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lunedì 31 marzo 2014

Ue: hit parade, 10 grazie all'Europa, dai cell alla pace

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/03/2014

Unione europea, quanto mi costi!, e quanto mi ‘rompi’! Cinque anni di crisi e di rigore che pesano molto più dei cento di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, il pil giù e il potere d’acquisto pure, l’inflazione che quasi diventa deflazione, il numero dei poveri che s’impenna, le regole che paiono una gabbia, gli eurocrati che diventano degli autocrati –pure pagati a peso d’oro-… E, come se non bastasse, ogni anno ce ne vengono indietro meno soldi di quanto gliene versiamo: miliardi di euro, mica spiccioli…

Questa volta, alle elezioni europee del 25 maggio voto ‘euro-scettico’: contro l’Ue e contro l’euro, ché, da quando c’è la moneta unica, tutto costa più caro e la Germania ci comanda a bacchetta… Non vedo manco una ragione per essere ‘europeista’: noi italiani lo siamo stati per mezzo secolo e guarda come ci siamo ridotti. Mo’ basta!

Sono cose che senti dire in giro, e pure alla radio e in tv, che leggi sui giornali e sul web, che trovi nei programmi degli ‘euro-scettici’ per le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Persino Crozza, la sera che è a corto di gag, tira in ballo le spese dell’Assemblea ‘pendolare’ tra Strasburgo e Bruxelles e qualche spreco della cooperazione e della coesione e l’applauso un po’ qualunquista parte a scroscio.

Ma, al netto degli errori di percorso che ci sono e vanno ovviamente eliminati, davvero l’Unione è la causa di tutti i nostri mali?, davvero non c’è manco una ragione per volerla portare avanti e rafforzare? Il primo interrogativo merita un esame di coscienza: l’evasione fiscale e la corruzione, due specialità di cui siano recordman in Europa, che ampliano il deficit, allargano il debito, riducono la competitività e costringono gli onesti a pagare le tasse anche per i disonesti, sono colpa dell’Ue, o nostra?; l’impennata dei prezzi successiva all'entrata in vigore dell’euro fu colpa dell’Ue, o nostra?; l’incapacità di spendere i fondi dell’Ue a nostra disposizione è colpa dell’Ue, o nostra?; le vischiosità della politica e le lentezze decisionali sono colpa dell’Ue, o nostra? E via dicendo…

Quando alle ragioni per volere l’Unione, io ne ho trovate almeno dieci, senza contare i fondi per la coesione che fatichiamo a utilizzare (ma che dovremmo imparare a spendere bene e in fretta). Ve le propongo, come si fa con l’hit parade: cominciando dalle meno importanti e risalendo alle più corpose.

10) Gps – Col programma Galileo, l’Unione sta dotandosi d’un proprio sistema di posizionamento, concorrenziale e alternativo a quello americano. In prospettiva, un mercato globale che si apre alla tecnologia europea.

9) Kosovo – Le politiche estera e di difesa sono le maglie nere dell’integrazione europea. Ma Kosovo e Balcani sono esempi positivi: dopo un decennio di conflitti, la presenza europea nell'area ha ridotto le tensioni, permesso l’acquisizione dell’indipendenza del Kosovo, incentivato progressi democratici ed economici… Serbia e Montenegro negoziato l’adesione; Albania, Kosovo, Bosnia contano di farlo; e alcuni Paesi già usano l’euro come loro moneta. 

8) Roaming – Se telefonare all'estero, o ricevere una chiamata dall'estero, costa di meno, e molto, è merito dell’Ue, che ha imposto tariffe di roaming più basse alle compagnie –il terzo e ultimo calo scatterà il 1.o luglio-. Merito pure dell’Ue se i caricatori dei telefonini si vanno omologando e non c’è più bisogno di un caricatore diverso per ogni apparecchio… Invece, l’Unione non ha ancora vinto la battaglia per l’armonizzazione delle prese elettriche e telefoniche: paese che vai, spina che trovi…

7) Ttip – Le politiche commerciali sono prerogativa dell’Unione europea. Il prossimo obiettivo è l’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti  per la creazione di un mercato unico di un miliardo di cittadini consumatori, quelli dell’Ue e quelli della Nafta (Usa, Canada e Messico): sarà fatto entro il 2016, varrà –secondo stime prudenti- almeno lo 0,5% del Pil, si spera di più.

6) Horizon 2020  - E’ il programma per la ricerca e la competitività: la Commissione europea lo voleva più ambizioso, ma anche così ha conosciuto quasi un raddoppio nel periodo 2014-2020 rispetto al 2007-2013: da 53 miliardi di euro agli attuali 80 miliardi circa. Insieme ad altre recenti ‘conquiste’, come il brevetto europeo, contribuirà a migliorare l’efficienza del sistema produttivo europeo ed a stimolare il ‘rinascimento dell’industria’ che punta sul manifatturiero ed esalta l’economia reale che innesca lavoro, non solo profitto.

5) Fisco – Magari, l’Ue arriverà dove noi non sappiamo arrivare, nella lotta all'evasione: la riforma della direttiva sui risparmi allarga a tutti gli stati lo scambio d’informazioni al fine di combattere l'evasione ed è in sintonia con la firma d’intese con Paesi terzi (la Svizzera, per noi fondamentale, ma anche Andorra, Monaco, il Liechtenstein, San Marino).

4) Erasmus – Da decenni, la porta d’ingresso in Europa per milioni di giovani: l’anno scorso, pareva moribondo. E’ stato salvato, facendo fronte a tutte le spese già autorizzate, e rilanciato: adesso, c’è Erasmus-,  per una generazione di studenti (e docenti) sempre più europei.

3) P.A., pagamenti – I governi italiani tendono a prendersene il merito, ma è stata l’Ue a stringere, con una direttiva in vigore dall’anno scorso, i tempi di pagamento dei debiti delle P.A. L’Italia è pure andata in infrazione e rischia di finirci di nuovo, perché i fatti non tengono dietro alle promesse (e nessuno sa neppure dire con precisione a quanto ammonta l'impagato).

2) Schengen – La parola misteriosa – un paesino lungo la Mosella, sul confine del Lussemburgo con Francia e Germania – comporta la libertà di circolazione nell’Unione delle persone (non solo delle merci e dei capitali): l’accordo lì firmato nel 1985 consente ai cittadini dell’Ue di passare liberamente tutte le frontiere interne. Va ancora perfezionato e completato con politiche adeguate dell’accoglienza e dell’integrazione, ma è una conquista acquisita e irrinunciabile.

1) Euro – Ecco, adesso pensate a una provocazione: la moneta unica e il suo corredo di alchimie economico-finanziarie (Patto di Bilancio, six pack e two pack, unione bancaria, governante) sono percepiti come la sentina di tutti i mali della ‘povera Italia’. Ma, prima di maledire l’euro, pensiamo ai tassi di interesse bassissimi per comprare la casa o contrarre un prestito, all'inflazione contenuta, allo scudo contro le impennate dei costi dell’energia in dollari… L’euro da solo non fa l’Europa. Ma senza non la si fa.


L’hit parade è finita. Però, m’è rimasta fuori una parola, che non c’entra nulla con l’economia e che suona magari retorica, ma che è la più importante: pace. A cent’anni dalla Grande Guerra, a 70 dalle macerie del Continente dopo la Seconda Guerra Mondiale, vogliamo davvero mettere in forse un’Unione lenta, lacunosa, imperfetta, ma che risolve i conflitti con il negoziato? ‘Euro-critici’, magari, ma comunque europei.

domenica 30 marzo 2014

Politica estera: F35, marò, Nato, il cambio di passo non c'è

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 30/03/2014

In politica estera, il cambio di passo non c’è stato. Nonostante che Matteo Renzi tenda a trasformare in marcia trionfale ogni suo atto. Le visite di presentazione –a Parigi, a Berlino, a Bruxelles- e gli esordi accelerati sulle scene della governance europea e mondiale, un Vertice europeo straordinario sulla crisi ucraina e uno ordinario, il G7 anti-Russia dell’Aja e il Vertice sulla sicurezza nucleare, si sono svolti all’insegna delle buone maniere istituzionali: il nuovo venuto ha ricevuto attestati di fiducia preventivi e ha ricambiato con dichiarazioni di allineamento all’ordine internazionale.

Poi c’è stata la visita a Roma del presidente Usa Barack Obama: il clou del colloquio in Vaticano con papa Francesco e, nel contorno, gli incontri con Napolitano e Renzi e l’escursione al Colosseo, ufficialmente senza ‘do ut des’.

Però, la tentazione, che non è solo renziana, di mettere tutto in positivo, anche quello che è normale o che non lo è proprio, contagia l’attuale governo anche in politica estera, o almeno su temi attinenti la politica estera. Dove approssimazione e sbruffoneria sono caratteristiche poco apprezzate. Facciamo tre esempi, gli F35, i marò, la Nato.

Gli F35 – Li compriamo?, non li compriamo?, quanti ne compriamo?: credo che nessuno (di noi, pubblico) l’abbia capito; e, in fondo, credo che nessuno di loro (premier e ministri) lo sappia. E, certo, i pistolotti di Obama sui ‘costi della libertà’ hanno complicato una situazione già intricata: impegni presi, interessi settoriali, imperativi economici, visioni politiche, opportunità elettorali. Ci sono casi –molti- in cui, ad avere una linea e a dichiararla, ci si guadagna, almeno in rispetto e coerenza. Se no, pare che ti fai portare dalla corrente –e, magari, è proprio così-.

