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sabato 30 aprile 2016

Usa 2016: Trump, contestazioni, ma anche record di voti alle primarie

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/04/2016 e, in altra versione, per www.GpNewsUsa2016 e Formiche.net il 30/04/2016 

E’ complicata e contestata, ma pure affollata ed entusiasta, la campagna elettorale di Donald Trump in California, dove nelle ultime 48 ore il battistrada repubblicano è stato accolto a ogni evento da vigorose proteste. “Non è stato facile entrare”, ha ironicamente commentato ieri sera, presentandosi al pubblico che l’attendeva in un hotel di San Francisco. Fuori, la tensione era elevata: urla, spinte, fermi.

Nulla a che vedere con quanto avvenuto la sera prima a Costa Mesa: il magnate dell’imprenditoria, che vi teneva un comizio davanti a migliaia di sostenitori, è stato vivacemente contestato. Qui, siamo nel Sud della California, in quell’Orange County che è una delle più ricche dell’Unione, protagonista d’una serie tv di grande successo una decina di anni fa. E lì, fuori dall’OC Fair & Event Center, si sono ripetuti incidenti che già c’erano stati a St.Louis, a Chicago e a New York.

Una ventina le persone arrestate, dopo che la polizia, intervenuta con molta decisione, in tenuta anti-sommossa e con agenti a cavallo, ha disperso centinaia di manifestanti che avevano bloccato alcune strade limitrofe al centro congressi, danneggiando veicoli delle forze dell’ordine e lanciando sassi contro gli uomini in divisa. Vi sono stati tafferugli, ma non si sono lamentati feriti.

Trump ha la nomination a portata di mano e, da settimane, prova a mostrarsi ‘presidenziale’; ma continua a suscitare diffidenza e addirittura insofferenza in larga parte dell’opinione pubblica americana. Dopo la movimentata accoglienza, a San Francisco ha invitato il partito all'unità: "Sono nella posizione migliore per battere Hillary Clinton … La strada per la presidenza è dura per i repubblicani … Bisogna scegliere un buon candidato".

E ha aggiunto: "Il partito repubblicano non vince più. Ma io posso vincere in Stati in cui nessun altro repubblicano vincerebbe", cioè a New York, in Florida, nel Michigan e in Pennsylvania, dove, nelle ultime elezioni presidenziali, hanno sempre vinto i candidati democratici.

Le contestazioni di San Francisco, gli incidenti Costa Mesa sono segnali, gli ennesimi, del livello di tensione e di scontro suscitato dalla campagna elettorale per Usa 2016: le passioni pro e contro innescate da Trump, showman e provocatore, che fa del suo ‘parlare franco’ un elemento distintivo, hanno forse precedenti solo nei contrasti nati negli Anni 60 intorno alla campagna razzista di Barry Goldwater. Anche se finora s’è per fortuna lontani dal clima di violenza omicida del ’68, l’anno degli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy.

Il magnate dell’immobiliare è un catalizzatore di ostilità, ma anche di consensi. Lo dimostra il fatto che s’appresta a battere il record di voti avuti nelle primarie repubblicane che è di George W. Bush: nel 2000, il futuro presidente ottenne 10,8 milioni di suffragi. Trump ha già superato i 10 milioni e mancano ancora una quindicina di Stati, fra cui proprio la California, il più popoloso. Quattro anni fa, in tutte le primarie, Mitt Romney, il candidato repubblicano poi battuto da Barack Obama, ebbe meno di 10 milioni di voti; e così pure nel 2008 John McCain.

Su Politico, Eric Ostermeier, docente all’Università del Minnesota, constata che solo otto candidati hanno incassato oltre 7,5 milioni di voti alle primarie repubblicane: è "un dato scomodo per le forze anti-Trump" dentro lo stesso partito, che vorebbero impedire a tutti i costi allo showman d’ottenere la nomination. Anche se l’idea di tirare fuori un asso dalla manica alla convention, se il magnate ci arriva senza la maggioranza assoluta dei delegati, pare ormai tramontata.

