Urss e il loro rientro porrebbe una "seria minaccia": l'Is è una "grande forza, che in assenza di contromisure adeguate è in grado di minare l’attuale sistema delle relazioni internazionali e della sicurezza".

venerdì 26 settembre 2014

Coalizione anti-Is: quella di Obama piace più di quella di Bush

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/09/2014

La ‘coalizione dei volenterosi’ di Obama contro il califfo suscita nel Mondo meno ostilità di quella di Bush per invadere l’Iraq: né l’una né l’altra hanno formalmente l’avallo dell’Onu, ma questa è ‘benedetta’ dal segretario generale Ban Ki-moon, mentre quella era apertamente bollata dall’allora segretario generale Kofi Annan come una violazione del diritto internazionale.

Il clima, intorno a questa coalizione, è piuttosto simile a quello della Guerra del Golfo del 1991, quando gli Stati Uniti di Bush padre guidarono un’alleanza fra 35 Paesi per restituire libertà e sovranità al Kuwait occupato da Saddam Hussein e annesso dall'Iraq –allora, pure Tornado italiani parteciparono ai raid aerei-.

O a quello dell’intervento in Afghanistan nel 2001, immediatamente dopo l’attacco all'America dell’11 Settembre, per rovesciare il regime di talebani che ospitava e proteggeva i terroristi di al Qaeda. Né la Guerra del Golfo né l’intervento in Afghanistan erano frutto d’una legittimazione Onu con tutti i crismi, ma furono sostanzialmente percepiti come legittimi dalle opinioni pubbliche (non solo occidentali).

L’uso della forza contro il califfo ricorda più quei precedenti che l’invasione dell’Iraq nel marzo 2003: un’aggressione motivata con falsi pretesti, che non convinsero né i governi né i cittadini, anche fra gli alleati più stretti degli Usa. Un mese prima, la prestazione al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di Colin Powell per dimostrare che l’Iraq possedeva armi di distruzione di massa fu uno dei momenti più bassi della diplomazia statunitense di tutti i tempi: il generale che poteva essere presidente non se n’è mai riscattato.

L’Iraq e la Siria sono, fin dalle loro moderne origini, un secolo fa, Stati fragili dai confini artificiosi. Il governo di Baghdad è un derivato dell’invasione Usa. Il regime di Damasco è inviso a larga parte della sua popolazione. Ma il Califfato che pretende di creare uno Stato ‘ex novo’ su territori altrui è una struttura illegittima e le milizie jihadiste collezionano atti di barbarie e violazioni dei diritti dell’uomo, dalla persecuzione di minoranze religiose ed etniche (cristiani, yazidi, curdi) all'esecuzione di ostaggi, minacciano apertamente di atti terroristici l’Occidente e l’Islam –sciita, ma pure sunnita istituzionale-.

Nessuno sta col califfo, neppure la Russia, che sta con al Assad; neppure la Cina, che sta da parte. Mosca e Pechino non entrano nella coalizione, ma restano discreti sulla legittimità internazionale. Obama ha già trovato più volenterosi –una quarantina, senza la Slovenia, contata a sua insaputa- di Bush padre; e oltre il doppio dei lacchè agli ordini di Bush figlio.

Coalizione anti-Is: il futuro ha i colori della minaccia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/09/2014

Il futuro ha i colori della minaccia: quelle di attentati che arrivano dal califfato. I Paesi occidentali rafforzano le misure di sicurezza sul proprio territorio. Il premier iracheno al Abadi, all’esordio ‘fuori le mura’ all’Onu, dice che cellule terroristiche stanno preparando attacchi negli Usa e in Francia: tra gli obiettivi, stazioni della metropolitana. Per sospetti di terrorismo, la polizia londinese ha arrestato 9 persone, tra cui un predicatore radicale.

Per restituire al futuro i colori della speranza, il premier Renzi, parlando all’Onu, conferma l’adesione dell’Italia alla coalizione contro il califfato, che accusa di genocidio: “E un pericolo per l’intera umanità”.

Gli Stati Uniti e i loro alleati arabi hanno attaccato la scorsa notte le installazioni petrolifere controllate dallo Stato islamico nell'Est della Siria. L’aviazione francese ha invece bombardato sull'Iraq, il giorno dopo la decapitazione d’un ostaggio in Algeria –il boia sarebbe stato identificato-.

Per la prima volta dall'estensione alla Siria, martedì scorso, dei raid internazionali, aerei americani, sauditi e degli Emirati -10 dei 16 velivoli impegnati nelle missioni erano arabi- hanno colpito 12 raffinerie. Installazioni che  producono, secondo il Pentagono, tra i 300 e i 500 barili di petrolio al giorno e che fruttano al califfato due milioni di dollari al giorno. Gli alleati mirano a mettere a secco lo Stato islamico, che vende il petrolio a intermediari senza scrupoli.

I francesi sono entrati in azione per la seconda volta da quando si sono uniti alla campagna aerea. Le autorità di Parigi intendono, inoltre, “intensificare l’appoggio alle forze d’opposizione siriane che combattono le milizie jihadiste”.

Secondo fonti siriane, i raid hanno finora eliminato 129 combattenti integralisti stranieri e 12 siriani. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha votato all’unanimità una risoluzione che impone a ogni Stato, sotto pena di sanzioni, di impedire ai propri cittadini di arruolarsi in milizie estremiste.

Il tema della lotta all’integralismo continua a dominare il dibattito di fronte all’Assemblea generale.
Il presidente iraniano Hassan Rohani denuncia “errori di strategia” dell’Occidente in Medio Oriente e specie in Siria –Teheran è alleata del regime di Damasco-, citando “le aggressioni militari contro l’Afghanistan e l’Iraq e le ingerenze inappropriate in Siria”.

Belgio e Olanda ufficializzano l’adesione alla coalizione con aerei F-16. E il premier Cameron chiederà oggi ai Comuni di approvare la partecipazione britannica ai raid internazionali, senza essere “pietrificati dalla paura” di ripetere l’errore del 2003 in Iraq.

Sul terreno, in Iraq le milizie jihadiste hanno fatto esplodere un santuario musulmano e avrebbero minato (o distrutto) una chiesa cristiana a Tikrit, città che controllano, mentre si combatte nella provincia di al-Anbar. In Siria, la città curda di Kobané resta sotto assedio -36 i caduti ieri-, dopo che i miliziani hanno preso una sessantina di villaggi nel nord del Paese al confine con la Turchia.

