P R O S S I M A M E N T E

Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore - Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore - Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore

domenica 31 marzo 2013

Corea: il Nord dichiara guerra, ma (per ora) solo di propaganda

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/03/2013

Un altro gradino nell'escalation delle minacce nord-coreane: Pyongyang annuncia d’essere in “stato di guerra” con il Sud e che d’ora in poi ogni questione fra le due Coree sarà affrontata su tale base. Washington e Mosca e le altre capitali occidentali prendono sul serio la situazione, che, invece, Seul tende a minimizzare. “A partire da questo momento –recita un comunicato con il consueto elevato tasso di retorica, attribuito dall'agenzia di stampa ufficiale Kcna a tutte le Istituzioni nordcoreane-, la situazione da tempo prevalente, per cui la penisola coreana non era né’ in pace né in guerra, è terminata”.

L’annuncio di Pyongyang si colloca nel filone delle minacce del Nord, martellanti da quando, all’inizio di marzo, Nazioni Unite e Stati Uniti hanno inflitto al regime un supplemento di sanzioni, dopo un terzo test nucleare ‘fuori legge’. Giovedì, una riunione d'emergenza convocata dal leader Kim Jong-un aveva approvato piani per mettere sotto tiro basi negli Usa –a Guam e alle Hawaii- e in Corea del Sud: obiettivi, quelli nel Pacifico, fuori della portata dell’arsenale missilistico nordcoreano. Pretesto dell’annuncio, l'utilizzo dei micidiali super-bombardieri ‘invisibili’ Usa B-2 nelle esercitazioni congiunte di Washington e Seul destinate a durare ancora tutto aprile.

Tra le due Coree, separate dal 1953 all'altezza del 38.o parallelo, c'é ancora formalmente uno stato di guerra, visto che per porre fine al conflitto scoppiato nel 1950 fu siglato solo un armistizio, senza un trattato di pace formale. E l’armistizio è stato  'annullato' pochi giorni fa da Pyongyang, con tutti i patti di non aggressione conclusi con il Sud, come reazione a un ciclo di manovre militari speciali americane e sudcoreane (nome in codice 'Key Resolve').

Per le fonti nordcoreane, l’ "importante decisione" di Kim è un ultimatum alle "forze ostili”. E pur se l'ordine di attacco del 'giovane generale' e leader supremo non è stato ancora impartito, è certa "una rappresaglia senza pietà in caso di atti di provocazione" da parte di Usa o Corea del Sud. Ma atti ostili a freddo contro la Corea del Nord appaiono improbabili.

Seul smorza i toni. E, in termini diplomatici, Washington fa quasi spallucce. "Abbiamo visto - dice Caitlin Hayden, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti - le informazioni del nuovo comunicato non costruttivo della Corea del Nord. Prendiamo queste minacce sul serio e restiamo in stretto contatto con i nostri alleati sud coreani".E poi aggiunge: “La Corea del Nord ha una lunga storia di retorica bellicosa e minacce e questo annuncio rispecchia uno schema abituale”.

Parole che indicano il distacco con cui Washington valuta le mosse di Pyongyang, fermo restando che “siamo perfettamente in grado di proteggerci e di proteggere i nostri alleati”. Secondo una fonte dell’Amministrazione citata dal New York Times, gli Stati Uniti “sono convinti che Kim stia cercando di rafforzare il proprio ruolo con la sua gente e le sue forze armate, che ancora non lo conoscono bene”. Una fonte analoga citata dal Washington Post afferma: “Guardiamo più a quello che Kim fa che a quello che minaccia di fare". E Jonathan D. Pollack, un esperto della Brookings, ricorda che "solo un anno fa Usa e Cina avevano intravisto la possibilità' di fare affari" con Kim, che, però, è poi tornato ad adottare "l'approccio del padre e del nonno, denunciare minacce esterne per rafforzarsi in casa”.

La speranza è che il clima si rassereni quando le esercitazioni militari congiunte di Stati Uniti e Corea del Sud finiranno. Un esponente del Pentagono nota che "la Corea del Nord sta seguendo sempre lo stesso copione, ma ricorrendo man mano a opzioni più aggressive. Tutto quello che hanno finora fatto, lo avevano già fatto in passato. Ci sarà davvero da preoccuparsi quando accantoneranno il copione". E poi c’è l’incognita di quanto rischio Kim, 30 anni appena, il più giovane capo di Stato al Mondo, al potere da meno di un anno e mezzo, sia disposto ad assumersi, per convincere i suoi militari e il suo popolo che è un "duro”: “La sua inesperienza è certa, il suo buon senso è incerto”.

Di fatto, da quando l'escalation di minacce si è accentuata, gli Stati Uniti hanno migliorato fiducia e cooperazione con gli alleati della Regione, la Corea del Sud e il Giappone, i cui governi da poco installati hanno forti venature conservatrici e nazionaliste. E inquietudine viene espressa da Francia e Germania. C’è di mezzo la sicurezza; ma ci sono in gioco pure interessi economici, perché Pyongyang minaccia di chiudere il sito industriale di Kaesong, una zona di cooperazione economica e industriale fra le due Coree.

sabato 30 marzo 2013

Corea: tamburi di guerra, ma è rullare di propaganda

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/03/2013

C’è un angolo di Mondo dove i tamburi di guerra non la smettono mai di rullare. E da dove, talora, arriva pure il botto: una gragnola di missili sparati un po’ a caso, perché la mira è approssimativa; o un test nucleare un po’ artigianale, perché la tecnologia è quel che è. Nella penisola di Corea, dove tra il 1950 e il ’53 la Guerra Fredda divenne calda, non c’è mai da stare tranquilli, nonostante si tenda sempre a non credere alle sparate del regime di Pyongyang, spesso più propaganda interna che concreta minaccia: con il fatto che nessuno sa bene che cosa succeda dentro quel Paese, nessuno può mai prevederne con certezza le mosse.
Ieri, il leader Kim Jong-un, figlio di leader e nipote di leader, tanto per dare l’idea di un passaggio del potere dinastico, ha ordinato d’intensificare i preparativi nelle sue basi di missili a medio-lungo raggio, inducendo la Corea del Sud ad aumentare il livello di guardia e mettendo sul chi vive Pechino, Mosca e, ovviamente, Seul e Washington.

L’imprevedibilità della Corea del Nord non consente di escludere che gli ordini d’allerta impartiti alle unità lancia missili si traducano in attacchi contro le basi Usa nel Sud del Pacifico e nella Corea del Sud, come risposta all'invio di bombardieri americani B-2 Stealth – potenzialmente armati con ogive nucleari - alle manovre congiunte in corso americano/coreane.

In caso di provocazione “temeraria” degli americani, le forze nord-coreane “dovranno colpire senza pietà il continente americano …, le basi militari del Pacifico, comprese le Hawaii e Guam, e quelle che si trovano nella Corea del Sud”, ha ordinato Kim, secondo quanto riferisce l’agenzia ufficiale Kcna, che ha diffuso una foto del leader con in mano un piano d’attacco agli Stati Uniti.

E poco importa che Pyongyang non sia probabilmente in grado di mettere in pratica la minaccia: l’inquietudine è alta da settimane nella penisola coreana, dopo che il terzo e ultimo test nucleare nord-coreano è stato ‘punito’ dall’Onu e dagli Usa, all’inizio del mese, con supplementi di sanzioni.

La Casa Bianca conferma gli impegni “a tutela degli alleati”, cioè della Corea del Sud, si dice pronto a fare fronte a “qualsiasi mossa” nord-coreana e si coordina con Russia e Cina. Mosca mette in guardia contro “azioni unilaterali” che rischiano di fare finire la situazione fuori controllo, “se s’innesca un circolo vizioso”, avverte il ministro degli esteri russo Serguiei Lavrov. Pechino, che è l’unico alleato di peso di Pyongyang e garantisce sostegno economico ad un regime dissestato, invita “le parti in causa a fare sforzi congiunti per distendere la situazione”. Cioè, gli americani dovrebbero smetterla di mostrare i muscoli e i nord-coreani di fare la voce grossa.

Mentre le diplomazie sciorinavano comunicati, decine di migliaia di militari e civili sfilavano in corteo nel centro di Pyongyang per testimoniare il loro appoggio alle decisioni del loro leader: levando in alto il pugno chiuso, chiedevano di “colpire senza pietà” gli Stati Uniti.

Gli specialisti occidentali ritengono che la Corea del Nord non abbia la tecnologia per raggiungere e centrare obiettivi con missili a lungo raggio. Ma se un missile parte da qualche parte va a cadere. E fonti militari anonime citate dall’agenzia sud-coreana Yonhap  rivelano che “un netto aumento” di movimenti di veicoli e di personale è stato notato sui siti di lancio dei missili nord-coreani.

