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venerdì 28 settembre 2012

Onu/Usa: Monti a NY, una missione a doppia valenza

Scritto per EurActiv e, in versione diversa, L'Indro il 28/09/2012

E’ stata una missione ambivalente, quella compiuta dal premier italiano Mario Monti a New York, per l’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: una missione in cui dichiarazioni e incontri avevano tutti una doppia valenza, internazionale e interna. L’attenzione mediatica italiana s’è quasi tutta concentrata sui messaggi di Monti sul suo futuro politico, in bilico tra il “non mi candido, sono senatore a vita” e il “non corro, ma se serve al Paese ci sarò”: due battute che, a ben vedere, sono equivalenti, ma che sono state subito lette una come la smentita dell’altra.

Anche i media internazionali sono stati attenti al futuro del Professore: loro fanno il tifo perché Monti resti in quanto ritengono che la sua permanenza sia una garanzia per le scelte del governo che verrà dopo le elezioni. Ma hanno anche recepito i messaggi tranquillizzanti sul fatto che l’Italia non rischia più d’infiammare la crisi del debito nell’Eurozona, dove –parola del premier- la Spagna sta facendo molto e da dove la Grecia non uscirà.

Nella settimana lavorativa newyorkese, il premier ha pronunciato, mercoledì, il discorso ufficiale dalla tribuna dell’Onu, ha incontrato il presidente statunitense Barack Obama e, con il ministro degli esteri Giulio Terzi, numerosi altri leader, ha dialogato con esponenti della finanza Usa, fra cui il ministro del Tesoro Tim Geithner, e con ‘opinion makers’, ha rilasciato diverse interviste. All’estero, suscitano allarme i propositi di rinuncia, non quelli di conferma; in Italia, i primi vengono digeriti molto meglio dei secondi dalle forze politiche tradizionali ed emergenti, tutte ansiose di occupare uno spazio di potere che ritengono loro sottratto.

Agli interlocutori internazionali, il premier ha ripetuto che l’Italia ha un potenziale di crescita importante e non sfruttato, che intende portare avanti politiche rigorose per ridurre il peso del debito  e che l’euro è irreversibile. E, di fronte alle sollecitazioni dell’America all’Europa, perché acceleri la crescita, ha risposto con parole di apprezzamento per gli Stati Uniti del presidente Obama, ma anche con l’invito agli Usa perché anch’essi facciano il massimo per la crescita.

Monti ha giudicato “palpabile” l’interesse riscontrato per l’Italia e l’Unione ed ha confermato che gli Stati Uniti apprezzano il ruolo dell’Italia in Europa. Gli ultimi impegni nella Grande Mela sono stati dedicati alla riforma dell’Onu e, in particolare, del Consiglio di Sicurezza: uno sforzo cui l’Italia partecipa da quasi vent’anni, ma che non è ancora approdato a risultati.

Il premier ha cercato di stemperare stereotipi e preconcetti che, spesso, fanno velo alla credibilità del Paese e ha pure annunciato, a testimonianza della fiducia verso l’Italia, che, con l’adesione dell’Indonesia, sono cento i Paesi che hanno già deciso di partecipare all’Expo 2015 di Milano. Quanto agli italiani, li ha giudicati “comprensivi” davanti a misure “sgradevoli e aspre”, ma ha pure auspicato che rispettino “il dovere di pagare le tasse come rispettano il divieto di fumo”.

Crisi: Ue, i mercati si stancano di nuovo d'aspettare

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/09/2012
Da quando Monti ha detto di vedere la luce della ripresa in fondo al tunnel della crisi, l’Europa s’è riempita di piccole vedette lombarde intente a scrutare il tremolio d’un raggio laggiù all’orizzonte; ma pure di profeti di sventura, secondo cui la luce c’è, ma è quella del treno della ricaduta che ci  avanza contro. Dati macro-economici negativi, borse deboli, con i suoi tentennamenti l’Unione ha di nuovo deluso e innervosito i mercati: dopo la decisione della Bce di acquistare titoli senza limiti per ridurre lo spread dei Paesi che fanno i compiti (del rigore) a casa, leggi Italia e –meno- Spagna, e dopo il ‘mercoledì da leoni’ il peggio pareva passato. Quel 12 settembre, la Corte suprema tedesca aveva dato via libera al fondo salva Stati permanente, l’Esm, e al Patto di Bilancio: avanti tutta, dunque. E, invece, l’Unione non è più tornata a fare surf sull’onda della crisi e s’è accontentata, quasi paga, di baloccarsi a riva sul materassino.
Anzi, quel che pareva acquisito è stato rimesso in discussione. E il buco della Grecia s’è allargato, da 14 a quasi 20 miliardi di euro. E il ricorso della Spagna agli aiuti dell’Ue per le banche è rimasto in forse. E i mercati hanno ripreso a non crederci, con gli spread di nuovo su –ieri, a quota 375 l’italiano, ben oltre 400 lo spagnolo-, dopo avere dato l’illusione d’una discesa ormai irreversibile. E Monti dice, dalla tribuna dell’Assemblea generale dell’Onu, che questa è la crisi più grave che l’Unione abbia mai attraversato e che per uscirne serve una maggiore integrazione, mentre le fughe nel populismo e nell’euro-scetticismo sono controproducenti. E il Professore schiera l’Italia in prima linea sul doppio fronte del rigore dei conti e delle politiche di crescita, anche come contributo perché l’Europa sia “vitale”.
Ma il percorso che pareva ormai intrapreso verso l’Unione bancaria si scopre dissestato, tortuoso e pieno di buche. E la macchina Europa ci arranca su, come se qualcuno avesse tirato il freno a mano. La creazione di un sistema di vigilanza degli istituti di credito europei sotto la guida unica della Bce e la possibilità di fornire aiuti alle banche attraverso l’Esm continuano a incontrare resistenze; non solo in Germania. Secondo il ministro delle finanze tedesco Schaeuble e i suoi colleghi di Olanda e Finlandia –cioè i Paesi della tripla A-, l’Esm non può coprire i debiti che le banche europee hanno contratto prima che il Fondo nascesse. Il che potrebbe significare, secondo alcune interpretazioni, che la Spagna, cui sono stati promessi 100 miliardi di euro, ma che non ne ha ancora sollecitato neppure una fetta, non potrebbe più avere alcun aiuto, perché i buchi sono pregressi. Una lettura che incontra resistenze in Spagna, irlanda, Grecia, i Paesi dalle banche più indebitate.
Come se non bastasse, i servizi di ricerca del Bundestag esprimono riserve sul fatto che il controllo sulle banche tedesche possa essere conferito alla Bce senza un processo legislativo federale.
L’intreccio di incontri dei giorni scorsi non ha sciolto i nodi, anzi li ha intricati. E’ possibile che si tratti di manovre in vista delle decisioni sulla Grecia e sull’Unione bancaria, che dovrebbero avere uno snodo nel Consiglio europeo di metà ottobre. Il presidente del Vertice, Van Rompuy, invita i leader “a non perdere il senso dell’urgenza”, la cancelliera Merkel e il presidente Hollande dicono di lavorare per una nuova governance europea; la troika delle istituzioni finanziarie internazionali (Ue, Bce e Fmi) sta per tornare ad Atene. I giorni passano e c’è chi vede la luce in fondo al tunnel farsi più intensa: è l’uscita che s’avvicina?, o è il treno?

Onu: un coro; e pure chi stecca rispetta il canovaccio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/09/2012

E’ un coro. Ma non siamo in una tragedia greca: quella che ogni anno va in scena, nella settimana d’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è piuttosto un pezzo di commedia dell’arte, dove ciascuno recita il suo personaggio. E molti, se non proprio tutti, dicono le stesse cose: la crisi e la ripresa; la Siria e l’Iran; l’anno scorso, le speranze e le fanfare della Primavera araba; quest’anno, i timori e i violini dell’Autunno arabo. A dare il là al coro, è il presidente degli Stati Uniti, che parla sempre al martedì, fra i primissimi. E gli altri, specie gli Occidentali, gli fanno sovente eco.

Poi, ci sono quelli che cantano fuori dal coro. Sono i cattivi della situazione: non rispettano i tempi, rompono gli schemi, dicono quel che vogliono. Ma pur’essi recitano a soggetto, da capitan Fracassa della diplomazia internazionale : parlano al Mondo, ma parlano soprattutto alla propria gente –esattamente come gli altri leader -… In passato, il ruolo era toccato al presidente venezuelano Chavez, o al leader libico Gheddafi, che, preso il palco, non l’aveva più lasciato, per un tempo ben superiore a quello pattuitogli. Questa volta, è toccato – e non era un esordio- al presidente iraniano Ahmadinejad, che mercoledì ha fatto saltare tutta la scaletta di altrui interventi col suo sproloquio; e che ha anche tratto giovamento mediatico dalla protesta annunciata di Stati Uniti e Israele, i cui rappresentanti hanno boicottato il suo discorso, abbandonando l’aula e lasciando le sedie ostentatamente vuote. Un classico, anche questo.

