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venerdì 30 novembre 2012

MO: l'Onu apre alla Palestina, ora "decisioni coraggiose"

Scritto per l'Indro il 30/11/2012

Mi rifiuto di cominciare con “voto storico”: non perche’, in fondo, non lo sia; ma perche’, da ieri sera, non sento e non vedo che questo titolo, questo lead e questo commento. E poi storica sara’ davvero, quando ci sara’, la nascita dello Stato palestinese, non il suo riconoscimento –per quanto importante esso sia- come membro osservatore delle Nazioni Unite. Che’ l’Onu ha i cassetti pieni di risoluzioni che preconizzano la convincenza di due Stati, Israele e la Palestina, l’uno in pace con l’altro e ciascuno sicuro dentro i propri confini. E, da questo punto di vista, il voto contrario di Stati Uniti e Israele, che quella prospettiva l’hanno da tempo accettata, appare difficile da condividere e pure da capire. Mentre delude, ma certo non sorprende, il consueto andare in ordine sparso dell’Unione europea agli appuntamenti internazionali in cui ci si conta e si conta.

Con 138 sì, 9 no e 41 astenuti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato, ieri notte, la risoluzione che riconosce la Palestina come "stato osservatore" : significativo che oltre i due terzi degli Stati Onu abbiamo espresso un voto favorevole. I 27 dell’Ue hanno, in qualche modo, rispettato tale percentuale : nove si sono astenuti - Bulgaria, Germania, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Regno Unito, Slovacchia, Slovenia e Ungheria –, la Repubblica Ceca ha votato contro e gli altri 17, fra cui l'Italia, a favore. Fra i Grandi dell’Onu, Cina e Russia sono state a favore.

La votazione –riferisce l’Agi- e' stata preceduta da un lungo e applauditissimo discorso del presidente palestinese Abu Mazen che ha sollecitato l’Assemblea a sottoscrivere, approvando la risoluzione, il "certificato di nascita" dello Stato palestinese. Il voto dell'Assemblea e' un’occasione "storica" per la comunita' internazionale, "l'ultima –dice Abu Mazen- per potere salvare la soluzione a due Stati". "Vogliamo raggiungere la pace e portare nuova vita al negoziato" con Israele, spiega il presidente, secondo cui "e' arrivato il momento di dire basta all'occupazione e ai coloni".

Di tono ben diverso, durissimo e accolto da una sorta di gelo, l'intervento di Israele : l'ambasciatore Ron Prosor considera la richiesta della Palestina, e quindi il voto dell’Assemblea, "un passo indietro per la pace", perche’ "con questa risoluzione l'Onu chiude gli occhi sugli accordi di pace senza conferire nella sostanza dignita' di Stato" all’entita’ palestinese. Il premier palestinese Benjamin Netanyahu commenta le parole di Abu Mazen in termini molto critici: "ostili e velenose" e "piene di falsa propaganda".

Irritazione anche da parte degli Usa, rimasti quasi soli accanto a Israele (con loro, il Canada, i cechi e le Isole Marshall, la Micronesia, Narau, Palau, Panama, non certo il gotha della diplomazia mondiale). Per l'ambasciatore Susan Rice, possibile futuro segretario di Stato americano, la risoluzione "cade male ed e’ controproducente" e non fa altro che costituire "un nuovo ostacolo sul cammino verso la pace". Concetti ribaditi dal segretario di Stato Hillary Clinton : "Abbiamo ben chiaro -ha detto la Clinton - che solo attraverso negoziati diretti tra le parti israeliani e palestinesi potranno arrivare alla pace".

Invece, a Ramallah la gente e' uscita in strada per festeggiare, sparando in aria e iniziando a ballare. Forse, ad accelerare l’adozione della risoluzione ha contribuito la fiammata di tensione, nelle scorse settimane, fra israeliani e palestinesi della striscia di Gaza, con il consueto squilibrio tra gli effetti della provocazione palestinese –I razzi su Israele- e della ritorsione israeliana –i raid sulla Striscia-. Uno degli effetti piu' rilevanti della risoluzione e' che ora l’Autorita’ palestinese potra’ chiedere al Tribunale Penale Internazionale d’indagare su eventuali crimini commessi dalla leadership israeliana durante il decennale conflitto israelo-palestinese. Ma non e’ detto che cio’ avvenga, almeno non subito.

Una nota della Santa Sede osserva che "la pace ha bisogno di decisioni coraggiose": se "la votazione all’Onu indica il sentire della maggioranza della comunita' internazionale e riconosce una presenza piu' significativa ai Palestinesi in seno alle Nazioni Unite", resta, nel contempo, la convinzione della Santa Sede e non solo che « tale risultato non costituisca, di per se', una soluzione sufficiente ai problemi esistenti nella Regione: ad essi, infatti, si potra' rispondere adeguatamente solo impegnandosi effettivamente a costruire la pace e la stabilita' nella giustizia e nel rispetto delle legittime aspirazioni, tanto degli Israeliani quanto dei Palestinesi".

"Percio' - ricorda la nota - la Santa Sede, a piu' riprese, ha invitato i responsabili dei due Popoli a riprendere i negoziati in buona fede e ad evitare di compiere azioni o di porre condizioni che contraddicano le dichiarazioni di buona volonta' e la sincera ricerca di soluzioni che divengano fondamenta sicure di una pace duratura". Inoltre, "la Santa Sede ha rivolto un pressante appello alla Comunita' internazionale ad accrescere il proprio impegno e ad incentivare la propria creativita', per adottare adeguate iniziative che aiutino a raggiungere una pace duratura, nel rispetto dei diritti degli Israeliani e dei Palestinesi".

giovedì 29 novembre 2012

MO: l'Onu apre alla Palestina con il si' dell'Italia


Scritto per l'Indro il 29/11/2012

Il si’ e’ scontato, ma e’ pur sempre storico: l’Assemblea generale delle Nazioni Unite s’appresta a pronunciarsi, fra qualche ora, sul riconoscimento della Palestina come Stato osservatore non membro. Per quanto siano pesanti, i no di Stati Uniti e Israele non saranno determinanti. Cina e Russia voteranno a favore.L’Unione europea, come spesso, anzi sempre, quando c’e’ di mezzo Israele, si presenta al voto divisa: Gran Bretagna e Germania dovrebbero astenersi; Olanda, Repubblica Ceca votare contro, mentre quasi tutti gli altri, fra cui l’Italia, s’avviano a un voto favorevole: la Francia, una delle potenze con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e, inoltre, sicuramente, l’Austria, Belgio, Cipro, Danimarca, Finlandia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Portogallo e Spagna.

Questa mossa del presidente palestinese Abu Mazen e’ una sfida aperta agli Stati Uniti e alle minacce israeliane di recedere dagli Accordi di Oslo. Ma l’impatto, sul piano pratico, potrebbe essere modesto. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito che il si’ dell'Onu alla Palestina come Stato osservatore non membro "non cambiera' nella sul terreno": "Non avvicinera' la costituzione di uno Stato palestinese, anzi la allontanera'", ha aggiunto, assicurando pero' che "la mano di Israele resta tesa verso la pace".

La risoluzione consentira', pero’, ai palestinesi di chiedere al Tribunale Penale Internazionale di indagare su crimini eventualmente commessi dalla leadership israeliana durante il pluridecennale conflitto israelo-palestinese, che proprio questo ha conosciuto una fiammata di recrudescenza con i tiri di razzi palestinesi su Israele e i raid aerei israeliani sulla Striscia di Gaza. Sembra esclusa, al momento, una reazione statunitense del tipo di quella quando i palestinesi entrarono all’Unesco: Washington taglio’ i fondi all’organizzazione per la cultura.