I marò – La magistratura indiana imbocca quella che, fino a un po’ di tempo fa, era la via maestra dell’Italia: niente anti-terrorismo, giustizia ordinaria. Però, nel frattempo, l’Italia ha spostato l’accento sulla giurisdizione internazionale. Ma l’una cosa è in contraddizione con l’altra: se punti sull’arbitrato, non t’importa chi abbia il pallino in India; mentre, se stai al gioco delle corti indiane, ne riconosci la competenza.

Ora, il governo chiede l’immediato ritorno dei due marò, che sono accusati d’avere ucciso due pescatori indiani scambiati per pirati, mentre erano in servizio anti-pirateria a bordo d’una nave container italiana in acque internazionali –l’episodio risale al febbraio 2012-. L’India prende ancora tempo, probabilmente quanto basta per fare passare le elezioni, che stanno per iniziare, ma che laggiù durano un mese e mezzo.

La Nato – L’Alleanza atlantica ha scelto il suo nuovo segretario generale: l’ex premier norvegese Jens Stoltenberg, laburista –il premier all’epoca delle stragi a Oslo e sull’isola di Utoja, luglio 2011. L’Italia incassa, anzi –dice il ministro degli Esteri Federica Mogherini- “dà il suo contributo all’unanimità”.

Peccato, però, che l’Italia avesse dal 2012 indicato una propria candidatura, quella dell’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, sostenuto dai Governi Monti e Letta e mai apertamente ‘scaricato’ da Renzi, anche se l’emergere in extremis dell’ipotesi su una candidatura di consolazione per Letta l’aveva fortemente indebolito –in genere, mosse del genere affossano un candidato e bruciano l’altro-.

Forse, Frattini era già ‘spacciato’ quando qualcuno ha provato la carta Letta. E, forse, Stoltenberg è la scelta migliore, fra quelle prospettate. Ma maggiore chiarezza non avrebbe danneggiato l’Italia. E il tentativo di apparire fra i grandi elettori del norvegese vincitore appare come minimo ingenuo.

sabato 29 marzo 2014

Obama a Roma: appena se n'è andato, è subito nostalgia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/03/2014

Non appena s’avvicina alla scaletta dell’AirForceOne per lasciare Roma con destinazione Riad, Barack Obama torna a parlare di politica internazionale, dopo 36 ore di ‘vacanza romana’: ingiunge a Vladimir Putin di ritirare le truppe lungo il confine ucraino -50mila uomini, per il Pentagono; 80mila per Kiev, che le spara sempre grosse-; e, nel contempo, rassicura il leader russo, gli Usa "non hanno alcun interesse ad accerchiare la Russia" (se davvero lo teme, il leader del Cremlino "travisa la politica estera" americana).

La parentesi italiana nella missione europea del presidente Obama lascia ben poca traccia nei media americani e internazionali. La Cbs vuole sapere di Papa Francesco, “un uomo meraviglioso, che ha un grandissimo senso dell'umorismo. La sua semplicità e la sua fede nel prevalere della spiritualità sulle cose materiali si riflette in ogni atto'', dice il presidente, che racconta di averne colto momenti d’imbarazzo per tutti gli orpelli del cerimoniale pontificio.

Un po’ la crisi, un po’ il valzer dei premier, un po’ la novità di Francesco, Roma, di questi tempi, è, per i leader del Mondo, la porta d’accesso al Vaticano: la prossima settimana, toccherà alla regina d’Inghilterra Elisabetta. Nelle cronache americane, gli incontri di Obama con Napolitano e Renzi quasi non compaiono: un’agenzia sul Chicago Tribune. Il resto è tanto Papa e un po’ di Colosseo.

Sollecitato dal più introdotto dei corrispondenti italiani dagli Stati Uniti, Mario Platero, il portavoce della Casa Bianca Jay Carney torna sul colloquio con Renzi, "ricco di energia – dice a Radio24 -, una ventata di aria nuova": il presidente "è rimasto colpito da come il premier ha usato la frase ‘yes we can’, possiamo farcela. Non sarà facile, forse il percorso sarà lento. Ma potete farcela...".

Allora, è vero, anche se i giornali americani non se ne sono accorti: Obama ha finalmente trovato l’alter ego italiano, a parte il rispetto e l’amicizia per ‘zio’ Napolitano. Invece, si sta solo ripetendo l’equivoco, non innocente, dell’incontro con Angela Merkel a Berlino il 17 marzo: la cancelliera fu “impressionata” dal premier italiano, esattamente, però, come lo era stata da Mario Monti nel 2012 e da Enrico Letta nel 2013 (e un po’ meno di quanto lo sarebbe stata, il giorno dopo, dal portoghese Padro Passos Coelho).

Andiamoci a rileggere quello che disse lo stesso Obama dopo avere incontrato a Washington Monti, il 9 febbraio 2012: manifestò “piena fiducia” nel Professore, vista la sua "poderosa partenza” segnata da “riforme efficaci”. E i media internazionali, che avevano un pregiudizio favorevole verso Monti che non hanno per Renzi, gli andarono dietro: "Ora Obama ha un alleato in Europa" -c'era ancora Sarkozy in Francia-, scrisse The Economist.

E il 17 ottobre 2013, quando a Washington arrivò Letta, Obama fu “impressionato” dal lavoro fatto dal nuovo premier, giudicò l’Italia “un partner eccezionale”; e il suo portavoce disse che il rapporto tra i due era stato “subito stretto”.

C’è la tendenza italiana a prendere per oro colato le aperture di credito diplomatiche. E a ipotizzare che le altrui posizioni possano essere funzione dei posizionamenti politici italiani. C’è persino chi vede un nesso tra la grazia non concessa agli agenti Cia condannati per il rapimento di Abu Omar e quella a Berlusconi. E Grillo racconta che il presidente americano è venuto in Italia a venderci gas e a impedirci di tagliare gli F35.

Lontano da Roma, Obama pensa a Putin e alle grane con l’Arabia saudita, che mal accetta il dialogo con l’Iran. Il sindaco Marino, andato a salutarlo all’imbarco a Fiumicino, non vede l’ora che torni, forse per il 70° anniversario della liberazione della Città Eterna: il 4 giugno, fra 10 settimane appena. Un miraggio. O un sogno.

venerdì 28 marzo 2014

Obama a Roma: più Vaticano che Italia (e un po' di turismo)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/03/2014

La giornata a Roma di Mr Obama è (quasi) quella di un turista americano. Emozionato in Vaticano, al cospetto di papa Francesco, che lo commuove “fortemente”. Stupefatto al Colosseo, che –osserva con candore- “è più grande di uno stadio di baseball”. Sorridente al Quirinale, accanto al presidente Napolitano, “un uomo di Stato forte”, un “buon amico”. E un po’ sulle sue nella conferenza stampa con il premier Renzi, che scruta con intensità impenetrabile, distendendo il viso quando s’accorge d’essere ripreso.

E’ una Roma irreale, quella che resta negli occhi del presidente: senza traffico, senza turisti, il suo corteo la traversa senza mai doversi fermare. Le poche contestazioni gli restano nascoste: slogan contro prima dell’arrivo in Vaticano; un sitin vicino aVilla Taverna; un altro dei Cobas vicino all’ambasciata.

Per la stampa estera, questo è il giorno di Obama in Vaticano. Sulle agenzie mondiali, Renzi ottiene un titolo solo quando prende a prestito all’ospite lo ‘Yes we can’ della campagna 2008. I media Usa scrivono che il presidente punta sull’ ‘effetto aureola’, perché questo papa ha un tasso su popolarità superiore al 75% negli Stati Uniti. Ma il Tea Party fa dell’ironia: “Il presidente va a chiedere perdono dei peccati del Datagate”.

A Francesco, Obama porta in dono una scatola di cuoio con semi (frutta e verdura) provenienti dall’orto della Casa Bianca, che cura la moglie Michelle –lei non c’è-. “Una parte dei semi – spiega - sono per lei, Santità. Un'altra sarà donata in carità in suo onore”. Poi, invita il papa a Washington: "Se verrà alla Casa Bianca, potrà visitare il giardino". Francesco risponde in spagnolo: 'Perché no?'. “La gente in America impazzirebbe”.

Il colloquio privato dura 50 minuti: libertà religiosa; temi etici –anche aborto e diritto all’obiezione di coscienza-; immigrazione; lotta contro la povertà, l’emarginazione, i traffici d’esseri umani; pace e MO. E convenevoli, sorrisi, una citazione dell’Evangelii Gaudium, battute un po’ ingessate (“Lei è l’unico che subisce più protocollo di me”), una stretta di mano di commiato “lunga”. Ai dignitari vaticani, il presidente appare più disteso che nel 2009, quando incontrò Benedetto XVI: congedandosi, con il segretario di Stato Kerry, cattolico, Obama chiede a Francesco di pregare per la moglie e le figlie, che –dice- "devono sopportarmi".

Con Napolitano, l’incontro è al Quirinale nello Studio alla Vetrata: “E’ così bello rivederla”, è l’esordio in inglese  –questa è la quinta volta-. Dopo la colazione sul Colle, subito a Villa Madama per il colloquio con Renzi. In conferenza stampa, il premier ne giudica la visita un incoraggiamento per l’Italia. Lui ha per tutti parole gentili, anche di speranza per la crisi dell’Ucraina con la Russia, sposa la causa della crescita e del lavoro dei giovani, elogia la Bce, non smentisce Renzi quando dice di sperare nell’intesa Ue-Usa sull’area di libero scambio sotto presidenza italiana –tutti e due sanno che non è realistico-.