A rimanersene buono sul banco degli accusati, per via dei presunti programmi nucleari militari iraniani, Ahmadinejad non ci sta: dice che chi possiede migliaia di armi atomiche –leggasi, gli Usa- non ha il diritto di fargli la predica. E gira la frittata: non è l’Iran che minaccia l’esistenza di Israele, ma sono “i sionisti” che rivolgono minacce all’Iran, i cui valori sono “la pace e la stabilità”. Nessuna marcia indietro: bolla le sanzioni contro l’Iran come “una pretesa e una vendetta”; esibisce la propria forza, assicurando che Teheran neutralizzerà i tentativi di boicottaggio dei suoi impianti; non chiude la porta al dialogo con Washington, ma chiede “rispetto”. E non lo turbano le proteste, per altro sparute, che accompagnano il suo intervento: davanti al Palazzo di vetro, c’è chi vorrebbe “riportare a casa Bob”, cioè Robert Levinson, un ex agente dell’Fbi, scomparso in Iran cinque anni or sono, mentre lavorava come investigatore privato.

Il discorso di Ahmadinejad è il paradigma del ‘fuori dal coro’. Quello del premier Monti, invece, è il paradigma del ‘dentro il coro’: la crisi economica internazionale e il ruolo dell'Italia nella nuova governance europea; le sfide della Primavera araba, allo snodo tra evoluzione democratica e involuzione integralista, e del Mediterraneo; e, ancora, legalità internazionale e lotta al terrorismo; impegno nel peacekeeping -l’Italia ne è il principale protagonista, fra i Paesi occidentali-, sviluppo sostenibile e sicurezza dell’ambiente, fino all'ormai annosa riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Un intervento in inglese a 360 gradi, durato 20 minuti: la conferma che la missione di Monti a New York, densa di incontri bilaterali e contatti, è parte dell'azione del governo “per favorire e migliorar la comprensione e la percezione dell'Italia" a livello internazionale.

Poi ci sono gli outsiders, quelli che non hanno titolo per esserci, ma vengono lo stesso per sfruttare l’impatto mediatico di questo grande circo diplomatico. Julian Assange, l’uomo di Wikileaks, diffonde a New York da Londra, dov’è asserragliato nell’ambasciata dell’Ecuador, un video-link con cui ringrazia il piccolo Paese latino-americano che gli consente d’esprimersi da “uomo libero” e accusa le forze armate Usa in Iraq di "omicidi e corruzione politica". E, intanto, diplomatici ecuadoregni e britannici si incontrano per risolvere il caso.

giovedì 27 settembre 2012

Onu/Usa: Monti a NY, per Unione è la crisi più grave

Scritto, in versione diverse, per EurActiv e L'Indro il 26 e 27/09/2012

Con lo spread che torna a salire e le borse di nuovo nervose per l’incertezza sulla Spagna, il premier Mario Monti dice, dalla tribuna dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che questa è la crisi più grave che l’Unione europea abbia mai attraversato e che, per uscirne, serve più integrazione, mentre le fughe nel populismo e nell’euro-scetticismo sono controproducenti. E il Professore schiera l’Italia in prima linea sul doppio fronte del rigore dei conti e delle politiche di crescita, anche come contributo perché l’Europa sia “vitale”: “L’Italia non rischia più –dice poco dopo, intervistato da una tv Usa- di essere la miccia che innesca una crisi del debito nell’Unione”.

La situazione economica internazionale e il ruolo dell'Italia nella nuova governance europea sono due dei temi forti del discorso di Monti, che ha anche parlato delle sfide della Primavera araba, giunta a uno snodo tra evoluzione democratica e involuzione integralista, e del Mediterraneo; e, ancora, della legalità internazionale e della lotta al terrorismo, dell'impegno nel peacekeeping –l’Italia ne è il principale protagonista, fra i Paesi occidentali-, di sviluppo sostenibile e sicurezza dell’ambiente, dell'ormai annosa questione della riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (“Il Mondo ha bisogno di Nazioni Unite forti, l’Italia è pronta” e assicura “pieno impegno” su pace e cooperazione).

Con il suo intervento a 360 gradi, durato 20 minuti e pronunciato in inglese, il premier conferma che la sua presenza alla settimana d’apertura dell’Assemblea dell’Onu e i numerosi incontri bilaterali e contatti previsti a margine "s’inseriscono nell'azione” del suo governo “per favorire e migliorar la comprensione e la percezione dell'Italia" a livello internazionale. Un Paese che, nell’area mediterranea, dice sì al dialogo e non alla contrapposizione e che, su scala mondiale, difende i diritti dell’uomo e ribadisce il no alla pena di morte; che auspica uno sblocco dello stallo all’Onu sulla Siria e che invita l’Iran a rispettare le risoluzioni della comunità internazionale e chiarire le proprie scelte nucleari.

Da quando è a New York, cioè da lunedì sera, il premier ha incontrato il presidente americano Barack Obama e numerosi altri leader, spesso accompagnato dal ministro degli esteri Giulio Terzi, ha dato interviste alla Cnn e alla Pbs e ha cenato –ieri sera, al ristorante Le Cirque di Manhattan- con il segretario al tesoro Usa Tim Geithner e con esponenti di spicco dell’economia e della finanza americane. C’erano, tra gli altri, il finanziere George Soros, il capo degli analisti di Moody’s Mark Zandi e il presidente della Fed di New York William Dudley.

La cena "è andata bene ed è stata interessante", ha detto Monti, al termine."Con Geithner abbiamo parlato anche di Europa - ha riferito il premier -, ma poco". E, prima di congedarsi dai giornalisti, il Professore ha raccontato un aneddoto: “Sapete con chi ho fatto una foto? Jack Welch, uno dei più grandi amministratori delegati americani, prima ancora di Bill Gates. Si ricordava di me, perché ero alla Commissione europea quando gli bocciammo l'acquisizione d’Honeywell International da parte di GE. E' stato il primo americano a dovere sperimentare la giovane Europa".

Più che agli aspetti internazionale della missione Monti, in Italia s’è però prestato attenzione, almeno finora, ai temi di politica interna. Così, dell’intervista a Christiane Amanpour, della Cnn, l’impatto maggiore l’hanno avuto le dichiarazioni sul fatto che lui non si candiderà nel 2013 e che Silvio Berlusconi ha “tutto il diritto” di ripresentarsi e l’auspicio che la vita politica riprenda “con più maturità e responsabilità”. Sulla situazione economica, il premier ha ripetuto che le misure adottate “possono aver appesantito la crescita”, ma ha pure rinnovato la fiducia che nel 2013 “arriverà la ripresa”.

mercoledì 26 settembre 2012

Onu: le paci dimenticate di una governance anacronistica

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/09/2012

Magari, vi dimenticate che esiste per tutto l’anno, tanto la sua azione è discreta, leggasi inefficace. Poi, arriva la settimana dello struscio diplomatico a New York e il Palazzo di Vetro, la sede dell’Onu, una delle icone della Grande Mela dagli Anni Cinquanta, vibra di sussulti mediatici. Non dura molto, statene certi: affluiti a frotte da tutto il Mondo, i leader –quest’anno, 120 capi di Stato o di governo o ministri degli esteri- se ne vanno; e la grande aula del governo planetario ritrova ritmi e riti consueti. Gli uni e gli altri inadeguati alla governance globale del XXI Secolo: lo sanno tutti, anche sacerdoti e vestali delle Nazioni Unite, ma sono quasi vent’anni che si discute, ad esempio, della riforma dell’anacronistico, nella sua composizione, Consiglio di Sicurezza ed ancora non quaglia nulla.

L’annuale apertura dell’Assemblea generale è momento di spolvero diplomatico, non di decisioni. Ma, almeno una volta, bisogna venirci: farsi vedere ed essere visti. Per il premier Monti, poi, potrebbe non esserci altra occasione: eccolo, dunque, a New York. Proprio come Barack Obama, star della giornata d’avvio, per il quale potrebbe invece essere l’ultima volta.

I dibattiti affrontano a tutto campo l’attualità internazionale, soprattutto gli sviluppi drammatici della Primavera araba, la situazione in Siria, la presunta minaccia nucleare iraniana. Problemi che l’Onu tratta durante tutto l’anno, ma raramente risolve: la Guerra del Golfo del ’91, qui decisa, resta un momento di gloria; l’invasione dell’Iraq, subita, ma non avallata, una ferita; in Libia, l’Onu diede un dito, la Nato si prese la mano; in Siria, manco un dito –ma nessuno vuole la mano-.