La posizione dell’Italia, a lungo incerta, e’ stata annunciata a meta’ pomeriggio: una nota di Palazzo Chigi contiene la decisione e la spiegazione. Prima di farla pubblicare, il premier Mario Monti, ha chiamato il presidente Anp Abu Mazen e il premier Netanyahu, per spiegare loro l’intendimento dell’Italia. In particolare, Monti ha chiesto ai palestinesi di accettare il riavvio immediato dei negoziati di pace senza precondizioni e di astenersi dall'utilizzare questo voto per ottenere l'accesso ad altre Agenzie Specializzate delle Nazioni Unite, per adire la Corte Penale Internazionale o per farne un uso retroattivo. E Monti ha rassicurato il premier israleiano sulla "forte e tradizionale amicizia" dell'Italia e ha sottolineato il fermo impegno italiano a evitare qualsiasi strumentalizzazione del voto.

"Tale decisione – indica la nota - e' parte integrante dell'impegno del Governo italiano volto a rilanciare il processo di pace con l'obiettivo di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, che possano vivere fianco a fianco, in pace, sicurezza e mutuo riconoscimento. A questo fine, il Governo si e' adoperato in favore della ripresa del dialogo e del negoziato, moltiplicando le occasioni di incontro con le parti coinvolte nel conflitto medio-orientale ... ricevendo conferma della loro volonta' di riavviare il negoziato di pace e giungere all'obiettivo dei due Stati ».

L’Agi riferisce le prime reazioni alla mossa italiana. Nemer Hammad, ex rappresentante dell'Olp in Italia e oggi consigliere di Abu Mazen, l’ha definita una decisione "giusta", che dara’ "una prospettiva internazionale per mettere fine all'occupazione israeliana". L'ambasciatore israeliano a Roma, Naor Gilon, si e' detto invece "molto deluso".

In Cisgiordania e a Gaza, sempre secondo quanto riferisce l’Agi, c'e' un clima di festa, anche se molti riconoscono che la situazione sul terreno non cambiera. In Israele, invece, l'atmosfera e' di rassegnazione.

Usa: è piena di spine la rosa dell' 'Obama 2'

Scritto per l'Indro il 28/11/2012 

E’ piena di spine, la rosa dell’ ‘Obama2’, che pure, a rigor di calendario istituzionale, non è ancora cominciato. Il secondo mandato del presidente nero inizierà il 20 gennaio, con il re-insediamento alla Casa Bianca. Ma che, di fatto, s’è avviato subito dopo l’Election Day, il 6 novembre. Il primo sussulto è stato il momento di tensione tra israeliani e palestinesi, che ha coinciso con una missione in Asia di Barack Obama. E, ora, l’Amministrazione democratica sta negoziando con il Congresso per evitare una cura d’austerità forzata ai cittadini americani: la Camera è controllata dall’opposizione repubblicana, che, però, lunedì ha aperto uno spiraglio riconoscendo l’opportunità di maggiori entrate fiscale. Un’ammissione fatta a labbra semi-chiuse e imbarazzante, per tutti quei deputati ‘scuola Tea Party’ che si sono impegnati a non aumentare le tasse. Ma tant’è!, le elezioni sono appena passate: chi è stato eletto è sicuro del proprio posto per i prossimi due anni: e se qualcuno deve rimangiarsi una promessa, meglio farlo ora, che la gente se ne può dimenticare, che più avanti.

Per l’Amministrazione Obama, il problema più grosso è quello che viene comunemente definito ‘fiscal cliff’: la trattativa va chiusa entro la fine dell’anno, quindi con il Congresso uscente, perché quello nuovo, uscito dal voto di novembre, s’insedierà solo ai primi di gennaio.  E, a quel punto, giochi e guai saranno già fatti. Su un altro fronte, la Corte Suprema ha appena giudicato ammissibile l’ennesimo ricorso contro la riforma sanitaria, la cosiddetta ‘Obamacare’.

Il presidente deve inoltre pensare a rinnovare la sua squadra: se ne andranno, fra gli altri, due pezzi da novanta, il segretario di Stato Hillary Clinton e il segretario al Tesoro Timothy Geithner. Al Senato, i repubblicani stanno già impallinando Susan Rice, ambasciatrice Usa alle Nazioni Unite e in pole position per succedere alla Clinton. La Rice –è l’accusa- non sarebbe stata sincera sull’attacco al consolato di Bengasi a settembre, costato la vita a quattro americani, fra cui l’ambasciatore Chris Stevens. La Casa Bianca le ha invece confermato la fiducia (e un senatore repubblicano autorevole, John McCain, candidato alla Casa Bianca nel 2008, ha un po’ smussato le sue critiche).

Sul piano economico-finanziario, Obama ha rapidamente ovviato alle dimissioni di Mary Schapiro alla testa della Sec, la Consob americana, sostituendola con un’altra donna, Elisse Walter. Invece, s’annuncia più delicata la sostituzione di Geithner. In soccorso al presidente, e non solo su questo, viene Warren Buffet, l’uomo più ricco d’America, che indica il miglior candidato nell’amministratore delegato di JPMorgan Jamie Dimon. Intervistato dalla Pbs, Buffett dice "Se dovessimo avere problemi sui mercati, ritengo che Dimon sarebbe il migliore nel ruolo”, perché –spiega- “i leader del mondo hanno fiducia in lui". L’ ‘endorsement’ di Buffett dovrebbe fare piacere ad Obama: Dimon è stato definito dal New York Times il "banchiere preferito" dalla Casa Bianca.

Il presidente deve pure badare ai fronti internazionali: con la Cina, Washington preme perché Pechino intensifichi la rivalutazione della yuan, anche se l’Amministrazione democratica evita, finora, di bollare gli interlocutori cinesi come “manipolatori dei tassi di cambio”. Lo fece, invece, Mitt Romney, il candidato repubblicano, in campagna elettorale. Quanto all’Egitto, l’intesa appena trovata con il presidente Mohamed Morsi, nei giorni cruenti della crisi israeliano-palestinese, viene messa alla prova dalla deriva autoritaria del suo regime.

Ma l’attenzione è soprattutto rivolta ai negoziati economico-finanziari con il Congresso: obiettivo, evitare tagli della spesa drammatici e sgravi fiscali per i soli ricchi, nella scia dei regali fatti dall’Amministrazione Bush ai paperoni d’America. Oggi, Obama consulta le imprese americane: ci sono, fra gli altri e senz’ordine, gli amministratori delegati di Goldman sachs Lloyd Blankfein, Merck Kenneth Frazier, Yahoo Marissa Mayer, Caterpillar Doug Oberhelman, Pfizer Ian Read, AT&T Randall Stephenson, Deloitte LLP Joe Echevarria e CocaCola Muhtar Kent. Il presidente spinge perché il Congresso estenda i tagli delle tasse alle imprese, nel tentativo di favorire produttività e occupazione. Se non ci sarà un accordo tra l’Amministrazione e Camera e Senato, scatteranno, nel 2013, aumenti delle tasse e tagli delle spese per ridurre il debito.