Al Colosseo, c’è ad aspettarlo il ministro dei beni culturali Dario Franceschini. ''Minister of culture? Great Job'!'', esclama Obama, che non ne ha uno nel suo gabinetto. ''In Italy is the best job'', replica estasiato Franceschini. Poi, la visita e la sosta al bookshop. Quindi, il ritorno a Villa Taverna, dove Obama il turista torna a fare il presidente degli Stati Uniti, occupandosi della riforma dell’intelligence e preparando la tappa di domani a Riad. Alla scaletta dell’aereo, ci sarà il sindaco Marino, di cui ci si era dimenticati.

giovedì 27 marzo 2014

Ucraina: Obama a Mosca, calcoli sbagliati; a europei, libertà costa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/03/2014

Al terzo giorno della missione europea, Barak Obama ribadisce la solidità del legame tra America ed Europa, di fronte alla sfida lanciata dalla Russia in Ucraina; ed invita gli alleati, un po’ riluttanti, a non abbassare la guardia. Mosca –insiste- è isolata e “ha sbagliato i calcoli”, se pensava d’infilare una zeppa tra Washington e i partner.

Alla Nato, Obama ritrova i toni retorici dei discorsi migliori: “La Russia capirà che nel XXI Secolo le frontiere non si ridisegnano con la forza bruta, che così non raggiungerà i suoi obiettivi e neppure la sicurezza e la prosperità”.

Poi, il presidente vola a Roma, dove sbarca dopo le 20, recandosi subito a Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore, blindata e passata ai raggi X. Roma lo accoglie senza ostentare entusiasmo, ma neppure ostilità, a parte i pochi manifesti sfuggiti allo zelo del questore che proclamano “Roma sta con Putin”, firmati da una serie di movimenti di destra.

Oggi, il programma è fitto: al mattino, Obama con tutta la famiglia sarà ricevuto da Papa Francesco, motivo di fondo della tappa a Roma. Quindi, al Quirinale: un lungo colloquio –prima a quattr’occhi, poi allargato- col presidente Napolitano, su tutti i temi dell'attualità internazionale –rileva il Colle-. Tra i due è il quinto incontro (due qui, tre a Washington, l'ultimo ‘di commiato’ a febbraio 2013): Napolitano, che la Casa Bianca arriva a definire “un vecchio amico”, è il vero interlocutore italiano di Obama, da quando, dopo il G8 dell’Aquila, il rapporto con Berlusconi s’incrinò. Con Monti, Letta, ora Renzi, non c’è stato tempo di consolidare la relazione.

Fatta colazione al Quirinale, Obama vedrà il premier: conferenza stampa congiunta, alle 15.30. E, quindi, il presidente farà il turista, di nuovo con famiglia, sui Fori Imperiali, visitando il Colosseo.

A Bruxelles, l’agenda era Ue e Nato. “Il mondo è più sicuro e più giusto quando Europa e America sono solidali”, ha detto Obama, al termine di un Vertice di un’ora e mezzo coi leader dell’Unione: l’Ue –ha ripetuto- “è la pietra angolare dell’impegno Usa nel Mondo”.

Ma in Crimea, ieri mattina, la bandiera russa sventolava su tutte le installazioni militari, dopo che le unità ucraine avevano abbandonato le loro postazioni. Secondo il Pentagono, la Russia continua a schierare truppe lungo il confine –divisioni di elite con mezzi corazzati, dice Kiev-. L’Fmi starebbe per concedere all’Ucraina un aiuto da 15 miliardi di dollari.

Il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy è categorico: “L’annessione illegale della Crimea” da parte della Russia “è una vergogna”, che l’Ue “non riconoscerà mai”. E se ci fosse un’escalation della tensione, “europei e americani sono pronti a intensificare le sanzioni”: l’impegno è di passare dalle misure diplomatiche (l’esclusione della Russia dal gruppo dei Grandi) a quelle economiche, colpendo vendite d’armi e scambi. La Banca mondiale calcola che la Russia potrebbe perdere l’1,8% del Pil quest’anno e subire un drenaggio di capitali per 150 miliardi di dollari.

Ma non è tutto rose e fiori, nel rapporto Usa e Ue. Alla Nato, Obama invita gli europei a fare di più per la sicurezza comune, a non ridurre le spese per la difesa, a diversificare le fonti energetiche – il gas russo ha un peso eccessivo -. La crisi ucraina –dice- “ci ricorda che la libertà ha un prezzo”. E i Paesi dell’Alleanza, con Polonia e i Baltici in ansia, “non sono mai soli”. Le accuse di collusione degli Usa con gli ultra-nazionalisti ucraini sono “assurde”.

Il Vertice è l’occasione per confermare l’obiettivo di un’area di libero scambio transatlantica -si sta negoziando- e per cercare di dissipare le diffidenze create dalle intercettazioni dell’intelligence Usa svelate dal Datagate. Ma, a mostrare diffidenza, sono gli americani, che, nella conferenza stampa, pretendono traduzioni parallele “in inglese e in americano”: la procedura irrita gli interpreti europei e si rivela pure inutile, perché –a conti fatti- tutti parlano in inglese.

In mattinata, c’era stato l’omaggio nelle Fiandre a un cimitero americano della Grande Guerra –è il centenario, ma gli Usa vi entrarono nel ’17-. A giugno, in Normandia, ci sarà più pathos, per il 70° dello sbarco.

mercoledì 26 marzo 2014

Ucraina: Obama gioca di rimessa, Putin tiene palla

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/03/2014

Sull’Ucraina, Obama passa di nuovo la palla a Putin: “Se la Russia sbaglia mossa, paga pegno”, dice al termine del Vertice dell’Aja sulla sicurezza nucleare. Come se Putin la palla non l’avesse dall’inizio di questa crisi: fa un possesso che manco il Barcellona di Guardiola. L’Occidente gioca di rimessa, senza pungere.

Obama è aspro: “La Russia è una potenza regionale che mette in difficoltà i suoi vicini, non perché è forte, ma perché è debole”. E ripete la litania delle accuse a Mosca, che ha violato la sovranità ucraina e s’è annessa la Crimea contro il diritto internazionale (ma a furor di popolo). “Noi –dice Obama- abbiamo una notevole influenza sui nostri vicini, ma non abbiamo bisogno d’invaderli per cooperare con loro”.

Gli Stati Uniti e i loro alleati sono preoccupati per i movimenti di truppe russe lungo i confini, non solo con l’Ucraina, ma anche con i Paesi Baltici. Aleggia l’ipotesi di invocare l’articolo V della Carta atlantica, che fa scattare la solidarietà Nato, ma non siamo ancora a quel punto (e tutti sperano che non ci si arrivi). Obama ne parlerà oggi a Bruxelles con il segretario generale della Nato, il danese Rasmussen, dopo il Vertice con i leader dell’Ue.

Il presidente americano fa la voce grossa, anche se ammette che la crisi ucraina “non è una minaccia diretta per gli Stati Uniti”. A Kiev, molta gente ha i nervi tesi. Il ministro della difesa ucraino Igor Teniukh si dimette: è il capro espiatorio dell’umiliazione subita dalle truppe del suo Paese in Crimea. Della leader dell’opposizione Yulia Timoshenko, viene diffusa un’intercettazione –la cui autenticità è contestata- in cui si dice pronta a sparare con il mitra a Putin e auspica l’olocausto nucleare per gli otto milioni di russi d’Ucraina.

La linea dura dell’asse America-Europa è, in realtà, una Maginot piena di crepe. Un solo punto fa l’unanimità: un conflitto militare è escluso. Sulle sanzioni economiche, che possano davvero fare male alla Russia, il premier olandese Mark Rutte dice che vanno modulate: “Bisogna colpire Mosca, non farci male noi stessi”. C’è il progetto di un vertice Usa-Ue sull’energia, per diversificare gli approvvigionamenti e rendere l’Europa meno dipendente dal gas russo.

Chi non esita a spezzare il fronte atlantico è Silvio Berlusconi che, all’aeroporto di Ciampino, poco prima dell’arrivo del segretario di Stato John Kerry, staffetta di Obama, atteso per questa sera, definisce avventate le decisioni del G7 contro l’amico Putin.

Al di fuori dei Paesi della Nato, Obama trova risposte fredde. I Paesi emergenti stanno alla larga dalla tengono questione ucraina. Il presidente cinese Xi Jinping esprime solidarietà a Kiev, ma non critica Mosca né menziona le sanzioni.

La Russia, dal canto suo, non drammatizza la decisione dei Grandi di cancellare il G8 di Sochi e fa sapere di “essere interessata a continuare a lavorare con il G8”. C’è, evidentemente, la speranza, quasi la certezza, che, superata la crisi, i riti diplomatici della governance mondiale riprendano come se niente fosse stato.

Il terzo vertice mondiale sulla sicurezza nucleare si conclude all’insegna della priorità alla sicurezza e con espressioni di soddisfazione, da parte italiana, per  l’avvenuto smaltimento del materiale fissile sul nostro territorio. Il presidente Obama, atteso oggi dagli appuntamenti Ue e Nato, è particolarmente attento agli alleati europei: “Gli Stati Uniti sono orgogliosi del loro curriculum di collaborazione con tutto il mondo, in particolare con l’Europa”.

Ai partner, il presidente Usa fa sapere di lavorare a una riforma dell’intelligence dopo lo scandalo del Datagate, ammette i rischi di abusi favoriti – osserva – dalle nuove tecnologie e riconosce che lo scandalo ha creato una “diffidenza diffusa” nei confronti degli Stati Uniti.  Gli incontri di oggi serviranno – spera – a diradarla.