giovedì 25 settembre 2014

Colazione anti-Is: parole di Obama e raid non fermano milizie

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/09/2014
Dalla tribuna dell’Onu, il presidente Usa Barack Obama invita il Mondo “a unirsi” per “distruggere lo Stato islamico” in Iraq e in Siria, proprio mentre, in Algeria, gli integralisti diffondono il video della decapitazione d’un ostaggio francese: un rituale simile, non identico, a quello delle esecuzioni dei tagliagole dell’Is. Nei cieli del Califfato, proseguono gli attacchi aerei contro le milizie jihadiste condotti dagli americani e dai loro alleati arabi: 4 sulla Siria,uno sull’Iraq.
“Il solo linguaggio che assassini come questi capiscono è quello della forza”, afferma Obama, che chiede alla comunità internazionale di affrontare unita la sfida della "rete della morte" e si rivolge ai musulmani: "Gli Stati Uniti non sono e non saranno in guerra contro l'Islam", una religione che "insegna la pace". Poi ammette che contro il terrorismo non s’è fatto abbastanza.
Lo Stato islamico, dice Obama all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, "deve essere distrutto": sul terreno, ma anche su internet e nei social media. "Non cederemo alle minacce", avverte, forte del fatto che già 40 Paesi si sono uniti nella coalizione anti-Is: ”Il futuro non è di chi distrugge, ma di chi costruisce”.
Il presidente invita "quanti si sono uniti" agli jihadisti a "lasciare il campo prima possibile": gli Usa non intendono occupare alcun Paese, ma "sono al fianco degli iracheni e dei siriani che si battono per redimere le loro comunità". Passaggi del discorso sono anche stati dedicati al Medio Oriente, all’Iran –un invito a Teheran a cogliere l’opportunità “storica” di distensione- e alla crisi ucraina.
Il premier Renzi plaude al discorso di Obama, con cui scambia qualche battuta, e conferma: “Facciamo parte della coalizione”, senza, però,partecipare ai raid.
L’esecuzione dell’ostaggio francese Hervé Gourdel, 55 anni, guida alpina, segue il rigetto, da parte del presidente francese François Hollande, dell’ultimatum dei rapitori, il gruppo Jund al-Khaliga, vicino all’Is: “Sospensione della partecipazione della Francia ai raid sulla Siria”.
E, invece, la scorsa notte, i raid sono continuati e hanno avuto un “forte impatto”, per il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Susan Rice. Non è però confermato che sia stato ucciso Muhsin al-Fadhli, da tempo esponente di al Qaeda, leader della cellula Khorasan, considerata la più pericolosa del Fronte al-Nusra.
A due giorni dal'ampliamento della campagna di attacchi contro l'Is, appare chiaro che quella in atto è solo "la prima ondata”. La seconda notte di raid con aerei, droni, missili su obiettivi in Siria mirava a “posizioni e vie d’approvvigionamento” delle milizie jihadiste, intorno a Kobané, località curda circondata dagli integralisti, e nella zona di Aleppo, nel Nord del Paese. Il Comando centrale Usa annuncia la distruzione di mezzi da trasporto dell’Is.
Secondo alcuni bilanci, sotto le bombe gli jihadisti avrebbero già perso 120 uomini. Ma fonti dell’Is sminuiscono le stime: le milizie si sarebbero disseminate sul terreno per attenuare l’impatto dei raid. E fonti curde da Kobané indicano che i miliziani avrebbero trasferito lì da Raqqa uomini e mezzi.

La coalizione potrebbe presto avere un sostegno militare più attivo da Gran Bretagna e Turchia, oltre che da Belgio e Olanda. All’Onu, gli Usa lavorano per una risoluzione che consenta d’arginare il flusso dei “combattenti terroristi stranieri” che s’arruolano nelle milizie: un centro studi londinese calcola che gli stranieri in armi sarebbero già 12mila da 74 Paesi diversi, fra cui 3000 europei. E dall’Occidente arrivano pure fondi, come 1150 milioni di Iva italiana sottratti al fisco e finiti all’Is.

mercoledì 24 settembre 2014

Servizio pubblico europeo crossmediale: i nodi del dibattito

Scritto per Media Duemila online ed EurActiv.it il 24/09/2014

Missione, governance, finanziamento d’un servizio pubblico evoluto da audiovisivo a crossmediale: sono i temi della riflessione portata avanti per cinque anni da Infocivica e giunta ormai al momento della sintesi. L’ultimo seminario dell’associazione, svoltosi nell'ambito del Prix Italia, era dedicato, nel titolo, alla governance e alle regole del gioco, ma è in realtà servito a fare il punto del percorso fin qui fatto dal ‘gruppo europeo’ di ricercatori ed operatori.

Dopo l’apertura dei lavori affidata a paolo Morawski, segretario generale del prix Italia, a fare da tela di fondo alla discussione sono state le relazioni introduttive del dottor Giacomo Mazzone (Uer) e dei professori Matthew Hibberd, Giuseppe Richeri e Michele Sorice. Le conclusioni sono state affidate a Calo Rognoni, giornalista, direttore, già vice-presidente del Senato e consigliere della Rai, e a Claudio Cappon, vice-presidente dell’Uer-Ebu, già direttore generale della Rai.

A fare da interlocutori e provocatori, i responsabili di Infocivica: il presidente Massimo De Angelis, il vice-presidente Gianni Bellisario, il segretario generale Bruno Somalvico; e Manlio Cammarata, giornalista e consulente editoriale, Nicola D’Angelo, giurista e magistrato, Piero De Chiara, esperto di media e comunicazioni elettroniche, Stefano Lupi delle relazioni istituzionali e internazionali Rai.

In questi anni, la riflessione del gruppo s’è sviluppata nonostante un doppio ostacolo. Da una parte, essa ha coinciso con la profonda crisi economica che ha paralizzato l’integrazione europea, concentrando l’attenzione sui temi del rigore e del rispetto delle regole e sottraendo spazio, oltre che risorse, ad altre aree di possibile approfondimento dell’integrazione. Dall'altra parte, ha faticato, come avviene in tutti gli esercizi di sistematizzazione teorica, a tenere il passo con la rapidità dell’innovazione tecnologica, che modifica di continuo il panorama mediatico.

In mancanza di un quadro di riferimento europeo, i modelli nazionali sono evoluti in modo autonomo e talora divergente, avendo come unico vincolo comune la necessità di ridurre i costi. C’è pure incertezza sull'obiettivo di fondo, tra chi s’accontenta d’identificare criteri comuni per i media di servizio pubblico europei e chi pensa si possa arrivare a un vero e proprio servizio pubblico europeo,

Adesso, si può aprire in Europa una fase nuova, dal punto di vista economico con il superamento della crisi –sperando che i dati lo confermino- e dal punto di vista istituzionale con l’insediamento della nuova Commissione e il rinnovo dei Vertici. Mentre, in Italia, arrivano a compimento scadenze cruciali per il servizio pubblico audio-visivo, dal rinnovo del contratto di servizio a quello della 
convenzione.


Ci sono le circostanze e i presupposti per un’accelerazione del processo, contando pure sul lavoro già fatto dal Consiglio d’Europa. Un documento di sintesi della riflessione di Infocivica è atteso entro l’autunno.

Coalizione anti-Is: Siria, tempesta di fuoco sulla capitale del califfo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/09/2014

L’offensiva aerea degli Stati Uniti e di cinque loro alleati arabi inizia nella notte, poche ore prima che il presidente Obama parli all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: “Questa non è la guerra dell’America da sola … Vogliamo sventare attacchi terroristici, uno ci siamo già riusciti”.

Le bombe americane e arabe colpiscono Raqqa,la capitale siriana del Califfato, e altri 20 obiettivi, centri di comando e campi di addestramento, fanno decine di vittime: una sessantina i morti, anche civili, secondo fonti non verificabili.