Il fatto è che le Nazioni Unite, che oggi contano 193 Stati membri, sui 202 censiti al Mondo, e osservatori illustri –fra gli altri, la Santa Sede e l’Autorità nazionale palestinese-, hanno ancora strutture e logiche dell’epoca in cui nacque (il 1945, l’immediato dopoguerra) e del lungo inverno della Guerra fredda. L'articolo 7 ne determina l’organizzazione: sei organi principali; e una serie d’agenzie, fondi, commissioni e programmi sovente decentrati –Roma ospita Fao, Ifad, Pam-.

L’Assemblea generale è l’organo principale: la formano tutti gli stati aderenti; uno Stato, un voto, pare quasi il trionfo della democrazia. Qui si accettano i nuovi membri, si sospendono o si espellono quelli che meritano sanzioni del genere, si vota il bilancio e si eleggono i membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Che è l’organo esecutivo, vero depositario del potere di decisione (o, più spesso, di blocco):  è composto da 15 Stati; 5 sono permanenti (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina, i vincitori della Seconda Guerra Mondiale e le cinque potenze nucleari ‘legittimate’); 10 sono eletti ogni due anni –cinque l’anno-. Fino al 1966, il Consiglio era composto solo dai membri permanenti, che hanno tutti –e solo loro- diritto di veto: nel 1992, la Russia sostituì l’Urss; nel 1970, la Cina aveva sostituito Taiwan. Spetta al Consiglio di Sicurezza garantire la sicurezza internazionale: intervenire per evitare che contrasti fra i paesi degenerino in conflitti e, in caso di guerra, ristabilire la pace.

C’è poi il segretario generale, con un vasto apparato burocratico: viene raccomandato dal Consiglio e nominato dall'Assemblea, resta in carica per cinque anni e può essere rinnovato. Oggi, il posto è del sudcoreano Ban Ky-moon, al secondo mandato e in carica fino al 2016. Alcuni li ricordate, come il predecessore di Ban, Kofi Annan, che si oppose all’invasione dell’Iraq decisa senza l’avallo dell’Onu; molti restano opachi. L’eroe è Dag Hammarskjold, svedese, morto in missione nel Congo in guerra nel 1961; l’onta è Kurt Waldheim, austriaco, ex nazista.

Tutto ciò, specie le missioni di pace degli ormai mitici ‘caschi blu’,  costa un botto. Il bilancio dell’Onu 2011 era di 2.415 milioni di dollari, il 22% pagato dagli Usa. In più, il peacekeeping costò 4.148 milioni di dollari. L’Italia, 6° contribuente e principale fornitore occidentale di uomini alle missioni di pace, è tra i Paesi virtuosi, poche decine in regola coi contributi, Per il biennio 2012/’13, si fa un esercizio di ‘spending review’: obiettivo ridurre del 6,6% le spese. L’efficienza, quella, andrebbe aumentata.

Onu/Usa: Monti a NY, racconta a Obama l'Ue e l'Italia

Scritto per EurActiv e, in altra versione, L'Indro il 25/09/2012

All’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è stata la giornata del presidente Usa Barak Obama: con il suo discorso, ha monopolizzato attenzione e reazioni, un po’ a dispetto di François Hollande e nonostante che il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad avesse cercato di rubargli la scena, alzando i toni della polemica all’arrivo a New York.

Per i presidente del Consiglio italiano Mario Monti, non è stata, però, una giornata morta: il premier è stato ricevuto dal segretario generale dell’Onu Ban Ky-moon, ha avuto incontri bilaterali, è stato intervistato da Cnn e Pbs. Del discorso di Obama, ha commentato che è stato di "assoluta coerenza" e "logica serrata", sottolineandone i rischiami alla necessità della "tolleranza e del rispetto dei diritti d’espressione, di religione e umani".

Un colloquio tra Obama e Monti c’era stato lunedì sera, a notte fonda ora italiana, quando il premier era intervenuto al ricevimento offerto dal presidente statunitense in onore degli ospiti stranieri.  E’ stata un’occasione per aggiornare il presidente sui progressi che l’Ue sta facendo contro la crisi, rafforzando la governance economica e integrando l’azione di contenimento dei deficit con la spinta alla crescita. Il Professore ha anche cercato di dare a Obama la percezione della “nuova Italia” che sta uscendo dall’azione di riforma condotta del suo governo.

A chi gli chiedeva se si fosse parlato di elezioni, Monti ha risposto con una battuta e un sorriso: "Abbiamo parlato dell'andamento della campagna elettorale negli Usa… Voi sapete che qui si vota, tra un po'…”.  A quel punto i cronisti lo hanno interrotto, osservando  che presto anche in Italia si voterà: "Non abbiamo fatto questo tipo di comparazione...", ha aggiunto il premier.

Nel suo intervento, il presidente statunitense non ha eluso nessun tema dell’attualità internazionale: ha parlato dell’ondata di violenza che attraversa il Mondo arabo, della situazione in Siria e anche  della presunta minaccia nucleare iraniana. “Gli attacchi contro gli Usa in Libia e altrove nell’Islam –ha detto- sono un attacco agli ideali comuni”. E ha assicurato che gli Stati Uniti faranno di tutto perché l’Iran non si doti dell’atomica, che minaccerebbe l’esistenza di Israele.

Obama ha preso la parola davanti a 120 leader di tutto il Mondo e alle delegazioni di tutti i 194 Paesi Onu dopo avere ricevuto ultime positive notizie sulla sua campagna elettorale: i sondaggi confermano il suo vantaggio in due Stati chiave per la riconquista della Casa Bianca, la Florida e l’Ohio. Ma la prospettiva ravvicinata dell’Election Day il 6 novembre non è entrata nel discorso: Obama non ha rinnegato gli ideali di dialogo e di apertura e la scelta multilaterali che hanno segnato tutto il suo primo mandato, asserendo che il futuro non è di chi gira le spalle alla pace, ma neppure di chi calunnia Maometto, e assicurando che gli Stati Uniti non si ritireranno mai dal Mondo, tentati da una sorta di neo-isolazionismo.

Nonostante i raid omicidi di Bengasi, dove sono stati uccisi quattro cittadini americani e dove “è stata attaccata l’America” -e non è stata solo l’azione “di una folla in collera”-, e nonostante la repressione in Siria, dove “il regime di Assad deve finire” –a reggerlo, c’è “l’appoggio di Teheran al dittatore di Damasco”-, Obama vede “una stagione di progresso della democrazia”, non soltanto nel Mondo arabo: “A darmi speranza –ha detto-, non è tanto l’azione dei leader, quanto la volontà della gente”.

martedì 25 settembre 2012

Bielorussia: il voto col trucco non sbreccia l'avamposto della dittatura

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/09/2012

Gli attacchi della democrazia non sbrecciano l’ultimo ‘avamposto della dittatura’ in Europa, come Condoleeza Rice definì la Bielorussia di Lukashenko quando l’Amministrazione Bush voleva ampliare il concetto di ‘asse del male’. Boicottate dall’opposizione, domenica le elezioni legislative hanno visto 109 dei 110 seggi assegnati al primo turno: tutti, ma proprio tutti, a candidati del potere. Già nel Parlamento uscente non sedeva nessun oppositore: i plebisciti, qui, sono la norma..

I movimenti anti-Lukashenko contestano, però, il dato chiave, cioè quello della partecipazione: oltre il 74%, secondo la Commissione elettorale; meno del 50%, addirittura appena un un terzo, secondo gli oppositori, le cui cinque maggiori organizzazioni avevano invitato i cittadini a disertare i seggi e ad andare per funghi. Se hanno ragione loro, il voto non è valido.

L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, l’Osce, che aveva suoi osservatori in campo, ha apertamente criticato il processo elettorale e ha messo in dubbio i risultati ufficiali: lo scrutinio non è stato libero e lo spoglio non è stato imparziale. Matteo Mecacci, coordinatore dell’Osce in loco, dichiara: “Libere elezioni implicano che le persone siano libere d’esprimersi, d’organizzarsi e di candidarsi. Non abbiamo visto nulla del genere durante la campagna”. E, peggio, al momento della conta dei voti il meccanismo “s’è sensibilmente deteriorato”.

Una ventina di giovani che volevano seguire lo scrutinio sono stati fermati, secondo un gruppo per la difesa dei diritti dell’uomo. E osservatori internazionali sono stati allontanati dai seggi. C’è chi sostiene che queste sono state le peggiori elezioni nella storia recente della Bielorussia: pressioni, brogli, intimidazioni.

