Quali
che ne siano le cause immediate e gli obiettivi ultimi, per l’una e per l’altra
parte, la fiammata di violenza nel Medio Oriente, con i tiri di razzi letali su
Israele dalla striscia di Gaza e la risposta militare israeliana apparentemente
sproporzionata, costituisce un primo delicato test su molti fronti: è la prima
crisi israelo-palestinese dalle implicazioni militari potenzialmente incandescenti
nel Medio Oriente post Primavere arabe; è una cartina di tornasole per l’Egitto
post Mubarak; ed è, infine, l’esordio in politica internazionale per l’ Obama
2’, cioè per il presidente statunitense Barack Obama appena confermato per un
secondo mandato alla Casa Bianca.
La
frammentazione e la friabilità del quadro arabo in questo momento, con la Siria
nel pieno di una guerra civile, la Libia ancora alla ricerca di un assetto post
Gheddafi e la linea di demarcazione tra sciiti e sunniti forse più netta che
mai, accresce l’instabilità potenziale e può pure alimentare, ai confini di Israele,
tentazioni di colpi di mano in Hamas o negli Hezbollah, anche se l’incertezza d’insieme
dovrebbe piuttosto suggerire prudenza.
L’Egitto
del presidente Mohamed Morsi, espressione dei Fratelli Musulmani, tiene, per il
momento, una posizione moderata: a parole, non fa mancare il proprio sostegno
ai ‘fratelli palestinesi’; nei fatti, invia a Gaza ‘solo’ il primo ministro
Hiisham Qandil, che proclama la necessità di “fermare l’aggressione di Tel
Aviv”, ma non va oltre, mentre Hamas denuncia nuovi raid e nuove vittime.
Gli
Stati Uniti del presidente Obama non cambiano la linea dell’alleanza con
Israele, che –è il refrain della Casa Bianca- “ha diritto di difendersi” dagli
attacchi di Hamas. E c’è chi crede che il premier israeliano Benjamin
Netanyahu, che non ha con Obama un buon rapporto e che avrebbe preferito una
vittoria del suo rivale Mitt Romney il 6 novembre, abbia inasprito, in questo
caso, la ritorsione militare proprio per mettere alla prova la determinazione dell’America
di stare al fianco di Israele. Come è forse vero che, se Romney avesse vinto le
elezioni, questa crisi non sarebbe scoppiata ora, ma piuttosto l’inverno
prossimo.
Quali
che siano le varie ‘molle’ dell’azione israeliana, Obama e l’Amministrazione
Usa mostrano, per il momento, un certo equilibrio e, soprattutto, evitano
drammatizzazioni. Così, il presidente americano intraprende la prevista
missione asiatica che, in occasione del Vertice dell’Apec fra le potenze del
Pacifico, lo porterà in Thailandia, Birmania e Indonesia: laggiù, gli echi di
guerra del Medio Oriente arriveranno certo attenuati, mentre risuoneranno più
forti ansie, dubbi e interrogativi sulla Cina che è appena uscita dal congresso
del Partito comunista con nuovi leader.
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