Finora, non ci sono state tragedie. Ma Trump non annacqua le posizioni più drastiche e conflittuali. Sul palco d’un comizio, sempre in California, ha fatto salire familiari di vittime d’immigrati illegali: un modo per rafforzare il messaggio che i clandestini, specie i messicani, sono tutti criminali e che occorre alzare un muro lungo la frontiera con il Messico.

Ma la minaccia terroristica autoctona aleggia sempre sulla campagna. Dopo quelle di Rubio e Cruz, anche la campagna di Trump ha ricevuto una busta contenente polvere bianca, rivelatasi innocua, ma che evoca lo spettro delle buste all’antrace che fecero vittime tra il 2001 e il 2002. (Il Fatto Quotidiano - gp)

venerdì 29 aprile 2016

Usa 2016: la conta dei delegati, Hillary al 91%, Trump al 77%

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 29/04/2016

Dopo le primarie dello Stato di New York e di cinque Stati della Costa Est, Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania e Rhode Island, le posizioni, verso le convention di luglio e le nomination, sono ormai delineate in modo molto netto: Hillary Clinton è sicura di raggiungere la maggioranza dei delegati (e lo ha pure ammesso il suo rivale Bernie Sanders, che resta però in corsa per incidere sulla linea del partito alla convention); Donald Trump può riuscirci, perché i suoi rivali Ted Cruz e John Kasich si sono dimostrati piuttosto inconsistenti nelle ultime consultazioni.

Facciamo il punto sulla situazione: Hillary Clinton ha oltre il 91% dei delegati necessari a garantirsi matematicamente la nomination democratica; Donald Trump supera i tre quarti di quelli necessari per la nomination repubblicana – 77% per la precisione - e, per la prima volta, ha più delegati di tutti i suoi rivali insieme. La prospettiva di arrivare alla convention repubblicana senza che nessuno abbia già vinto resta reale (‘convention aperta’, o ‘brokered convention’), ma s’è un po’ affievolita rispetto a metà aprile.

La differenza fra i due partiti è nel meccanismo dei super-delegati che avvantaggia l’ex first lady: sono figure di spicco del partito democratico che possono scegliere chi appoggiare.

Queste, comunque, le posizioni – fonte, il sito uspresidentialelectionnews.com -, prima dei prossimi appuntamenti (si ricomincia dall’Indiana il 3 maggio):

Democratici: delegati alla convention 4.765, delegati già assegnati 3.030, super-delegati già pronunciatisi 559, delegati da assegnare 1.176, maggioranza necessaria 2.383.
Hillary Clinton s’è finora assicurata 1.663 delegati popolari e 520 super-delegati ed è a 2.183; Bernie Sanders ha conquistato 1.367 delegati popolari, ma ha solo 39 super-delegati ed è a 1.406.

Hillary ha vinto in 23 Stati: in ordine alfabetico Alabama, Arizona, Arkansas, Connecticut, Delaware, Florida, Georgia, Illinois, Iowa, Louisiana, Maryland, Massachusetts, Mississippi, Missouri, Nevada, New York, North Carolina, Ohio, Pennsylvania, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia, oltre che nei territori delle Isole Samoa e delle Marianne. Sanders ha vinto in 17 Stati: Alaska, Colorado, Hawaii, Idaho, Kansas, Maine, Michigan, Minnesota, Nebraska, New Hampshire, Oklahoma, Rhode Island, Utah, Vermont, Washington, Wisconsin, Wyoming.

Repubblicani: delegati alla convention 2.472, già assegnati 1.861, da assegnare 611, maggioranza necessaria 1.237.