Obama cerca l'appoggio delle grandi aziende alle sue proposte, che saranno illustrate poi venerdì, durante la visita a una società della Pennsylvania. Anche in questo caso, Buffett gli viene in aiuto, anzi lo scavalca: sul New York Times, ha prospettato “una tassa minima per i più ricchi, cioè 30% del reddito imponibile" per chi guadagna fra uno e dieci milioni di dollari l'anno e 35% per chi guadagna di più.

In campagna elettorale, Buffett aveva messo in difficoltà il repubblicano Romney, denunciando che chi trae i propri guadagni da operazioni finanziarie paga appena il 15% di tasse, la metà di quanto pagano i suoi dipendenti. E il miliardario democratico sostiene: "Una regola semplice come questa bloccherebbe gli sforzi di lobbisti e avvocati per cercare di far sì che i più abbienti siano sottoposti ad aliquote fiscali inferiori a quelle di chi guadagna solo una piccola frazione del loro reddito". Ma è difficile che i repubblicani in Congresso prestino ascolto a Buffett, dopo avere fatto orecchie da mercante ad Obama.

martedì 27 novembre 2012

Ue: Eurogruppo, oggi Atene non ride e Roma piange

Scritto per il blog de Il Fatto il 27/11/2012. Altra versione su l'Indro
Mai che si possa stare un giorno tranquilli. Al terzo tentativo, l’Eurogruppo, a notte fonda, trova l’accordo sugli aiuti alla Grecia e la riduzione del debito. Le Borse fanno festa dall’Asia all’Europa, lo spread scende sotto quota 330, i ministri se ne vanno da Bruxelles soddisfatti. Tutto bene? Macché. Proprio oggi l’Ocse rivede al ribasso le stime dell’Italia: nel 2013, Pil -1% -hai capito?, l’uscita dal tunnel-, ancora su la disoccupazione, ancora giù i consumi. E potrebbe servire una nuova manovra (ma il responsabile dell’economia Grilli lo nega).
Se quella greca è una minestra riscaldata, il piatto italiano oggi è servito freddo (e indigesto). Anzi, BankItalia ci aggiunge il contorno del calo del 2,5% del reddito delle famiglie quest’anno, che va a sommarsi al 5% già perso nel 2008/2011. Insomma, tocca a Roma piangere, senza che Atene possa proprio ridere: farmacie chiuse per il secondo giorno consecutivo, medicinali che scarseggiano, crisi che morde.
L’intesa raggiunta dall'Eurogruppo con il Fondo monetario internazionale per lo sblocco degli aiuti in sospeso e la riduzione del debito è ancora condizionale e non regala nulla ad Atene. L’accordo prevede che la Grecia, che secondo il piano di risanamento originario doveva riportare il rapporto debito / Pil al 120% entro il 2020, scenda al 124% (dall’attuale 190%), con l’impegno di arrivare poi al 110% nel 2022; e che il rapporto deficit/Pil scenda al 3% entro il 2016 –e non più entro il 2014-. Due misure che comportano costi extra rispetto ai calcoli finora fatti: circa 32 miliardi di euro tra il 2014 e il 2016.
Sulle modalità perché ciò avvenga si discute ancora. Comunque, "si sono ora tutte le condizioni" per versare alla Grecia i 43,7 miliardi di euro di aiuti che aspetta, anche se la decisione formale verrà presa il 13 dicembre, dopo che i parlamenti nazionali che devono farlo, tra cui quello tedesco, si saranno pronunciati e dopo che sarà stata valutata l’operazione di 'buyback' che Atene dovrebbe avviare: lo si legge nelle conclusioni dell'Eurogruppo.
Il mix di misure alla base dell’intesa con l’Fmi prevede "sforzi da parte di tutti", ovvero Ue, Grecia e Fmi, ha detto il presidente dell'Eurogruppo Jean Claude Juncker al termine della riunione durata oltre 12 ore: taglio degli interessi sui prestiti bilaterali, riduzione del costo delle garanzie che Atene paga al fondo salva-stati Efsf, una moratoria di 10 anni sui tassi dei prestiti concessi dal fondo salva-Stati Efsf, un'estensione di 15 anni delle scadenze dei prestiti e uno slittamento di 10 anni sui pagamenti degli interessi. Inoltre, gli Stati rinunciano ai loro profitti sui bond greci: li verseranno direttamente ad Atene su un conto bloccato. Di dare una sforbiciata al debito s’è parlato, ma Berlino non ci sta.
Il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi legge il pacchetto in positivo: “L’intesa rafforza la fiducia in Atene e nell’euro”, dice. E Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, plaude alle conclusioni dell’Eurogruppo. Dopo i brucianti flop dei due Eurogruppo precedenti, era ormai chiaro che il negoziato non si svolgeva più tra Grecia e troika delle istituzioni finanziarie internazionali (Ue, Bce, Fmi), ma è piuttosto tra Eurozona ed Fmi.

Per una volta, a Bruxelles non è finita in pareggio. Anche se capire chi ha vinto, tra Grecia, Ue, Bce ed Fmi non è proprio facile.

Grecia: Eurogruppo, com'è difficile l'accordo tra Ue e Fmi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/11/2012. Aggiornamento su EurActiv il 27/11/2012

Ma quanto glieli fanno sospirare gli aiuti promessi a ‘sta Grecia, dove –è allarme di ieri- cominciano a scarseggiare i medicinali, segnale estremo della gravità della crisi economica e sociale. Al Vertice europeo della scorsa settimana, quello finito con un nulla di fatto sui bilanci Ue 2014/20120, i leader avevano detto che non c’era più problema e che la riunione dell’Eurogruppo, lunedì, sarebbe stata poco più di una formalità. Meno di 24 ore dopo, tutto invece pareva sul punto di saltare, o almeno di slittare al 3 dicembre.

Poi la riunione è stata confermata e, ieri, di nuovo, fino a metà giornata, anche il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble si mostrava ottimista, almeno per quello che veniva presentato come un accordo politico,

Ma, cominciati i lavori, sono cominciati i dolori. Sotto la presidenza di Jean-Claude Juncker, i ministri delle finanze dei Paesi dell’euro cercavano di definire, con l’Fmi, il Fondo monetario internazionale, un piano per rendere il debito ellenico sostenibile.

E così la riunione è andata avanti a tarda sera, sotto l’incubo dei due insuccessi precedenti. Perché quella di ieri è stato il terzo incontro, in meno di due settimane, dell’Eurogruppo sempre sugli aiuti alla Grecia. E fortuna che il Vertice europeo di metà ottobre aveva dato il suo avallo a interventi che evitino il fallimento di Atene.

