Con il senso dell’umorismo che li contraddistingue, abituati
come sono a essere lo zimbello delle barzellette francesi, i belgi ne hanno
ricavato un libro antologia, con le vignette satiriche abbattutesi su di loro
nei 530 e oltre giorni della crisi (di governo) più lunga che si sia mai vista.
Meglio, anzi peggio, dell’Olanda, dove pure per fare i governi ci vuole una
vita, e persino dell’Iraq, dove, però, si negozia tra una tazza di te e
un’autobomba.
‘La fine del mondo è rinviata a una data ulteriore’ è il
titolo dell’antologia. La crisi durò dal giugno 2010, elezioni politiche, al dicembre
2011, quando, al fine, il Belgio ebbe un governo a parte intera, politico e
nella pienezza dei poteri e non tecnico e in carica per gli affari correnti.
Yves Leterme, cattolico, fiammingo, premier in carica durante
la trattativa infinita, poté andarsene tranquillo all'Ocse, dove lo aspettava
da mesi il posto di vice-segretario generale: guadagna di più e ha meno grane.
Ed Elio Di Rupo, socialista, francofono, origini italiane, gay dichiarato, poté
insediarsi al 16 di rue de la Loi ,
che è l'equivalente belga di Palazzo Chigi.
Come avevano vissuto i cittadini belgi la lunga attesa di un
governo a pieno titolo? Non si può dire che il clima, nel Paese, fosse normale.
A pesare, però, più che la provvisorietà dell’esecutivo, era la sovrapposizione
di due crisi: quella economica, comune a tutta l’Europa; e quella
istituzionale, perché, dalle urne, era uscito un paese sull'orlo della separazione
tra fiamminghi (il Nord ricco e cattolico, due terzi della popolazione) e
valloni (il Sud francofono e socialista, meno prospero). La miccia era stata l’affermazione
del movimento nazionalista fiammingo di Bart De Wewer, tenuto, però, fuori dal
governo. L’anno scorso, De Wewer ha stravinto le elezioni comunali ed è
diventato sindaco d’Anversa, la principale città fiamminga
Insomma, non era una crisi di governo come altre: la posta
in gioco era l’unità del Belgio, anzi l’esistenza del Belgio. E questo era ben
presente sui media e nella testa della gente, anche se – testimonia un
fiammingo di Bruxelles – “a un certo punto ci si abitua”.
Fortuna che il premier LeTerme e i suoi ministri se la
cavarono bene. E, con senso di responsabilità condiviso, i partiti in
Parlamento permisero loro di prendere decisioni che vanno al di là
d’un’interpretazione stretta degli affari correnti: il governo in carica gestì
il semestre di presidenza belga del Consiglio dell’Ue, evitò il fallimento di
alcune banche in grandi difficoltà, adottò misure di rigore e tagliò la spesa
pubblica per ridurre il deficit di bilancio. Non poté, invece, adottare riforme
strutturali, come quella delle pensioni, parte della discussione fra i partiti
sul programma della nuova coalizione.
Alla fine, i sei partiti che negoziavano raggiunsero un'intesa
di massima su un documento programmatico di 185 pagine. L'ultimo scoglio, i
tagli alla spesa pubblica, venne superato quando l'agenzia di rating Standard
& Poor's declassò l'affidabilità del debito belga. Il campanello d'allarme
fu sufficiente a riportato i partiti al tavolo della trattativa, dopo avere
sfiorato l'ennesima rottura.
Sostenuto dal re Alberto II, Di Rupo, pipa e papillon, divenne
il primo premier francofono e vallone dal 1974. Quando s’insediò, l'intesa
appariva fragile e gli equilibri nella coalizione precari. Le tre principali
famiglie politiche belghe, cattolici, liberali e socialisti, sono presenti, ma
i fiamminghi non sono adeguatamente rappresentati. Gli incidenti di percorso e
forse nuove elezioni parevano dietro l’angolo: sono passati 15 mesi e tutto
fila (quasi) liscio, nel Paese che vive bene con (e senza) un governo con pieni
poteri. Anche perché ciascuno fa il suo, prima di preoccuparsi se lo fanno gli
altri.
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