Donald Trump ne ha 954, Ted Cruz 562, Marco Rubio 171, John Kasich 153; 9 non sono vincolati. Ben Carson ne ha ancora 8, Jeb Bush 4 – la somma dei rivali del magnate dell’immobiliare è 907 -.
Trump ha vinto in 26 Stati: Alabama, Arizona, Arkansas, Connecticut, Delaware, Florida, Georgia, Hawaii, Illinois, Kentucky, Louisiana, Maryland, Massachusetts, Michigan, Mississippi, Missouri, Nevada, New Hampshire, New York, North Carolina, Pennsylvania, Rhode Island, South Carolina, Tennessee, Virginia, Vermont, oltre che alle Marianne. Cruz ha vinto in 9 Stati: Alaska, Idaho, Iowa, Kansas, Maine, Oklahoma, Texas, Utah, Wyoming, oltre che a Guam, e gli sono stati assegnati i delegati del Colorado. Rubio ha vinto in Minnesota, nel Distretto di Columbia e a Portorico. Kasich ha vinto in Ohio. (gp)

giovedì 28 aprile 2016

Usa 2016: Clinton, è fatta; Trump, quasi, ma rivali non mollano

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 28/04/2016, attualizzando il pezzo già scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/04/2016

A due mesi dall’inizio delle primarie, il 1° febbraio, con le assemblee nello Iowa, ed a poco meno di 200 giorni dall’Election Day, l’8 Novembre, la corsa alla nomination democratica è praticamente finita, con la vittoria di Hillary Clinton, e quella alla nomination repubblicana è nettamente guidata da Donald Trump (ma non è ancora decisa).

Dopo le sconfitte a New York il 19 aprile e in quattro dei cinque Stati della Costa Est al voto il 26, Bernie Sanders, il rivale della Clinton, ammette di avere perso: non può più avere la maggioranza dei delegati necessaria per ottenere la nomination, né può impedire a Hillary di raggiungerla.

Così, il senatore del Vermont inizia a sfoltire la propria squadra, tagliando centinaia di persone, ma non lascia la corsa: vuole restare in pista fino alla fine per innescare alla convention un dibattito sulla linea del partito e riuscire a modificarla. In un’intervista al NYT, spiega le sue intenzioni: "Voglio vincere il maggior numero di delegati possibile”, concentrando le forze dove necessario, prossima tappa l'Indiana, poi il test della California il 7 giugno.

Invece, gli avversari di Trump, sconfitti a New York e poi in tutti e cinque gli Stati della Costa Est, Connecticut, Rhode Island, Pennsylvania, Delaware, Maryland, non mollano, anzi a partire dall’Indiana coordinano le loro campagne con una sorta di patto di non aggressione Stato per Stato. Ted Cruz, senatore del Texas, e John Kasich, governatore dell’Ohio, sono messi alle corde, ma non ancora al tappeto.

L’obiettivo è d’impedire a Trump di raggiungere la maggioranza dei delegati necessaria a garantirsi la nomination: il duo s’abbarbica alla speranza d’arrivare alla convention di luglio coi giochi ancora aperti, anche se ormai un potenziale elettore repubblicano su due sta con Trump e se il 70% non vuole che manovre di palazzo alterino le indicazioni delle urne.

A conferma che non si sente fuori gioco, Cruz forza i tempi della scelta del suo vice: indica che, se sarà candidato alla presidenza, correrà in tandem con Carly Fiorina, ex ad di Hp, ed ex candidata alla nomination, ritiratasi dopo l’inizio delle primarie. E la Fiorina, alla sua prima sortita nel ruolo, avverte che, se la nomination andrà a Trump, “avremo quattro anni di Hillary alla Casa Bianca”.

Il magnate dell’immobiliare reagisce a modo suo: prende in giro Cruz per la sua scelta –“E’ il primo che si sceglie un vice dopo avere matematicamente perso la nomination”- e, già che c’è, riesuma toni sessisti per attaccare l’ex first lady, suscitando la reazione di Mary Pat, moglie del governatore del New Jersey Chris Christie, che, in un video divenuto virale, sgrana gli occhi ascoltandolo.

Eppure, Trump vorrebbe indossare l’abito presidenziale e prova a presentarsi come “unificatore". E sciorina le linee della sua politica estera ‘muscolare’: l’America prima di tutto, i miliziani jihadisti hanno i giorni contati, l’arsenale nucleare va ammodernato, un mix inquietante d’isolazionismo e interventismo, dove sono tutti nemici, il Califfo, la Russia, la Cina, persino l’Europa che non paga abbastanza per la propria sicurezza.