Non è chiaro se Kim abbia colto il pretesto dei voli d’addestramento dei B-2 per mobilitare il consenso nel Paese o se il regime sia stato davvero impressionato dallo sfoggio di quegli aerei temibili e concepiti per missioni speciali di bombardamento strategico ad alta quota (fino a 15mila metri) dietro le linee nemiche. Il Pentagono di solito non comunica le missioni dei B-2, che possono sfuggire ai radar, viaggiano quasi alla velocità del suono e caricano fino a 18 tonnellate d’armamento convenzionale o nucleare. Uno da solo può fare più danni di tutto l’arsenale nord-coreano.

venerdì 29 marzo 2013

Punto: si attende un botto; scoppia un petardo, in Sicilia

Scritto per l'Indro il 29/03/2013

Questa mattina, a un certo punto ho pensato che questo sarebbe stato un Punto di Esteri col botto, altro che pace pasquale. La Corea del Nord rafforzava le attività presso le sue basi missilistiche di medio-lungo raggio e le metteva in stato di allerta, inducendo la Corea del Sud ad aumentare il livello di guardia e mettendo sul chi vive Pechino e Washington. In Sud Africa, Nelson Mandela, 94 anni, l’icona della lotta contro l’apartheid, veniva ricoverato in ospedale per una infezione polmonare recidiva: il Nobel per la Pace “è in buone mani”, assicurava il presidente Zuma, ma, a quell'età, c’è sempre di che stare in apprensione.

E ancora, in Tibet, per il terzo giorno consecutivo, un monaco buddhista si toglieva la vita in segno di protesta contro il regime cinese: un giovane, 28 anni, si’è immolato dandosi fuoco nei pressi di un monastero nella contea di Luqu, nella provincia del Gansu; è il 114.o episodio del genere dal febbraio 2009, il 16.o dall'inizio dell’anno. Attentati cruenti insanguinavano il Pakistan e l’Iraq –ma questa non è proprio una novità-. E, infine, i giudici di Sarajevo condannavano a 45 anni di reclusione, la pena massima, l'ex militare dell'esercito serbo bosniaco Veselin Vlahovic, detto Batko, ma tristemente noto come il ‘mostro di Grbavica’, per crimini contro l'umanità perpetrati durante la guerra in Bosnia (1992-95), nei quartieri di Sarajevo sotto il controllo serbo: ha ucciso o partecipato all'uccisione di oltre 30 civili, stuprato decine di donne e picchiato e rapinato decine di civili di etnia non serba.

Pareva che il Mondo fosse in subbuglio. Altro che i patemi europei per i conti correnti dei ‘poveri’ milionari russi di Cipro (affaristi che, se pure andassero in malora, poco c’importa); o le andate e ritorno dei nostri  due marò tra India e Italia; o il turpiloquio anti-casta del cantautore Franco Battiato al Parlamento europeo. Tutti temi di cui ci siamo interessati nei giorni scorsi in questo spazio.

Non che mi sarebbe dispiaciuto un Punto col botto, non fosse che il botto, nell'informazione, spesso è sinonimo di sciagura e di vittime (e, sinceramente, non vorrei mai tessere l’elogio funebre di Mandela, il cui poster, accanto a quello del Che, era un arredo fisso delle stanze universitarie fine Anni 60 / primi Anni 70. Gli unici botti incruenti sulle pagine dei giornali sono, in genere, quelli dell’economia e della politica, che si risolvono al massimo con qualche dimissione o la rovina di qualche finanziere (che poi significa che migliaia di poveri diavoli perdono il lavoro, mentre lui, il finanziere, si ritrova un po’ meno ricco).

Non mi sarebbe dispiaciuto perché questo è il mio ultimo Punto e il mio ultimo appuntamento regolare e programmato con i lettori de l’Indro, cui va il mio saluto e il mio ringraziamento.  L’avventura de l’Indro prosegue, sotto la guida sicura della direttrice Margherita Peracchino, ma senza il mio contributo, che è sempre stato, del resto, marginale: un appuntamento regolare come questo richiede una continuità d’attenzione che non sono al momento in grado di garantire.

Raccontativi i fatti miei, torniamo al botto. Che, alla fine, non c’è stato, almeno non per ora. Anche se l’imprevedibilità della Corea del Nord non consente di escludere che gli ordini d’allerta impartiti dal leader Kim Jong-un alle unità balistiche si traducano in attacchi contro le basi Usa nel Sud del Pacifico e nella Corea del Sud, in risposta all'invio di bombardieri americani B-2 Stealth alle manovre congiunte Washington/Seul.

A conti fatti, il botto –ma è un petardo- lo ha fatto esplodere il governatore della Sicilia Rosario Crocetta, che si sta abituando alle cronache internazionali:  ha revocato l'autorizzazione alla realizzazione a Niscemi del Muos, il sistema satellitare per le telecomunicazioni della Marina militare degli Stati Uniti, contestato da comitati civici che temono per i rischi alla salute derivanti delle onde elettromagnetiche. Domani è prevista la manifestazione nazionale dei movimenti No Muos davanti alla base americana, dove sono, o forse erano, in costruzione le antenne dell'impianto. Sicilia contro Usa? Non è certo una guerra, al massimo è una scaramuccia, cui l’Isola di Sigonella è abituata.

giovedì 28 marzo 2013

Punto: Cipro, banche aperte, la paura viene dall'isola

Scritto per l'Indro il 28/03/2013

Una volta, c’era da tremare quando le banche restavano chiuse un giorno in più del solito. A Cipro, sono rimaste chiuse 12 giorni filati: un blocco senza precedenti, almeno nell'Europa dell’euro, dettato dal timore d’una fuga di capitali dopo l’accordo nell’Eurogruppo per il salvataggio dell’isola. E, oggi, è stata la giornata dei sudori freddi: per paura di disordini, guardie armate erano state schierate intorno alle filiali degli istituti di credito, che hanno riaperto dalle 12 alle 18. Fuori, fin dal mattino, code di persone in attesa di espletare le operazioni.

La riapertura è stata solo parziale: le misure restrittive imposte ai movimenti di capitale resteranno infatti in vigore per almeno altri sette giorni e Ue e Bce assicurano sorveglianza. La Borsa di Nicosia, che è ferma dal 19 marzo, non ha ancora riaperto i battenti. Le altre europee traversano la giornata senza danni, ma, per quanto riguarda l’Italia, lo spread resta a quota 350.

Del resto, gli sviluppi della crisi di Cipro, complicata da grossolani errori di strategia e di comunicazione dell’Eurogruppo e del suo inesperto neo-presidente Jeroen Dijsselbloem –una lezione per i tedeschi: essere olandesi non significa essere affidabili-, si svolgono nel contesto di un’Europa che ovunque fatica a uscire dalla crisi. Lo conferma un rapporto dell’Ocse pubblicato oggi, secondo cui la divergenza fra la Germania, l’unica a crescere davvero, e gli altri Paesi della zona euro tende ad aumentare.

Fra i Grandi del G8, l’Italia è quello che sta peggio: il Pil dell'Italia, calato del 3,7% nell'ultimo trimestre 2012, continua a contrarsi. E’ sceso dell’1,65% nel primo trimestre del 2013, sta scendendo dell’1,5% nel secondo. Nonostante le cifre, PierCarlo Padoan, vice-segretario generale Ocse e capo economista, si dichiara fiducioso che tra fine 2013 e inizio 2014 la recessione finirà; ed esclude che Cipro possa contagiare l’Italia e la Spagna, mentre solleva dubbi sulla situazione della Slovenia.

Certo, in Italia i mercati e le agenzie di rating guardano alla politica ed all'esito incerto delle consultazioni per il nuovo governo: Moody’s –dicono tutti- ha il colpo in canna dell’ennesima ‘retrocessione’ e potrebbe ‘spararlo’ dopo la rinuncia a formare un Esecutivo del leader Pd Pierluigi Bersani.

Da e su Cipro, è tutto un alternarsi di segnali d’emergenza e di inviti alla calma. L’Fmi assicura che l’isola rappresenta “un caso unico”, per le “dimensioni” abnormi del sistema creditizio e per la presenza massiccia di denaro russo di dubbia provenienza. Ma spaventa la prospettiva di una sorta di ‘crisi argentina’ dentro l’Eurozona, mentre la fuga di capitali che si vuole impedire pare essere già avvenuta: 2,7 miliardi di euro portati via dalle banche cipriote dall'inizio dell’anno.

Secondo alcuni esperti, del resto, il vero rischio non è rappresentato dal ricorso altrove al  prelievo forzoso sui conti bancari: un pericolo maggiore verrebbe proprio dal  divieto di portare all’estero grosse somme. Infatti, le misure restrittive sui capitali potrebbero rivelarsi “un disastro" e, alla fine, potrebbero "portare all'uscita del Paese dall'euro". L’analista Hugo Dixon nota che “una volta imposti, i controlli sui movimenti dei capitali sono difficili da togliere".  "In Irlanda - ricorda -, sono ancora vigenti dopo anni. In Argentina, sono durati un anno". Cipro li ha fissati per una settimana, ma questo termine non sarebbe credibile: l’Ue intende verificare la necessità di un' estensione; e il ministro degli Esteri cipriota, Ioannis Kasoulides, ammette che per rimuovere alcune delle misure che congelano i conti potrebbe volerci "un mese circa".

Insomma, la crisi di Cipro mantiene febbrile l’Unione. E la cacofonia dei commenti non rasserena il clima.