A margine del vertice, il ministro degli Esteri Federica Mogherini affronta con la delegazione indiana la questione dei maro’. Nessun passo avanti, ma “uno scambio franco” per ribadire la richiesta che La Torre e Girone siano giudicati in Italia.

martedì 25 marzo 2014

Ue: Francia, l'onda anti-euro di Marine che investirà Bruxelles

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/03/2014

Le municipali in Francia sono “una sirena d’allarme” per le europee di maggio: Lapo Pistelli, vice ministro degli Esteri, giudica così l’esito del voto di domenica, con l’avanzata del ‘Front National’ di Marine Le Pen, euro-scettico e xenofobo. Pistelli parla a un convegno sulla presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue dal 1° luglio al 31 dicembre: c’è l’ansia che un Parlamento europeo ‘contro’ renda il semestre un calvario.
Gli ultimi sondaggi a livello europeo sono chiari. Per PollWatch2014, l’Assemblea di Strasburgo che uscirà dalle urne il 22 e 25 maggio sarà ancora dominata da socialisti e popolari, i cui gruppi, insieme, avranno una larga maggioranza: circa 210 seggi a testa -751 il totale-, con Pse in lieve crescita e Ppe in forte calo, al punto da rischiare di subire il sorpasso.
Ma la sinistra euro-critica ed euro-scettica riunita intorno al greco Alexis Tsipras scavalca i liberali e diventa il terzo gruppo –dentro, Syriza, che potrebbe diventare il primo partito greco, la sinistra radicale francese, la Linke tedesca, Sel e altre formazioni italiane-. A seguire conservatori, verdi, autonomisti. Fuori dagli attuali schieramenti ci saranno, però, un centinaio di eurodeputati euro-critici ed euro-scettici di varie tendenze (e non facili da catalogare, come i Veri Finlandesi).
In Italia, il sondaggio prevede il prevalere degli eletti Pse su quelli Ppe: 22 contro 20 su 73 seggi. Ma ben 24 eurodeputati italiani –i ‘grillini’, sostanzialmente- vanno nella casella ‘non iscritti’. Mentre i sette restanti escono dalla Lega e da altre formazioni politiche.
Le previsioni tengono già conto della sentenza della Corte costituzionale tedesca, che ha sancito l'incostituzionalità della soglia di sbarramento al 3% alle elezioni europee. Così, potranno ‘esordire’ a Strasburgo partiti come l’Afd anti-euro, i Pirati, l’Npd neo-nazista. Il caso tedesco è uno specchio della frammentazione dell'elettorato europeo: il voto di protesta non esprime una forza compatta.
Un perno certo è l’Alleanza tra la francese Le Pen e l’olandese Geert Wilders, leader del Pvv, cui s’è unita la Lega di Matteo Salvini: insieme per liberare i popoli dell’Ue “dal mostro Bruxelles”.
I partiti della Le Pen e di Wilders divergono su molti punti, dal giudizio sull’Islam ai diritti dei gay. A fare da collante al loro matrimonio politico è il comune rigetto dell'integrazione europea: Marine predica “'sovranità nazionale” su moneta e bilancio; Geert ci va giù pesante definendo l'Unione uno “stato nazista”.
Fatta l'Alleanza, bisogna quindi reclutare altri membri per darle efficacia: i secessionisti fiamminghi del Vlaams Belang, i democratici svedesi - estrema destra -, l’Afd tedesca, il Fpoe austriaco reduce da una forte affermazione elettorale (e che ha ancora le stimmate del suo fondatore Joerg Haider).

Interessano anche gli euro-scettici britannici dell'Ukip, guidati da Nigel Farage, partito che da solo conta già 13 eurodeputati e che, però, intende smarcarsi dalla neonata Alleanza. Esclusi, invece, i greci di Alba Dorata, i bulgari di Ataka, gli ungheresi di Jobbik e i tedeschi dell’Npd, tutti accusati di derive razziste e antisemite. Se la predica viene da quel pulpito c’è da credere vi sia del vero.
La porta resta aperta al M5S cui la Le Pen guarda con interesse da tempo. Grillo e Casaleggio negano apparentamenti, anche se alcune posizione dei Cinque Stelle, ad esempio sull’immigrazione, sono vicine a quelle dell’Alleanza. Anche il manifesto europeo in sette punti dei ‘grillini’ piace, soprattutto il referendum per la permanenza nell’euro.
Secondo i calcoli attuali, l'Alleanza potrà contare su una quarantina di seggi (la soglia per formare un gruppo politico a Strasburgo è di almeno 25 eurodeputati da almeno sette Stati) e potrebbe calamitarne altri.
Un discorso a parte meritano gli autonomisti e i separatisti, catalani, scozzesi, fiamminghi. Oggi, ci sono con loro pure i leghisti, che, però, hanno già pronta la nuova casacca.

Con la bussola all’ottimismo, i dubbi sui rapporti di forza a Strasburgo e la corsa alla presidenza della Commissione sono antidoti contro l’ennesimo calo dell’affluenza alle urne europea, che sarebbe per l’Unione sconfitta persino peggiore dell’affermazione di euro-critici ed euro-scettici.

Ucraina: G7 all'Aja, i Grandi mettono al bando la Russia, che fa spallucce

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/03/2014

Il presidente Usa Barack Obama viene a fare una ronda ‘anti Russia’ in Europa, come ai tempi della Guerra Fredda: l’immagine la evoca la stretta di mano tra Obama e il premier olandese Mark Rutte, all’Aja, proprio davanti al dipinto di Rembrandt ‘La ronda di notte’. Il Vertice - a dire il vero un po’ stantio - sulla sicurezza nucleare diventa l’occasione per un G7 straordinario sulla crisi ucraina, senza la Russia, come non si faceva più dal secolo scorso.

All’Aja, il presidente russo Vladimir Putin non c’è. Il ministro degli esteri Serguiei Lavrov fa sapere che il G7 “non è una tragedia”. Alla peggio, segnerà la morte del G8, uno strumento ormai antiquato di governance mondiale, inadeguato all’era della globalizzazione – peccato che il G20 sia altrettanto inconcludente -. All’esordio fra i Grandi, Matteo Renzi pare non rendersene conto e propone, come se nulla fosse, che il G8 2017, sotto presidenza di turno italiana, si faccia a Firenze.

Ai partner europei, che lusinga (“L’Europa è la pietra angolare dei rapporti Usa-Mondo”), Obama chiede di mostrare un fronte unito: propone d’inasprire le sanzioni contro Mosca, così che abbiano un impatto sull’economia russa; di sospendere ‘sine die’ Mosca dal G8, il cui prossimo Vertice, che dovveva svolgersi a Sochi ai primi di giugno, si farà a Bruxelles; di ribadire l’appoggio all’unità dell’Ucraina, che, venerdì scorso, ha firmato l’accordo di associazione all’Ue, perché l’annessione della Crimea è illegale. Tutti punti della dichiarazione approvata dopo una riunione lampo..

Gli europei, però, non vogliono isolare la Russia: insistono per mantenere aperti canali di dialogo e puntano sulla diplomazia, chiedendo a Mosca di collaborare. Lavrov è attivissimo: incontra pure, e pare buon segno, il collega ucraino Andrii Dechtchitsa.

Se l’Occidente inasprisce i toni, la Russia non arretra d’un passo: annuncia che reagirà alle sanzioni, mentre dalla Duma parte una lettera che ipotizza la spartizione dell’Ucraina con la Polonia. Il rublo torna ad essere moneta ufficiale nella Crimea ormai annessa, mentre la grivnia ucraina crolla. Kiev ordina il ritiro delle truppe di stanza nella penisola, dopo che i russi hanno occupato tutte le basi.

L’Ucraina tiene alta la tensione. E la Nato esprime timori per la situazione in Transnistria, regione della Moldavia ‘de facto’ indipendente, con un’Amministrazione autonoma con sede a Tiraspol: giorni fa, sull’esempio della Crimea, ha chiesto l’adesione alla Russia, da cui, però, è separata dall’Ucraina.

Il Vertice dell’Aja è la scena di un intreccio di bilaterali: G7 a parte, il resto ai leader importa poco – Hollande e Renzi se ne vanno in serata, hanno grane a casa-. Obama vede il cinese Xi Jinping, che, all’esordio europeo, incontra pure la Merkel e Hollande. Sia Xi che Obama hanno in agenda Vertici con l’Ue.

Renzi vede il premier giapponese Shinzo Abe: uno scambio senza sostanza, “relazioni cruciali” dice Matteo; “l’economia dell’Italia dipende dalla sua leadership”, replica l’altro. C’è, poi, uno scambio di battute con Obama (“Quando iniziai, avevo i capelli neri”, scherza l’americano); e la Casa Bianca assicura che la rimozione dei materiali nucleari Usa dall’Italia è stata completata.

All’Aja, si parla, infine, della scelta del segretario generale dell’Alleanza atlantica, che sarà decisa ai primi di aprile. I giochi sarebbero fatti per l’ex premier norvegese Jens Stoltenberg, laburista, appoggiato da Obama e dalla Merkel, da Cameron e da Hollande. Ma l’Italia ci proverebbe ancora: se Franco Frattini non fa il peso, Renzi avrebbe un asso nella manica e potrebbe tirarlo fuori giovedì, quando Obama sarà a Roma: Enrico Letta. Ma per l’ex premier sarebbe un altro smacco.

lunedì 24 marzo 2014

Ue-Usa: l'Europa punta sul patto con Obama

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/03/2014

Quella sigla di quattro lettere, Ttip, infelice e difficile da pronunciare in qualsiasi lingua, sembrava un toccasana contro la crisi. Poi, scoppiò il Datagate e, di colpo, la fiducia tra le due sponde dell’Atlantico si raffreddò. Ma l’area di libero scambio transatlantica resta una prospettiva concreta, anche se, oggi, nessuno la dipinge più come l’Eldorado delle Vecchie Economie, la Terra Promessa della Nuova Alleanza d’un Occidente che insegue il Primato Perduto della crescita e del lavoro.