Aleksander Lukashenko è al potere da 17 anni filati e lo resterà almeno fino al 2015. Le proteste non sono state così intense come quelle che, nel 2010, avevano segnato la sua rielezione per un quarto mandato. Ci furono manifestazioni, centinaia di arresti: alcuni dei contestatori allora imprigionati sono tuttora in carcere, nonostante gli appelli della comunità internazionale.

La denuncia dell’Osce è stata avallata dagli Usa. L’Ue legge nell’andamento del voto la conferma che Lukashenko, invece di puntare al partenariato con l’Europa propostogli, “mira a una politica di repressione” –parole del portavoce della Merkel Steffen Seiber-. Il dittatore di Minsk non ha certo molti amici: Berlusconi, che brindava con lui alle sue vittorie, non c’è più; e persino Putin evita d’essergli troppo vicino.

La Commissione elettorale accusa gli osservatori internazionali di “pregiudizio negativo”. Il leader del Partito civile unico Anatoli Lebedko, escluso dalle liste a una settimana dal voto, parla, invece, di pseudo-elezioni e spiega la scarsa mobilitazione con il fatto che “la gente si muove solo per le presidenziali, quando è in gioco il potere”. Il Parlamento conta poco: è solo una cassa di risonanza del regime. Ma Lukashenko bolla gli oppositori come “vigliacchi” e dice che il mondo dovrebbe invidiare alla Bielorussia le sue “elezioni silenziose”.

lunedì 24 settembre 2012

Monti a NY: l'Onu, Barack, più passerella che sostanza,

Scritto per EurActiv e, in versione diversa, L'Indro il 24/09/2012

E’ più un’occasione di struscio diplomatico che di conversazioni sostanziali, ma, almeno una volta, bisogna esserci: farsi vedere ed essere visti. E, per il professor Monti, potrebbe non esserci un’altra possibilità di venirci da premier. Eccolo, dunque, sbarcare a New York, in occasione dell’apertura dell'Assemblea generale delle Nazioni unite.

Oltre 120 leader di tutto il Mondo, capi di Stato, capi di governo o ministri degli esteri, prenderanno da domani la parola dal podio nell’aula del Palazzo di Vetro dell'Onu, per affrontare a tutto campo l’attualità internazionale, soprattutto gli sviluppi drammatici della Primavera Araba e la situazione in Siria: "Il dibattito di quest'anno sarà uno dei più vivaci di sempre", prevede il segretario generale Ban Ki-moon.

Ma più che i discorsi dal podio, che hanno sempre un carattere solenne e cerimoniale, contano, spesso, gli incontri bilaterali, o multilaterali, che si moltiplicano intorno all’Assemblea –G8, G20, Ue e quant’altre organizzazioni internazionali possiate immaginarvi fissano appuntamenti a margine dell’evento-. L’Italia, più che da Monti, vi sarà rappresentata dal ministro degli esteri Giulio Terzi.

Momento mediaticamente forte della missione americana del premier sarà, ovviamente, l’incontro con il presidente statunitense Barack Obama. Questa sera – in Italia sarà notte fonda-, Monti interverrà al ricevimento che Obama darà agli ospiti stranieri in un grande albergo di New York: sarà il momento di una fitta serie di colloqui informali, fra cui quello con il presidente del Consiglio italiano. Obama e Monti hanno rapidamente sviluppato una buona intesa: il Professor è fra i leader dell’Ue su cui il presidente conta perché l’Unione si dia politiche di crescita e non solo di rigore. Giorni fa, l’ambasciatore degli Usa in Italia David H. Thorne ha detto che “il presidente fa affidamento sul premier”.

Il leader Usa è la vedette incontestata di questi giorni, che sono uno iato nella campagna elettorale: se per Monti questa potrebbe essere l’unica partecipazione alla settimana Onu, per Obama potrebbe essere l’ultima, anche se moltissime delegazioni alle Nazioni Unite tifano per una sua conferma.

L’intervento di Monti di fronte all'Assemblea non sarà uno dei primi, martedì, ma sé programmato mercoledì. Il suo discorso, riferiscono fonti di Palazzo Chigi, si incentrerà sulla crisi economica internazionale e sul ruolo dell'Italia nella nuova governance europea, ma anche su sviluppi e prospettive della Primavera araba e sulla lotta al terrorismo, riportata in primo piano dall’ondata di violenza e uccisioni per la diffusione di video e immagini lesive di Maometto e dell’Islam.

Rispetto all’anno scorso, quando nella scia della Primavera araba la parola chiave era "Speranza", scrive sull’ANSA Stefano De Paolis, “il clima politico internazionale è quest'anno caratterizzato dalle divisioni trasversali che sono tornate a prevalere tra i grandi del mondo. Lo stallo sulla Siria, la recente ondata di collera islamica per il film e le vignette contro il Profeta Maometto, la linea
di confine tra libertà di espressione e denigrazione della religione, le sfide alla democrazia nei Paesi arabi, il braccio di ferro sul nucleare iraniano pesano come macigni, affermano fonti diplomatiche. Si tratta di questioni che certamente verranno affrontate, ma che difficilmente registreranno svolte”.

La missione all’Onu e negli Usa potrà forse apparire al premier quasi una pausa fra le grane italiane, il futuro della Fiat, o gli scandali della Regione Lazio, e gli impegni europei. L’incontro di sabato tra il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel ha rilanciato l’impegno per la ricerca d’una nuova governance dell’Unione, da concretizzare, se possibile, a metà ottobre, al Vertice di Bruxelles.

E gli incontri di Monti, venerdì, a Roma, con i premier spagnolo, greco e irlandese, hanno tutti ruotato intorno alla crisi dell’Eurozona, visti da Paesi che ci sono caduti dentro e ne sono usciti, come l’Irlanda, o devono ancora uscirne, come la Grecia, oppure da paesi che stanno cercando d’evitare di finirci dentro, come l’Italia e la Spagna.

domenica 23 settembre 2012

L'accessibilità, la trasparenza e la foglia di fico

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 23/09/2012

Il titolo non suona bene: “Iniziativa per l’adozione di un Foia in Italia”. E che è ‘sto Foia? Però, non lasciamo che una sigla ci fermi: le intenzioni sono ottime e l’obiettivo è giusto. Il Foia è il ‘Freedom of Information Act’, la legge che negli Stati Uniti garantisce la libertà d’accesso a documenti ed atti della Pubblica Amministrazione. Riunite a Roma presso la sede della Fnsi in occasione dell’autoproclamata Giornata della Trasparenza, vecchie bandiere dell’informazione e del sindacato dei giornalisti, magari sgualcite, ma non ammainate, ma anche molti giovani di Università e Scuole, esperti, tecnici, archivisti, costituzionalisti, docenti, rappresentanti di enti edorganizzazioni che condividono l’impegno, chiedono a Governo e Parlamento di introdurre nella legislazione italiana il diritto alla trasparenza e all’accesso agli atti della Pubblica Amministrazione da parte di chiunque, indipendentemente dai motivi e dalle intenzioni per cui chiede di averne conoscenza.

Il progetto, che per essere attuata richiede tempi brevi, prevede che i principi di base della norma siano inseriti come elementi fondamentali dell’Agenda digitale che il Governo Monti s’appresta a varare - doveva essere cosa fatta prima dell’estate, dovrebbe essere passo imminente -: bisogna modificare la legge 241/90 e renderla conforme al diritto europeo, oltre che aderente al Foia Usa, togliendo i paletti che attualmente limitano e spesso vanificano il diritto di accesso –molti in merito gli episodi frustranti raccontati nella Giornata della Trasparenza-.

Naturalmente, il dibattito resta aperto, sulle modalità e le formulazioni più opportune e più efficaci per varare il Foia italiano, come lo chiamiamo per convenzione, e non per rassegnazione, in attesa che qualche mente brillante tiri fuori un titolo e un acronimo italiano e accattivante. Ma Governo e Parlamento dovrebbero raccogliere subito la proposta: un modo a costo zero per allineare l’Italia con i suoi partner migliori e per ridurre quel ‘gap’ di trasparenza che fa spesso velo e freno a chi vuole investire nel nostro Paese, non solo a chi deve o vuole farci informazione.

Intendiamoci! Non è che una norma, per quanto fatta bene, risolva tutti i problemi. In primo luogo, non bisogna confondere accessibilità e trasparenza e farne sinonimi: ci sono documenti talmente criptici, per come sono ideati, scritti, organizzati, archiviati, che renderli accessibili non basta certo a capirli. Uno può pensare: “Burocratici, tecnici, politici, quelli sono specialisti a tenerci al buio”: un modo per tutelare il proprio potere (e, magari, coprire qualche porcheria).