Giustizia: Ue; Reding, giù le mani dall'indipendenza dei magistrati

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/03/2013. Altra versione su l'Indro il 27/03/2013
E’ una brutta stagione, per l’Italia e per la sua immagine internazionale: un governo dimissionario che lava in pubblico i panni sporchi dell’affare dei due marò; un assessore –prontamente ‘dimissionato’- che fa sfoggio di turpiloquio anti-casta in un’aula del Parlamento europeo; e, ora, una bacchettata sulle dita e un voto pessimo sulla pagella europea alla giustizia italiana.
“Giù le mani”, tuona la ‘maestra’, la vicepresidente della Commissione europea Viviane Reding, responsabile della giustizia. “Se vogliamo un sistema giudiziario indipendente –dice-, dobbiamo lasciare lavorare i magistrati in modo indipendente". Che si riferisca all'Italia non c’è dubbio: risponde a una domanda sullo scontro in atto da noi tra politica e magistratura.
La Reding, una bella signora lussemburghese, ha una lingua che ti taglia i panni addosso ed è l’elemento più esperto dell’Esecutivo comunitario, l’unica al terzo mandato: una che non ha paura di dire come la pensa, capace di litigare da pari a pari con il presidente francese Nicolas Sarkozy. L’occasione della frecciata all'Italia è la presentazione del primo rapporto Ue sui sistemi giudiziari dei Paesi dell’Unione: l'Italia vi è terz'ultima nella classifica della lunghezza dei processi, seguita solo da Cipro e Malta; ed è anche il Paese dei 27 con il maggior numero di cause civili e commerciali pendenti ogni 100 abitanti, sette, il doppio del Portogallo che la precede.
Va meglio per il ricorso alle comunicazioni elettroniche in ambito giudiziario, o per la destinazione di risorse pubbliche alla giustizia – su entrambi i fronti, l'Italia si colloca a metà della classifica -. Mentre per quanto riguarda la percezione dell'indipendenza dei magistrati, torniamo verso il fondo della graduatoria europea, in 19.a posizione.
Che cosa l’Europa pensasse della giustizia italiana, lo si era già capito dalle sentenze con cui, ripetutamente, la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ci condanna per la lunghezza dei processi o per la disumanità del sistema carcerario: ogni verdetto, un colpo all'immagine e pure un salasso alle casse tra multe e indennizzi.
La durata dei procedimenti è uno dei criteri individuati dall'Esecutivo comunitario per valutare l'efficienza dei sistemi giudiziari dei Paesi Ue. In Italia, per risolvere le cause civili e commerciali, ci vuole un tempo medio di 500 giorni.
L'inefficienza della macchina giudiziaria, ha osservato la Reding, "ha un impatto molto negativo sugli investimenti, che non possono aspettare e che devono avere la certezza della legalità". Proprio per questo - ha aggiunto la vicepresidente - la Commissione lavora "a stretto contatto con il governo e con il ministro della Giustizia" Paola Severino, che sono “consapevoli del problema”. La speranza è che lo sia pure il prossimo Esecutivo.
A sottolineare l'importanza dell'autonomia dei giudici, oltre alla Reding, è stato anche Olli Rehn, altro vicepresidente della Commissione, responsabile degli affari finanziari. Per Rehn, finlandese, "un sistema giudiziario di qualità, indipendente ed efficiente, è essenziale per garantire un ambiente favorevole allo sviluppo imprenditoriale".

mercoledì 27 marzo 2013

Governo: l’Europa unisce a parole e divide nei fatti

Scritto per il blog de Il Fatto e pubblicato su EurActiv il 27/03/2013
Tutti sanno –credo- che uno dei problemi chiavi del nuovo governo, quale che sia e quando che sia, ma più in là è peggio è, sarà il rapporto dell’Italia con l’Unione europea. E tutti sanno –credo- che in Parlamento c’è una forza che non considera un tabù l’uscita dall’euro, anzi dice che ne siamo già fuori, e ce n’è una che è pronta a mettere in discussione i patti già accettati e utilizza parole in rotta di collisione con la Germania; e, poi, ce ne sono due che vorrebbero mantenere l’Italia nella scia dell’Unione e, anzi, metterla a cassetta dell’integrazione per virarne la rotta –con più forza l’una, con più attenzione al rigore l’altra- verso la crescita e l’occupazione.
A priori, metterle d’accordo, anche sull’Europa, appare difficile assai. Eppure, gli esponenti delle organizzazioni federaliste che, lunedì, hanno incontrato il presidente del Consiglio incaricato Pierluigi Bersani hanno riscontrato, oltre alla convinzione contata che il rapporto con l’Ue sarà uno dei punti nodali del nuovo Governo, “una piena convergenza sulla prospettiva degli Stati Uniti d'Europa”.
La delegazione europeista era reduce dal congresso del movimento federalista che, come spesso accade, e quasi per scelta dei protagonisti, s’è svolto in una sorta di vuoto d’attenzione mediatico. L‘idea stessa di Bersani d’incontrarli  è stata qua e là giudicata una sorta di stranezza: un modo per  guadagnare tempo sentendo tutti e di più, aspettando –senza successo, pare- che quelli che contano venissero a più miti consigli.
In realtà, l’idea in testa a Bersani l’avrebbe accesa Virgilio Dastoli, europeista vulcanico, già braccio destro di Altiero Spinelli, poi rappresentante in Italia della Commissione europea, oggi indicato come possibile successore di Enzo Moavero agli Affari Europei. Dastoli, quel che Bersani avrebbe detto nell’incontro, che bisogna rilanciare la prospettiva politica dell'Europa unita e dell'Europa federale, lo pensa davvero. E avrebbe la competenza per muoversi in quella direzione.
Ripartire dall’Europa?, da un consenso sugli Stati Uniti d’Europa? Potrebbe essere una soluzione. Se si tratta di formule, Grillo e Bersani, Berlusconi e Monti ci stanno magari tutti. Ma il problema sono i contenuti da metterci: quanto rigore, quanta crescita, quanta democrazia, quante risorse, quanta cessione di sovranità. E, lì, ora, l’Europa divide, non unisce.

martedì 26 marzo 2013

Marò: Terzi si dimette, la cosa giusta nel modo sbagliato

Scritto per il blog de Il Fatto il 26/03/2013. Altra versione su l'Indro

Finalmente, una cosa giusta, in questa vicenda dei due marò, Giulio Terzi l’ha fatta: s’è dimesso. Ma quando le storie nascono male, tutto va male. E, così, pure la cosa giusta il ministro degli Esteri l’ha fatta nel modo sbagliato: lavando in pubblico, in Parlamento, i panni sporchi d’un governo che, per essere tecnico, non poteva essere meno professionale.

Da non credere che il ministro Terzi sia, o sia stato, un esperto diplomatico, ambasciatore in Israele, all’Onu e negli Usa; da non credere che il ministro della difesa Giampaolo Di Paola sia, o sia stato, un esperto ammiraglio, capo di Stato Maggiore della Difesa e presidente del Comitato militare dell’Alleanza atlantica.

L’8 Settembre del governo tecnico, lo definisce Lapo Pistelli, deputato Pd. Errori di valutazione e d’azione in serie, retromarce e ripensamenti, isterie e ingenuità. E, per la terza volta in meno d’un mese, l’Italia è breaking news sui media indiani: prima, i marò non tornano; poi, contrordine, i marò tornano; ora, mi dimetto in disaccordo con il governo.

Bene. Ma se Terzi non era d’accordo con la decisione di farli tornare in India, dopo avere preso lui la decisione di non farli tornare, perché aspetta adesso per dimettersi e non l’ha fatto subito, prima di smentire se stesso e, soprattutto, di spiegare ‘Urbi et Orbi’ perché era giusto che tornassero? E se il ministro Di Paola è così convinto che, invece, bisognava farli tornare, pur avendo avallato prima la decisione di non farli tornare, perché tollera la levata di scudi anti-governo dei vertici militari?, e, soprattutto, perché non s’è dimesso prima?

Sinceramente, è difficile raccapezzarcisi, al di là delle opinioni personali: la mia è che i marò non sono eroi, ma militari professionisti che, probabilmente, hanno compiuto un errore nell’esercizio delle loro funzioni, uccidendo due pescatori indiani scambiati per pirati; e che, una volta preso l’impegno che sarebbero tornati, dovevano tornare in India, ferma restando la pretesa italiana, sostenuta da giuristi di valore, di processarli in Italia.

Terzi parla a Montecitorio, ha accanto Di Paola, coglie di sorpresa i deputati e il collega. Ricostruisce la vicenda di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, si toglie qualche sassolino ("Tutte le istituzioni erano informate e d'accordo sulla decisione di trattenere in Italia i marò. La linea del governo è stata approvata da tutti l'8 marzo"), lamenta che le riserve da lui espresse circa il ritorno in India dei due non abbiano “prodotto alcun effetto” e annuncia: "Mi dimetto in disaccordo con il governo … Mi dimetto perché per 40 anni ho ritenuto, e ritengo oggi, in maniera ancora più forte, che vada salvaguardata l'onorabilità del paese, delle forze armate e della diplomazia italiana".

La parole di Terzi, che spiega di avere aspettato perché voleva dimettersi in Parlamento, sollevano un putiferio di commenti. Di Paola tiene a chiarire che le valutazioni di Terzi non sono quelle del Governo; il premier Monti lo conferma e precisa di non essere stato informato delle intenzioni di Terzi; la destra plaude a un gesto “di grande dignità” –parole di Franco Frattini, ex ministro degli esteri-; la presidente della Camera Laura Boldrini invita il presidente del Consiglio a presentarsi in aula a riferire.