Nessuno si illuda, avvertiva la scorsa settimana Franco Bassanini, presidente della Cassa Depositi e Prestiti, intervenendo a un convegno sulle prospettive economiche, che il Ttip valga il 4% del Pil. Ma qualche punto decimale alla crescita transatlantica può aggiungerlo. E, di questi tempi, nessuno ci rinuncerebbe a cuor leggero.

Se è impossibile calcolare l'impatto dell’accordo, mancandone gli estremi, soprattutto per quanto riguarda le barriere non tariffarie, uno studio citato dalla Commissione europea stima la crescita dell'economia Usa a 90 miliardi di euro e quello dell'economia europea a 120 miliardi di euro, cioè tra lo lo 0,5% e l’1% del Pil, con un beneficio di 545 euro l'anno a famiglia. Non sarà proprio “mettere il turbo nel motore”, come qualcuno aveva ottimisticamente detto, ma vale almeno quanto le promesse di Renzi –mille euro l’anno a famiglia, ma solo per 10 milioni di famiglie-.

Pure i tempi dell’intesa vanno stemperati, rispetto all'ottimismo iniziale. La Commissione europea in carica, che chiude il mandato quest’autunno, ha già accantonato l’ambizione di condurre in porto il progetto; e l’Italia non potrà concludere le trattative sotto la sua presidenza, nel secondo semestre di quest’anno. Dei protagonisti del negoziato attuali, solo il presidente Obama può ragionevolmente pensare di portarlo a compimento prima di lasciare la Casa Bianca, cioè entro il 2016.

Per capirci qualcosa, bisogna, prima di tutto, mettere ordine nelle sigle. Oggi si parla di Ttip, cioè Transatlantic Trade and Investment Partnership, ma l’obiettivo è la Tafta (Transatlantic Free Trade Area), che è a sua volta un ‘combinato disposto’ tra la Nafta (la North American Free Trade Area, che somma Usa, Canada e Messico) e la Efta (European Free Trade Association), poi evoluta in See (Spazio economico europeo), che comprende l’Ue, ma anche Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda.

Quindi, andiamo al di là degli 800 milioni di cittadini consumatori statunitensi ed europei: tocchiamo un miliardo di persone a potere d’acquisto molto alto, specie se comparato con altre aree di questo mondo. Il Vertice Ue-Usa di mercoledì a Bruxelles , con il presidente Obama, sarà l’occasione di fare il punto delle trattative, che vanno avanti –il quarto round s’è concluso a metà marzo- a ritmo lento, dopo avere evitato il rischio di uno stop a tempo indeterminato.

La tentazione di chiederlo era venuta al Parlamento europeo, nel pieno del Datagate. E pochi giorni fa l’Assemblea di Strasburgo, ormai agli sgoccioli della legislatura, ha di nuovo messo in guardia i negoziatori europei dalle scorrettezze dell'intelligence statunitense.

L’idea della Tafta non è nuova. Germoglia negli Anni Novanta e prende vigore quando, a cavallo del Millennio, gli Stati Uniti e i loro vicini creano la Nafta. Dopo gli allarmi anti-globalizzazione e le fobie anti-terrorismo d’inizio XXI Secolo, il progetto torna forte e attuale come risposta liberista e mercantilista alla crisi finanziaria che, dal 2008, affossa l’economia mondiale e colpisce duro Nord America ed Europa, aree meno dinamiche dei Paesi emergenti. Il rilancio degli scambi è anche un modo per ridare spinta all'economia reale e all'industria manifatturiera.

Nei primi round di trattative, sono stati fatti "buoni progressi" ma "è necessario più lavoro su tutti gli aspetti":  "i nostri negoziatori devono accelerare il passo", ha detto il commissario al commercio dell’Ue Karel De Gucht al termine dell’ennesimo incontro con l’omologo Usa Michael Froman. Fra i maggiori nodi da sciogliere, le regolamentazioni agroalimentari e farmaceutiche e la protezione degli investimenti. L'obiettivo, chiariscono le fonti americane, non è incidere sulla capacità dei regolatori di proteggere la salute e la sicurezza, ma evitare i doppi test ed eliminare tutte le divergenze superflue. E c’è il miraggio di eliminare, una volta per tutte, le ‘guerre commerciali’ che hanno spesso agitato l’Atlantico, a partire dalla più tosta di tutte, quella dell’acciaio.

Dall’inizio dell’anno, le sessioni negoziali proseguono al ritmo di una al mese. Un settore in cui sono stati fatti "progressi particolarmente buoni" –le fonti sono sempre Usa- è quello delle Pmi: "Vogliamo che queste traggano benefici da questo accordo tanto quanto le grandi aziende". Anzi, proprio i 50 milioni di piccole e medie imprese di America ed Europa sono i principali destinatari del Ttip. Le Pmi esportatrici sono quelle che crescono, investono e creano buona occupazione e sono le prime a risentire di dazi e barriere non tariffarie: l’export transatlantico europeo potrebbe compiere un balzo del 28%, una volta fatta l’intesa.

Una delle preoccupazioni percepite nell'Unione è che l'accordo commerciale transatlantico abbassi gli standard europei in materia di protezione dei consumatori, tutela dell’ambiente, tracciabilità dei prodotti alimentari, riservatezza dei dati personali. De Gucht assicura che "questi valori non sono sul tavolo dei negoziati" e insiste sul "controllo democratico a ogni passo" delle trattative, condotte dalla Commissione, da parte del Parlamento europeo e degli Stati membri.

Per placare le polemiche e calmare le preoccupazioni che fin dall'inizio pesano sui negoziati, Bruxelles gioca la carta della trasparenza: ha infatti nominato un gruppo di esperti dei vari settori (rappresentanti degli industriali, dei sindacati, degli ambientalisti), che vengono informati e consultati in tempo reale e cui viene anche fornito l'accesso ai documenti riservati. Del gruppo fanno parte tra gli altri esponenti di BusinessEurope (confindustrie), Etuc (sindacati), Copa-Cogeca (agricoltori e cooperative agricole), Beuc (consumatori), Acea (auto), Vci (chimica), Epha (salute).

Prosegue inoltre la pubblicazione delle posizioni di partenza della Commissione sui dossier chiave, come quello sui servizi finanziari, accessibili su internet. I mandati negoziati sono stati approvati dai 28, ma le trattative vengono condotte dall’Esecutivo comunitario. I capi dei team che trattano sono Ignacio Garcia Bercero per l’Ue e Dan Mullaney per gli Usa. 

domenica 23 marzo 2014

Expo 2015: scandali, distrazioni e fuggi fuggi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/03/2014

Le prime defezioni avevano già cominciato ad arrivare, ben prima che scoppiasse la grossa grana d’Infrastrutture Lombarde. In parte fisiologiche, innescate da situazioni di crisi o di guerra locali: l’Ucraina, la più recente, la Siria, il Mali, la Repubblica centrafricana, tutti Paesi un cui stand all’Expo 2015 avrebbe suscitato più perplessità che curiosità. Poi, c’erano quelle legate a problemi “di natura politica e socio-economica”, come dice il commissario unico Giuseppe Sala, sfoggiando un linguaggio più da diplomatico che da manager, il commissario unico. Parliamo della Turchia, che non ha gradito l’appoggio italiano a Dubai, e non a Smirne, per l’Esposizione Universale 2020, e dell’India, dove pesano polemiche e strascichi del caso dei due marò.

A compensare le defezioni, c’erano, però, nuove adesioni, annunciate o sperate: gli Stati Uniti - s’aspetta un annuncio dal presidente Obama, che sarà a Roma il 27 -, Norvegia, Lussemburgo, Portogallo, Sud Africa, Argentina. La conta finale poteva attestarsi intorno alle 130 adesioni: non proprio un’Olimpiade, ma certo non una débacle. E se alcuni Paesi, come l’Argentina, ci saranno, se ci saranno, in economia,  altri, come gli Emirati arabi uniti, la Cina, il Giappone, persino l’Estonia,  e anche la Russia –per ora: vedremo come evolve la crisi ucraina-, l’Austria, la Thailandia, il Cile fanno mostra di mezzi e di di creatività.

Adesso, però, c’è il rischio che la lista delle defezioni s’allunghi, perché molti Paesi sentiranno “puzza di corruzione” e di malaffare intorno all’Expo di Milano, anche se Sala cerca di tenere fuori la manifestazione dal ‘caso Infrastrutture’. E, poi, pesa l’incertezza politica.

Il Governo Letta –requiescat in pace- teneva molto all’accoppiata internazionale ‘semestre italiano alla presidenza del Consiglio Ue (1o luglio / 31 dicembre) ed Expo 2015’ e s’era persino inventato una staffetta tutta milanese: il capoluogo lombardo doveva così ospitare tutti gli eventi informali della presidenza italiana e, soprattutto, il Vertice Ue-Asem, in programma a ottobre e che l’Italia ha fortemente voluto a Milano e non, come previsto, a Bruxelles.