Vero. Ma i giornalisti non sono esenti da responsabilità. E qui veniamo al secondo luogo. Ci sono pezzi (e molti) scritti per le fonti, non per il pubblico: zeppi di riferimenti per addetti ai lavori, senza contesto, più messaggi in codice a chi sa perché intenda che informazione per chi non sa. E ci sono pezzi (e molti) approssimativi nei dati -citazioni, circostanze, numeri-, magari pure perché quei dati sono difficilmente accessibili.

Il Foia italiano farà cadere la foglia di fico di questa giustificazione. Ma non ci vestirà della verità, noi giornalisti. Ci lascerà nudi, davanti alle nostre responsabilità. Che sono i nostri lettori.

sabato 22 settembre 2012

Le tette di Kate e la barba del Profeta, due pesi e due misure

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/09/2012

Le tette di Kate, che non offendono nessuno, e che da noi di certo non ledono più il buon vecchio ‘comune senso del pudore’, mobilitano i tribunali dell’Europa che s’asserisce paladina della libertà d’espressione e nemica della censura: piovono sentenze che vietano e ingiungono. Invece, la barba del Profeta, che - anche se noi facciamo fatica a capirlo – offende, se tirata, centinaia di milioni di musulmani nel mondo, o almeno una fetta di essi cospicua e, quando va bene, vociante, induce i governi dell’Europa che vuole lottare contro il terrorismo anche con il dialogo a proibire qui da noi proteste annunciate pacifiche, oltre che a chiudere nei Paesi più caldi –e lì è misura di prudenza comprensibile- ambasciate e scuole potenziali bersagli nei ‘giorni dell’ira’.


Per una volta, e magari sarà l’unica e ultima, oppure no, c’è da condividere l’interrogativo dei Fratelli Musulmani d’Egitto che si chiedono, e ci chiedono, il perché di due pesi e due misure, ammesso e non concesso che le tette di Kate e la barba del Profeta possano mai stare sullo stesso piano. Prima di andare avanti, però, mettiamo in chiaro che un conto sono le rimostranze, portate avanti in ambito legale, della Corte britannica ed un altro conto le uccisioni e le violenze delle proteste integraliste nei loro eccessi: legittime le prime, inaccettabili le seconde.

Ora, i Fratelli Musulmani chiedono che la Francia fermi le vignette su Maometto come ha fermato le foto di Kate. Io, in realtà, rovescerei l’interrogativo: perché la Francia, che non ferma - giustamente, a mio avviso - le vignette su Maometto, deve fermare le foto di Kate? Se il faro è quello della libertà d’espressione, la luce del faro deve girare a 360 gradi; e non deve spegnersi quando c’è da illuminare il diritto dei musulmani a manifestare pacificamente, come non si spegne quando cattolici fondamentalisti contestano spettacoli da loro ritenuti blasfemi.

Dice: e il diritto alla privacy di Kate? A parte il fatto che la curiosità per le foto è direttamente proporzionale al clamore suscitato intorno alla loro pubblicazione, ché altrimenti pochi se ne sarebbero accorti, i ricchi e famosi del XXI Secolo, che si nutrono dell’attenzione dei media, hanno, a mio avviso, scarso margine per reclamarlo a loro tutela. Anche se dietro ci fosse, come suggerisce parte della stampa britannica, un complotto editoriale berlusconiano contro la famiglia reale.

La censura e il divieto non possono essere una risposta a chi ci chiede di limitare la nostra libertà d’espressione. Ma il limitare preventivamente la libertà d’espressione altrui è già, da parte nostra, un cedimento ai violenti ed ai terroristi che fra di essi possono cercare d’intrufolarsi e annidarsi. Ci siamo già passati: Guantanamo, le renditions, Abu Ghraib lo furono e non abbiamo ancora finito di vergognarcene. Siamo mica pronti a ricominciare? No, né per le tette di Kate, né per la barba del Profeta.

Usa 2012: il 'fuori onda' che stronca e diventa 'cult'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/09/2012

Il ‘fuori onda’ che stronca. O che, più di rado, diventa ‘cult’. Le presidenziali americane sono costellate di incidenti di percorso simili a quello in cui è incappato Mitt Romney, impegnato, dall’inizio della settimana, a riparare il danno fattogli dalla diffusione d’un suo discorso in cui mostrava disprezzo per i poveri, i ‘latinos’ e i palestinesi. L’altra sera, s’è persino fatto intervistare da una tv ispanica, mostrando un volto ‘misericordioso’ –una parola che piaceva un sacco a Bush figlio, che la infilava tra una dichiarazione di guerra e l’altra-. Ma la lista dei più ricchi d’America, pubblicata da Forbes, lo boccia: neppure lì Romney il milionario fa l’ en plein’, perché Gates e Buffett, in testa alla classifica, non lo votano di sicuro; e neppure Bloomberg, sindaco di New York, repubblicano, ultimo della ‘top ten’, è un suo fan.

Però, non sempre i ‘fuori onda’ hanno avuto effetti disastrosi. Prendiamo Reagan: è l’agosto 1984 e a novembre si vota; lui, attore e gigione sperimentato, fa la prova microfono. E, al posto di contare fino a dieci, dice: “Miei cari compatrioti, sono lieto di annunciarvi che oggi ho firmato una legge che mette al bando per sempre l’Urss. Inizieremo a bombardarli fra 5 minuti”. Ne uscì un putiferio, più diplomatico che politico, ma di lì a 100 giorni Reagan vinceva le presidenziali –contro Mondale-; e di lì a cinque anni vinceva pure la Guerra Fredda, abbattendo il muro senza bombardare nessuno.

Bush figlio era uno che non aveva prontezza di spirito né malizia televisiva. Nel 2007, al Vertice del G8 di San Pietroburgo, lui e la sua spalla Tony Blair non si accorsero d’un microfono aperto durante un breack con tramezzino e diet coke: Bush se la prese con Onu, Siria ed Hezbollah, cui Assad avrebbe dovuto dire “di smetterla di fare merdate”. E, poi, conscio dell’importanza del Vertice, confidò a Tony: “Non voglio farla troppo lunga, come tutti questi –gli altri leader, nrd-: devo andare a casa, ho da fare stasera”.

Nel luglio 2008, Bush ci ricasca. Certo di non essere ripreso –chiese di spegnere le telecamere-, dice a Houston: "Wall Street è come un ubriaco, ora è alle prese con i postumi di una sbornia. Il problema è quanto durerà la sbornia e non cercare di creare questi fantasiosi strumenti finanziari". Insomma, il presidente vedeva venire la crisi finanziaria, ma non fece nulla per impedirla.

Neppure Obama sfugge alla maledizione del fuori onda: gli capita al G20 di Cannes nel 2011, parlando con il presidente Sarkozy –giudizi pesanti su Papandreu e Netanyahu-; gli ricapita al G20 di Seul a marzo. Al russo Medvedev, dice: “Questa è la mia ultima elezione. E una volta rieletto avrò più flessibilità”; Medvedev annuisce: “Capisco, riferirò a Vladimir”, cioè a Putin.

Ma il fuori onda più devastante fu quello, consapevole, di Bush padre, che, nella campagna 1988, invitò gli americani leggere le sue labbra, mentre scandiva: “No new taxes”, niente nuove tasse. E, invece, le tasse le dovette alzare. Nella campagna 1992, il suo rivale Bill Clinton gli usò contro quell’immagine. E Bush padre perse.

mercoledì 19 settembre 2012

Usa 2012: con un uno-due micidiale, Mitt si manda al tappeto

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/09/2012

Se continua così, ‘gambero’ Romney all’Election Day, il 6 novembre, ci arriva a marcia indietro. E Obama manco si deve preoccupare dell’ondata di violenza anti-americana nel mondo islamico, che abbruna di sangue il suo messaggio di dialogo e incrina la sua immagine di giustiziere dei terroristi. Stavolta Mitt ‘gaffe’ Romney l’ha fatta davvero grossa; anzi, s’è esibito in un ‘uno-due’ micidiale: un gancio alla mascella e un uppercut al mento –i suoi, non quelli dell’avversario-; l’ha salvato solo il gong, che già stava per stramazzare. Nei sondaggi, è già dietro di 5 punti; facile prevedere che scivoli più in giù.

Un video rubato a una cena svoltasi a porte chiuse a Boca Raton in Florida, una raccolta fondi a casa di Marc Leder, ricco finanziere, è stato pubblicato sul sito progressista Mother Jones: un primo e sette secondi che annientano lo spot più riuscito e costoso. Il candidato repubblicano sostiene che il 47% degli americani vota per Obama perché "sono parassiti del governo", "non pagano le tasse” e si sentono vittime perché sono troppo poveri. E dichiara che "il suo lavoro” da presidente non sarà certo “preoccuparsi di questa gente".