Ma l’efficacia della campagna aerea, che potrebbe durare settimane, è tutta da verificare. Il nemico non è un esercito regolare con basi e depositi di armi e munizioni, come nel caso dell’invasione dell’Iraq nel 2003. I miliziani sono distribuiti sul terreno, non offrono punti di riferimento statici; e le bombe su città e villaggi colpiscono anche la popolazione.

Il regime di Damasco, tenuto fuori dalla ‘coalizione dei volenterosi’ perché Obama non riconosce come interlocutore il presidente al Assad, sbandiera il proprio coinvolgimento: “Gli Usa ci hanno preventivamente informati”. Aerei siriani hanno a loro volta bombardato milizie jihadiste in Libano.

Obama: l’interesse alla sicurezza è comune

I raid aerei contro lo Stato islamico, estesi dall’Iraq alla Siria, sono opera della coalizione realizzata dagli Stati Uniti con alleati occidentali e con Paesi del Golfo e mediorientali "in nome dell’interesse alla sicurezza, che è comune". Sul prato della Casa Bianca, in partenza per il Palazzo di Vetro dell’Onu a New York, Obama ha reso omaggio ai Paesi arabi (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati, Qatar e Giordania) che si sono mobilitati per sconfiggere le milizie jihadiste.

Proprio la minaccia integralista è un tema forte dell’Assemblea dell’Onu, dove questa settimana si succedono sul podio molti leader di tutto il Mondo. Obama fa un bilancio politico dei raid notturni: "Gli Usa -dice- sono orgogliosi di essere fianco a fianco dei loro alleati. La forza della coalizione manda un messaggio chiaro al mondo intero: siamo più forti se uniti".

L'alleanza tra l’Occidente e l’Islam moderato e istituzionale intende cancellare lo Stato Islamico, la cui presenza mina Iraq e Siria e catalizza l’estremismo integralista, con effetti contagio in tutta l’area. L'attacco della scorsa notte era mirato al Khorasan, uno dei gruppi della galassia di al Qaeda operanti in Siria: ha consentito –sostiene Obama- di sventare un imminente attentato contro interessi americani e occidentali.

Pioggia di fuoco arabo-americana

La pioggia di fuoco è durata alcune ore: aerei, droni, missili. All'operazione, guidata e coordinata dagli Stati Uniti, non ha partecipato nessun alleato Nato, accanto ai cinque Paesi arabi, nonostante  la disponibilità, in particolare, della Francia –l’Italia mette a disposizione solo un aereo cisterna-. S’è così voluto sottolineare la presenza arabo-sunnita nella "vasta coalizione" anti-Is. All’Onu, Renzi riceve, tuttavia, il grazie di Ban per il ruolo dell’Italia nella coalizione.

Uno schieramento di forze imponente e variegato ha effettuati almeno 30 missioni, non solo contro le postazioni delle milizie del Califfato, ma anche contro la fazione integralista meno nota ma più temuta a Washington (i Khorasan) e contro i qaedisti 'ortodossi' di al Nusra -loro avrebbero subito le maggiori perdite, una cinquantina di combattenti uccisi, oltre a otto civili, tra cui due bambini e una donna-.

Il Pentagono non ha precisato quanti e quali aerei siano stati coinvolti, ma ha specificato che, oltre ai caccia-bombardieri, sono stati utilizzati droni e sono stati lanciati almeno 47 missili da crociera Tomahawk (con una gittata di 2.500 km) da diversi incrociatori nel Golfo Persico e nel Mar Rosso, dove staziona la squadra navale della portaerei a propulsione nucleare George H.W. Bush.

Nell'offensiva aerea, ha esordito il caccia F-22 Raptor Lockeehd-Martin: invisibile ai radar, e tecnologicamente sofisticatissimo,non è mai stato venduto ad alcun Paese straniero, più o meno alleato, contrariamente a quanto avvenuto per il più nuovo F-35.

La Siria gioca le sue carte, la Russia lascia fare

Pur di entrare nel gioco, il regime siriano ha dato un imprevisto (e indesiderato) avallo all’azione della coalizione del regime siriano: Damasco si dichiara pronta a collaborare con qualsiasi sforzo internazionale per combattere il terrorismo; e Mosca, sua alleata, lascia fare, senza scatenare putiferi all’Onu.

Tutti i gruppi contro cui la coalizione si batte sono nemici di al Assad. E il presidente, per ora, non teme la labile opposizione moderata che gli Stati Uniti si ripromettono di armare e addestrare. Quindi, di fatto l'Occidente è al momento un alleato di Damasco.

La guerra aerea intensificata innesca nuove minacce dal campo integralista. I jihadisti, che assediano Kobané, in Siria, prendono in ostaggio un francese; e nuovi messaggi incitano i miliziani a uccidere gli infedeli, francesi, americani o dei Paesi alleati.

martedì 23 settembre 2014

Italia/Ue: le campane dissonanti di politica ed economia

Scritto per EurActiv.it il 23/09/2014

La campana della politica continua a essere dissonante da quella dei numeri, che, in Italia e nell’Ue, batte in questi giorni a martello: la crisi non è finita, la ripresa rallenta e –avvertono i banchieri all'unisono, Mario Draghi e Ignazio Visco- la politica monetaria da sola non basta per fare decollare la crescita. Servono gli investimenti e in Italia urgono interventi per la legalità e per l’efficienza della Pubblica Amministrazione.

Il presidente Napolitano dal Quirinale e il premier Renzi dagli Stati Uniti chiamano a raccolta. Napolitano interviene pro Renzi, nella disputa sulla riforma del lavoro interna al Pd: “Basta – dice - conservatorismi e ingiustizie, è l’ora di politiche nuove per crescita e occupazione”. E spezza pure una lancia a favore dell’Unione (“Sbraitare contro l’Ue non serve a uscire dalla crisi”).

Renzi s’accinge all'ennesimo baratto tra una riforma profonda e necessaria e una singola misura popolare e mediatica, ma da solo inefficace: così, per ora niente vera riforma della P.A., ma riduzione dei permessi sindacali; e per ora niente vera riforma della giustizia, ma taglio delle ferie dei magistrati; e di nuovo per ora niente vera riforma del lavoro, ma intervento sull'articolo 18.

Il premier fa giungere dall'America formule ad effetto: “Faremo di tutto per cambiare l’Italia … Non bastano le riforme se non ci sono le idee … Far arrabbiare qualcuno per andare avanti tutti. ..”. E sostiene che il suo governo ha mantenuto gli impegni sul pagamento dei debiti della P.A., il che non è vero, come EurActiv.it ha bene evidenziato ieri in un articolo di Giuseppe Latour.

Se la politica usa parole di speranza, l’economia ne ha d’allarme: l’Ue giudica l’Italia e la Grecia indietro sul terreno delle riforme, mentre vede segnali incoraggianti da Spagna e Portogallo; e senza riforme –avverte Draghi- anche gli interventi della Bce avranno scarsa efficacia.