Quell’evento porterà nel capoluogo lombardo decine di delegazioni europee e, soprattutto, asiatiche, che di lì a sei mesi saranno protagoniste dell’Expo che l’Italia presenta come evento ‘europeo’, essendo l’unica a svolgersi nell’Ue nell’arco di un ventennio (Hannover 2000, Aichi in Giappone 2005, Shanghai 2010 e, dopo Milano, Dubai 2020).

Il Governo Renzi non mostra uguale entusiasmo, o forse adeguata consapevolezza, per i due eventi. I piani della presidenza potranno magari restare invariati, ma, al momento, nessuno ne ha certezza; e per l’Expo 2015 l’attenzione è stata finora modesta, a parte una missione milanese di 4 ministri a inizio marzo. E lo scandalo ora scoppiato crea incertezza e sbandamento. In Italia e pure fuori.

sabato 22 marzo 2014

Italia/Ue: Renzi, finito in fretta il noviziato europeo

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 22/03/2014

Matteo Renzi ha finito il noviziato europeo. E’ stato lampo, come piace a lui, e non è neppure stato tutto rose e fiori: un Vertice di crisi sull'Ucraina, le visite di presentazione da Hollande e la Merkel; un Consiglio europeo con tutti i crismi; gli incontri istituzionali con Van Rompuy e Barroso. Così, il premier ha esaurito il bonus europeo di sorrisi e incoraggiamenti per l’ultimo arrivato. E ha già avvertito i primi cigolii nel rapporto con la Commissione europea.

Adesso, lo aspettano ancora tappe di noviziato internazionale: il Vertice nucleare all’Aja, con un G7 anti-Russia sulla crisi ucraina, e la visita a Roma del presidente Usa Barack Obama, programmata – in origine - soprattutto per Papa Francesco.

Dopo di che, il premier italiano non sarà più la mascotte del club dei leader, quello cui si concede un margine di tolleranza, perché deve ancora prendere le misure, e non sarà più trattato con i guanti. Che poi, a ben guardare, Barroso, giovedì, a Bruxelles, non è certo stato accomodante. E la Merkel –dice il presidente di Confindustria Squinzi- non lo ha accolto “a baci e abbracci”, nonostante quel suo essere rimasta “impressionata” (aggettivo, s’è poi scoperto, inflazionato dalla cancelliera, che fu “molto impressionata”, il giorno dopo, dal premier portoghese Pedro Passos Coelho e che lo era stata, in passato, da Monti e Letta-.

Il bilancio del noviziato è presto fatto: Renzi non ha concesso nulla ai suoi partner, a parte l’impegno reiterato a rispettare i vincoli europei (chiedendo in cambio soluzioni ai problemi); ma non ha neppure ottenuto nulla, perché il limite del 3% resta, come pure tutti gli altri, e il sostegno alle riforme sbandierato è generico e preventivo. Sull'ipotesi di usare i Fondi di coesione ‘fuori sacco’, Barroso cala la saracinesca.

Il premier deve avere percepito una certa freddezza degli interlocutori europei per le formule vuote, ma ad effetto, tipo "l'Italia oggi paga i debiti del passato, ma deve iniziare a investire nel futuro", o . l’Ue “non può essere solo vincoli astratti”, o ancora “non siamo subalterni”. E se Renzi rivendica che l’Italia “non è uno studente fuori corso della classe Ue”, Squinzi gli rifiuta un voto perché “è ancora a casa che studia”.

Matteo smentisce conflitti con gli interlocutori europei e bolla come “fantasie” i sorrisini scambiati tra van Rompuy e Barroso, che "riaprono una ferita aperta per il nostro Paese" – quella dei sorrisini tra Sarkozy e Merkel, a proposito di Berlusconi -. Che adesso gli consiglia di “andare a Bruxelles deciso e, se serve, porre il veto” –ma su che cosa, di grazia?-.

The Economist lo definisce un “giocatore d’azzardo” e, ricordando le visite a Parigi e Berlino, scrive: “A ogni tappa del suo tour, il premier italiano ha avuto lo stesso obiettivo: ottenere margini di manovra fiscale per il suo piano a sostegno della fragile ripresa economica italiana”.

Finito il noviziato, comincia il percorso vero: quel che resta del cosiddetto Semestre europeo, di qui a fine giugno, con tutte le verifiche sui conti nazionali; il 25 maggio, le elezioni europee; e poi dal 1o luglio, il semestre di presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, con il rinnovo di tutti i vertici delle istituzioni comunitarie.

Tutto ciò partendo dai numeri deboli dell’economia italiana, con una previsione di crescita 2014 che si riduce di stima in stima –siamo allo 0,5%-, nonostante fatturato e ordinativi dell’industria incoraggianti, e dai numeri vaghi e un po’ erratici delle sue promesse. A Bruxelles e a Francoforte, invece, i numeri piacciono netti e precisi: faccio questo, costa tanto, lo pago così.

venerdì 21 marzo 2014

Italia/Ue: Vertice, Renzi esaurisce il bonus europeo

Scritto per EurActiv.it il 21/03/2014

Con il Vertice di Bruxelles, Matteo Renzi esaurisce il bonus europeo di sorrisi e incoraggiamenti per l’ultimo arrivato. E già si avvertono i primi cigolii nel rapporto con le Istituzioni comunitarie. Anche se il premier nega.

Nella conferenza stampa a fine Vertice, Renzi ha, infatti, smentito qualsiasi rapporto conflittuale con gli interlocutori europei e ha bollato come “fantasie” le ricostruzioni giornalistiche sui sorrisini tra i presidenti del Consiglio Herman van Rompuy e della Commissione Manuel Barroso, parlando delle promesse (e attese) riforme italiane.

Ma The Economist lo definisce un “giocatore d’azzardo” e, ricordando le recenti visite a Parigi e Berlino, scrive: “A ogni tappa del suo tour, il premier italiano ha avuto lo stesso obiettivo: ottenere margini di manovra fiscale per il suo piano a sostegno della fragile ripresa economica italiana”.

Renzi dice: “Noi abbiamo grandissima fiducia nelle istituzioni europee e un grandissimo desiderio d’investire nell'Europa". Ma, aggiunge, "se è vero che l'Italia oggi paga debiti del passato, è pure vero che il nostro compito è di iniziare a pagare per l'investimento del futuro".

Quanto ai sorrisini fra Barroso e Van Rompuy, essi "riaprono una ferita aperta per il nostro Paese" – quella dei sorrisini tra Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, a proposito di Silvio Berlousconi -, ma si tratta di una "ricostruzione lontana dalla realtà" ed "abbastanza strana": "Se Barroso e Van Rompuy sono contenti – osserva il premier - sono contento per loro e con loro", ma "il mio obiettivo è fare sorridere le famiglie italiane".

Renzi, però, ritorna sul tema su cui ieri ha incassato il primo no dalle Istituzioni comunitarie, cioè un uso dei Fondi di coesione al di fuori dei limiti del 3% del Pil del deficit di bilancio: “Sui Fondi, va trovata una soluzione”, perché l’Ue “non può essere solo vincoli astratti”,

Nella conferenza stampa, il premier alterna le assicurazioni di continuità e quelle di rottura, rispetto al passato.  "La posizione dell'Italia non è cambiata: siamo in linea d’assoluta continuità coi governi che ci hanno preceduto", dice, ribadendo che “l’Italia non prende ordini dell’Ue” e spiegando che "il livello del debito pubblico italiano, nonostante l’avanzo primario dei conti pubblici, dipende sì dal calo del Pil ma anche dall'impegno a finanziare i piani di salvataggio dei Paesi in crisi".

Muovendosi tra il piano europeo e quello nazionale, Renzi nega interventi sulle pensioni, conferma interventi sulle retribuzioni dei manager pubblici, rilancia la battaglia contro gli sprechi della P.A.; e annuncia un Vertice sull’occupazione a Torino.

La ripresa –afferma- "è modesta e timida ma è in atto". Ed una delle condizioni per consolidarla è "la ripresa della fiducia", dice, citando il presidente della Bce Mario Draghi, che ieri aveva spiegato al Consiglio europeo “i fattori di crescita della ripresa e i fattori qualificanti per l'Ue e per l'Italia, partendo dalla forza dell'export e proprio dalla ripresa della fiducia".

La fiducia, per Renzi, "non è un atteggiamento psicologico, o una sorta di training autogeno, ma è una condizione dello sviluppo economico”.

giovedì 20 marzo 2014

Internet: governance globale e libertà sorvegliata

Scritto per il blog di Media Duemila il 19/03/2014

Una rete meno americana, e più globale, ma non per questo necessariamente più libera. E neppure più sicura. Anzi, per sfoggiare pessimismo, potremmo ritrovarcela ‘con la museruola’ e presidiata come prima da spioni sotto tutte le bandiere. Ma non è proprio detto che finisca così…

Cominciamo dall’inizio. La svolta segnata dall’annuncio fatto dal presidente Obama che gli Usa sono pronti ad abbandonare il ruolo centrale finora tenuto nell’assegnazione dei nomi e dei domini su internet, a favore di una governance globale, è un passo indietro di Washington, che non era mai parsa incline ad accogliere una richiesta in tal senso da tempo avanzata dall’Unione europea; ed è, in linea di principio, un passo avanti per la rete.

La decisione di Obama è pure una reazione alle preoccupazioni suscitate nelle opinioni pubbliche dallo scandalo del Datagate e dalla capacità statunitense di controllare la rete e utilizzarla a fini di sorveglianza e spionaggio. Le dimensioni e la portata delle intercettazioni della Nsa rivelate dalla talpa Edward Snowden lasciano, insomma, il segno. Ma la rinuncia alla governance non comporta, di per sè, una riduzione delle capacità dell’intelligence.