Contemporaneamente, a Bruxelles, i vicepresidenti del Parlamento europeo Roberta Angelilli (Pdl) e Gianni Pittella (Pd) scrivono all'Alto rappresentante della politica estera dell'Unione europea Catherine Ashton perché assista il Governo italiano in questa vicenda: se siamo davvero nelle mani della Lady di Burro della politica estera europea, il peggio, forse, deve ancora venire.

lunedì 25 marzo 2013

Punto: Ue, Cipro, panacea o bomba ad orologeria nell'euro

Scritto per l'Indro il 25/03/2013
Le borse europeee hanno fatto festa per mezza giornata. Poi, hanno chiuso negative e Milano ha pure vissuto brutti momenti. Lo spread, che era sceso, risale sulle quote consuete di questi giorni, 326. Prevale l’analisi di quanti considerano il salvataggio di Cipro annunciato la scorsa notte dall’Eurogruppo una sorta di bomba ad orologeria nel cuore dell’euro, pronta a detonare a breve. Molti indizi, infatti, fanno sospettare che l’uscita dall’euro dell’isola non sia stata scongiurata e che il rischio contagio resti.
E i segnali di cedimento di Italia e Francia non lasciano tranquilli sul futuro prossimo, al punto che le agenzie di rating avrebbero già il colpo in canna, nonostante che, a bocce fredde, il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, presenti l’intesa trovata come un nuovo modello per la zona euro, con la chiamata di investitori e correntisti a essere partecipi della ristrutturazione delle banche.
A Bruxelles,tutte le dichiarazioni ufficiali sono improntate a soddisfazione. Il presidente del Vertice Herman Van Rompuy parla di “accordo essenziale per assicurare un futuro sostenibile a Cipro”. E il commissione agli Affari economici Olli Rehn sostiene che “adesso possiamo lavorare per aiutare i ciprioti a ricostruire la loro economia”.
Di riffa o di raffa, quando le prefiche dell’euro già intonavano le orazioni funebri, l'Eurogruppo ha dunque varato il piano di salvataggio per Cipro: l’accordo è stato raggiunto nel cuore della notte, dopo un fine settimana di negoziati convulsi: sabato nell’isola, tra autorità locali e troika; e domenica a Bruxelles tra il presidente cipriota Nikos Anastasiades e i responsabili delle istituzioni comunitarie coinvolte e l’Fmi. "L'accordo raggiunto stasera mette fine alle incertezze su Cipro e sulla zona euro": ha detto Dijsselbloem: "L'intesa evita i prelievi coatti sui depositi bancari e ristruttura profondamente il settore bancario cipriota".

La riunione dell’Eurogruppo è iniziata domenica a tarda sera e s’è conclusa verso le 2 del mattino. "L’accordo –ha spiegato Dijsselbloem- prevede un'appropriata riduzione del settore bancario”, che è attualmente sovradimensionato e che “raggiungerà la media europea nel 2018”. Inoltre, Cipro “s'impegna ad un programma di consolidamento dei conti, con riforme e privatizzazioni".

Per il governo cipriota, è stata così sventata l’uscita dall’euro dell’isola. E il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble ha detto che le conclusioni dell’Eurogruppo non richiedono un voto d’approvazione del Parlamento di Nicosia:la barriera contro cui s’era infranto il piano varato solo una settimana fa.

Il direttore dell’Fmi Christine Lagarde raccomanderà al Fondo di partecipare al salvataggio. La Lagarde giudica l’accordo "buono", perché "protegge i depositi sotto i 100 mila euro, limita le misure alle due banche maggiormente problematiche e divide il peso tra Ue e Cipro in modo equo" (10 miliardi di euro a carico dell’Eurozona, circa 6 a carico dell’isola).

Le misure previste riguardano solo le banche Laiki e Bank of Cyprus. La Laiki sarà prima divisa, bad bank e good bank, e quindi scomparirà. Gli asset buoni finiranno nella Bank of Cyprus, così come la liquidità d'emergenza della Bce. Gli altri istituti di credito non saranno toccati.

I depositi sotto i 100 mila euro della Laiki saranno garantiti; quelli sopra i 100 mila subiranno prelievi che saranno decisi durante il processo di liquidazione. Anche la Bank of Cyprus subirà perdite, ma non sarà l'Eurogruppo a stabilirlo: lo farà nelle prossime settimane la troika, assieme alle autorità cipriote.

L’isola,però, non è fuori dalle secche. Le misure prese in materia di circolazione dei contanti sono inedite per l’Europa: non potranno essere prelevati più di cento euro al giorno. Di fatto, nasce così  un euro di serie B, con diritti contingentati. La riapertura delle banche, prevista domani, potrebbe slittare: l’attività agli sportelli potrebbe essere la miccia di un’esplosione speculativa pesante. Senza contare il debito pubblico cipriota, che, dopo quest’ondata di prestiti, tagli, ristrutturazioni, rischia di diventare ingestibile. Tanto che la Commissione europea già ne studia una ristrutturazione.

Sant'Anna di Stazzema: la memoria dei presidenti è una giustizia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/03/2013

Ci sono posti che, a visitarli, mettono i brividi: si sente che lì è passata la crudeltà dell’uomo e che vi ha lasciato il proprio marchio. Sant’Anna di Stazzema è uno di questi. E, i brividi, li ha certo sentiti il presidente tedesco Joachim Gauck, che davanti all’ossario delle vittime della strage nazista s’è ieri stretto in un lungo abbraccio con il presidente italiano Giorgio Napolitano. E li aveva sentiti, l’estate scorsa, il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, tedesco come Gauck, protagonista in Italia di ‘viaggi della memoria’ che lo hanno già portato pure a Marzabotto.

Per Napolitano, quello che lui stesso ha definito l’ultimo giorno di atti pubblici del suo settennato è stato intriso di ricordi fra i più tragici dell’Italia, prima le Fosse Ardeatine, poi Sant’Anna, orrori attraverso cui passò il riscatto dal fascismo della Resistenza e della Repubblica. Per Gauck, è stata la prima volta a Sant’Anna d’un presidente tedesco: corone al monumento, l'abbraccio, attimi densi di silenzio e di emozione.

In questo borgo sulle alture delle Versilia, il 12 agosto 1944, le SS, con fascisti collaborazionisti, massacrano 560 civili, in gran parte bambini, donne, anziani. Per quell'eccidio, furono condannati all'ergastolo dal tribunale militare di La Spezia, nel 2005, 10 ex SS; e la Cassazione nel 2007 ratificò il verdetto. Ma giudici tedeschi disposero, in seguito, l'archiviazione della vicenda: sentenze forse corrette, a termine di legge, ma che turbarono le coscienze italiane (e pure molte tedesche). Anche se tutti sanno i limiti di una giustizia resa quasi 70 anni.

Gauck, un pastore protestante, paladino dei diritti dell’uomo nella Germania comunista, non elude la questione: "La riconciliazione non può essere oblio, dimenticanza, perché i crimini compiuti qui per la loro efferatezza inenarrabile non possono essere dimenticati … Le vittime di questi crimini hanno diritto a memoria e commemorazione perché non sono vittime anonime di accanimenti, ma hanno nomi che noi dobbiamo ricordare". Napolitano concorda: “La memoria –dice- è la giustizia più alta” e non ha bisogno di giudici per essere rispettata; e la memoria condivisa degli orrori è la pietra angolare su cui è costruita l’integrazione europea.

Evocando le vicende giudiziarie, Gauck aggiunge: "L'opinione pubblica non deve tacere se tacciono i tribunali … A Sant'Anna, la dignità degli uomini è stata calpestata … E se noi siamo qui a celebrare il miracolo della riconciliazione, è importante menzionare gli accadimenti, è importante chiamare sempre i crimini con il loro nome".

Tra Napolitano e Gauck c’è un’intesa forte, già emersa nella visita di commiato alla Germania fatta, il mese scorso, dal presidente italiano. Gauck gli testimonia grande considerazione: "Volevo venire qui con lei, che ha combattuto contro nazismo e fascismo … Volevo ringraziarla per la fratellanza che c'é tra i nostri due Paesi".

Ue: Cipro, la fine della corsa per un' "economia da casinò"

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/03/2013. La fine della storia su EurActiv il 25/03/2013, http://www.euractiv.it/it/news/crescita/6859-cipro-eurogruppo-vara-piano-salvataggio-sventata-uscita-dalleuro.html

Una notte decisiva per Cipro e per l’euro: a Bruxelles, è riunito l’Eurogruppo. Un consulto senza appelli: dopo che l’inizio dell’incontro era ripetutamente slittato, i ministri delle finanze dei Paesi dell’euro cercano un accordo sul piano di aiuti all’isola, dove le banche sono chiuse da 10 giorni (e non riapriranno, comunque, prima di martedì).

Bisogna trovare una soluzione prima della riapertura dei mercati: il tempo è agli sgoccioli, proprio come il contante nelle banche di Cipro, che tagliano i prelievi bancomat a cento euro. E la Bce non intende garantirlo più da domani.

