Di Gerald Ford, 38.o presidente degli Stati Uniti, i
detrattori sostenevano che non sapeva scendere la scaletta di un aereo e
masticare una gomma allo stesso tempo. Ben Rhodes, vice-consigliere per la
sicurezza nazionale della casa Bianca, assicura che questa Amministrazione e
questo presidente, Barack Obama, sanno “camminare e masticare una gomma allo
stesso tempo”: fuori di metafora, vuole dire che sanno compiere una missione in
Asia senza fare gaffe, e neppure mancare di rispetto a interlocutori importanti
come cinesi e giapponesi, e nel contempo seguire da vicino l’evolvere della
crisi in Medio Oriente.
Come ieri, anche oggi, infatti, l’Estremo Oriente e il
Medio Oriente sono stati luoghi coincidenti, per la diplomazia americana. Il
presidente Obama conclude la sua missione in quella che un tempo era l’Indocina
ringraziando il presidente egiziano Mohamed Morsi degli sforzi fatti per
raffreddare la tensione tra israeliani e palestinesi. Obama e Morsi si parlano
al telefono tre volte in 24 ore, l’ultima mentre l’AirForceOne con lo staff
della Casa Bianca vola dalla Cambogia al Giappone.
La telefonata di Obama quasi coincide con l’annuncio,
un po’ ottimista, di Morsi di uno stop ai raid aerei israeliani sulla striscia
di Gaza iniziati una settimana fa e dell’accantonamento, per ora, dell’opzione
di un intervento delle truppe di terra. Ma, in realtà le ostilità non sono
cessate, con tiri di razzi intensi sul territorio israeliano, pure a sud di
Gerusalemme, e incursioni aeree letali a Gaza. Dall’inizio delle operazioni, i
palestinesi uccisi sarebbero 121 e quelli feriti quasi un migliaio, mentre gli
israeliani uccisi sono tre.
L’intreccio di contatti diplomatici resta fittissimo.
Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha incontri a Gerusalemme, mentre
una delegazione della Lega araba è nella striscia. Ed è in arrivo il segretario
di Stato americano Hillary Clinton, che vedrà il premier israeliano Benjamin
Netanyahu e il presidente palestinese Abu Abbas (la cui voce in capitolo è
modesta).
Le preoccupazioni mediorientali accompagnano la
missione asiatica del presidente Obama, che è stato in Thailandia, in Birmania,
in Cambogia. Qui s’è svolto il vertice dell’Apec, l’Associazione che riunisce i
paesi dell’Asia e del Pacifico, e qui ha incontrato il premier cinese Wen
Jiabao. Obana ha detto che Stati Uniti e Cina “hanno una responsabilità
speciale” : devono cioè garantire insieme una crescita duratura e stabilire
delle “regole chiare”. La frase si riferiva ai contenziosi – scambi, cambi,
proprietà intellettuale- tra Washington e Pechino.
Quello di Phnom Penh è stato il primo incontro fra
leader americani e cinesi dopo le presidenziali del 6 novembre negli Stati
Uniti e il congresso del Partito comunista cinese, che ha rinnovato tutta la
dirigenza. Obama è stato poi ‘tirato per la giacca’ dal premier giapponese Yoshihiko
Noda, che l’ha messo in guardia contro i sussulti di tensioni in Estremo
Oriente e specialmente tra Cina e Giappone: “L’alleanza Usa-Giappone è sempre
più importante, tenuto conto del deterioramento delle condizioni di sicurezza
nell’Asia orientale”, ha detto Noda, rilevando che la politica americana mette
l’accento sull’Asia e sul Pacifico.
Tutta la missione è stata però segnata, come abbiamo
detto, da un certo strabismo dell’Amministrazione statunitense, che guardava
negli occhi gli interlocutori asiatici, ma seguiva con apprensione quanto
accadeva in Medio Oriente. E l’Europa, in tutto ciò? Chiusi nei palazzi
dell’Unione, a Bruxelles, i ministri delle finanze dell’Eurogruppo cercano un
accordo per evitare alla Grecia la bancarotta e per spianare la strada al
Vertice del 22 e 23 sulle prospettive finanziarie dell’Ue a medio termine.
Insomma, l’Europa si guarda l’ombelico (e non è neppure detto che riesca a
vederselo).
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