Dopo i brucianti flop degli appuntamenti precedenti, è ormai chiaro che il negoziato non si svolge più tra Grecia e troika delle istituzioni finanziarie internazionali (Ue, Bce, Fmi), ma è piuttosto tra Eurozona ed Fmi: i temi sul piatto sono l’abbattimento del debito –come ed entro quando- e l’erogazione degli aiuti.
Il commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn dice: “E’ essenziale raggiungere un’intesa. Incoraggio tutti a percorrere l’ultimo miglio, anzi gli ultimi centimetri che mancano, perché siamo molto vicini”. Ma Rehn è quello che, giovedì scorso, giurava che tutti i 27 erano pronti a varcare le loro linee rosse nel negoziato sul bilancio (e, invece, nessuno ha poi varcato la propria).
La questione più urgente sono i 31,2 miliardi di prestiti promessi ad Atene e non ancora concessi. Sul punto c’è stata sabato una teleconferenza informale, che ha sciolto nodi e fissato un calendario. I contatti sono proseguiti ieri mattina: a colloquio, fra gli altri, il premier Monti e la cancelliera Merkel.
Eppure, alla fine, un rinvio della decisione finale al prossimo Eurogruppo del 3 dicembre resta possibile. L’emergenza di metà novembre, invocata dal governo Samaras, è stata, infatti, superata: l’esecutivo ellenico ha pagato gli stipendi con l’emissione di nuovi titoli di Stato.
La buona notizia per Atene è che la linea di aiuti potrebbe essere rimpinguata. Oltre ai 31 miliardi, infatti, sono già pronti altri 12,8 miliardi circa. Bisogna, dunque, di ragionare su un pacchetto unico del valore di 44 miliardi.
Più che di aiuti, ieri s’è parlato del debito di Atene: s’è discusso della concessione di due anni in più (dal 2014 al 2016) alla Grecia per portare il rapporto deficit/Pil al 3% e dell’allungamento dal 2020 al 2022 del termine per ridurre il rapporto debito/Pil al 120% (dall’attuale 190%). Due misure che comportano costi extra rispetto ai calcoli finora fatti: circa 32 miliardi di euro tra il 2014 e il 2016.
Anziché a una ristrutturazione del debito, come chiede l’Fmi, si pensa ad alcune soluzioni gradite alla Germania, recuperando qualche miliardo in giro per l’Europa tra i creditori di Atene: sarebbe  una ristrutturazione 'soft'.
L’ipotesi prevede un abbattimento d’ufficio dei tassi di interesse dei prestiti concessi dalla Grecia e la cessione ad Atene di parte degli interessi maturati dalle banche centrali su obbligazioni elleniche in loro possesso. Ma l’ipotesi di una ‘sforbiciata’ al debito non è ancora tramontata, sebbene Berlino, continui ad esservi fermamente contraria.

lunedì 26 novembre 2012

Spagna: Catalogna, l'indipendenza s'allontana

Scritto per l'Indro il 26/11/2012

Sostenere che ha vinto l’Europa, o la Spagna, sarebbe dura. Ma il disegno di una Catalogna indipendente e fuori dall’Ue appare molto più sfumato, dopo le elezioni di domenica: le formazioni ‘indipendentiste’ hanno vinto, ma la maggioranza scaturita dal voto è eterogenea e ingovernabile. C’è il rischio che Artur Mas, il leader di Convergencia i Unio, debba rinunciare al referendum sull’ ‘Estado Prioprio’, lo Stato indipendente. Il suo partito resta quello di maggioranza relativa con 50 seggi, ma ne perde 12 e fallisce l’obiettivo della maggioranza assoluta (68 seggi sui 135 della Camera catalana).

Dietro CiU, gli indipendentisti di sinistra della Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), che raddoppia i seggi da 10 a 21 e diventa la seconda forza politica del Parliament catalano. Il Psc, Partito socialista catalano, continua il suo tracollo e scende da 28 a 20 seggi, mentre il Partito popular del premier spagnolo Mariano Rajoy è praticamente stabile a 19 (da 18). Sotto i 10 seggi formazioni nuove e minori, fra cui la sinistra localista o gli eco-socialisti.

Lo scrutinio catalano –osserva sull’ANSA Emanuele Riccardi- era divenuto un test d’importanza continentale, seguito “con grandissimo interesse in tutta Europa, e non solo nelle aree secessioniste, come la Scozia o le Fiandre o la Padania”. Dopo la caduta del Muro e la riunificazione della Germania, l’Europa è traversata da spinte alla frammentazione: l’Urss e la Jugoslavia si sono frantumate, rispettivamente, in 15 e 7 Stati indipendenti, la Cecoslovacchia s’è divisa in Repubblica Ceca e Slovacchia; e pulsioni autonomiste e indipendentiste restano forti anche all’interno di alcuni dei nuovi Stati.

Il voto catalano, nel cuore della crisi economica dell’eurozona e in particolare della Spagna, poteva dare una spinta alla disgregazione anche degli Stati unitari più antichi e più forti –solo la Francia appare relativamente indenne dal germe, perché l’indipendentismo corso, o bretone, sono più folclorismi che fenomeni politici reali-. E, invece, a Mas non è andata come lui e i suoi sostenitori speravano.

La stampa spagnola giudica, anzi, il risultato elettorale “un duro castigo” per Mas e CiU. La via verso l’indipendenza –scrive- “affonda nelle urne": la sfida più rischiosa del leader catalano s’è rivelata un boomerang, non solo perché il presidente della Generalitat non ha ottenuto la maggioranza assoluta sperata per guidare il processo indipendentista, ma anche perché è ora costretto a cercare appoggi scomodi nel Parliament per governare. “Duro castigo” non è un titolo madrileno: campeggia sulla Vanguardia, il quotidiano di Barcellona per antonomasia, che nell'editoriale sottolinea come il presidente della Generalitat debba "riflettere sulla crisi economica" più che sull’indipendenza.

Mas aveva bruscamente interrotto la legislatura e convocato elezioni anticipato. La sua è stata “una sfida fallita” –il giudizio è di El Pais-: "Se non avesse puntato tutto sull'agenda indipendentista, Mas potrebbe aver cercato alleati da un lato all'altro dello spettro ideologico".  Ma tutti i quotidiani insistono sulle differenze ideologiche e in materia economica e sociale fra i nazionalisti conservatori di CiU e i radicali indipendentisti di sinistra di Erc, che contano molti ex comunisti nelle loro fila.

"Batosta" urla a tutta pagina l'altro quotidiano di Barcellona, El Periodico. E ben più duri sono i titoli dei quotidiani di area conservatrice. A cominciare da El Mundo, che con un'ironia al vetriolo scrive in prima pagina: 'Mas entra nella Storia', come protagonista "della maggiore buffonata elettorale in trent’anni di politica delle autonomie". Per ABC, le elezioni di ieri hanno segnato la fine della “chimera della sovranità'' e “la vittoria della Spagna”.

Ed Erc già detta le condizioni  per avviare colloqui sul futuro del paese, cioè della Catalogna, verso  il referendum: primo, che CiU rompa gli accordi con il Partido popular del premier Rajoy nella Provincia di Barcellona e nei municipi dove governano assieme; secondo, che Mas non faccia ulteriori tagli alla spesa sociale nella Finanziaria che il governo regionale deve varare per il 2013. L'impressione è che gli indipendentisti di sinistra non prevedano affatto di entrare nel governo Mas e stiano invece preparandosi a guidare l'opposizione nel Parliament.

sabato 24 novembre 2012

Ue: bilancio; il 27 hanno la ‘pareggite’, finisce sempre 0 a 0

Scritto per il blog de Il Fatto il 24/11/2012. Altra versione su EurActiv.it

L’Unione europea è una squadra di calcio che non sa più vincere una partita, ma che neppure ne perde: le pareggia tutte. E allora gli incontri tocca ripeterli. La difesa tiene: tutti lì a stare attenti a non prendere gol. Ma è l’attacco che è spuntato: viene da pensare che davanti ci sia Vucinic, quello svogliato che gioca in pantofole, se non fosse che è montenegrino e, con i 27, ancora non c’entra.

Il bello –o il brutto?- è che il pubblico neppure più ci fa caso, o quasi. Anche quello professionalmente interessato: prendete le borse, i mercati, la finanza, quelli che, fino a luglio, pareva che stessero tutti attenti a dare l’assalto alla diligenza dell’euro. Bene, questa settimana tutte le borse europee avevano il vento in poppa, l’euro s’è rafforzato e lo spread s’è abbassato –mica tanto, a 331, ma comunque è andato un po’ giù-. Eppure, l’Ue non ne ha azzeccata una che una: a vuoto la riunione dell’Eurogruppo sulla Grecia; a vuoto i negoziati sui bilanci suppletivo 2012 e previsionale 2013; e a vuoto il Consiglio europeo di giovedì e venerdì.