Se questo è il suo modo di ‘strizzare l’occhio’ alla classe media e agli elettori moderati, Romney può dire addio alle ambizioni presidenziali. Tanto più che, è recidivo: pochi giorni or sono, infatti, aveva attribuito alla classe media un reddito annuale “tra i 200mila e i 250mila dollari”. Peccato che solo il 3% della popolazione americana guadagna tutti quei soldi. La classe media si situa tra i 30 e i 100 mila dollari.

A Boca Raton, Romney era proprio in forma. Nel video, anima candida, ammette di non avere alcuna intenzione di impegnarsi per la pace in Medio Oriente perché “i palestinesi non hanno interesse alla pace”, che “è impensabile da realizzare". Senza fare distinzione fra Hamas e Anp, Romney aggiunge: "Vedo che i palestinesi sono impegnati per la distruzione e l'eliminazione d’Israele". Così lui ammaina la bandiera della pace ancora prima d’innalzarla: "Uno spera che si stabilisca una certa stabilità, ma riconosce che questo è un problema destinato a rimanere irrisolto ... e così scaglia la palla lontano e spera che, prima o poi, accada qualcosa che risolva tutto". Magari, un bel diluvio: in fondo, è già successo.

Bel programma, per un futuro presidente: tirare a campare e sperare che le cose vadano a posto da sole. La replica della campagna di Romney è debole: ricorda che la piattaforma politica repubblicana sostiene inequivocabilmente l’obiettivo di una pace "con due stati democratici, Israele con Gerusalemme capitale e la Palestina, che vivano in pace e sicurezza". Ma viene il dubbio che Romney non l’abbia letta, o non la ricordi.

E’ vero che le dichiarazioni ora pubbliche risalgono a maggio (chi le aveva, ha forse pensato che, diffuse oggi, sarebbero state più dirompenti). Ed è pure vero che né quel 47% di cittadini che Romney disprezza né i (pochi) filo-palestinesi americani avrebbero mai votato per lui. Ma così c’è il rischio che molti di essi, invece di starsene a casa il 6 novembre, vadano a votare per Obama, solo per evitare il rischio di trovarsi il ricco mormone alla Casa Bianca. E, infatti, la stampa, quasi unanime, gli appiccica l’etichetta di perdente; la Casa Bianca ironizza; su twitter il video impazza; e sul web corre il nuovo slogan: “We are the 47%”, siamo il 47%, molto più realistico e temibile del velleitario 99% di Occupy Wall Street, che ha ieri celebrato, con il suo primo anniversario, il suo funerale.

domenica 16 settembre 2012

Euro-scetticismo: in declino, ma non è ancora cessato allarme

Scritto per AffarInternazionali il 16/09/2012

Il premier Monti e il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy lanciano l’idea di un Vertice straordinario in Campidoglio, luogo simbolo dell’integrazione, contro gli euro-scetticismi e i populismi che proliferano nell’Unione. Ed ecco che l’Olanda decreta, alle urne, l’arretramento delle forze xenofobe e anti-euro. E un dato analogo è atteso, a ottobre, dalle amministrative finlandesi, dove il partito dei Veri finlandesi appare in calo rispetto alle politiche 2011, quando ottenne un quinto dei suffragi. Ma è presto per gridare allo scampato pericolo: dalla Francia alla Grecia, dall’Ungheria all’Italia, nella stessa Germania, le forze qualunquiste e anti-europeiste restano agguerrite.

Certo, non c’è un nesso di causa ed effetto tra l’iniziativa Monti / van Rompuy, annunciata a Cernobbio l’8 settembre, e i risultati delle politiche olandesi mercoledì 12 settembre. E’ però un fatto che quella giornata, che poteva risultare catastrofica per l’Ue e per l’euro, è stata, a conti fatti, un mercoledì da leoni. Dalle urne olandesi escono vincitrici forze moderate e pro-euro: i liberali del premier uscente Mark Rutte la spuntano di due seggi sui laburisti di Diederik Samson. A Karlsruhe, la Corte costituzionale tedesca dà un via libera, seppur condizionato, al nuovo fondo salva Stati, l’Esm, e al Patto di Bilancio. A Strasburgo, il presidente della Commissione Barroso rilancia la prospettiva federale, pronunciando, in Parlamento, il discorso sullo stato dell’Unione, mentre il suo Esecutivo vara le proposte d’Unione bancaria. L’Ue ne esce più forte e più legittimata, democraticamente e giuridicamente.

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venerdì 14 settembre 2012

Primavere arabe: miopie ed errori prima, durante e ora

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/09/2012

Non le abbiamo viste arrivare, anzi ci hanno preso con il sorcio in bocca, mentre stavamo a fare i peggio affari, o le meglio vacanze, con i satrapi che il popolo s’apprestava a rovesciare. Non le abbiamo sapute gestire –ammesso che ci toccasse-, anzi, a dire la verità, non  ci abbiamo neppure provato, perché –la frase è bella- “mica vuoi metterti contro la volontà del popolo”. E, infine, non abbiamo capito che cosa sarebbe successo dopo: gli islamici al potere, magari moderati, ma un po’ meno amici e alleati.

E la Libia?, uno dice. Beh, vuoi mettere?, quella è un caso a parte, c’è il petrolio, tanto, e negli equilibri del Medo Oriente contava il due di picche. Sì, ma adesso che non c’è più lui, Gheddafi, al Qaida è dappertutto nell’Africa sub-sahariana, controlla Paesi come il Malì e prende in ostaggio nostri concittadini laggiù a fare i cooperanti, o a fare i turisti (ma che non ci vadano, a fare i turisti!).

Allora, queste Primavere arabe sono state una iattura?, il mondo era meglio prima? Intendiamoci, non che fosse facile decifrare che cosa stava per succedere e decidere come comportarsi, ché quanto accade in certi parti del Mondo ci è sempre enigmatico e misterioso, un po’ come deve esserlo per chi vive nel sub-continente indiano o nel Mondo arabo capire che l’Europa e l’euro sono in crisi, ma gli europei continuano a vivere tanto meglio di loro.

E intendiamoci ancora, a più forte ragione: nessuno vuole fare il discorso del ‘si stava meglio quando si stava peggio’ e tessere l’elogio di chi ha usurpato i diritti e la libertà del proprio popolo, Ben Alì, Gheddafi, o al Assad, che, tra l’altro, è la prova tuttora governante di come le lezioni del 2011 non ci siano servite in Siria, dove c’è meno petrolio che in Libia, ma c’è più intreccio politico mediorientale. Al Assad è fuori, diciamo, ma chi lo combatte è meglio di lui? A questo punto, uno, sempre lo stesso, dice: “Ehilà, ti sei dimenticato Mubarak”. No, ma è che io, per difetto di conoscenza, forse, proprio non riesco a mettere Mubarak, e i suoi predecessori, sullo stesso piano di certi loro vicini.

Dunque, le Primavera arabe portavano attese di democrazia ie di libertà n una parte del Mondo che non le ha mai conosciute pienamente, almeno così come le intendiamo noi. E segnava – questa c’è tanto piaciuta che abbiamo finito per crederci- il trionfo dei social networks sui media tradizionali: alle folle tunisine ed egiziane, faceva un baffo se la radio, la tv e i giornali più importanti erano in mano al regime, loro avevano twitter e internet ed erano a posto.

Però, c’è qualcuno che ha davvero mai creduto che il dopo Gheddafi sarebbe stato una Libia democratica tipo Svezia? Onore alla Tunisia, per quanto ha fatto e sta facendo; e onore pure all’Egitto, dove un apparato statale c’è e pare reggere così che la transizione avviene in modo meno violento di quanto si poteva temere.

C’è già andata bene, che nessuno ha finora pensato –o, se ci ha pensato, non l’ha fatto- di ripetere gli orrori diplomatici e democratici dell’Algeria negli Anni Novanta e della Palestina all’inizio del XXI Secolo: “Votate”, incoraggiamo quei popoli; “Ah, ma avete votato male, troppo integralista, troppo islamista”, fermi tutti, non vale.

Sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco ha ieri scritto che i fatti di Bengasi possono ricollegarsi a una singolarità libica, l’essere quel Paese un ‘non stato’, un po’ come la Somalia, o l’Afghanistan, dove l’autorità centrale non copre l’intero territorio nazionale, anzi ne copre parti ridotte. In tal caso, la strage anti-americana potrebbe essere un “episodio circoscritto”: la stessa protesta, in Egitto, è stata intercettata dalle forze dell’ordine, in Libia no.