A intralciare la corsa di Trump, ma anche quella di Hillary, possono sempre essere gli scheletri che escono dall’armadio – in Italia, si parlerebbe di “giustizia ad orologeria” -: sullo showman, s’è già abbattuta una tegola giudiziaria da 40 milioni di dollari (e da miliardi di imbarazzi). Il processo sulla discussa e chiacchierata Trump University si farà e inizierà in autunno: l’imprenditore, il cui ateneo avrebbe truffato gli studenti per sei anni – ma lui nega ogni addebito -, potrebbe dovere testimoniare nel pieno della campagna presidenziale.

In termini di delegati, la Clinton ne ha ora circa 2.170, con Sanders, poco sotto i 1.400: per vincere, ne servono 2.383. Trump ne ha oltre 950, stacca di quasi 400 Cruz e per la prima volta ne ha più della somma dei suoi rivali, ma gliene servono altri 300 per arrivare ai 1.237 necessari (e quelli ancora in palio sono solo 565).

L’ex first lady, favorita dal meccanismo democratico dei ‘super delegati’, i maggiorenti del partito in genere a lei legati, è oltre il 90% del cammino; lo showman oltre i tre quarti. La partita a due dell’8 Novembre è cominciata e durerà sei mesi, Trump University – e altri scheletri - permettendo. (gp)

Migranti: cent'anni dopo la Grande Guerra, scontro al Brennero tra Italia e Austria


Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/04/2016

Cent’anni dalla Grande Guerra; e siamo ancora lì, noi e gli austriaci, che vogliono tirare su barriere al Brennero e mandare l’esercito a proteggere i confini. Echi anacronistici d’un tempo perduto? Sì, se l’inefficienza dell’Unione nel gestire il flusso dei migranti e la virulenza dei populismi xenofobi non dessero concretezza ai fantasmi.

Di ritorno dal G5 di Hannover, dove ha giocato al Grande Leader, seduto con la Merkel, Hollande e Cameron ad ascoltare il presidente Obama che dava lezione d’integrazione e di solidarietà, Renzi si ritrova ad affrontare la grana del Brennero, politicamente peggiorata dai risultati del primo turno delle presidenziali austriache, dove gli xenofobi hanno avuto un largo successo e i partiti di governo non hanno fatto insieme un quarto dei voti.

Sotto pressione, la coalizione al potere a Vienna, popolari e social-democratici, insiste a inseguire gli xenofobi sul loro terreno e porta avanti la scelta della barriera al Brennero. Ieri, sono stati presentati piani e disegni: il progetto dovrebbe essere operativo a giugno. La frontiera tra Italia e Austria diventa, anzi ridiventa, un secolo dopo, un ventre molle di questa Europa, come Ventimiglia, Calais, Idomeni, Lampedusa, Lesbo.

Renzi dice: “Così si violano sfacciatamente le regole'” dell’Unione e di Schengen, l’accordo che garantisce libera circolazione alle persone nell’Ue. Ma, in realtà, gli austriaci proprio al rispetto delle regole si richiamano: i controlli sui migranti devono avvenire alle frontiere esterne dell'Unione, con l’accoglienza di chi ha diritto all’asilo e il respingimento degli altri. 

Il ripristino dei controlli al Brennero sarebbe proprio funzione delle carenze italiane: migranti che arrivano in Austria senza essere stati identificati e ‘gestiti’. Vienna è accomodante: “Tutto dipende – dice- dalla collaborazione italiana”. Roma nega lacune e inefficienze. Ma la pretesa austriaca d’effettuare loro controlli sul territorio italiano appare inaccettabile: “non ve n’è giustificazione”, dice il ministro degli Esteri Gentiloni, Oggi, a Roma, i ministri dell’Interno Alfano e Sobotka cercheranno un’intesa.
 