Nell’Eurozona, la fiducia dei consumatori è ancora in calo a settembre, così come l’indice d’attività –in Germania, ai minimi da 15 mesi-. In Italia, il Cerved calcola i fallimenti in aumento (14% in più nel II trimestre e del 10,5% in più nel I semestre) e l’Istat stima a 555 mila i posti di lavoro perduti nell’artigianato fra il 2008 e il 2012, a 449 mila i dirigenti e gli imprenditori usciti di scena -100 mila solo nell’ultimo anno-.

domenica 21 settembre 2014

Iraq: coalizione anti-Is, l'Italia c'è (e non c'è)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/09/2014

Veniamo anche noi, ma restiamo un passo indietro. Proprio come 11 anni or sono, quando Bush jr  formò la ‘coalizione dei volenterosi’ per invadere l’Iraq adducendo falsi preteste. O come nel 2011, quando c’era da rovesciare in Libia il regime di Gheddafi. Che la causa sia sicuramente cattiva, dubbia –almeno a giudicare a posteriori dai risultati- o buona –come può apparire la mobilitazione dell’Occidente e dell’Islam ‘istituzionale’ contro i tagliagole del nuovo Califfato-, l’atteggiamento dell’Italia è sempre lo stesso.

A New York per un consulto all’Onu, il ministro degli Esteri Federica Mogherini torna a escludere la partecipazione dell'Italia ai raid aerei contro lo Stato islamico. "L'Italia –dice- sta ragionando sulla disponibilità a partecipare sul versante militare in termini di addestramento, sostegno logistico ed eventualmente di rifornimento in volo. Ma non intende prendere parte a operazioni come quelle che Usa e Francia stanno svolgendo", raid aerei su obiettivi integralisti in Iraq e ora pure in Siria – i Rafales francesi sono già entrati in azione per la prima volta-.

L’altro giorno, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, eccezionalmente riunito a livello ministeriale e presieduto dal segretario di Stato Usa Kerry –Washington ha la presidenza di turno, questo mese- ha espresso il proprio sostegno al nuovo governo iracheno del premier al Abadi, che finalmente tenta di fare collaborare fra di loro sciiti, sunniti e curdi.

In una dichiarazione, l’Onu "condanna con forza gli attacchi delle organizzazioni terroriste”, come lo Stato islamico, la cui "offensiva minaccia in modo significativo tutta la regione". E la questione del coordinamento internazionale del contrasto al nuovo Califfato sarà ancora al centro del dibattito, la prossima settimana dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

La presenza all’Onu della Mogherini venerdì non era strettamente necessaria –l’Italia non siede ora nel Consiglio di Sicurezza-, ma il ministro sta moltiplicando i contatti, preparandosi ad assumere, il 1° novembre, la carica di Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza europea.

A New York, dove ha visto il ministro degli esteri egiziano Shoukry, tornerà la prossima settimana anche per incontrare l’iraniano Zarif: l’Italia pensa che l’Iran possa svolgere “un ruolo positivo” nell’attuale crisi. Giudizio che Kerry condivide, dopo un round di contatti fra americani e iraniani.

L’Italia ritiene che, per affrontare la minaccia dell'Is, sia fondamentale agire "sul piano politico" ed avere "una cornice Onu", che consente di “sminare uno dei rischi maggiori, cioè che la coalizione venga vista come l'Occidente contro l'Islam", nonostante ne facciano parte anche Paesi islamici: “Siamo di fronte a una minaccia globale che necessità una risposta globale”, dice la Mogherini parlando all’Oni; e specifica che "non ci sono minacce specifiche contro l'Italia".

Più determinato il linguaggio degli Stati Uniti. Nel consueto discorso del sabato, Obama ricorda che oltre 40 Paesi hanno offerto sostegno alla "vasta campagna" anti Is, sotto forma d’addestramento o equipaggiamento militare, raid aerei e aiuti umanitari. Le scelte di Obama hanno un ampio sostegno, in questo momento, nell’opinione pubblica americana: il Senato ha appena dato l’ok alla fornitura di armi all’opposizione siriana moderata, nonostante la difficoltà d’individuarla e la consapevolezza –espressa da Kerry- che ci vorranno mesi per metterla in condizione di reggere l’urto dei jihadisti.

Martedì, Obama parlerà all’Onu: "E' il momento della leadership americana –afferma-: il Mondo, quando si sente minacciato e ha bisogno d’aiuto, chiama l'America … Non esiteremo ad agire contro i terroristi in Iraq e in Siria": “Non è l'America contro l'Is: c’è un’ampia colazione e c’è la gente della Regione contro l’Is”.

Sul terreno, gli integralisti hanno liberato 49 turchi rapiti a giugno, ma hanno ucciso un libanese loro prigioniero.

venerdì 19 settembre 2014

Italia/Ue - Lavoro: Renzi, il Vertice e la commedia degli orrori

Scritto per EurActiv.it il 18/09/2014 e, in versione diversa, il blog de Il Fatto 
Il Vertice sul Lavoro dell’8 ottobre a Milano, forse, alla fine, si farà. Anzi, a questo punto, si farà quasi inevitabilmente. Ma la sua preparazione sarà stata una vera e propria galleria degli orrori –ed errori- diplomatici: il punto più basso, finora, di questo semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Ue. E i risultati s’annunciano, fin d’ora, facili da sintetizzare: nulla, zero, chiacchiere. A parte, magari, uno show del premier sulla riforma –quale?- di casa nostra.
Gli ultimi sviluppi sono cronaca recente. Mercoledì 17, Il sottosegretario agli Esteri Dalla Vedova annuncia la cancellazione del Vertice al Parlamento europeo in sessione plenaria. A giro di tweet, o altro social media, arriva la smentita di Palazzo Chigi, il Vertice si farà. Ma l’ufficio del portavoce della Commissione europea non ne viene informato. Così, ieri, giovedì 18, la portavoce Pia Ahrenkilde Hansen conferma che il Vertice è stato rinviato, rispondendo a domande di giornalisti  nella sala stampa di Palazzo Berlaymont a Bruxelles. Poi, sollecitata dall’Italia, ritratta: il Vertice si farà e il presidente Manuel Barroso ci andrà.
Fin qui, la pantomima delle ultime 48 ore. Ma come sono andate davvero le cose?, chi ha deciso cosa?, e perché? Siamo in grado di ricostruirlo, con testimonianze certe di prima mano. Tutto comincia il 30 agosto, al Vertice delle Nomine. La Francia sente il bisogno di accelerare sul fronte della crescita e ha già lanciato l’idea d’un Vertice sul tema; l’Italia si trascina dietro l’impegno d’organizzare un seguito ai Vertici, informali e intergovernativi, dello scorso anno sull’occupazione, a Berlino e a Parigi, che –fiumi di parole a parte- non avevano prodotto risultati.
La bozza di conclusioni che circola fra le delegazioni il 30 parla di un Vertice sulla crescita e l’occupazione. Nel giro di tavola fra leader, la crescita sparisce. Nelle conclusioni della presidenza, resta l’appuntamento sull’occupazione, follow up dei precedenti, a Milano, l’8 ottobre.
L’idea non entusiasma nessuno, ma ormai è detta: la Francia non ha ottenuto quanto voleva, l’Italia non ha nulla di pronto sul lavoro da sfoggiare con i partner, gli altri non ci tengono particolarmente all’ennesimo Vertice inconcludente, a una settimana dall’Asem –il Vertice Ue-Asia pure a Milano, con 54 delegazioni fra cui la Cina e l’India- e a due settimane da un regolare Vertice europeo di Bruxelles.
A un certo punto, Renzi decide: niente Vertice, non l’8, magari alla fine del semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue. Partono le comunicazioni alle cancellerie degli altri 27 e, ovviamente, alle Istituzioni comunitarie. E’ a questo punto che il sottosegretario Dalla Vedova fa la sua comunicazione al Parlamento europeo.
Però, proprio in quelle ore, il premier Renzi cambia idea: accelera sul lavoro sul fronte interno e decide che il Vertice si farà, incurante di smentire l’incolpevole Dalla Vedova, di rimangiarsi la comunicazione ai partner e di districarsi dai problemi di agenda nel frattempo creatisi.
Però, il secondo contrordine italiano non arriva alla Ahrenkilde Hansen, né viene rilanciato da tutte le agenzie di stampa internazionale, anche a causa delle modalità di diffusione carbonare scelte. Così, basandosi sull’annuncio di Dalla Vedova, la portavoce dell’Esecutivo conferma ai giornalisti la cancellazione del vertice sul lavoro previsto per ottobre: mestiere, in realtà, non suo, perché quell’appuntamento è inter-governativo, cioè al di fuori delle procedure comunitarie –e non ha quindi, detto per inciso, poteri decisionali-, e la Commissione vi è invitata, ma non ne è motore. Così, le tocca fare a sua volta marcia indietro e confermare l'appuntamento dell'8 ottobre a Milano. 