Ma c’è anche l’ipotesi che sia “l’avvio di una nuova fase della guerra anti-occidentale di un estremismo arabo sunnita uscito rinforzato dalle cosiddette rivoluzioni arabe”, come la rivendicazione di al Qaida e la quasi coincidenza con l’11 Settembre indurrebbe a credere, anche se i terroristi sanno menare vanto ‘ex post’ di azioni che non hanno né organizzato né compiuto.

Dietro questa lettura, altre ansie e altri dubbi. Come fai, sbagli: appoggi la dittatura, che ti garantisce in funzione anti-terrorismo, ma tradisci i principi della democrazia; incoraggi l’insurrezione, e la armi, come avviene in Siria, o la assisti militarmente, com’è avvenuto in Libia, e allora rafforzi le componenti integraliste, che, una volta sbarazzatesi del tiranno, non ti mostrano riconoscenza, ma anzi ti combattono come nemico.

La cosa giusta è spesso facile da fare, ma è più spesso difficile da individuare.  Certo, a provarci senza spocchia e senza pregiudizi, si sbaglia di meno.

Olanda: Rutte-Samson, la strana coppia euro-diversa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/09/2012

Mark Rutte, capofila liberale, premier olandese confermato, è un volto noto della politica europea: 45 anni, single, Rutte è uno di quei giovani leader rigoristi e conservatori che piacciono ad Angela Merkel, come il finlandese Jiri Katainen. L’uomo nuovo è il suo co-pilota nel governo di coalizione che molto probabilmente guiderà l’Olanda: Diederick Samsom, ecologista, laburista, laurea in fisica, sposato con due figli, appena 41 anni e nessuna esperienza di governo.

Il giorno dopo il voto, i risultati definitivi confermano le prime indicazioni: vincono liberali (41 seggi da 31) e laburisti (39 da 30), gli uni e gli altri euro-tiepidi –ma è quanto basta, in questo momento, a fare del loro successo un riscatto dell’Unione-. Perdono gli xenofobi anti-islam, populisti ed euroscettici, giù da 24 a 15 seggi. Male, al centro, i cristiano-democratici (da 21 a 13), cui i loro stessi elettori non perdonano l’alleanza con gli xenofobi; e in crescita a 12  i centristi di D66, che potrebbero irrobustire il governo –i due maggiori partiti hanno 80 seggi su 150-. A sinistra, stabili, ma delusi, i socialisti anti-europei -15 seggi, ma a un certo punto sembrava fossero loro la forza emergente- e malissimo i Verdi radicali, da 10 a 3 seggi.

Rutte e Samsom sono condannati a intendersi, ma sono sempre stati rivali: Rutte, finora, aveva come alleati i cristiano-democratici, con gli xenofobi a puntello. Samsom ha una storia di combattivo militante ecologista e ha condotto una campagna in rimonta, fallendo di poco il sorpasso: il pezzo di bravura sono state le prestazioni nei dibattiti televisivi, dove l’ha spesso spuntata, stoppando l’ascesa del socialista Emile Roemer, leader euroscettico.

Il programma europeo di Samsom sta a quello di Rutte come quello di Hollande sta a quello della Merkel: accento sulla crescita contro accento sul rigore, più tempo per il risanamento –è pronto a darne di più pure alla Grecia-, tutela dei valori fondamentali dello stato sociale e attenzione ai lavoratori, investimenti per rilanciare l’economia e favorire l’occupazione. Nato a Groninga, nel Nord-Est, Samsom, quando si batteva con Greenpieace, fu fermato e arrestato, mai condannato.

Entrato nel PvdA, cioè il Partito del Lavoro, nel 2001, entrò in Parlamento poco più che trentenne nel 2003 e divenne capo del partito in marzo, al posto Job Cohen, leader dimissionario. Energico e spesso aggressivo, impaziente e talora saccente -partecipò a quiz per persone con un alto quoziente intellettivo-, Samsom ha un po’ corretto i suoi difetti: nei dibattiti decisivi, ha mostrato calma e competenza, serietà e credibilità.

In tv, l’aiuta il bell’aspetto: magro, sportivo, capelli cortissimi, sguardo magnetico; e ancora ateo e vegetariano. Vive a Leida: in campagna, s’è prestato a spot intimisti, mentre prepara la colazione ai figli e va al lavoro in bicicletta. Potrà farlo pure all’Aja: la città è piatta come un polder.

giovedì 13 settembre 2012

Olanda: vincono gli euro-tiepidi, battuti gli euro-scettici

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/09/2012. Altra versione su L'Indro.

Vincono le forze moderate e pro-euro: i conservatori liberali del premier uscente Mark Rutte sono testa a testa negli exit polls con i laburisti di Diederik Samson. Dopo avere polemizzato per tutta la campagna, i due potranno ora formare un governo di coalizione filo-europeo: in Germania, si direbbe un’alleanza rosso-nera, ma qui il rosso è stinto e il nero è sbiadito. Secondo i primi dati, Rutte sopravanza d’un seggio Samson, 41 a 40: insieme, avranno –pare certo- la maggioranza assoluta dei 150 seggi del Parlamento.

Per l’Unione europea, che vedeva in questo 12 settembre il crocevia di tutte le sue paure, è stato un mercoledì da leoni: prima a Strasburgo il discorso sullo Stato dell’Unione di Barroso che rilancia l’integrazione in una prospettiva di federazione; poi, a Karlsruhe, il sì, seppure condizionato, della Corte suprema tedesca al fondo salva Stati e al Patto di Bilancio: e, infine, all’Aja, il voto olandese, con la sconfitta degli euro-scettici. L’Ue ne esce più forte e più legittimata, democraticamente e giuridicamente.

Quasi 13 milioni di cittadini erano chiamati alle urne in queste elezioni politiche anticipate seguite con attenzione (e apprensione) in tutta l’Unione. A lungo, nei sondaggi, le ali euro-scettiche del frammentato schieramento politico olandese, soprattutto con la sinistra anti-Ue del leader socialista Emile Roemer, erano state avanti; ma Roemer ha poi finito con il cedere consensi a Samsone non raccoglierebbe dalle urne più di 15 seggi.

Ventuno le liste in lizza, con un sistema proporzionale puro e un unico collegio nazionale: si conta che olo una decina avranno seggi in Parlamento. Fra Rutte e Samson, entrambi filo-europei, con accenti diversi, l'incertezza, al momento, con i primi dati così serrati, riguarda chi dei due prevarrà e riceverà quindi l'incarico di formare il governo.

In primavera, l’esecutivo Rutte, una coalizione con i cristiano-democratici di Sybrand van Haersma, con l’appoggio esterno mal digerito degli xenofobi anti-Islam (e, ovviamente, anti-Ue) di Geert Wilders, era caduto sui tagli alla spesa in nome del rigore.

Allo stato attuale, una coalizione appare inevitabile, anche se i due leader l’hanno negata fino all’ultimo dibattito televisivo. Un terzo partner potrebbe essere l'altrettanto filoeuropeo partito democratico centrista D66 di Alexander Pechtold, accreditato una decina seggi. Non è, invece, probabile un'alleanza con il Cda di van Haersma, cui gli elettori non perdonano l’alleanza con l'ultradestra di Wilders, che in aprile fece poi saltare il governo.

Il Pvv di Wilders appare ora fuori dai giochi di potere e in calo. Il leader ha provato a rilanciarsi usando toni forti nei dibattiti televisivi: a Rutte, ha dato del ‘mollusco’: non è servito a molto, visto che i suoi suffragi sono praticamente dimezzati.

Il PvdA di Samsom è filoeuropeo e favorevole all'euro, ma propone di dilazionare un po' i tempi di risanamento del bilancio ed è favorevole a dare per farlo più tempo alla Grecia e agli altri Paesi in difficoltà nell'eurozona. Il Vvd di Rutte ha invece una tabella di marcia molto stretta per attuare il suo programma di austerità e per riportare il deficit di bilancio sotto il 3% entro l'anno prossimo; inoltre, è contrario ad ogni ulteriore aiuto alla Grecia. Le diversità nei programmi fanno prevedere lunghe trattative –com’è abitudine in Olanda- e minuziosi accordi nei prossimi mesi -, per formare una maggioranza che duri e che porti il Paese fuori dalla crisi.

Crisi: Karlsruhe, un mercoledì da leoni per l'Ue e l'euro

Scritto, in versioni diverse, per EurActiv e L'Indro il 12/09/2012

E’ stato un mercoledì da leoni per l’Europa, che attendeva con ansia una giornata che era il crocevia di tutte le paure e le speranze dell’Unione e dell’euro: prima, a Strasburgo, il discorso del presidente della Commissione europea José Manuel Barroso sullo Stato dell'Unione; e poco dopo, a Karlsruhe, il sì della Corte costituzionale tedesca al fondo salva-stati e al Patto di Bilancio, accolto con scrosci d’applausi dal Parlamento europeo.