In un chiarimento, spera il commissario all’emigrazione Avramopoulos, che non è ben disposto verso l’Austria. L'Italia cerca sponde nell’Unione: ha appena presentato un pacchetto di proposte, fra cui la riforma del diritto di asilo, che hanno trovato buona accoglienza a Bruxelles, ma freddezza, almeno per quanto riguarda le modalità di finanziamento, a Berlino. Mentre le istanze dell’Austria echeggiano quelle dei Paesi dell’Europa dell’Est contrari all’accoglienza e pure quelle delle quinte colonne xenofobe presenti anche nei Paesi più inclini a un’azione europea, con Salvini che non ha ancora finito di inneggiare ai risultati elettorali austriaci ed è già a Filadelfia a stringere la mano a Trump, coppia ‘in pectore’ di presidente e premier di muro e di ruspa.

Naturalmente, i problemi s’intrecciano. Nell’Ue, maggio è il mese dei confronti sull’economia e già riaffiorano le tensioni sui conti tra Germania e Italia, tra l’Eurogruppo e la Grecia. La Bundesbank riapre la polemica della flessibilità, per la serie “chi e causa del suo debito pianga se stesso e non cerchi di scaricarlo sugli altri”. E migranti, Schengen ed asilo rischiano di passare in secondo piano: al Brennero nevica e le code dei tedeschi che scendono in vacanza al Sud sono lontane due mesi.

mercoledì 27 aprile 2016

Usa 2016: primarie; Hillary 4-1 vede nomination, Trump 5-0 quasi

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 27/04/2016 e poi, in altra versione, per il blog de Il Fatto Quotidiano lo stesso giorno

Donald Trump gioca a ‘pigliatutto’, Hillary Clinton ne vince quattro e lascia solo il piccolo Rhode Island a Berne Sanders: lungo il percorso dell’Acela Express, il ‘frecciarossa d’America’ che collega tutta la Costa Est, i due battistrada nelle corse alla nomination repubblicana e democratica s’avvicinano entrambi al traguardo: l’ex first lady può arrivarci senza attendere la California il 7 giugno; il magnate dell’immobiliare dovrà, invece, darci sicuramente dentro fino a quel giorno..

I risultati di Connecticut, Rhode Island, Pennsylvania, Delaware e Maryland, scendendo da Nord a Sud, non sorprendono e creano una linea di continuità con quelli di New York una settimana fa, dove Trump e la Clinton avevano vinto molto nettamente.

In termini di delegati, la Clinton ne ha ora circa 2.150 e quasi doppia Sanders, poco sopra i 1.300: ne servono 2.383 per vincere. Trump è a 950 circa e per la prima volta ne ha più della somma dei suoi rivali, ma gliene servono 1.237 (e quelli in palio di qui in avanti sono solo 565). Hillary, che è favorita dal sistema democratico dei ‘super delegati’, maggiorenti del partito in genere a lei legati, è oltre il 90% del cammino; Donald è oltre i tre quarti.

Trump, cui un sondaggio attribuiva martedì per la prima volta oltre metà delle preferenze dei potenziali elettori repubblicani, vince ovunque: alla festa davanti alla Trump Tower, si definisce il "candidato in pectore" e afferma che i suoi rivali Ted Cruz e John Kasich “devono proprio andare a casa”.

I due hanno stipulato, dal voto di maggio in Indiana, una sorta di patto di non aggressione Stato per Stato, con l’obiettivo d’impedire a Trump d’ottenere la maggioranza dei delegati, così da arrivare alla convention di Cleveland a luglio con una situazione ancora fluida.

La Clinton, che, con il successo di New York s’era lasciata alle spalle otto sconfitte consecutive negli Stati dell’America bianca, su Grandi Laghi e Montagne Rocciose,  vince bene nella popolosa Pennsylvania, il piatto forte di questo martedì, nel Delaware del vice-presidente Joe Biden e nel Maryland, la spunta dopo un testa a testa nel Connecticut e lascia a Sanders il Rhode Island.