Il 15 marzo, il Dipartimento al Commercio degli Stati Uniti ha diffuso una dichiarazione in cui annuncia che, dal 2015, non intende più avere un ruolo centrale nella gestione dell’Icann, l’agenzia no profit che dal 1998 è il regolatore globale di Internet, responsabile fra l’altro della convalida dei nomi e dei domini. L’argine dei domini s’era già incrinato con l’introduzione di .biz e .info; e dopo ne sono arrivati decine di nuovi. Ora, la giostra dell’accaparramento e delle compravendite ripartirà in direzioni anche politiche, culturali, religiose.

Entro settembre, Washington darà il via a un processo condiviso per creare una struttura di C&C nuova, insieme ad altre realtà globali. La decisione, che apre una fase di transizione, è commentata con favore dall’Icann: “Tutte le parti interessate – dice il presidente Fadi Chehade - meritano d’avere una voce in capitolo paritaria nella gestione e nella governance di questa gestione globale”.

La prima tappa di questa transizione è imminente: la riunione dell’Icann a Singapore dal 23 marzo.

Il consenso non è, però, unanime: hanno riserve componenti importanti dell’universo americano 2.0 e anche esperti della rete, preoccupati perché –scrive sull’ANSA Marcello Campo- “dare più spazio nella regolamentazione del web a Paesi come Russia e Cina potrebbe portare a una minore libertà e ad una maggiore censura a deterimento della libertà d’espressione ... E c’è già chi parla del rischio di una balcanizzazione della rete”.

A fronte di questo timore, c’è l’impegno, magari un po’ contraddittorio, del presidente Obama e della sua Amministrazione a garantire che l’Icann sia un ente libero dalle pastoie dei governi e capace di mantenere la rete aperta, accessibile e, nel contempo, sicura e utilizzabile senza remore.

Un’altra perplessità viene espressa da Andrea Monti, esperto di diritto della rete e presidente dell’Alcei, l’Associazione italiana per la libertà delle comunicazioni elettroniche interattive. Intervistato per l’ANSA da Titti Santamato, Monti giudica la notizia nel complesso “positiva”, ma ammonisce: “Il web non diventa più libero, perché la vita degli utenti continua a essere controllata dalle ‘antenne’, cioè dalla rete fisica di trasporto dati”.

Le grandi firme della Silicon Valley paiono favorevoli alla svolta, inevitabile –a loro giudizio- dopo il Datagate: c’è in gioco la credibilità della rete agli occhi del pubblico, un valore non negoziabile e che, se compromesso, potrebbe frenarne lo sviluppo globale. A scapito della libertà d’espressione (e degli affari).

E in Italia? Ancora Monti: “I domini .it sono ancora saldamente in mani governative. L’industria che fa innovazione in Italia è dunque condizionata dalla burocrazia di un ente pubblico, cioè l’Istituto di informatica e telematica del Cnr, che gestisce i domini .it in modo autocratico”. Cambierà qualcosa? Di qui al 2015, forse lo vedremo.

mercoledì 19 marzo 2014

Crimea: Putin la annette e si fa beffe dell'Occidente

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/03/2014

In questa crisi è sempre Obama che insegue Putin. Per il gioco dei fusi orari, certo. Ma non solo. E’ il presidente russo ad avere il pallino in mano. L’Occidente non riesce a portarglielo via. Sfidando le sanzioni appena decretate da Usa e Ue, anzi facendosene beffe, Putin ha ieri firmato il trattato che riunifica la Crimea alla Russia.

La cerimonia della firma è venuta dopo un discorso dai toni tanto patriottici quanto anti-occidentali: un discorso che gli stereotipi vogliono nella retorica ‘da Orso Russo’ e, nel contesto dei saloni tutti ori e stucchi del Cremlino, ‘zaresco’ o ‘imperiale’.

Putin, in realtà, ha alternato le affermazioni radicali (“La Crimea è parte inscindibile della Russia, lasciarla all’Ucraina sarebbe un tradimento”) a passaggi rassicuranti: “La Russia”, che non viola il diritto internazionale, “non vuole altre secessioni dall’Ucraina”, anche se a Kiev c’è stato “un colpo di stato”.

La reazione dell’Occidente non s’è fatta attendere: immediata la minaccia di nuove sanzioni, dopo l’annessione della Crimea, che è entrata in vigore, anche se la Duma deve ancora ratificare la legge –una semplice formalità: sarà cosa fatta venerdì 21-. Agli alleati, Obama propone di riunire all’Aja lunedì 24, un Vertice del G7 straordinario, senza la Russia, ovviamente, che è oggi “una minaccia per la pace”.

La partecipazione della Russia al Vertice del G8 che deve tenersi il 4 e 5 giugno resta sospesa, ma la Francia –dice il ministro degli esteri Laurent Fabius- mantiene l’invito a Putin alle celebrazioni del 70° anniversario dello Sbarco in Normandia, il 6 giugno.

Da Varsavia, il vice-presidente Usa Joe Biden accusa la Russia di “aggressione” all’Ucraina e pure di “confisca del territorio” della Crimea. Londra in sintonia con Washington si rammarica che Mosca abbia scelto “la via dell’Isolamento” e sospende ogni forma di cooperazione militare. Berlino denuncia la violazione del diritto internazionale e invita gli alleati a coordinare le risposte. L’Italia è pronta a inasprire le sanzioni e insiste per il dialogo: la Nato –dice Federica Mogherini- non è il contesto giusto per affrontare questa crisi (ed a Kiev il premier ucraino Arseni Iatseniuk esclude un’adesione dell’Ucraina alla Nato).

La via militare è esclusa. A parte un appesantimento delle sanzioni –quelle economiche sono un’arma a doppio taglio-, resta la via del dialogo. E, alla ricerca di una soluzione diplomatica, Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, è oggi a Mosca, alla vigilia della firma, domani, a Bruxelles, del capitolo politico dell’accordo di associazione dell’Ucraina all’Ue, il cui rinvio,a fine novembre, scatenò la sommossa a Kiev.

Il presidente ad interim ucraino, Oleksandr Turcinov, uno la cui legittimità è discutibile almeno quanto l’annessione della Crimea, afferma che Putin segue l'esempio della "Germania nazista": “Con l'annessione dei territori di altri Stati, la Germania nazista diede il via alla II guerra mondiale. E ora Putin ricalca le orme dei fascisti del XX secolo".

Le borse, a Mosca e ovunque nel Mondo, non prestano attenzione all’escalation verbale e chiudono positive. Putin, poi, incassa pure un successo interno: l’uccisione del capo della guerriglia jihadista nel Caucaso Doku Abu Umarov, cui le forze russe davano la caccia da anni. Un martire, per i suoi; un trofeo, per il leader russo, rafforzato dal braccio di ferro con l’Occidente. La sua popolarità non è mai stata così alta dopo la rielezione nel maggio 2012.

Con il trattato firmato ieri, entrano nella Federazione russa due nuovi soggetti: la Crimea auto-proclamatasi indipendente con il referendum di domenica e la città di Sebastopoli, che ha uno statuto speciale. La cerimonia è stata accompagnata dagli applausi scroscianti dai deputati federali e regionali e dai governatori presenti.

Nel suo discorso dagli accenti emotivi, Putin ha detto che “la Crimea, nel cuore e nella coscienza della gente, era e resta una parte integrante della Russia”: sarebbe stato “un tradimento” non raccogliere le richieste di protezione della popolazione, dopo la sommossa di Kiev che ha condotto alla destituzione del presidente filo-russo Viktor Ianucovich.

La Crimea, in seno all’Urss, era parte della Russia fino al 1954, quando l’allora leader del Pcus Nikita Krusciov la ‘regalò’ all’Ucraina, violando, secondo il presidente, la Costituzione sovietica.

Ma Putin s’è pure voluto rassicurante: “Non crediate a coloro che vi dicono che, dopo la Crimea, toccherà ad altre regioni” dell’Ucraina: “Non vogliamo la scissione dell’Ucraina, non ne abbiamo bisogno”. Di qui,la denuncia dell’Occidente, che si comporta “in modo irresponsabile”, agendo “con cinismo” e seguendo “il diritto del più forte”. Da che pulpito!, questa predica.