Dove si arriverà senza nulla di concreto. Renzi potrà forse esibire ai partner il decreto sul lavoro e cercare di appassionarli alla riforma dell’articolo 18. La Commissione, agli sgoccioli del mandato – il 1° novembre, alla Barroso II dovrebbe subentrare la Juncker I -, non avrà pronte nuove proposte. E gli investimenti per la crescita e il lavoro da 300 miliardi del programma Juncker sono, ovviamente,  di là da venire (e, dunque, per quanto Renzi li invochi in Parlamento, se ne parlerà solo dopo l’insediamento del nuovo Esecutivo).

giovedì 18 settembre 2014

Scozia: il sì una tegola per Ue e presidenza italiana

Scritto per EurActiv.il il 17/09/2014, integra pezzi per Metro 18/09 e Formiche 17/09 -vedi-

L’esito del referendum di domani sull'indipendenza della Scozia potrebbe sconvolgere l’agenda dell'Ue dei prossimi mesi e anni ed appesantire di colpo quella della presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Unione.

Una vittoria degli indipendentisti nel referendum in Scozia porterebbe da un giorno all'altro l’Unione europea su un terreno giuridico e procedurale del tutto inesplorato e in larga parte neppure previsto dai Trattati.

Un successo dei sì darebbe, inoltre, una forte spinta ai movimenti indipendentisti in altri Stati Ue, cominciando con l’esaltare la legittimità delle rivendicazioni della Catalogna, che il 9 novembre terrà un referendum sull'indipendenza non autorizzato dal governo spagnolo.

Ma l’effetto a catena potrebbe poi farsi sentire in Belgio –dove l’indipendentismo fiammingo è ben vivo-, o in Italia –alimentando le fantasie venete e padane-, o ancora fra i baschi o i bretoni.

Per contro, la vittoria dei sì potrebbe pure pesare sull'eventuale referendum britannico, previsto entro il 2017, per confermare, o meno, l’adesione all'Unione. Gli scozzesi sono più europeisti della media dei cittadini britannici e, senza di loro, le possibilità che Londra si separi dall’Ue sono nettamente più alte.

La cosa più simile mai avvenuta nella storia dell’integrazione è la decisione della Groenlandia, negli Anni Ottanta, d’uscire dall'allora Comunità europea: la Groenlandia, un territorio danese, lo decise con un referendum, che ridusse di colpo della metà la superficie della Cee –un deserto di ghiaccio: gli abitanti erano appena 50mila circa-.

La Groenlandia, però, lasciò la Comunità senza separarsi dalla Danimarca. La Scozia, invece, vorrebbe separarsi dalla Gran Bretagna, ma non lasciare l’Ue.

Sull'iter da seguire nel caso della Scozia, se sceglierà l’indipendenza, gli specialisti hanno opinioni contrastanti. E’ possibile che la presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Unione sia indotta a convocare d’urgenza riunioni ‘ad hoc’ per discuterne: un Vertice straordinario è un’ipotesi plausibile.

Nell'attuale contesto di fragilità istituzionale dell’Ue, con l’avvicendamento ormai imminente, il 1° novembre, tra la Commissione uscente e la nuova presieduta da Jean-Claude Juncker, la grana scozzese sarebbe ben più di un granello di sabbia negli ingranaggi dell'eurocrazia e rischierebbe di fare passare in secondo piano dossier economicamente e socialmente urgenti e rilevanti.

Gli ultimi sondaggi della stampa britannica danno i no all'indipendenza in risalita e in vantaggio sui sì (52% a 48%), senza però tenere conto della fetta d’elettori indecisi –almeno il 10%-,  le cui schede saranno quindi determinanti. L’attesa è di una partecipazione record: il fronte del sì mette in campo un esercito di volontari per smuovere gli incerti.

Nella campagna elettorale alle ultime battute, l’Ue è stata estremamente discreta, diversamente dagli Stati Uniti: la Casa Bianca ha esplicitamente detto di preferire una Gran Bretagna unita, cioè un alleato forte.

I leader politici britannici dei tre maggiori partiti giocano, all’unisono, la carta dell’unità promettendo una maggiore autonomia. La regina Elisabetta auspica che gli scozzesi “ci pensino bene”, all’ora del voto. Il premier Cameron li invita a “non fare a pezzi” la famiglia britannica, definisce l’indipendenza “un doloroso divorzio”, ricorda che la grandezza britannica è anche scozzese.

Ma la politica sa pure usare argomenti economici concreti, che possono andare diritto al cuore degli scozzesi: il nazionalismo rischia di spezzare il welfare, la sterlina non potrà più essere moneta scozzese, le frontiere non saranno necessariamente aperte. Così che gli indipendentisti parlano d’intimidazione.

Se vinceranno i sì, la Scozia diventerà formalmente indipendente il 24 marzo 2016, anniversario dell’unificazione nel 1707 fra le due corone nel 1707. Sulla carta, c’è dunque tempo, per mettere a punto gli aspetti istituzionali, economici e procedurali.

Economicamente, la Scozia avrebbe il controllo di oltre l’80% del petrolio e del gas del Mare del Nord, ma non beneficerebbe più della redistribuzione del reddito britannico e dovrebbe invece accollarsi una quota del debito complessivo del Regno Unito secondo criteri non ancora definiti, che terranno conto del numero di abitanti  e del Pil complessivo.

Finanziariamente, la Scozia potrebbe decidere di adottare l’euro, ma una scelta del genere non sarebbe automatica: per il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, il Paese dovrebbe rinegoziare il suo ingresso nell'Unione europea, così come alla Nato e all’Onu. E Londra, in sede Ue, avrebbe un diritto di veto sull'ammissione degli scozzesi.