Per tutta la domenica, il presidente cipriota Nikos Anastasiades ha avuto serrati contatti, dopo che, sabato, a Nicosia, c’era stato un lungo confronto tra autorità locali e troika, Commissione europea, Bce, Fmi. I dati sono noti. Ci vogliono 16/17 miliardi di euro per salvare Cipro dalla bancarotta. L’Eurozona è pronta a mettercene 10, l’Fmi uno; il resto, per la precisione 5,8 miliardi, lo deve tirare fuori Cipro. Come, è l’interrogativo.

L’Unione vuole mettere fine a quella che il ministro francese Pierre Moscovici definisce “economia da casinò”; Cipro è riluttante. Ed è anche per questo che lo scenario dell’uscita dall’euro dell’isola, che tutti dicono di volere evitare, non può essere escluso. Moscovici dice: "Siamo qui per evitare l'uscita di Cipro dall’euro: serve una soluzione globale e giusta, che ridimensioni il sistema bancario dell’isola e che faccia pagare i più ricchi e non i piccoli risparmiatori".

Il ministro tedesco Wolfgang Schaeuble lamenta l’assenza di progressi: “L'offerta dell’Ue –spiega- non cambia, perché i numeri restano gli stessi". L'Europa vuole ridimensionare l'intero sistema bancario cipriota, che considera sovradimensionato, con depositi che sono 7,5 volte il pil del Paese e dove hanno un grosso peso gli uomini d’affari russi che ‘colonizzano’ finanziariamente l’isola.

Bocciata dal no del Parlamento di Nicosia, dopo tumulti di piazza, l’ipotesi di un prelievo forzoso su tutti i conti correnti ciprioti, altre possibilità sono state vagliate, ma nessuna è acquisita: sabato, si profilava un'intesa sui prelievi sui depositi superiori ai 100 mila euro, il 20% sui conti della Bank of Cyprus e il 4% su quelli degli altri istituti di credito. Ma poi la partita s’è riaperta.

La riunione straordinaria dell'Eurogruppo è stata preceduta, dalla mattinata, da un incontro inedito, negli schemi europei: sotto la regia del presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, c’erano Anastasiades e i presidenti della Commissione Barroso, della Bce Draghi, dell'Eurogruppo Dijsselbloem, e la direttrice dell’Fmi Lagarde.

domenica 24 marzo 2013

Russia: Berezovski; fuori un altro, così lo zar resta senza nemici

Scritto per il blog de Il Fatto il 24/03/2013

Vladimir Putin, il nuovo zar, non vuole nemici intorno, che siano avversari politici troppo ambiziosi o oligarchi che scelgano di fare di testa loro: li caccia, li arresta, li demolisce. Qualcuno finisce intossicato dal polonio; qualcuno, magari, depresso, si suicida. E quando gli antagonisti se ne vanno davvero, muoiono e tolgono il disturbo, che sia decesso naturale, suicidio o omicidio, Putin manco concede loro l’onore delle armi. Impietosamente, Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino, definisce Boris Berezovski, l’oppositore di Putin scomparso ieri nei pressi di Londra, “un nemico impotente”, la cui influenza in Russia era “ormai vicina a zero”.

Come dire: non contava più nulla, non c’era bisogno di darsi la pena d’eliminarlo, non siamo noi. “Le sue critiche –aggiunge Peskov- non erano costruttive” e neppure va sopravvalutato “il suo ruolo negli Anni 2000”. Peskov, probabilmente, ha ragione. E, fra le qualità di ‘pezzo di ghiaccio’ Putin, la ‘pietas’ non ha mai avuto un posto di rilievo. Se ne rendeva conto lo stesso Berezovski, che, oltre all’influenza, aveva anche perso le fortuna da miliardario. Circa due mesi or sono, avrebbe scritto una lettera di suo pugno al presidente, riconoscendo di avere commesso degli errori e chiedendogli perdono –la fonte è sempre Peskov-.

La morte di Berezovski è di quelle che lasciano dietro una scia di dubbi e creano aloni di sospetti: per anni, ne sentiremo raccontare “la vera storia”, ammesso che, allora, interessi ancora a qualcuno. Il miliardario, 67 anni, origini ebraiche, professore di matematica, poi rivenditore di auto, quindi capitalista d’assalto, è stato trovato senza vita  sabato nel bagno della sua casa di Ascot nel Surrey dove si era esiliato dal 2000.

Aleksandr Dobrovinski, uno dei suoi legali, ha detto che si tratta di suicidio. Un amico ed ex socio, Damian Kudriavtsev, parla di infarto: Berezovski, da mesi depresso, aveva avuto attacchi di cuore in passato e sarebbe pure stato in Israele per cure cardiache. Aleksandr Godfarb, altro amico ed ex collaboratore, conferma stress e depressione recenti, ma solleva dubbi sulla autenticità della lettera al Cremlino.

E c’è chi non crede a nulla di tutto ciò. I motivi per farlo non mancano, come a Berezovski non mancavano i nemici: vittima già nel 1994 a Mosca di un fallito attentato dinamitardo, costato la vita al suo autista, il ‘tycoon’ in rovina, lui che era stato il primo russo a entrare fra i 100 uomini più ricchi al Mondo, sosteneva di essere scampato, nel 2004 e nel 2007, a due agguati dei servizi segreti russi.

Fantasie?, complessi di persecuzione? Forse, non sproprio: in mezzo c’è l’ancora misteriosa morte per avvelenamento da polonio radioattivo di Aleksandr Litvinienko, ex agente del Kgb, suo stretto collaboratore, un altro transfuga anti-Putin.

Di Berezovski, non è il caso di tracciare qui la biografia –i giornali ne sono pieni-: fortune colossali nell’era breve del ‘capitalismo selvraggio’ post Urss; e un’influenza politica e mediatica decisiva nella rielezione nel 1996 di Boris Ieltsin; poi, l’inizio del declino con l’avvento al potere di Putin, che risponde con la minaccia “di un bel randello” alle sue critiche; e, nel 2000, la scelta dell’esilio, che  lo mette al riparo dal destino toccato a un altro ‘paperone’ anti-Putin, Mikhail Khodorkovski, in carcere da dieci anni. Intendiamoci: non è che questi ‘tycoons’ siano necessariamente meglio dello zar, dal punto di vista del rispetto delle regole, dei diritti e della democrazia: loro hanno perso, lui ha vinto, la differenza sta sostanzialmente lì.

Però, Berezovski perde tutto in patria e deve guardarsi le spalle in Inghilterra. Inquisito in Russia, svende i pezzi del suo impero; litiga –e gli costa una fortuna- con l’ex protetto Roman Abramovich; e non rinuncia a sostenere l’opposizione a Putin, mentre Abranmovich si contenta di fare il ‘mangia allenatori’ al Chelsea. L’ultima mazzata gliela dà l’ex compagna Ielena Gorbunova, che vuole portargli via quel che gli resta.

Gli inquirenti britannici non si sbilanciano: la polizia criminale della Valle del Tamigi che indaga considera le cause della morte “non ancora chiare”, mentre la scientifica mette soqquadro la villa, compiendo accertamenti per ora inconcludenti –salvo fare sapere a chi abita nei pressi che non ci sono “pericoli”-. Il polonio, forse, non c’entra. Ma Putin sa comunque come avvelenarti la vita.

venerdì 22 marzo 2013

Punto: marò, due dietrofont e l'Italia va a gambe all'aria

Scritto per l'Indro il 22/03/2013

Due dietrofront consecutivi. Su una mattonella scivolosa. E l’Italia va a gambe all’aria: affidabilità, prestigio, credibilità, tutti valori che escono ammaccati da questa vicenda. Però, il ministro degli esteri Giulio Terzi, un diplomatico di carriera, ambasciatore del suo, e quello della difesa Giampaolo Di Paola, un militare, ammiraglio del suo, si comportano, loro che sono tecnici, da politici di razza (italiana): a dimettersi non ci pensano proprio, forse perché sono già dimissionari da mesi e in carica solo per gli affari correnti. Ma, allora, per favore, si astengano dai colpi di genio!

Terzi e Di Paola avevano deciso che i due marò accusati di avere ucciso, mentre svolgevano una missione anti-pirateria su una nave italiana in acque internazionali, due pescatori indiani, avendoli scambiati per pirati, sarebbero rimasti in Italia, tradendo così l’impegno assunto di rimandarli indietro dopo la licenza elettorale di un mese loro concessa dalle autorità indiano. Ieri, il governo italiano ci ha ripensato e ha rispedito indietro i militari, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, proprio sul limitare della licenza.

Un doppio voltafaccia. La prima volta, tradendo la parola data alle autorità indiane. E, ora, tradendo le assicurazioni date ai due marò e alle loro famiglie. Il premier Monti che stavolta s’espone, Terzi, Di Paola, tutti diventano lo zimbello della rete: chi, come me, era stato critico sul ‘ce li teniamo’, non capisce che cosa sia mai cambiato, se quella decisione era fondata sul diritto internazionale; e chi aveva plaudito al ‘ce li teniamo’, è ora critico. Secondo alcune ricostruzioni mediatiche non confermate, il secondo dietrofont è stato imposto da Palazzo Chigi, che però difende Terzi, con l’avallo del Quirinale.