martedì 18 marzo 2014

Elezioni europee: Commissione, la corsa degli eurocrati eccellenti

Uscito su Il Fatto Quotidiano del 17/03/2014 e, in altra versione, su AffarInternazionali stesso giorno
Che ci provi Matteo Renzi, se ci riesce, a rottamare l’eurocrazia ‘eccellente’, che schiera i suoi campioni ai nastri di partenza dell’inedita corsa alla presidenza della Commissione europea: hanno suppergiù 60 anni, ma sono lì da una vita e gliene daresti molti di più. Tanto per predicare bene e razzolare male, Renzi s’è subito schierato dietro un monumento della liturgia politica europea: Martin Schulz, vent’anni di Parlamento europeo alle spalle e l’ambizione di farne cinque, se non dieci, alla presidenza dell’Esecutivo comunitario.
I partiti europei hanno calato un pokerissimo di uomini -che siano assi, non pare; magari fanti-; e si tengono la donna nella manica. Tsipras e verdi a parte, destinati al ruolo di ‘guastatori’, manca però un nome che sia garanzia di svolta economica e di rilancio politico dell’integrazione europea. L’eurocrazia, sentendosi minacciata dall’euro-scetticismo, s’abbarbica al potere ed è pronta a giocare a Strasburgo – ancora?, una persecuzione! - le grandi intese.
A 10 settimane dalle elezioni europee, tutte le maggiori famiglie politiche europee hanno ormai scelto il loro candidato alla presidenza della Commissione europea: popolari, socialisti, liberali e sinistra puntano secco su un campione; i verdi vanno avanti con una coppia uomo/donna. I conservatori non avranno un candidato; e neppure gli euro-scettici. Nessun italiano in lizza, ma la presenza di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea affossa a priori ogni ipotesi di candidatura italiana.
La possibilità di esprimere una preferenza sul prossimo presidente dell’Esecutivo è la grande novità delle elezioni europee del prossimo maggio, anche se l’opzione espressa dai cittadini europei non sarà vincolante per i capi di Stato e di governo dei 28, che si riuniranno a Bruxelles la sera del 27 maggio -48 ore dopo la chiusura delle urne- per valutare l’esito del voto ed eventualmente trarne le conseguenze. La designazione del presidente della Commissione spetta al Consiglio europeo, la cui scelta deve poi essere confermata dall'investitura del Parlamento europeo, che non si pronuncerà prima di settembre.
A parte il greco Alexis Tsipras, leader di Syriza, che potrebbe uscire dalle europee come prima forza politica greca, e i volti verdi –un maturo agricoltore francese anti-globalizzazione, José Bové, 61 anni, sulla breccia dai moti di Montreal, e una fresca ecologista tedesca, Ska Keller, la più giovane del lotto con i suoi 33 anni-, le famiglie politiche europee tradizionali non hanno puntato su figure emergenti: l’ex premier lussemburghese e presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, popolare; l’attuale presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, socialista; e l’ex premier belga Guy Verhiofstadt, liberale. Tutti vengono da Paesi fondatori della Cee e protagonisti fin dall'inizio dell’integrazione europea.
La novità del lotto è Tsipras: può ottenere un’affermazione personale, pure in Italia, nonostante la litigiosità della lista che lo sostiene, ma non ha possibilità di spuntarla per la presidenza della Commissione. Ateniese, 40 anni, è stato giovane comunista e poi radicale di sinistra: è la connotazione del partito che guida, Syriza, euro-critico, ma non euro-scettico, quasi il 27% dei voti alle ultime politiche, probabilmente di più alle prossime europee.

La partita vera si gioca tra Junker, Schulz e Verhostadt, senza escludere che possa, alla fine, saltare fuori un outsider. I tre battistrada sono tutti intorno ai sessant'anni (rispettivamente, 60, 59 e 61 anni –e il più anziano pare il più giovane-) e sono tutti da tanto tempo sulla scena politica europea da essere considerati dei veterani e, per quanto riguarda Juncker, addirittura un sopravvissuto –è un doppio ex: ex premier lussemburghese, con un’anzianità di servizio da fare invidia a Helmut Kohl (dal 1995 al 2013), ed ex presidente dell’Eurogruppo-.

Dopo l’estromissione dalla guida dell’Eurogruppo, un suo feudo dalla sua creazione nel 2005, e dopo la crisi politica granducale, che gli è costata il posto da premier, anche se il suo partito ha rivinto le elezioni, Juncker pareva fuori gioco. Il campo dei popolari, inizialmente ingombro di candidati, s’è però ridotto, alla fine, a un duello tra lui e il commissario ed ex ministro francese Michel Barnier. L’ha spuntata Junker, forte dell’appoggio della Cdu tedesca, di cui parla la stessa lingua, in politica, in economia, nel sociale.

L’avversario più pericoloso è Schulz, nato a Hehlrath. Socialdemocratico da sempre, tedesco, sindaco a 31 anni nella Renania settentrionale – Vestfalia, è deputato a Strasburgo dal 1994: nel 2000, è presidente della delegazione dei socialdemocratici tedeschi; quattro anni dopo guida il gruppo socialista; nel gennaio 2012 diviene presidente dell’Assemblea. In Italia, fino a qualche tempo fa, era noto soprattutto perché Silvio Berlusconi, infastidito dalle sue critiche, gli diede del kapò in aula.

Verhofstad, fiammingo di Gand, ha una carriera politica essenzialmente nazionale, riuscendo –lui, liberale- a diventare premier del Paese. In Europa, Verhofstadt c’è dal 2009, europarlamentare e presidente del gruppo politico Alde.
Dei tre, Verhofstadt è l’unico federalista, Schulz sarebbe forse garante di una nuova alleanza tra Commissione e Parlamento, Juncker appare un uomo del Consiglio, avendone fatto parte ininterrottamente per un quarto di secolo. Dal punto di vista della nazionalità, la Germania non ha più avuto un presidente dell’Esecutivo dopo il primo, che fu Walter Hallstein –è passato oltre mezzo secolo-; il Belgio non l’ha più avuto da Jean Rey, il successore di Hallstein; invece, il Lussemburgo ne ha già avuti due, Gaston Thorn, liberale, e Jacques Santer, popolare. Entrambi, un disastro: Thorn non fu confermato, dopo un quadriennio paralizzato dal ‘problema britannico’; Santer dovette addirittura lasciare in anticipo, travolto dagli scandali del suo Esecutivo.

Dal punto di vista politico, può suscitare qualche curiosità il ‘conflitto d’interessi’ della cancelliera tedesca Angela Merkel: come popolare, sostiene Juncker, che è abbastanza tedesco del suo; come tedesca, non dovrebbe essere troppo ostile a Schulz, tanto più che i socialdemocratici sono suoi alleati nell'attuale coalizione. Certo, il garbuglio sarebbe stato maggiore se il Ppe avesse puntato sul francese Michel Barnier: il presidente François Hollande e la cancelliera Merkel si sarebbero trovati a sostenere candidati incrociati.

Crimea: sanzioni, Usa e Ue danno un buffetto a Putin

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/03/2014

Dopo tutti i moniti che avevano preceduto il referendum in Crimea, uno poteva aspettarsi che Usa e Ue colpissero la Russia con un pugno d’acciaio, pur nel guanto di velluto della diplomazia. Invece, il pugno è un buffetto: americani ed europei decidono sanzioni “mirate” contro esponenti russi ed ucraini filo-russi, ma stanno bene attenti a non toccare il presidente russo Vladimir Putin.

Annunciate quasi in contemporanea, le misure, presentate come “un messaggio forte”, riguardano, lato americano, 11 persone i cui beni vengono congelati. Fra di esse, il presidente ucraino deposto Ianucovich e un suo collaboratore e due leader della Crimea filo-russa; e pure alcune figure vicine al presidente Putin, ad esempio il vice-premier Dmitri Rogozin.

Lato europeo, i ministri degli esteri dei 28, riuniti a Bruxelles, privano di visto per sei mesi, rinnovabili, 21 personalità russe e ucraine filo-russe, e ne congelano i beni. Nel gruppo, tre militari con il comandante della flotta russa del Mar Nero.

Per quanto modeste, le sanzioni sono un inedito nella storia recente delle relazioni Ue-Russia, dopo lo smembramento dell’Urss nel 1991.  Nessuno, però, s’aspetta che le misure inducano Putin a fare marcia indietro. Anzi, Washington e Bruxelles avvertono già che il peggio deve ancora venire, se la Russia non ci ripensa.

Però, tutti sono convinti che non sia troppo tardi per una soluzione politica e negoziale. Il ministro degli esteri italiano Federica Mogherini dice che la porta al dialogo “resta aperta”. Il francese Laurent Fabius afferma: “Bisogna fare prova di molta fermezza, ma, nel contempo, trovare le vie del dialogo per evitare una escalation”.

Il punto, ora, non sono le sanzioni decise –per il momento, avendo cura di non farsi male a vicenda. Il punto è capire se il reintegro della Crimea è, per Mosca, una stazione d’arrivo, dopo di che aprire una fase negoziale, o se è solo una stazione di transito verso ingerenze nell'Ucraina orientale.

Nel primo caso, la crisi troverà, prima o poi, un punto di equilibrio in una situazione di fatto, magari non riconosciuta, ma neppure troppo contestata, che non impedirà a termine il ‘business as usual’ della diplomazia e, soprattutto, degli affari.

Nel secondo caso, invece, la crisi si inasprirà con conseguenze non prevedibili: davvero un ritorno al clima e ai modi della Guerra Fredda. Sanzioni economiche e commerciali possono sì fare male alla Russia, specie sul piano finanziario, con la svalutazione del rublo, ma possono anche rivelarsi un boomerang per gli europei, che hanno una forte dipendenza dal gas russo.

Venerdì 21, la Duma russa comincerà l’esame della legge che consentirà il ritorno della Crimea - per Mosca, un onere economico stimato a 14 miliardi di euro -. Lo stesso giorno, il Vertice europeo a Bruxelles valuterà nuove mosse. E, la settimana prossima, il presidente Obama farà una missione in Europa: altri consulti del riesumato Occidente e un vertice all’Aja delle potenze nucleari.

Non è solo Mosca, però, a doversi fermare. Pure l’Occidente non deve spingere troppo in là il gioco in Ucraina: la firma, venerdì, dell’accordo di associazione -per ora un documento politico, in attesa dei contenuti economici: in ballo, ci sono aiuti promessi per 11 miliardi di euro- non va intesa come preludio di una precipitosa adesione; e neppure si può pensare a un ingresso nella Nato. Prima, bisogna che l’Ucraina trovi, dopo il voto di maggio, un equilibrio tra le sue componenti, che, dall’indipendenza, non ha praticamente mai avuto.