Tra gli elementi di tensione, c’è pure la destinazione dei missili nucleari Trident, attualmente collocati in Scozia nella base di Faslane, e la riorganizzazione delle Forze Armate.

Il sì avrebbe ripercussioni anche sul resto del Regno Unito. Dal punto di vista economico Londra perderebbero l’accesso agli approvvigionamenti ed agli introiti del gas e del petrolio scozzesi. Dal punto di vista politico i laburisti sarebbero indeboliti, perché storicamente la Scozia è sempre stata più laburista della media britannica: nelle ultime elezioni, su 59 deputati eletti in Scozia, 49 erano laburisti e solo uno conservatore. Nel contempo, però, una vittoria degli indipendentisti intaccherebbe la legittimità del premier conservatore David Cameron, costringendolo verosimilmente a dimettersi.

mercoledì 17 settembre 2014

Democrazia, pluralismo, autonomia editoriale: calderone d'idee e convegni

Scritto per Media Duemila online il 17/09/2014

La libertà d’espressione e d’informazione come elemento componente dell’integrazione europea e, in questo contesto, il ruolo del servizio pubblico un tempo audiovisivo e oggi multimediale: argomenti corposi, e magari a rischio di risultare un po’ noiosi, che vanno forte in questi giorni (settembre ha la vocazione a essere mese di convegni che non lasciano traccia nei fatti, ma mobilitano potenti, esperti, affabulatori, giornalisti).

Se n’è parlato a Roma a The Promise of the EU, un evento organizzato al Maxxi dalla presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue, dal dipartimento delle Politiche europee della Presidenza del Consiglio e dalla Commissione europea. Se n’è parlato al Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale della Sapienza, a un seminario della serie ‘Pallacorda, idee e proposte per ripensare la Rai’. E se n’è parlerà, sabato 20, a Torino, a un convegno allestito da Infocivica  su un modello europeo di servizio pubblico, in occasione del Prix Italia Rai –ci torneremo su-.

Nell'evento al Maxxi, comunicazione e informazione erano i temi forti di due dei gruppi di lavoro: uno su come rendere il processo d’integrazione più democratico, l’altro sull'autonomia editoriale come valore democratico. Soggetto, questo, mal posto, con implicito riferimento ai media pubblici, più che ai media in generale.

Evidente, infatti, che l’autonomia editoriale non può mai prescindere dalla proprietà dei media. E, se nei media pubblici ci si può attendere, anzi si deve pretendere, una pluralità interna, il discorso non vale per i media privati. Ecco, quindi, emergere, come valore democratico imprescindibile, più che l’indipendenza editoriale il pluralismo mediatico, che non è di per sé garantito dalla pluralità delle testate.

Quanto all'autonomia editoriale, essa appare affidata, in prima battuta, ma anche essenzialmente, all'indipendenza di giudizio e all'onestà intellettuale –e non solo- del singolo direttore e, più ancora, del singolo giornalista: un’informazione fatta con la schiena dritta vale più d’un’informazione prona ai poteri politico ed economico e alle fonti, pur posta sotto le egide altisonanti di leggi e carte.

La discussione è andata oltre questi confini: la nostalgia della qualità dell’informazione –ma quando mai fu l’Età dell’Oro del giornalismo?, dove mai sta l’Eden del Giornalismo?-; l’asserita –da alcuni: io non ci credo!- contrapposizione tra tempestività e accuratezza; l’impatto di blog, new media e social media.

Roba da uscirne convinti che, se si fa una buona informazione, si fa l’Europa unita. Magari è proprio vero!

Scozia: il referendum sull'indipendenza dà l'emicrania all'Ue

Scritto per Formiche il 17/09/2014

L’esito del referendum di domani sull'indipendenza della Scozia potrebbe sconvolgere l’agenda dell’Ue dei prossimi mesi e anni ed appesantire di colpo quella della presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Unione.

Si entrerebbe su un terreno giuridico e procedurale inesplorato, senza contare che l’indipendenza della Scozia darebbe una forte spinta ai movimenti indipendentisti in altri Stati Ue ed esalterebbe la legittimità delle rivendicazioni della Catalogna, che  il 9 novembre terrà un referendum sull'indipendenza non autorizzato dal governo spagnolo.

Per contro, la vittoria dei sì potrebbe pure pesare sull'eventuale referendum britannico, previsto entro il 2017, per confermare, o meno, l’adesione all'Unione.

Gli ultimi sondaggi della stampa britannica danno i no all'indipendenza in risalita e in vantaggio sui sì (52% a 48%), senza però tenere conto della fetta d’elettori indecisi –almeno il 10%-,  le cui schede saranno quindi determinanti. L’attesa è di una partecipazione record: il fronte del sì mette in campo un esercito di volontari per smuovere gli incerti.

Nella campagna elettorale alle ultime battute, l’Ue è stata estremamente discreta, diversamente dagli Stati Uniti: la Casa Bianca ha esplicitamente detto di preferire una Gran Bretagna unita, cioè un alleato forte.

Per l’Unione europea, la vittoria del sì sarebbe una iattura, se non altro per gli inediti problemi procedurali che comporterebbe. Il caso, infatti, sarebbe senza precedenti: la cosa più simile mai avvenuta nella storia dell’integrazione è la decisione della Groenlandia, negli Anni Ottanta, d’uscire dall'allora Comunità europea: la Groenlandia, un territorio della Danimarca, lo decise con un referendum, che ridusse di colpo della metà la superficie della Cee –ma gli abitanti erano appena 50mila circa-.

La Groenlandia, però, lasciò la Comunità senza separarsi dalla Danimarca. La Scozia, invece, vorrebbe separarsi dalla Gran Bretagna, ma non lasciare l’Ue.

I leader politici britannici dei tre maggiori partiti giocano, all'unisono, la carta dell’unità promettendo una maggiore autonomia. La regina Elisabetta auspica che gli scozzesi “ci pensino bene”, all’ora del voto. Il premier Cameron li invita a “non fare a pezzi” la famiglia britannica, definisce l’indipendenza “un doloroso divorzio”, ricorda che la grandezza britannica è anche scozzese.

Ma la politica sa pure usare argomenti economici concreti, che possono andare diritto al cuore degli scozzesi: il nazionalismo rischia di spezzare il welfare, la sterlina non potrà più essere moneta scozzese, le frontiere non saranno necessariamente aperte. Così che gli indipendentisti parlano d’intimidazione.

Se vinceranno i sì, la Scozia diventerà formalmente indipendente il 24 marzo 2016, anniversario dell’unificazione nel 1707 fra le due corone. Sulla carta, c’è dunque tempo, per mettere a punto gli aspetti istituzionali, economici e procedurali.

Economicamente, la Scozia avrebbe il controllo di oltre l’80% del petrolio e del gas del Mare del Nord, ma non beneficerebbe più della redistribuzione del reddito britannico e dovrebbe invece accollarsi una quota del debito complessivo del Regno Unito secondo criteri non ancora definiti, che terranno conto del numero di abitanti  e del Pil complessivo.

Finanziariamente, la Scozia potrebbe decidere di adottare l’euro, ma una scelta del genere non sarebbe automatica: per il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, il Paese dovrebbe rinegoziare il suo ingresso nell'Unione europea, così come alla Nato e all’Onu. E Londra, in sede Ue, avrebbe un diritto di veto sull'ammissione degli scozzesi.