Proprio il Vertice straordinario sulle previsioni finanziarie 2014/2020 è stata l’ennesima conferma della ‘pareggite’ europea: nulla di fatto; e tutti a farsi la doccia –che sarebbe come dire le conferenze stampa-. Scenderanno di nuovo in campo a gennaio, o a febbraio. Impatto: sul piano pratico, zero, o giù di lì, perché le decisioni da prendere entreranno in vigore solo il 1.o gennaio 2014 e, di qui ad allora, hai voglia quanto puoi negoziare.

Ma, sul piano dell’immagine, hai fatto un bel guaio: hai dato l’impressione, che è sostanziale, di litigi e divisioni. La figuraccia te la sei andata a cercare: primo, perché non c’era nessun bisogno di convocare un Vertice straordinario sulle prospettive finanziarie a medio termine se le posizioni negoziali erano ancora lontane; e secondo perché hai fatto di un fossato un vallo, inducendo i leader a sciorinare le differenze invece che a sottolineare i punti in comune.

Il premier britannico David Cameron, che, quando c’è da scucire soldi per l’Ue, è peggio di uno scozzese, dice che non era solo, ma che erano in sei a tenere duro. La cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande questa volta pareva non giocassero nella stessa squadra. Il premier Monti e il presidente Hollande, invece, sì: entrambi a definire “iniquo” il sistema degli sconti di cui beneficia soprattutto la Gran Bretagna e entrambi a difendere le spese per l’agricoltura e quelle per la coesione.

Adesso, il mediatore Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, rifarà a casa i compiti d’una bozza di compromesso e se ne riparlerà con calma. Però, attenzione: di che cosa stiamo parlando?, qual è ‘sto fossato divenuto vallo? Vi do poche cifre, che bastano: chi per l’Unione intende spendere di più nei sette anni dal 2014 al 2020, come la Commissione e il parlamento europei, arriva a 1091 miliardi di euro, trattabili; chi vuole spendere di meno, la Gran Bretagna, si ferma a 960 miliardi di euro, trattabili; la proposta di compromesso Van Rompuy 2 s’attesta un po’ sopra i mille miliardi, 1.010 circa… Il che vuol dire che c’è comunque una base d’accordo del 90% abbondante e che si discute del 10% restante. Non valeva proprio la pena di farne una piazzata: stiamo parlando di 10 miliardi di euro in più o in meno l’anno per 450 milioni di cittadini circa, più o meno 20 euro a testa.

Quasi a farsi perdonare l’ennesimo 0 a 0, i Paesi della zona euro ora assicurano che la decisione sugli aiuti alla Grecia è cosa fatta e che la prossima riunione dell’Eurogruppo, lunedì, sarà poco più di una formalità: vedremo, visto che ce ne sono già state tre d’interlocutorie dopo il Vertice di metà ottobre. Perché, a mai vincere, e sempre pareggiare, si rischia di retrocedere, La Grecia di sicuro.

venerdì 23 novembre 2012

Ue: bilancio; Vertice, i 27 non sanno più decidere, solo rinviare

Scritto per l'Indro il 23/11/2012

Da un rinvio all’altro, l’Unione europea non è più capace di prendere decisioni: né quando c’è il fuoco dell’urgenza, né quando ci sarebbe agio di negoziare con tutta calma. Com’é il caso delle trattative sulle prospettive finanziarie 2014-2020, dove i miliardi di euro di differenza tra chi vuole spendere di meno e chi è disposto a spendere di più sono un centinaio in sette anni, poco più di 15 all’anno. Eppure bastano a mandare tutto all’aria; o, almeno, a rinviare tutto a gennaio, quando i leader dell’Ue giurano non sarà difficile trovare un’intesa: “C’è il potenziale per raggiungere un accordo”, è il ritornello a fine lavori.

Nel frattempo, quasi a farsi perdonare questo passo falso –solo il presidente della Commissione europea José Manuel Durao Barroso parla apertamento di “fallimento”-, i paesi dell’Eurogruppo già assicurano che la decisione sugli aiuti alla Grecia è cosa fatta e che la prossima riunione dell’Eurogruppo sarà poco più di una formalità: vedremo, visto che ce ne sono già state tre d’interlocutorie dopo il Vertice di metà ottobre. E vedremo pure come andrà a fine con il bilancio suppletivo 2012 e con quello preventivo 2013, rimasti in alto mare.

Dunque, il Consiglio europeo straordinario di Bruxelles si conclude con un nulla di fatto e, per dirla come il premier lussemburghese Jean Claude Juncker "senza né vincitori, né vinti". Il Vertice ha affidato al suo presidente Herman Van Rompuy il mandato di presentare una nuova bozza di compromesso finanziario che sarà discusso in un nuovo incontro, probabilmente a gennaio.

Che il rinvio fosse la conclusione più probabile, lo si era capito fin dalla vigilia, quando l’ipotesi era stata evocata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e da altri leader, nella convinzione, condivisa dal governo italiano, che un rinvio sarebbe stato meno drammatico di una rottura, in particolare con la Gran Bretagna, il Paese più restio a versare soldi nelle casse comunitarie e più determinato a mantenere uno sconto sul suo contributo netto.

Van Rompuy, bersaglio di tutte le critiche in quanto autore della bozza di compromesso contestata, afferma che non è il caso di "drammatizzare”, perché, ricorda, “anche nel 2005 servirono due tornate" di negoziati "per arrivare all’accordo" sulle prospettive finanziarie pluriennali. E il presidente del Consiglio italiano Mario Monti lo conforta: "Non avere raggiunto l’intesa oggi non pregiudica nulla: ricordiamoci che il tutto entrerà in vigore nel 2014", sottolineando che "non è la rapidità della decisione a contare, ma il loro contenuto”.

Che non ci fosse il clima del negoziato ad oltranza e dell’accordo a ogni costo, lo si era capito subito: la prima giornata, giovedì, è stata spesa in una guerra di trincea combattuta dalle singole delegazioni nei confessionali con Van Rompuy, che voleva così saggiare priorità e possibili concessioni. L’esercizio è sfociato in una bozza di compromesso rivista rispetto a quella trasmessa la scorsa settimana a tutte le delegazioni: saldi invariati, con un taglio di 80 miliardi di euro rispetto alle proposte di partenza della Commissione europea, ma diversa articolazione delle riduzioni (venendo così incontro a Italia e Francia, specie su agricoltura e politiche per la coesione). Ma la Gran Bretagna ha continuato a dire che così si spende troppo e li altri hanno continuato ad avanzare le loro recriminazioni.

Il negoziato non è mai decollato: i leader si sono riuniti in plenaria poco dopo mezzogiorno, avendo speso la mattina in ulteriori bilaterali, ma nessuna aveva la voglia di impegnarsi in una trattativa a oltranza. Quattro ore o poco più di traccheggi e poi il rinvio: una fine annunciata. Triste, ma non troppo. E, dal punto di vista dell’operatività dell’Ue, ininfluente. L’immagine, certo,non ci guadagna.