Bene. Uno può pensare che i commenti italiani siano sempre viziati da partigianeria e approssimazione. Allora vediamo che cosa pensa di questa storia la stampa estera. Prendiamo la Bbc, che pure chi non l’ha mai sentita giudica autorevole per antonomasia: in un commento, Soutik Biswas s’interroga se sia stata una vittoria indiana: “Più che trionfo per gli indiani –si risponde-, è un triste caso di inettitudine della diplomazia italiana”, che cerca di salvarsi la faccia raccontando di avere ottenuto assicurazioni che i due marò non rischiano la pena di morte (del resto, eccezionalissima in India).

Sui giornali anglosassoni, la notizia campeggia. Per The Times, il governo indiano considera la retromarcia italiana un successo diplomatico. Per il Financial Times, “l’inversione a U di Roma attenua le tensioni con New Delhi”. Il Wall Street Journal scrive che “l’Italia cede alle pressioni dell’India”. La stampa indiana non alza il gran pavese: parla, però, di successo; ipotizza una fase di distensione fra Roma e New Delhi, si chiede se Sonia Gandhi, ex premier indiana, d’origine piemontese, abbia in qualche modo influenzato la decisione italiana.

Preceduti, accompagnati e seguiti dalle polemiche, e scortati dal sottosegretario agli esteri Staffan De Mistura, il loro ‘angelo custode’ diplomatico, Girone e Latorre sono intanto giunti a New Delhi con un aereo militare, esibendo disciplina e rispetto degli ordini: “Siamo soldati, andiamo avanti”, hanno detto, mentre le loro famiglie, in Puglia, manifestavano sconcerto e rabbia. Martedì, il governo italiano farà un’informativa alla Camera sollecitata dalle forze politiche: e il ministro della Giustizia Paola Severino s’impegna a garantire un “giusto processo” (ma fino a ieri non dicevamo che i marò dovevano essere giudicati in Italia?). In India, invece, tutti contenti: il governo incassa il ritorno dei due; l’opposizione è soddisfatta; colleghi e familiari dei pescatori uccisi fanno festa.

Gli echi della polemica arrivano alla Commissione europea, che, come aveva “preso atto” della prima retromarcia, prende pure “atto” della seconda, di cui –precisa- “non conosce i dettagli” perché, evidentemente, nessuno glieli ha spiegati. “Speriamo –dice un portavoce- che la questione sia presto risolta nella sostanza”. Ma, se anche la corte speciale istituita dalla Corte Suprema indiana dovesse metterci un po’ a decidere sulla giurisdizione, non c’è mica da preoccuparsi: Girone e Latorre vivono in ambasciata e –fa sapere De Mistura- possono anche andare al ristorante, se vogliono. Senza tutto questo puntare i piedi e calare le braghe, mica avrebbero avuto una vita così facile, in India: ne valeva la pena, perderci due volte la faccia.

Ue: Cipro, il petardo diventa un terremoto, "rischio sistemico"

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/03/2013. Altra versione su l'Indro il 21/03/2013

Pareva lo scoppio di un petardo. Rischia di rivelarsi un terremoto. La crisi di Cipro pone un rischio sistemico per tutta l’l’Eurozona: a meno di una settimana dall’annuncio del ‘piano di salvataggio’, poi bocciato dal Parlamento cipriota, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, smette di fare il pompiere e ammette che il tonfo dell’isola potrebbe contagiare tutti i 17 Paesi dell’euro. E ci sono pure in gioco i rapporti dell’Ue con la Russia: Putin e Medvedev giocano pesante, usano come arma riserve finanziarie e forniture energetiche.

La Commissione europea riconosce che la situazione è “seria”. La Bce aggiunge un suo tassello al drammatico puzzle: assicura a Cipro, dove le banche restano chiuse –lo saranno almeno fino a martedì prossimo, dieci giorni filati- liquidità d’emergenza, ma solo fino a lunedì. E Standard & Poor's taglia quel che resta del rating di Cipro da 'ccc +' a 'ccc', con outlook negativo.

In serata, l’Eurogruppo torna a riunirsi, telefonicamente per fare il punto della situazione e valutare le alternative che la troika discute con le autorità cipriote. Ma una decisione non pare matura: già si parla d’una riunione d’emergenza dei ministri delle finanze dei 17, domenica o lunedì. Come vuole la pessima tradizione dell’Unione europea, si definirà tutto in extremis, con l’acqua alla gola.

La richiesta al governo di Nicosia è d’interventi immediati: Ue e Fmi ci mettono 10 miliardi di euro, i ciprioti devono trovarne 5,8 –in tutto, la manovra vale il pil dell’isola-. Nei contatti con la troika, costituita da Commissione europea, Bce e Fmi, si fa strada l’ipotesi di un fondo di solidarietà, dando in pegno beni dello Stato a garanzia del prestito internazionale. In serata, la Banca nazionale, già protagonista di mosse a sorpresa ed erratiche, annuncia “un processo risolutivo”, capace d’evitare la bancarotta del sistema creditizio e di garantire i depositi fino a 100 mila euro.
Cipro negozia pure con l’altro suo ‘padrino’, la Russia, molto critica con l’Ue, che accusa di volere ‘spennare’ i suoi cittadini –i depositi bancari più pingui sull’isola sono proprio russi-. E Mosca minaccia di rivedere al ribasso le quote in euro delle sue riserve, stimate a circa 200 miliardi: l’atto comprometterebbe ulteriormente la tenuta della moneta europea sui mercati internazionali.
Intanto, i tempi si allungano. Il ‘piano B’, che s’era ipotizzato potesse essere presentato ieri, deve ancora essere definito, mentre Nicosia è teatro di manifestazioni e di tafferugli, con protagonisti i dipendenti delle banche minacciate di fusione o di chiusura. E, spesso, le voci sul ‘piano B’ sono contraddittori: la scorsa notte, pareva certa una nuova versione del prelievo forzoso; ora, pare si discuta una nazionalizzazione dei fondi pensione delle compagnie semi-pubbliche, o la creazione d’una ‘bad bank’ che incameri le passività delle banche da salvare, o ancora l’emissione di debito straordinario garantito coi futuri proventi delle risorse energetiche da poco scoperte –la Russia ci tiene gli occhi addosso-.
A parole, i governi dei Grandi dell’euro sono consapevoli della criticità del momento: la Germania giudica un dovere dell’Eurozona trovare una soluzione, la Francia ammette che il piano annunciato sabato scorso è stato un errore; il presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, vuole fare pagare il conto ai ricchi, cioè –in questo caso- agli affaristi russi. Ma la linea resta quella che l’Austria sintetizza così: senza un piano alternativo, ma sostanzialmente equivalente, ai prelievi sui depositi, niente aiuti europei.
Fortuna che  mercati restano relativamente calmi. Le borse europee chiudono negative, ma senza crolli. Lo spread si mantiene su quota 320. Gli operatori non credono che Cipro mandi a picco l’euro; o, meglio, che l’Eurozona si lasci affossare da Cipro. E l’agenzia di rating Fitch, per ora, è rassicurante: la crisi non ha ”implicazioni immediate sui rating sovrani di altri Paesi dell'Eurozona".

mercoledì 20 marzo 2013

Punto: Obama in Israele, abbraccia Peres, dà la mano a Netanyahu

Scritto per l'Indro il 20/03/2013

Il linguaggio del corpo è sempre più sincero, perché istintivo, delle parole. Ed al suo arrivo all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, per la sua prima visita in Israele da quando è presidente, Barack Obama, presidente degli Stati Uniti, ha abbracciato il presidente israeliano Shimon Peres ed ha solo stretto la mano al premier Benjamin Netanyahu. Una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che tra Obama e Netanyahu –mettetela come volete- “non passa la corrente”, “non c’è feeling”, “manca la sintonia”.

Le parole, però, quelle finora pronunciate e quelle che lo saranno di qui a venerdì, sottolineano l’amicizia, anzi l’alleanza tra Stati Uniti e Israele, addirittura “eterna”, quasi con una sorta d’evocazione biblica. Se no, perché venire fin qui?, dopo non averlo fatto per tutto un mandato. “Siamo fieri di essere i vostri migliori alleati –ha esordito Obama all'aeroporto-. E nostro interesse essere al fianco di Israele”. E dopo avere espresso la sua fiducia nell'alleanza –appunto- “eterna”, il capo della Casa Bianca ha rivolto agli astanti un saluto in ebraico accolto dagli applausi e ha fatto un appello per la pace nella Terra Santa di tutte le religioni monoteiste. Peres gli ha risposto senza screzi e sul medesimo tono: “Abbiamo la stessa visione”.

Intanto, a Gaza andava in scena la protesta dei palestinesi contro “il sostegno unilaterale” degli Usa a Israele. Domani, Obama sarà a Ramallah, per vedere il presidente palestinese Abu Mazen; e venerdì andrà in Giordania, per colloqui con il re Abdallah. L’itinerario del presidente statunitense non prevede tappe calde, in una Regione dove la situazione resta incandescente in Siria; dove l’anniversario –il decimo- dell’attacco all’Iraq è segnato da cruenti attentati; dove il deterioramento delle Primavere arabe suscita apprensione sulla stabilità dell’Egitto e dei Paesi del Nord Africa; e dove il terrorismo integralista che s’è creato basi nel Sahara e a sud del deserto, è capace di colpire e uccidere nel Mali, nonostante l’intervento militare francese –oggi, s’è appreso dell’uccisione d’un ostaggio-.