Il sì avrebbe ripercussioni anche sul resto del Regno Unito. Dal punto di vista economico Londra perderebbero l’accesso agli approvvigionamenti ed agli introiti del gas e del petrolio scozzesi. Dal punto di vista politico i laburisti sarebbero indeboliti, perché storicamente la Scozia è sempre stata più laburista della media britannica: nelle ultime elezioni, su 59 deputati eletti in Scozia, 49 erano laburisti e solo uno conservatore. Nel contempo, però, una vittoria degli indipendentisti intaccherebbe la legittimità del premier conservatore David Cameron, costringendolo verosimilmente a dimettersi.

martedì 16 settembre 2014

Iraq: coalizione anti-Is, il crinale degli ostaggi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/09/2014

Il ‘crinale degli ostaggi’ attraversa la componente occidentale della coalizione internazionale contro il Califfato. Le differenze d’approccio tra americani e britannici, da un lato, decisi a non negoziare con i terroristi e a non pagare riscatti, e francesi e italiani, dall'altro, inclini a riportare a casa gli ostaggi letteralmente “costi quel che costi”, non sono nuove, ma –quando si ripropongono- suscitano polemiche e sollevano un velo di diffidenza fra alleati.

Nel frullatore britannico delle critiche e delle recriminazioni –la terza vittima del boia in nero che parla con l’accento di Londra è un cooperante scozzese-, finisce pure Federica Mogherini, futura Lady Pesc europea -dal 1° novembre-, attualmente ministro degli Esteri italiano, e quindi di per sé catalizzatore e parafulmine dei contrastanti sentimenti europei.

Come Lady Pesc, la Mogherini dovrà assumere la rigidità anti-terrorismo di molti Paesi Ue. Come ministro, deve preoccuparsi degli ostaggi italiani: padre Paolo Dall’Oglio e le due giovani Vanessa e Greta, tutti e tre svaniti in Siria, tutti e tre -nella valutazione e nella speranza di servizi ed esperti-ancora vivi. Storie fra di loro diverse e percorsi di prigionia verosimilmente diversi, cui gli italiani vogliono però dare un esito comune: la liberazione e il ritorno a casa.

Eppure, i tagliagola delle milizie integraliste, con la mannaia sul collo d’un quarto ostaggio, ancora un britannico, mettono tutti –o quasi- d’accordo. A Parigi, la conferenza sull’Iraq serra le fila contro gli jihadisti dell'Is. Ma se il nemico è comune, gli obiettivi dei membri della coalizione sono spesso diversi: le monarchie del Golfo vogliono tenersi al riparo dall’avanzata integralista; l’Occidente vuole proteggersi dalla minaccia terroristica.

La riunione di Parigi –presenti una trentina di delegazioni, fra cui Onu, Ue, Lega araba- esprime l’intenzione d’appoggiare il governo di Baghdad con ogni mezzo, compreso "adeguato aiuto militare". L’aiuto, si precisa, dovrà essere "in linea con le necessità espresse dalle autorità irachene, nel rispetto del diritto internazionale e senza mettere a rischio la sicurezza della popolazione civile".
Armiamo i nemici dell’Is, sperando ci siano poi amici. Ma la Russia lancia un sasso nello stagno: “E’ un errore fare distinguo tra terroristi buoni e cattivi”.

L’impegno ad “eliminare” la minaccia jihadista, preso da Obama e ribadito da Cameron e altri leader occidentali ed arabi, non convince in pieno. Più di due americani su tre, il 68%, non ha fiducia nella strategia messa a punto dalla Casa Bianca di eliminare gli jihadisti sunniti dello Stato Islamico tra Iraq e Siria con raid aerei, delegando invece le operazioni di terra in Iraq all’esercito di Baghdad e ai peshmerga curdi e in Siria ai cosiddetti ribelli moderati.

Il consulto di Parigi aggiunge un tassello al disegno di Obama per una coalizione anti-jihadista. Hollande avverte che "la minaccia è globale e la risposta deve essere globale": senza perdere tempo, l'aviazione francese conduce la sua prima missione (aerei-spia Rafales decollano dalla base militare francese di Abu Dhabi e compiono una ricognizione sull'Iraq).

Ai colleghi ministri degli Esteri, la Mogherini ricorda che l'Italia ha già inviato i primi due carichi di armi e munizioni ai guerriglieri curdi, nel nord dell'Iraq. Ma Roma rivendica un ruolo politico, contando su "buone relazioni con tutti i Paesi della regione".

Nella coalizione, non entra l’Iran: Teheran non raccoglie l’invito di Obama alla collaborazione perché –dice la guida suprema Ali Khamenei- gli americani “hanno le mani sporche di sangue”. E la Turchia ne resta ai margini. Mentre la Siria ne viene ostentatamente tenuta fuori: Washington non vuole coordinarsi col regime di al Assad. Il Vaticano alza un muro di silenzio sulle voci di minacce al Papa:”Nulla di specifico”.

Gli iracheni incassano aiuti e sostegno. Ma se il presidente Massoum, un curdo, sollecita altri raid aerei perché “senza una pronta risposta lo Stato islamico occuperà altri territori", il neopremier, lo sciita al Abadi, mette uno stop ai bombardamenti sulle città in mano all’Is, per scongiurare vittime civili. E il leader religioso Moqtada Sadr tuona: “Se gli americani tornano,li colpiremo”.

lunedì 15 settembre 2014

Iraq: coalizione anti-Is; fronte unico, fini diversi

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 15/09/2014

I tagliagola del Califfato mettono tutti –o quasi- d’accordo. A Parigi, la comunità internazionale serra le fila contro gli jihadisti dell'Is. Ma se il nemico è comune, i fini dei membri della coalizione sono spesso diversi: le monarchie del Golfo vogliono tenersi al riparo dall'avanzata integralista; l’Occidente vuole proteggersi dalla minaccia terroristica.

Preceduta dalla terza decapitazione d’un ostaggio occidentale, il cooperante scozzese David Haines, la Conferenza di Parigi sulla sicurezza dell'Iraq – una trentina di delegazioni - decide di appoggiare il governo di Baghdad con ogni mezzo, compreso "un adeguato aiuto militare". Armiamo i nemici dell’Is, sperando ci siano poi amici.

Ma l’impegno ad “eliminare” la minaccia integralista, preso da Obama e ribadito da Cameron e altri leader occidentali ed arabi, non convince a pieno. Più di due americani su tre, il 68%, non ha fiducia nella strategia messa a punto dalla Casa Bianca di eliminare gli jihadisti sunniti dello Stato Islamico tra Iraq e Siria con raid aerei, delegando invece le operazioni di terra in Iraq all'esercito di Baghdad e ai peshmerga curdi e in Siria ai cosiddetti ribelli moderati.

Ma, pur bocciando la politica estera del loro presidente –solo il 38% la condivide-, gli americani, stavolta, sono dei ‘tentenna’ come lui: non credono all'efficacia della strategia, ma, per non inviare di nuovo truppe laggiù, tre su cinque la sostengono, in mancanza di meglio.