Dal palco della vittoria a Filadelfia, città che ospiterà a luglio la convention democratica, dice che tornerà con la nomination in tasca, lancia l'appello all'unità del partito e propone la sfida al magnate dell’immobiliare. Del resto, il confronto tra l’ex first lady e lo showman è sempre più l’epilogo probabile di questa corsa, anche se manca la certezza aritmetica.

Lo indicano gli attacchi reciproci, sempre più ripetuti e insistiti. Dal suo quartier generale, Trump dice che "se Hillary fosse un uomo non prenderebbe più del 5% dei voti"; e ripete che la Clinton presidente "sarebbe orribile”: “Pensate a Bengasi, alla Siria … Non ha forza per fronteggiare la Cina". Mentre di se stesso dice, indossando l’abito presidenziale, "sono un unificatore".

Pure l’attenzione di Hillary è ormai più rivolta a Donald che a Bernie, lo sfidante nel partito, cui vanno i ringraziamenti e le congratulazioni per la bella partita: "Uniremo il nostro partito per vincere queste elezioni", l’8 Novembre, l’Election Day, dice dal palco di Filadelfia. L’avversario, per lei, non è più il senatore del Vermont, ma il battistrada repubblicano. (fonti vv – Gp)

martedì 26 aprile 2016

Usa 2016: Trump vede Salvini, auguri reciproci da presidente e premier

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 26/04/2016 

Ai Matteo d’Italia, piace la campagna elettorale negli Stati Uniti. Uno, Renzi, va a New York come premier per la firma dell’accordo in sede Onu contro il cambiamento climatico, ma cambia casacca e, da leader del Pd, fa visita a Bill Clinton e telefona a Hillary, cui dichiara il proprio appoggio. L’altro, Salvini, va a Filadelfia come leader della Lega e non deve sdoppiarsi: ha un colloquio di 20’ con Donald Trump, a margine dell'ultimo comizio dello showman in vista delle primarie di oggi in Pennsylvania.

"Matteo, ti auguro di diventare presto premier in Italia": Donald ricambia l'augurio che il segretario della Lega gli fa di essere eletto l’8 novembre presidente degli Stati Uniti. Salvini s’è quindi seduto tra i fan del magnate dell’immobiliare, tenendo in mano come tutti un cartello blu con lo slogan "Trump. Make America Great Again".

Al termine del colloquio Trump e Salvini si sono concessi sorridenti ai fotografi. L'evento elettorale si svolgeva nell'arena sportiva di Mohegan Sun Area at Casey Plaza, nella località di Wilkes-Barre, ai sobborghi di Filadelfia. Salvini era accompagnato da Amato Berardi, presidente del Nia-Pac (National Italian American Political Action Committee), un'organizzazione il cui scopo primario è di promuovere le tradizioni, la lingua e la cultura italiana negli Stato Uniti.

Al centro del colloquio tra Salvini e Trump – ha poi raccontato proprio Berardi -, ci sono stati l'economia e soprattutto l'immigrazione, prioritario in Europa come negli Stati Uniti. Proprio sull'immigrazione si sarebbe registrata piena sintonia tra Salvini e Trump, d'accordo sulla necessità di sviluppare da una parte e dall'altra dell'Atlantico politiche per aiutare il più possibile nei Paesi d'origine le popolazioni che fuggono dalla fame e dalla povertà.

L’incontro di Trump con Salvini ha avuto echi negativi sulla stampa americana. Il Daily Beast spara a zero: "Il politico italiano più razzista arriva a Filadelfia per aiutare Trump", titola il sito fondato da Tina Brown. "Il fan di Mussolini, Matteo Salvini, è venuto a fare campagna per il tycoon", prosegue, sostenendo che quello tra i due è "un pericoloso rapporto tra estremisti". (ANSA - gp).

G5: Hannover, Obama vuol fare l'europeo, Renzi si sente un pezzo grosso

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/04/2016

 Non è chiaro che cosa sia, il G5 di Hannover: se la nascita d’una nuova sigla dell’ordine mondiale; o una tappa del lungo addio di Barack Obama a fine doppio mandato; o uno scambio d’opinioni e d’informazioni, per fare il punto con gli alleati nel marasma di problemi che America ed Europa condividono, senza riuscire a risolverne nessuno, il Califfo, la Siria, la Libia, l’Ucraina e la Russia, il flusso dei migranti, le grane economiche e commerciali.