Non che Israele non abbia fatto qualche gesto per migliorare il clima dei rapporti con gli Stati Uniti, alla vigilia della visita di Obama. Ieri, l'esercito israeliano aveva smantellato sei strutture in due insediamenti illegali in Cisgiordania. E i coloni criticano Netanyahu, che ha appena perfezionato un’intesa di governo dopo le elezioni di gennaio, per avere “cercato d’ingraziarsi in tal modo” l’ospite americano.

Insomma, a parte il freddo con Netanyahu e l’inconveniente singolare dell’auto presidenziale rimasta in panne, la visita, che era stata preparata da una missione il mese scorso del neo-segretario di Stato John Kerry,  parte bene. Nei colloqui, i temi di maggiore confronto saranno i principali dossier mediorientali: dalla crisi siriana al nucleare iraniano; e ancora la transizione egiziana, la lotta al terrorismo internazionale e, infine, il rilancio della questione israelo-palestinese. Tuttavia, Obama non intende presentare nell'occasione né un piano di pace, né una ‘tabella di marcia’ per il ritiro dei coloni dalla Cisgiordania, come invece avevano riferito alcuni quotidiani israeliani ... a seguire estratti di una nota Ispi ...

Ue: Cipro; le brioches della Regina, il pane nero di Angela

Scritto per il blog de Il Fatto il 20/03/2013

“Che mangino brioches!”, si racconta abbia detto del popolo che, nel 1789, faceva la rivoluzione la regina Maria Antonietta, mostrando una mancanza di sensibilità che la storia, di lì a poco, avrebbe severamente punito. “Che mangino pane nero”, dice ora –figurativamente- la cancelliera Angela Merkel a quei popoli dell’Ue e dell’euro che hanno magari vissuto al di sopra dei propri mezzi, ma che ora tirano la cinghia e faticano assai a sbarcare il lunario.

Certo, nessuno si augura che la storia punisca la mancanza di sensibilità di Angela con la severità che mostrò per Maria Antonietta –altri tempi!, per fortuna-. Ma la cancelliera dovrebbe smetterla d’azionare mannaie finanziarie ed economiche: dal Terrore di Robespierre al Rigore della Merkel, mica vogliamo ritrovarci, 65 anni dopo ‘Germania anno zero’ –vadano a rivedersi il film di Roberto Rossellini, quelli che blaterano contro il progetto dell’Unione-, a un’ ‘Europa anno zero’, allora la guerra, adesso la crisi.

Il no di Cipro -della gente prima che del Parlamento- al diktat dell’Eurogruppo, che qualche economista paragona a una rapina, più alla sceriffo di Nottingham che alla Robin Hood, non è solo simbolico. Può accadere che un popolo, per uscire dalle peste in cui s’è cacciato, debba sottoporsi ad un prelievo forzoso sui propri conti –gli italiani lo fecero nel 1992, e non di buon grado-, ma deve essere quel popolo, magari tramite i suoi rappresentanti democraticamente eletti, a deciderlo.

L’Eurogruppo e la trojka delle istituzioni finanziarie internazionali –Commissione europea, Bce ed Fmi- hanno il diritto –e, forse, pure il dovere- di subordinare gli aiuti a un Paese dell’Eurozona (in questo caso, dieci miliardi di euro) a un corrispettivo di sacrifici da parte del Paese (in questo caso, 5,8 miliardi di euro)… Ma lasciamo decidere ai ciprioti se accettare, o meno, il patto e, soprattutto –una volta accettatolo- dove e come fare i sacrifici.

Non che i ciprioti siano senza colpa, come non lo sono i greci, gli italiani, gli irlandesi, gli iberici tutti e quant’altri per le loro disavventure: sull’isola, in particolare, un sistema finanziario ipertrofico, un regime quasi da paradiso fiscale, occhi chiusi su traffici illeciti e su riciclaggio di denaro proveniente da loschi affari. Tutto vero. E il fatto che li protegga Putin non ne migliora l’immagine.

Però, il diktat dell’alba di sabato è francamente inaccettabile: “Fate così. Altrimenti, fatti vostri”. Che, poi, non è neppure vero: fatti pure nostri, italiani ed europei, se Cipro va a fondo. Quel sasso di Davide nell’occhio di Golia –il no del Parlamento di Nicosia al piano dell’Eurogruppo- non ha abbattuto il gigante, ma lo fa vacillare. Bruxelles s’aspetta un’alternativa da Cipro; Parigi dice che il prelievo era sbagliato – ma loro dove stavano, al momento della decisione? -: Berlino dice che è “un dovere” trovare una soluzione. Sì,  ma insieme ai ciprioti; e non contro.

Ue: Cipro, no al prelievo sui conti; Grecia, vi aiutiamo noi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/03/2013. Altra versione su l'Indro il 19/03/2013

Il Parlamento di Cipro boccia, con un voto netto, il piano d’aiuti varato dall’Eurogruppo sabato all’alba: 10 miliardi di aiuti per sventare il fallimento dell’isola, a patto, però, che Nicosia recuperi 5,8 miliardi con un prelievo forzoso sui conti correnti. Alla fine d’una giornata convulsa, il verdetto dell’Assemblea è stato inequivocabile: 36 voti contro, 19 astensioni –il partito del presidente- e nessuno a favore. Lo speaker del Parlamento, Yiannakis Omirou, un paladino del no, ha annunciato: “Il piano è stato respinto”. E migliaia di cittadini riuniti fuori dal palazzo hanno esultato, mentre c’è costernazione nelle sedi dell’Unione: si deve tornare a discutere.

La partita non è chiusa. Cipro rischia di crollare sotto il peso abnorme del settore creditizio, i cui depositi valgono circa sette volte il pil nazionale. E le notizia che vengono da Atene non migliorano il quadro, ma lo rendono paradossale:il governo greco chiede all’Eurozona di correggere il piano ‘pro isola’; e le banche greche sono disponibili ad aiutare quelle cipriote. Dio mio!, in che mani sono!, e siamo!

Non che quelle dell’Eurogruppo siano molto più affidabili, vista l’eco negativa e le divisioni interne suscitate delle decisioni di sabato. Mentre un aereo della Raf porta a Nicosia un milione di euro, per parare ai disagi dei residenti britannici, specie il personale militare, il ministro delle finanze Michalis Sarris fa un’andata e ritorno a Mosca per chiedere un’estensione del credito di 2,5 miliardi d’euro ricevuto da Cipro due anni or sono, nonché un alleggerimento delle sue condizioni.

I russi sono irritati con l’Ue e preoccupati, ma ci penseranno. Sull'isola, vivono 80 mila russi, la cui presenza sarebbe collegata – si sospetta - a loschi traffici finanziari e al riciclaggio di denaro sporco: i loro depositi valgono da soli 20 miliardi di euro, più del Pil cipriota. Tassi d’interesse alti e imposta sulle società minima (10%) hanno fatto prima il successo e ora la rovina dell’isola che voleva essere ‘paradiso fiscale’.

Dopo la bocciatura del piano, il governo di Nicosia lavora per sottrarre i piccoli depositi –fino a 20 mila euro- al prelievo forzoso. Le istituzioni finanziarie internazionali non sono contro l’ipotesi d’una tassazione progressiva, ma la Banca centrale cipriota gela tutti: impossibile – sostiene - escludere dal prelievo i depositi al di sotto d’una certa cifra, se si vogliono fare quadrare i conti.

Fitch, tanto per gettare olio sul fuoco, una specialità delle agenzie di rating, mette sotto controllo tre banche cipriote, citando “i rischi al ribasso relativi all'imposizione”. E l'istituto d’analisi tedesco Zew ci chiama in causa e avvisa: l'incertezza politica in Italia e la complessa situazione di Cipro aumentano i rischi di peggioramento della crisi finanziaria in Europa. L'Ocse, invece, fa il pompiere e sostiene che il piano di salvataggio per Cipro non mette in pericolo l'euro.

Anche l’Eurogruppo si sforza di tranquillizzare operatori finanziari e opinioni pubbliche: non c’è nessuna necessità –afferma- di estendere il prelievo forzoso sui conti correnti ad altri paesi; anzi, “l’ipotesi è assolutamente fuori questione”. Nei confronti di Cipro, il club dell’euro lascia margini d’intervento sulle modalità del prelievo, specie per la salvaguardia dei piccoli depositi. Però, resta adamantino su un punto: il governo di Nicosia faccia come vuole, ma recuperi 5,8 miliardi di euro: su quella cifra, non c’è margine di manovra. E la Germania conferma: senza quelli, niente aiuti.

Tra segnali contrastanti, i mercati, preda dell’incertezza, sono deboli per il secondo giorno, ma non crollano: borse in rosso nell’Ue, spread che risale a 337, euro ai minimi sul dollaro da tempo, ma movimenti sostanzialmente contenuti. Le banche nell'isola resteranno ancora chiuse oggi. E la Bce, dopo il no del Parlamento di Nicosia e in contatto con Ue ed Fmi, "conferma l'impegno a garantire la liquidità necessaria a Cipro entro il quadro delle regole previste".