Il consulto di Parigi aggiunge un tassello al disegno di Obama di una coalizione anti-jihadista. Hollande avverte che "la minaccia è globale e la risposta deve essere globale": senza perdere tempo, l'aviazione francese conduce la sua prima missione (aerei-spia Rafales decollano dalla base militare francese di Abu Dhabi e compiono una ricognizione sull'Iraq).

La volontà di sostenere l'Iraq con ogni mezzo, compreso "un adeguato aiuto militare", è esplicito nel comunicato finale della Conferenza parigina –c’erano pure Onu, Ue e Lega Araba-. L’aiuto, viene precisato, dovrà essere "in linea con le necessità espresse dalle autorità irachene, nel rispetto del diritto internazionale e senza mettere a rischio la sicurezza della popolazione civile".

Ai colleghi ministri degli Esteri, Federica Mogherini ricorda che l'Italia ha già inviato i primi due carichi di armi e munizioni ai guerriglieri curdi, nel nord dell'Iraq. Ma Roma vuole anche giocare un ruolo politico, contando su "buone relazioni con tutti i Paesi della regione".

Nella coalizione, non entra l’Iran: Teheran non raccoglie l’invito di Obama alla collaborazione perché –dice la guida suprema Ali Khamenei- gli americani “hanno le mani sporche di sangue”. E la Turchia ne resta ai margini. Mentre la Siria ne viene ostentatamente tenuta fuori.

Gli iracheni incassano aiuti e sostegno. Ma se il presidente Fouad Massoum, un curdo, sollecita altri raid aerei perché “senza una pronta risposta lo Stato islamico occuperà altri territori", il neopremier, lo sciita Haider al Abadi mette uno stop ai bombardamenti sulle città in mano all’Is, per scongiurare vittime civili.

Iraq: ostaggio sgozzato, Cameron &Obama pronti a tutto contro Is

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/09/2014

Li prenderemo: ovunque essi siano; quanto tempo ci voglia. E li puniremo per i loro delitti. Come Obama dopo le esecuzioni dei giornalisti Usa James Foley e Steven Sotloff, così Cameron dopo quella del cooperante britannico David Haines. Ci vollero dieci anni, per Osama bin Laden, mente dell’attacco all’America dell’11 Settembre 2001. Bastarono venti mesi per Abu Musab al Zarqawi, primo dei tagliagola di al Qaida.

La decapitazione di Haines innesca reazioni e commenti in fotocopia in tutto l’Occidente e rafforza, se ce ne fosse bisogno, la determinazione a fermare le milizie jihadiste: integralisti sunniti che hanno creato un’entità statale, l’Is, il nuovo Califfato tra Iraq e Siria. “Un atto barbaro”, per Obama, per Napolitano e per molti altri. Renzi evoca una “risposta unica europea”. Ma Lady Pesc, cioè Catherine Ashton, resta muta; e Federica Mogherini, che la rimpiazzerà il 1° novembre, pure.

La Gran Bretagna è pronta a "tutti i passi che saranno necessari" per combattere la minaccia dell'Is, dice il premier britannico dopo la riunione del comitato di emergenza interministeriale (Cobra), convocato d’urgenza. "Non possiamo abbassare la testa davanti alla minaccia", afferma Cameron, “disgustato” dal fatto che pure il boia, non solo la vittima, è probabilmente britannico: "Dobbiamo lavorare passo dopo passo per smantellare e distruggere" l'Is in modo "pianificato". "Ci vorrà del tempo - ammette - … E bisognerà agire sia a casa nostra che in terra straniera".

L’esigenza d’individuare, rintracciare, prendere e punire i colpevoli s’intreccia allo sforzo di portare a casa sani e salvi tutti gli ostaggi tuttora nelle mani degli integralisti, fra cui anche degli italiani. Ci vuole capacità di dialogo sul campo e cooperazione fra servizi d’intelligence. Il sottosegretario agli Esteri Mario Giro prima dice all’ANSA: “La politica dell’Italia è di portare a casa tutti gli ostaggi, non importa come … Ogni Paese è sovrano sulla scelta se trattare o meno”. Poi corregge il tiro: “Non abbandoniamo nessuno”, ma usiamo solo “mezzi leciti e possibili”.

Gli attacchi aerei che gli Stati Uniti conducono da settimane contro le postazioni jihadiste le hanno già indebolite –peshmerga curdi e regolari iracheni ne hanno profittato per fare qualche progresso sul terreno-, ma da soli non basteranno a vincere la guerra. Possono però consentire di eliminare, se abbinati all’azione d’intelligence, e a robuste taglie, singoli terroristi.

Nel giugno 2006, al-Zarqawi, luogotenente di al Qaeda in Iraq, fu ucciso da un raid Usa a Baquba: la casa che lo ospitava venne centrata e distrutta. Due anni prima, aveva sgozzato un ostaggio civile americano, Nicholas Berg.

Ma spesso, per eliminare o catturare singoli ‘obiettivi’, ci vuole l’intervento delle forze speciali, sempre in tandem con l’intelligence. Il 1° Maggio 2010, un commando di Seals fece irruzione nell’abitazione di Bin Laden e lo uccise.

Per i servizi britannici, il video della decapitazione di Haines è autentico. Il Foreign Office cancella i dubbi, che in questi casi sono flebile speranza: "Non abbiamo ragione di credere che non lo sia", dice un portavoce.

Il Cobra ha analizzato la situazione e valutato le possibili risposte. Il premier Cameron era finora incerto se prendere parte o no ai raid aerei Usa. I suoi ministri avevano espresso pareri discordanti ed il responsabile degli Esteri Philip Hammond, che aveva escluso l'intervento del Regno Unito, era stato richiamato all’ordine.

Ora, s’ipotizzano pure azioni di terra. Del resto, forze speciali britanniche sono attive da settimane in territorio iracheno, per coordinare gli interventi umanitari pro curdi e minoranze perseguitate dalle milizie jihadiste e anche per indirizzare i raid e le missioni dei droni contro obiettivi sensibili.

La politica britannica è solidale, in queste ore. Ed Miliband, leader del partito laburista, si dichiara "profondamente turbato dal disgustoso e barbaro omicidio … Atti come questo non indeboliranno ma rafforzeranno la volontà del Regno Unito e della comunità internazionale di sconfiggere lo Stato islamico  e la sua ideologia".

Lord Dannatt, ex capo di Stato Maggiore britannico, prospetta una "campagna militare in coalizione con potenze regionali come l'Arabia Saudita, la Giordania e altri Paesi dell'area. Dobbiamo far sì che questo cancro sia rimosso prima che si diffonda".

L’assassinio di Haines, ennesimo cruento messaggio agli Stati Uniti e ai loro alleati, pare accelerare la formazione della coalizione internazionale prospettata dal presidente Obama. L’Australia annuncia lo spiegamento di 600 soldati negli Emirati, con otto aerei da combattimento F/A18. "Abbiamo avuto altre prove della crudeltà dell'Is che già opera in gran parte del Medio Oriente", dice il premier Tony Abbott.

La forza australiana, composta da 400 aviatori e 200 militari, e allestita su richiesta formale Usa, non costituirà, però, “un’unità da combattimento”.