Ue: bilancio; Vertice, ipotesi compromesso, ma incombe rinvio


Scritto per EurActiv il 23/11/2012

Il Vertice straordinario sulle prospettive finanziarie dell’Unione europea 2014/2020 riprende, oggi, a Bruxelles, alle 12.00, dopo una pausa per valutare la proposta di compromesso presentata ieri sera dal presidente della riunione Herman Van Rompuy, per il quale “un accordo è a portata di mano”. Sulle discussioni, protrattesi fino a mezzanotte e poi aggiornate, incombe l’ipotesi di un rinvio, avanzata fin dall’arrivo al Justus Lipsius dalla cancelliera tedesca Angela Merkel.

Un rinvio non avrebbe sull’Ue un impatto negativo immediato, ma confermerebbe la difficoltà a decidere che, in questo momento, hanno i Paesi dell’Unione: nelle ultime settimana, sono andate a vuoto riunioni sulla crisi della Grecia per evitare la bancarotta di Atene, sul bilancio suppletivo 2012 e su quello previsionale 2013, tutte decisioni ben più urgenti delle prospettive finanziarie a medio termine.

La bozza di compromesso elaborata da Van Rompuy dopo un giro di ‘confessionali’, cioè d’incontri bilaterali con tutti i leader Ue per misurarne priorità irrinunciabili e possibili concessioni, prevede una riduzione di circa 80 miliardi di euro rispetto alle proposte iniziali della Commissione europea, un po’ più del 5% del totale, ma modifica i tagli già ipotizzati venendo incontro alle richieste di Italia e Francia, fra gli altri, di colpire di meno le politiche di coesione e l’agricoltura.

Se Van Rompuy è ottimista, il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz è scettico, mentre altri leader sottolineano che il negoziato resta difficile. Il commissario europeo Olli Rehn, ieri, era stato il più positivo, sicuro che tutti i leader “sapranno superare le loro rispettive linee rosse” e andare verso il compromesso.

Il premier italiano Mario Monti sta valutando la proposta di Van Rompuy, dopo avere sottolineato che non accetterà “penalizzazioni” per l’Italia e indicato le stelle polari d’una possibile intesa: “Equità, solidarietà, uso efficiente delle risorse”. Monti è scortato al Vertice dai ministri Barca, Catania e Moavero, a conferma che le priorità sono coesione e agricoltura.

Il presidente francese François Hollande, come in genere tutti i leader dei Paesi dell’Europa centrale, vorrebbe meno tagli rispetto alle cifre della Commissione, la Merkel di più. Il premier britannico David Cameron smentisce le indiscrezioni del Financial Times su una sua linea morbida, conferma che Londra vorrebbe in pratica congelare il bilancio Ue fino al 2020 sui valori 2011 e fa sapere che non intende rinunciare al proprio sconto sul contributo al bilancio comunitario, senza, però, evocare l’ipotesi d’un ricorso al veto.

In queste ore, a Bruxelles, si dice ad alta voce quel che si sussurra da giorni a Berlino: che un rinvio non sarebbe per nulla drammatico. E si parla di un nuovo Consiglio europeo straordinario a gennaio, perché il calendario di dicembre è già occupato da un Vertice consacrato all’Unione bancaria.

giovedì 22 novembre 2012

Ue: bilancio, il Vertice deve ancora iniziare ed è già rinvio

Scritto per l'Indro il 22/11/2012

Il Vertice deve ancora iniziare e la soluzione di un rinvio appare già scontata. Almeno nelle parole della cancelliera tedesca Angela Merkel, che, arrivando a Bruxelles, dice ad alta voce quel che si sussurra da giorni a Berlino: che un rinvio non sarebbe per nulla drammatico. E si parla di un nuovo Consiglio europeo straordinario il prossimo gennaio, perché il calendario di dicembre è occupato da un Vertice consacrato all’Unione bancaria.

Tranne la Merkel, tutti i leader che contano in questa trattativa si sono presentati al Justus Lipsius con dichiarazioni bellicose. In primo luogo, il premier britannico David Cameron, che, smentendo le indiscrezioni del Financial Times su una sua linea cedevole, fa sapere che Londra non intende rinunciare al proprio sconto sul contributo al bilancio comunitario, senza, però, evocare l’ipotesi d’un ricorso al veto.

Il premier italiano Mario Monti dice che non accetterà che l’Italia sia penalizzata –e ci mancherebbe altro!- e indica le stelle polari d’una possibile intesa: “Equità, solidarietà, uso efficiente delle risorse”. Monti è scortato dai ministri Barca, Catania e Moavero, a conferma che le priorità sono coesione e agricoltura: neppure lui evoca il veto, ma non esclude il rinvio.

Il presidente francese François Mitterrand prefigura Francia e Germania “motori del compromesso”. Il commissario europeo Olli Rehn, il più ottimista, si dice sicuro che tutti i leader “sapranno superare le loro rispettive linee rosse” per andare verso il compromesso.

Il difficile negoziato sulle prospettive finanziarie Ue 2014-2020 è incominciato con i ‘confessionali’ del presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy, che vede in bilaterale, l’uno dopo l’altro, tutti i leader dei 27, per misurarne priorità irrinunciabili e possibili concessioni.

Le posizioni di partenza sono lontane, ma le distanze non paiono a priori incolmabili. Da una parte, ci sono la Commissione e il Parlamento europei, favorevoli a che l’Unione programmi di spendere, in quei sette anni, circa 1100 miliardi di euro. All’estremo opposto, c’è la Gran Bretagna, che non vuole andare oltre i 960 miliardi di euro, praticamente congelando il bilancio sui valori 2011.

Van Rompuy ha già presentato un’ipotesi di compromesso, quasi equidistante tra i due estremi, ma la affinerà nelle prossime ore, dopo avere tirato le somme dei ‘confessionali’ e prima di convocare la plenaria. I lavori proseguiranno nella notte e domani.

Il contesto della trattativa è reso meno sereno dal fatto che, nell’ultima settimana, i Paesi dell’Ue non hanno saputo chiudere nessuno dei contenziosi aperti: il bilancio suppletivo 2012, il bilancio previsionale 2013 e la questione degli aiuti alla Grecia per evitarne la bancarotta. Su questi fronti, sono già programmate, nei prossimi giorni, riunioni d’appello. E la Germania ne suggerisce ora una, quasi a priori, pure sulle prospettive finanziarie, per il cui varo l’urgenza è relativa.