Con una sentenza molto attesa, la Corte costituzionale tedesca ha dato alfine via libera all’Esm, precisando, però, che la Germania, maggior contributore del fondo salva Stati, non dovrà superare il tetto di 190 miliardi di euro, se non con il parere positivo del proprio Parlamento. Il verdetto non pone tutti i temuti vincoli che avrebbero di fatto imbrigliato l'Esm e in parte vanificato lo scudo anti-spread voluto dai leader dell’Eurozona e dalla Bce. Infatti, i mercati reagiscono positivamente, con lo spread in calo. Soddisfatta la cancelliera Merkel: "La Germania - ha detto - ha dato un segnale forte all'Europa".

E’ stato invece tiepido l’applauso che ha accolto, nell'aula della Camera, a Montecitorio, l’annuncio del verdetto di Karlsruhe. La notizia è stata data all'Assemblea dalla vicepresidente Rosy Bindi durante un dibattito sul dl sull’Ilva su cui la Lega pratica l’ostruzionismo. Pochi i presenti, ancora meno coloro che hanno applaudito. Più robusto, invece, il sostegno nei commenti istituzionali e politici: il premier Monti la giudica “un’ottima notizia” ...
Gli otto ‘magistrati in rosso’, dal colore delle loro toghe, hanno sì messo un tetto alla partecipazione della Germania al salvataggio dei Paesi in difficoltà, ma non hanno vincolato ogni singolo utilizzo dell'Esm al consenso del Bundestag, come si temeva nei giorni scorsi. La Corte ha inoltre respinto il ricorso di urgenza dell'esponente della Csu Peter Gauweiler presentato lo scorso fine settimana, riservandosi, però, di valutare nel merito se la Bce abbia superato le proprie competenze, decidendo di acquistare titoli dei Paesi in difficoltà per frenare lo spread. La signora Merkel è tornata a ripetere anche oggi che la Bce è intervenuta “nell'ambito del suo mandato e della sua indipendenza", sottolineando che in questa crisi "ogni istituzione ha le sue responsabilità ".

Fortemente positive le reazioni europee ...

mercoledì 12 settembre 2012

Libia: uccisi tre americani, i frutti rosso sangue della Primavera

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 12/09/2012

Sono talora rosso sangue, i frutti della Primavera. Specie se la stagione è stata violenta e cruenta, come nella Libia, che ancora cerca la strada del dopo Gheddafi. Incerti i fatti e confuso il contesto, di quanto avvenuto la scorsa notte a Bengasi, perché l’analisi possa essere già articolata. Ma si possono fare alcune considerazioni e alcuni interrogativi possono essere posti, a cominciare dal valore della rivendicazione di Al Qaeda che si attribuisce un’azione cui può avere partecipato, ma che non ha necessariamente organizzato.

Prima considerazione: quando c’è di mezzo il Corano e Maometto, noi occidentali avvertiamo spesso una sproporzione tra quelle che percepiamo come offesa e reazione –accadde, molti anni fa,  per Salman Rushdie, o più di recente per le vignette danesi, o per il rogo dei corani in Florida, e ancora in molti altri casi-. Sproporzione che,  invece, non appare evidentemente tale a chi protesta con rabbia che uccide, ma pure a rischio della propria vita.

Seconda considerazione: chi fa montare la protesta e la indirizza, non chi è folla che manifesta, può usare queste circostanze per misurare la propria forza, o per darne una misura, sul piano interno e, in minor misura, su quello internazionale. Un modo per dire ai propri interlocutori: vedete quanti siamo e che cosa sappiamo fare.

Terza considerazione: la capacità delle forze dell’ordine locali di tenere sotto controllo la protesta, come è apparentemente avvenuto in Egitto e come non è avvenuto in Libia, può essere funzione sia dell’efficienza e dell’organizzazione dell’apparato pubblico –e quello libico, rispetto all’egiziano, è carente- sia di una minore, o maggiore, connivenza con quanto sta avvenendo e con chi lo fomenta.

Certo, i tre americani, l’ambasciatore e due marines, uccisi a Bengasi sono la prova che l’integralismo è presente nella società libica ed è capace di esplosioni di violenza; e, inoltre, che l’America ne continua a essere percepita come un nemico e un ostacolo, nonostante nello specifico il contributo al rovesciamento del regime di Gheddafi e l’aiuto alla ricostruzione e in generale l’atteggiamento dell’Amministrazione democratica di apertura e dialogo verso il Mondo islamico.

Apertura e dialogo che non vengono invece riflessi nei commenti di quanti, in Italia, parlano dell’Islam come “religione che uccide”: la religione ha spesso ucciso, ma non è stata solo l’Islam.

Crisi: Ue, una giornata crocevia di paure e di speranze


Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/09/2012

Questo mercoledì 12 settembre diventa il crocevia di tutte le paure, e di tutte le speranze, dell’Unione europea: un terremoto potenzialmente devastante. Molti i possibili epicentri: Karlsruhe dove la Corte costituzionale tedesca pronuncia il suo verdetto sull’Esm, il fondo salva Stati permanente –quello dello scudo anti-spread, tanto per intenderci- e sul Patto di Bilancio; Atene, dove la troika delle Istituzioni finanziarie internazionali (Ue,Bce, Fmi) non è contenta dei piani di risanamento della Grecia; l’Aja, dove gli olandesi vanno alle urne per rinnovare il Parlamento; Strasburgo, dove il presidente della Commissione Barroso pronuncia di fronte agli eurodeputati il discorso sullo stato dell’Unione e l’Esecutivo vara le proposte per l’integrazione bancaria. Ma c’è fibrillazione pure a Madrid e a Lisbona, mentre Roma si vuole serena: “L’Italia non ha bisogno di aiuti europei”, ripetono il premier Monti e i suoi ministri.

Sui mercati, la speranza prevale sulla paura, anche perché tutte le previsioni dalla Germania anticipano un sì della Corte agli strumenti di cui s’è dotata l’Ue per garantire la stabilità dell’euro e la coesione dell’Eurozona. Così, dopo una falsa partenza, le borse chiudono tutte in rialzo (Milano +0,84%), mentre lo spread scende a 351 e il tasso sui titoli decennali cala a 5,05%. Va bene pure Wall Street, nonostante la agenzie di rating continuino la loro guerra contro l’Amministrazione Obama: Moody’s minaccia di tagliare la tripla A e sollecita misure per ridurre il debito.

Da quando, giovedì scorso, il 6 settembre, la Bce s’è mossa, impegnandosi, nonostante l’opposizione della Bundesbank, a comprare titoli a breve dei Paesi in difficoltà, il clima è più sereno. Ma un no da Karlsruhe avrebbe effetti davvero imprevedibili, privando l’euro del suo scudo e rinfocolando i dubbi sull’europeismo tedesco. Specie ora che l’economia della Germania rallenta, anche se Berlino smentisce rischi di recessione. Ma la polemica è politica: l’opposizione rimprovera alla cancelliera Merkel di avere dato via libera alla Bce; il ministro delle finanze Schaeuble invita il Bundestag a rispettare l’indipendenza della Banca centrale europea.

L’altro bubbone che rischia di esplodere è la Grecia. Il governo Samaras, che mira ad ottenere una dilazione dei termini per completare il risanamento, dal 2014 al 2016, rende più drastici i tagli alla spesa pubblica prevista, da 13,5 a 16 miliardi di euro. Ma la troika non è convinta della attendibilità dei progetti greci: ne chiede una versione definitiva entro domani. Il presidente Papulias sbotta: “la Grecia –dice- ha pagato abbastanza per i suoi errori”; l’Europa deve aiutare i Paesi del Sud a superare la crisi e non affossarli.

Vale per Atene, ma vale pure per Madrid, dove il premier finlandese Katainen offre sostegno al capo del governo spagnolo Rajoy, proprio mentre a Bruxelles girano voci d’un piano di salvataggio globale per la Spagna (non solo le banche, dunque). E a Lisbona i creditori del Portogallo chiedono al governo uno sforzo di rimborso maggiore, anche se le Istitutioni comunitarie gli accordano un anno in più, fino al 2014, per completare il risanamento.

Che poi, quando i tagli li devono fare loro, i Paesi del rigore, non è che tutto fili liscio: in Olande, il governo di centrodestra, che aveva l’appoggio esterno degli xenofobi anti-islam, è caduto proprio sui tagli. La vigilia del voto vede un testa a testa nei sondaggi fra liberali e laburisti: nei discorsi dei leader, le critiche a Bruxelles fioccano; ma, dopo le elezioni, gli analisti prevedono una coalizione fra i due partiti con un programma pro-europeo.