A complicare il quadro, la minaccia di sussulti nella neo-formata compagine governativa cipriota – il presidente è stato eletto da meno di un mese -. Il ministro delle Finanze Michalis Sarris potrebbe dimettersi, su richiesta di esponenti del partito di destra Diko, alleato del Disy di Anastasiades. Sarris smentisce, ma il quadro resta fluido.

martedì 19 marzo 2013

Ue: Cipro, l'isola rifugio di loschi russi e pensionati britannici

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/03/2013

E’ un cane che si morde la coda. Anzi, visto che si tratta di un’isola, è un drago marino che s’attorciglia su se stesso: la crisi di Cipro è figlia di quella della Grecia perché salvare Atene dal fallimento è costato alle banche cipriote 4,5 miliardi di euro, debiti cancellati o ‘ristrutturati’. Un colpo da cui gli istituti di credito “ipertrofici” –la definizione è dell’Eurogruppo- ciprioti non si sono più ripresi.

E, così, i capitali scappano dall’isola che diede i natali ad Afrodite: 20 miliardi di euro dall’inizio dell’anno, vista la mala parata; 4,5 miliardi nell’ultima settimana, quando i timori di prelievi forzosi cominciavano a circolare. E ‘vox populi’ dice che a trasferire i soldi all’estero sono stati pure uomini politici.

Cambiare il ‘manico’ non è servito. Nikos Anastasiades, 66 anni, un conservatore filo-europeo, ha vinto, il 24 febbraio, le elezioni presidenziali , con un programma che prevedeva si sollecitare l’intervento dell’Ue. Adesso che l’hanno ottenuto, i ciprioti si chiedono, però, se il prezzo è giusto.

Dopo Sicilia e Sardegna, Cipro è la terza isola per estensione del Mediterraneo. Un milione d’abitanti circa; indipendente dal 1960; divisa in due dal 1974, dopo un intervento militare turco e la creazione nel Nord di uno Stato turco-cipriota riconosciuto solo da Ankara; Cipro è entrata nell'Unione europea nel 2004 e nell’euro nel 2007.

Tuttora divisa da un muro, che separa le comunità greca e turca lungo la cosiddetta linea verde, l’isola, nonostante sia vissuta sotto i padroni più diversi –arabi, veneziani, ottomani, inglesi, solo per restare agli ultimi secoli-, conserva sue caratteristiche proprie. E’ una repubblica presidenziale con una vaga tendenza alla teocrazia: l’uomo forte, all’indipendenza, era l’arcivescovo ortodosso Makarios, presidente fino al 1977, che tra molte traversie, un colpo di stato filo-greco e una contro-invasione turca, si oppose sempre all’idea di un’annessione dell’isola alla Grecia. E, ancora oggi, la Chiesa ortodossa ha una grande influenza.

Chi guarda la carta vede che Cipro è quasi equidistante dalla Turchia e dal Libano, vero snodo tra Europa e Medio Oriente. Ma, oggi, essa è soprattutto vicina a Mosca e a Londra: per russi (circa 50 mila) e britannici (oltre 80 mila), l’isola, con 340 giorni di sole all’anno, belle spiagge, ville di lusso e, soprattutto, una normativa fiscale favorevole agli stranieri attira pensionati di Sua Maestà e sedicenti ‘uomini d’affari’ russi che si sono stabiliti in particolare nelle città costiere di Limassol, Larnaca e Pafos.

Furio Morroni, corrispondente di lunga data dell’ANSA da quell’area, racconta che i russi che vivono a Limassol sono talmente tanti che la città è stata ribattezzata ‘Limassolgrad’: ci sono due quotidiani e un settimanale in lingua russa, due scuole e una stazione radio russe, i ristoranti hanno i menù in caratteri greci e cirillici.

Ma, prosegue Morroni, l’economia che ruota intorno a queste due comunità è del tutto diversa: quella dei britannici (tra cui circa 3.500 militari distaccati nelle due principali basi inglesi sull'isola) è sostanzialmente sana, consiste quasi del tutto in stipendi e pensioni pagati mensilmente da Londra e in risparmi di una vita investiti per l’acquisto di una casa per la vecchiaia.

L'economia dei russi, invece, è fatta di commerci e investimenti. E ha già attirato sull’isola sospetti di traffici illeciti e, soprattutto, di riciclaggio. Quale che ne sia l’origine, i soldi dei russi finiscono nelle banche di Cipro che li attirano con retribuzioni elevate, senza contare che la tassa sulle società è la più bassa d’Europa, al 10% -ora, salirà al 12,5%, sempre una manna-. I depositi russi ammontano, secondo alcune stime,  a circa 20 miliardi di euro, su un totale di quasi 69 miliardi; quelli di residenti di altre nazionalità sarebbero intorno ai 5,5 miliardi.

Il prelievo forzoso sui depositi bancari va, dunque, a colpire gli interessi dei cittadini russi residenti a Cipro. E, infatti, mentre il governo britannico s’è limitato ad annunciare una sorta d’assicurazione per i suoi cittadini, il presidente russo Vladimir Putin s’è scagliato contro la tassa "ingiusta e pericolosa".

lunedì 18 marzo 2013

Punto: Cipro; Ue, la crisi dell'isola spaventa l'Unione

Scritto per l'Indro il 18/03/2013

La piccola Cipro, neppure un milione di abitanti, spaventa l’Unione europea e non solo: c’è apprensione sui mercati, dopo che l’Eurogruppo, nella notte tra venerdì e sabato, ha subordinato l’aiuto internazionale a Nicosia per 10 miliardi di euro a un prelievo forzoso sui conti correnti dell’Isola, giudicandone “ipertrofico” il settore creditizio. Dopo manifestazione di protesta e momenti di panico a Cipro, sono ora in corso negoziati per rivedere le modalità del prelievo, esentandone, ad esempio, i piccoli risparmiatori.

Nell'attesa, è stata rinviata a domani la riunione del parlamento cipriota che doveva pronunciarsi già oggi sul provvedimento, giudicato rischioso dagli operatori finanziari e avversato dalla Russia, che ha un grosso peso sul sistema bancario dell’Isola e che teme “conseguenze negative” anche altrove nell'Eurozona. Il presidente russo Vladimir Putin boccia il prelievo forzoso come “ingiusto e pericoloso”.

In Italia, il presidente della Consob Giuseppe Vegas appare, invece, rassicurante ed esclude i rischi di contagio. Con un segnale di normalità, domani, a Cipro, le banche saranno regolarmente aperte, dopo che s’era ipotizzata una giornata di blocco in più –oggi, l’Isola celebra una festa ortodossa, l’equivalente del Mercoledì delle Ceneri.

All’alba di sabato, il nuovo governo cipriota, guidato dal neo-eletto presidente Nikos Anastasiades, aveva ottenuto dall’Eurogruppo l'ok a un piano di aiuti "fino a 10 miliardi" di euro –la richiesta era di interventi per  17 miliardi, pari circa al pil dell’Isola-. Obiettivo, sostenere il settore creditizio, messo a dura prova negli ultimi tre anni dalla crisi greca e dalla ristrutturazione del debito di Atene, verso il quale le banche cipriote erano molto esposte. Il programma di assistenza prevede l’imposizione d’una tassa straordinaria sui depositi bancari del 6,75% per quelli inferiori e del 9,9% per quelli superiori ai 100 mila euro. Le entrate così previste, ha detto il presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, sono calcolate in 5,8 miliardi.

Il caso Cipro mette sotto pressione i mercato europei, nel timore che possa riaccendersi la crisi del debito nell'Eurozona: le borse chiudono negative, ma lo spread, che apre in rialzo, ripiega poi a 323, mentre l'oro sale. Le autorità di Nicosia fanno i conti con la fuga di capitali provocata da avvisaglie della decisione dell’Eurogruppo: in una settimana, 4,5 miliardi di euro hanno lasciato l’Isola; sono 20 dall'inizio dell'anno. Tra chi ha trasferito i suoi soldi all’estero vi sarebbero anche molti uomini politici.

Eppure, sul fronte europeo, la giornata, per l’Italia, non è negativa. A pochi giorni dalle conclusioni del Vertice europeo, che hanno lasciato la porta aperta alla possibilità che “i paesi virtuosi” sforino la parità di bilancio con investimenti produttivi, la Commissione europea ha oggi dato alle autorità di Roma un altro via libera. il peso dei pagamenti arretrati della pubblica amministrazione italiana nei confronti di imprese e fornitori potrà essere conteggiato in modo flessibile su deficit e debito. L'indicazione giunge da Bruxelles dopo un'intesa in tal senso raggiunta tra i vice-presidenti dell’esecutivo comunitario Antonio Tajani –industria- e Olli Rehn –finanze-. L'Italia deve ora preparare un piano di rientro per i debiti contratti dalla pubblica amministrazione con le imprese prima del 31 dicembre 2012: una cifra situata, a seconda delle fonti, tra i 60 e i 100 miliardi di euro. Per i pagamenti pattuiti dal 1.o gennaio, valgono, invece, le nuove norme europee, che impongono saldi a 30 o, in casi eccezionali, a 60 giorni.