mercoledì 21 novembre 2012

Ue: Vertice, la prova del bilancio dopo il flop della Grecia

Scritto per EurActiv il 21/11/2012. Altra versione su l'Indro
I leader europei s’apprestano a rinchiudersi per una notte e un giorno nella loro fortezza bruxellese, il Justus Lipsius, a discutere le prospettive finanziarie a medio termine dell’Unione: in pratica, devono decidere quanti soldi l’Ue potrà spendere tra il 2014 e il 2020, un esercizio che pare un po’ campato in aria solo a dirlo.
Si inizierà con i ‘confessionali’: uno ad uno, capi di Stato e di governo dei 27 vedranno il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, che cercherà d’esplorare i margini di accordo. C’è chi misura, nelle ultime ore, un sussulto d’ottimismo: Londra avrebbe ammorbidito le sue posizioni: e funzionari esperti notano che quando tutti sono scontenti l’intesa è vicina.
Forse. Intanto, a fare da viatico non positivoal Vertice straordinario, c’è stato il buco nell’acqua, l’ennesimo, dell’Eurogruppo: all’alba di oggi, dopo oltre 11 ore di trattative ‘non stop’, i ministri delle Finanze dei 17 Paesi della zona euro non hanno trovato un accordo sull’erogazione alla Grecia di una tranche di aiuti per oltre 31 miliardi di euro. Il presidente Jean Claude Juncker ha riconvocato un altro Eurogruppo per lunedì prossimo.
Il nodo resta quello della sostenibilità del debito pubblico greco, che nelle previsioni di Bruxelles supererà il 190% del Pil nel 2014. Inoltre, alcuni governi, fra cui quello tedesco, vogliono prima sottoporre al proprio Parlamento qualsiasi concessione alla Grecia.
Nel promettere ad Atene il secondo pacchetto di aiuti da 130 miliardi d’euro, i partner internazionali (hanno voce in capitolo anche la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale) avevano fissato l'obiettivo di un debito al 120% nel 2020. Nelle ultime settimane l'Eurogruppo ha mostrato una disponibilità a concedere alla Grecia una proroga  di due anni rispetto a tale termine, mentre l’Fmi non intende concedere deroghe.
L'argomento degli aiuti ad Atene, dice Juncker, non sarà evocato al Vertice europeo. Ma al Vertice sarebbe certo stato meglio arrivarci avendo sbrogliato la matassa Grecia e avendo pure concluso i negoziati sul bilancio suppletivo 2012 e su quello previsionale 2013. Invece, tutto è per aria e la situazione è pesante: le borse e i mercati, che lunedì e martedì s’erano fatti prendere dall’ottimismo, hanno avuto una giornata debole, anche se hanno chiuso positive, con lo spread in lieve calo..
La stampa registra il nulla di fatto all’Eurogruppo con titoli critici: i soccorritori dell'euro –scrive- "capitolano"; e ancora clima di "frustrazione" a Bruxelles. Per Der Spiegel, la lotta contro la crisi del debito “ha subito un'altra battuta d'arresto”. E il Financial Times denuncia un intreccio “d’invalicabili linee rosse”, diverse da Paese a Paese: "Vi è stata –racconta il giornale britannico- forte resistenza a qualsiasi svalutazione del valore nominale del debito greco esistente", mentre c’era più apertura sulla questione della scadenza. Tuttavia, "c'è ancora disaccordo sul ridurre i tassi di interesse di questi prestiti, con in particolare la Germania a opporre resistenza a tagli profondi".
L'accordo, scrive contestualmente Handelsblatt, non è stato raggiunto nonostante i ministri abbiano concordato che "la Grecia ha portato a termine tutte le operazioni richiestele prima della riunione". E ora che si fa? Alla domanda, Wolfgang Schaeuble, ministro delle finanze tedesche, risponde così_ "Ora, i leader dell'Ue devono davvero affrontare il problema greco. Ma non ne hanno il tempo". E, allora, l’Unione resta a metà del guado ed Atene pure: tutti sospesi allo iato tra promesse politiche e realtà economico-finanziarie, in questo estenuante gioco europeo delle decisioni politiche che, da un Vertice all’altro, non si traducono in decisioni concrete.

Congelamento, espansione, tagli, investimenti. La partita delle prospettive finanziarie 2014-2020 arriva al Vertice come a uno snodo cruciale, dopo un anno e mezzo di colloqui e ipotesi. Le posizioni attualmente in campo sono distanti, possono addirittura apparire inconciliabili. Da un lato ci sono le spinte espansive di Parlamento e Commissione, dall’altro le frenate dei Paesi membri, specie i contribuenti netti, fra cui l’Italia, che, alla britannica, minaccia un veto che certamente non vuole attuare.

Il bilancio quadro dell’Unione europea per i sette anni che vanno dal 2014 al 2020 dovrà essere approvato all’unanimità; e, dopo, dovrà incassare l’avallo del Parlamento. Attualmente, la distanza tra il Paese più rigido, la Gran Bretagna, e la proposta di base della Commissione europea è di circa 200 miliardi di euro, un quinto della spesa totale.

Se non c’è intesa, i Trattati indicano che si prenda la cifra dell’ultimo anno delle ultime prospettive approvate (2007-2013), la si moltiplichi per sette, aggiungendo una rivalutazione del 2%: così, si arriverebbe a 1.027 miliardi di euro circa. Senza, però, potere introdurre nuovi capitoli di spesa e d’investimento rispetto al periodo precedente. Una soluzione d’emergenza, che lascerebbe tutti scontenti. E la cancelliera tedesca Angela Merkel ha già detto che, di fare così, non se ne parla proprio: senza accordo, ennesimo Vertice straordinario nel gennaio 2013.

La proposta della Commissione, varata nel giugno del 2011, prevede 1.031 miliardi in impegni, cui si sommano circa 60 miliardi “extra budget”, e 987 miliardi in pagamenti. La Gran Bretagna guida il fronte dei rigoristii: per Londra, il budget comunitario dovrebbe essere congelato ai livelli 2011, salvo il recupero dell’inflazione (2% all’anno). A conti fatti, così, s’arriva a circa 940 miliardi di euro per sette anni. La Germania ragiona, invece, in percentuale del Pil: la Commissione si attesta all’1,05% del Pil europeo: Berlino vuole scendere all’1% secco. Che, tradotto in numeri, significa non più di 960 miliardi.

Sul piatto ci sono due ipotesi di mediazione: quella della presidenza di turno cipriota –un taglio, rispetto alla Commissione, di 50 miliardi di euro- e quella del presidente Van Rompuy, che ipotizza un taglio di poco più di 80 miliardi di euro. Oltre 55 miliardi andrebbero recuperati su due capitoli chiave per l’Italia: agricoltura (25,5 miliardi) e politica di coesione (29,5 miliardi).

Infine, c’è il Parlamento europeo, incline alla proposta della Commissione. La tesi è che il bilancio deve almeno confermare i livelli di spesa del periodo precedente sui capitoli chiave per essere realmente efficace: Pac e fondi di coesioni, in sostanza, sono intoccabili. E l’Assemblea, che ha poteri reali, sul bilancio Ue, minaccia di fare ostruzionismo.

MO/Asia: Obama lo strabico meglio di Ford, cammina e mastica

Scritto per l'Indro il 20/11/2012

Di Gerald Ford, 38.o presidente degli Stati Uniti, i detrattori sostenevano che non sapeva scendere la scaletta di un aereo e masticare una gomma allo stesso tempo. Ben Rhodes, vice-consigliere per la sicurezza nazionale della casa Bianca, assicura che questa Amministrazione e questo presidente, Barack Obama, sanno “camminare e masticare una gomma allo stesso tempo”: fuori di metafora, vuole dire che sanno compiere una missione in Asia senza fare gaffe, e neppure mancare di rispetto a interlocutori importanti come cinesi e giapponesi, e nel contempo seguire da vicino l’evolvere della crisi in Medio Oriente.

Come ieri, anche oggi, infatti, l’Estremo Oriente e il Medio Oriente sono stati luoghi coincidenti, per la diplomazia americana. Il presidente Obama conclude la sua missione in quella che un tempo era l’Indocina ringraziando il presidente egiziano Mohamed Morsi degli sforzi fatti per raffreddare la tensione tra israeliani e palestinesi. Obama e Morsi si parlano al telefono tre volte in 24 ore, l’ultima mentre l’AirForceOne con lo staff della Casa Bianca vola dalla Cambogia al Giappone.

La telefonata di Obama quasi coincide con l’annuncio, un po’ ottimista, di Morsi di uno stop ai raid aerei israeliani sulla striscia di Gaza iniziati una settimana fa e dell’accantonamento, per ora, dell’opzione di un intervento delle truppe di terra. Ma, in realtà le ostilità non sono cessate, con tiri di razzi intensi sul territorio israeliano, pure a sud di Gerusalemme, e incursioni aeree letali a Gaza. Dall’inizio delle operazioni, i palestinesi uccisi sarebbero 121 e quelli feriti quasi un migliaio, mentre gli israeliani uccisi sono tre.

L’intreccio di contatti diplomatici resta fittissimo. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha incontri a Gerusalemme, mentre una delegazione della Lega araba è nella striscia. Ed è in arrivo il segretario di Stato americano Hillary Clinton, che vedrà il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Abbas (la cui voce in capitolo è modesta).

Le preoccupazioni mediorientali accompagnano la missione asiatica del presidente Obama, che è stato in Thailandia, in Birmania, in Cambogia. Qui s’è svolto il vertice dell’Apec, l’Associazione che riunisce i paesi dell’Asia e del Pacifico, e qui ha incontrato il premier cinese Wen Jiabao. Obana ha detto che Stati Uniti e Cina “hanno una responsabilità speciale” : devono cioè garantire insieme una crescita duratura e stabilire delle “regole chiare”. La frase si riferiva ai contenziosi – scambi, cambi, proprietà intellettuale- tra Washington e Pechino.

Quello di Phnom Penh è stato il primo incontro fra leader americani e cinesi dopo le presidenziali del 6 novembre negli Stati Uniti e il congresso del Partito comunista cinese, che ha rinnovato tutta la dirigenza. Obama è stato poi ‘tirato per la giacca’ dal premier giapponese Yoshihiko Noda, che l’ha messo in guardia contro i sussulti di tensioni in Estremo Oriente e specialmente tra Cina e Giappone: “L’alleanza Usa-Giappone è sempre più importante, tenuto conto del deterioramento delle condizioni di sicurezza nell’Asia orientale”, ha detto Noda, rilevando che la politica americana mette l’accento sull’Asia e sul Pacifico.

Tutta la missione è stata però segnata, come abbiamo detto, da un certo strabismo dell’Amministrazione statunitense, che guardava negli occhi gli interlocutori asiatici, ma seguiva con apprensione quanto accadeva in Medio Oriente. E l’Europa, in tutto ciò? Chiusi nei palazzi dell’Unione, a Bruxelles, i ministri delle finanze dell’Eurogruppo cercano un accordo per evitare alla Grecia la bancarotta e per spianare la strada al Vertice del 22 e 23 sulle prospettive finanziarie dell’Ue a medio termine. Insomma, l’Europa si guarda l’ombelico (e non è neppure detto che riesca a vederselo).

martedì 20 novembre 2012

MO: Barack s'intende più con Mohamed che con Benjamin

Scritto per il blog de Il Fatto il 20/11/2012

La diplomazia internazionale sembra sul punto di riuscire a evitare che la fiammata di tensione, già tragica per il numero delle vittime, tra israeliani e palestinese evolva in conflitto aperto e faccia deflagrare il Medio Oriente. C’è poca Europa, in questo risultato; c’è più America; c’è molto Egitto; e c’è pure il fatto che Israele e Hamas paiono più interessati a testarsi l’un l’altro, e magari a mettere alla prova i loro nuovi interlocutori, che ad avviare uno scontro sul terreno. Israele è pronta all’offensiva, ma riconosce che una soluzione diplomatica è meglio; e Hamas vaglia le condizioni d’una tregua. Ieri, l’Egitto, il Cairo, è stato l’epicentro della diplomazia; oggi, Israele e I Territori vedono l’arrivo del segretario generale delle Nazioni Unite Ban ki-moon e del segretario di Stato Usa Hillary Clinton.

La fiammata mediorientale è una prova delicata su molti fronti: è la prima crisi israelo-palestinese dalle implicazioni potenzialmente incandescenti dopo le Primavere arabe; è una cartina di tornasole per l’Egitto dopo Mubarak; ed è, infine, la prima sfida di politica internazionale dell’ ‘Obama 2’. Il presidente appena rieletto non tocca la linea dell’alleanza con Israele, che “ha diritto di difendersi” dagli attacchi di Hamas, e insiste perché i tiri di razzi da Gaza cessino. Ma la conferma dell’alleanza, ribadita dal freno degli Usa a iniziative del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, s’accompagna all’invito alla moderazione.

Una linea analoga, seppure speculare, a quella tenuta dal presidente egiziano Mohamed Morsi, uno dei Fratelli Musulmani: a parole, non fa mancare il proprio sostegno ai ‘fratelli palestinesi’; ma poi invia a Gaza ‘solo’ il primo ministro Hiisham Qandil, che afferma la necessità di “fermare l’aggressione di Tel Aviv”, senza andare oltre, e trasforma il Cairo in un laboratorio della ricerca della tregua.

C’è la diffusa consapevolezza che la frammentazione e la friabilità del quadro arabo, con la Siria nel pieno di una guerra civile, la Libia ancora alla ricerca di un assetto post Gheddafi e il confronto tra sciiti e sunniti forse più aspro che mai, accresce l’instabilità potenziale di tutta la regione e può pure alimentare, ai confini di Israele, tentazioni di colpi di mano in Hamas o negli Hezbollah, mentre l’incertezza dovrebbe piuttosto suggerire prudenza.

La voce di Barack Obama giunge dall’Asia, dov’è in missione. A sorpresa, l’ ‘Obama 2 comincia nel segno della politica estera: in parte, questa è una scelta del presidente americano, che vuole partecipare al Vertice dell’Apec, appuntamento annuale dei Paesi che s’affacciano sul Pacifico; ma, in parte, è una scelta subita, perché delle tensioni mediorientali Obama avrebbe sicuramente fatto volentieri a meno.

Il lunedì del presidente è una giornata faticosissima, su tre fusi orari diversi: quello di Washington, dove i negoziati finanziari fra l’Amministrazione democratica e l’opposizione repubblicana vanno avanti; quello di Gaza -in serata, telefona al presidente Morsi e al premier Netanyahu-; e, infine, quello di Rangoon e Phnom Penh –in meno di 24 ore, diventa il primo presidente Usa a mettere piede in Birmania e in Cambogia-.

E l’Europa? Dal Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Ue, riuniti ieri a Bruxelles, viene un appello a un cessate-il-fuoco immediato, che sarebbe “nell’interesse di tutti”. E il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi vede “le premesse perché si arrivi a una tregua nelle prossime ore", ma Israele - aggiunge – può "autolimitare la propria forza solo se ha la sicurezza assoluta che i lanci di razzi non si ripetano". Tony Blair, inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Russia, Ue e Onu) e pure il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle si fanno vedere in Israele, ma Blair è, diplomaticamente, un fantasma e la Germania, qui, conta poco.

C’è chi crede che Netanyahu, che non ha con Obama un buon rapporto - gli preferiva il suo rivale Mitt  Romney - abbia inasprito, in questo caso, la ritorsione militare proprio per mettere alla prova la fermezza dell’America nello stare al fianco di Israele. Quali che siano le ragioni dell’azione, la reazione delinea una sorta di asse Obama – Morsi: equilibrio senza equidistanze ma, soprattutto, senza drammatizzazioni. Dai razzi di Hamas e dai raid di Israele, vengono morte e devastazione, ma anche il barlume di speranza di un’intesa, e magari di un’amicizia, fra Barack e Mohamed.