Prima a Londra con David Cameron, poi in Germania con Angela Merkel, il presidente Obama si propone in versione paladino dell’Unione europea e della sua coesione: vuole che la Gran Bretagna resti nell’Ue; ed elogia le scelte coraggiose sui migranti della cancelliera tedesca, proprio quando l’opzione della solidarietà sembra appannarsi. Ma soprattutto Obama chiede ai partner più impegno nella lotta alla minaccia dell’integralismo: insomma, il presidente ‘europeista’ echeggia i messaggi che arrivano dalle campagne elettorali democratica e repubblicana negli Stati Uniti, “Gli europei paghino di più per la sicurezza comune”, in termini di spese e d’impegno.

Che il G5 – gli Stati Uniti e i quattro Grandi europei, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia – sia un nuovo protagonista dell’ordine mondiale è lettura pretestuosa, anche se il premier Renzi ne trae il messaggio altisonante che “l’Italia ha riconquistato una centralità internazionale”. Dal castello nell’area di Hannover dove avviene il consulto, escono più appelli che decisioni operative, a parte l’annuncio dell’invio in Siria di 250 altri militari delle forze speciali americane, per dare un impulso alla lotta contro gli jihadisti e migliorare l’addestramento delle forse in campo contro il Califfo.

Ma non si può neppure ridurre la riunione a una tappa del giro d’addio di Obama: di qui a gennaio, quei cinque si rivedranno al G7 in Giappone, al G20 in Cina e al vertice della Nato in Polonia, solo per restare agli appuntamenti già fissati. Forse, c’è anzi bisogno di ‘sincronizzare gli orologi’ verso quei confronti con interlocutori invadenti, come la Cina e la Russia, ma anche con alleati inquieti, come la Polonia e i Paesi dell’ex blocco comunista.

Per l’Italia, il Vertice di Hannover, ‘intercettato’ non a caso dalla richiesta di assistenza della Libia, per tutelare le risorse petrolifere, conta soprattutto per il pieno sostegno degli americani agli europei contro la migrazione illegale (e c’è pure la disponibilità a mobilitare la Nato, già presente nell’Egeo, contro i trafficanti di persone).

Obama dice: "Un’Europa forte e unita è una necessità per tutti noi”. E dà dell’integrazione quella visione positiva che gli europei non riescono più ad avere: “Nel XX Secolo, questo continente viveva in costante conflitto, la gente moriva di fame, le famiglie venivano separate. Ora, la gente vuole venire qui esattamente per quello che avete creato: vi sono genitori pronti a traversare il mare per dare ai propri figli cose che noi non dobbiamo dare per scontate".

L’altro lato del messaggio americano è il monito all'Europa ad aumentare gli sforzi per la sicurezza: "L'Europa è stata a volte troppo noncurante rispetto alla propria difesa", afferma Obama, esortando gli alleati della Nato ad aumentare le spese per la difesa fino a raggiungere l'obiettivo, concordato, del 2% del Pil. E il presidente preannuncia che rinnoverà l'appello al Vertice della Nato a Varsavia, a luglio.

Affiora anche la speranza di condurre in porto, entro la fine della sua presidenza, il Ttip, cioè l’accordo di libero scambio transatlantico: i negoziati vanno avanti, ma c’era la sensazione che l’intesa fosse partita rinviata al prossimo presidente degli Stati Uniti. Invece, Obama rilancia: è evidente che gli farebbe piacere chiudere il dossier commerciale atlantico, dopo avere suggellato quello pacifico.

Austria: la vittoria degli xenofobi una lezione (di troppo?) per l'Europa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/04/2016 

Il giorno dopo, l’Europa rimurgina sulla lezione di populismo impartitale dall’Austria: pulsioni xenofobe e nazionaliste si contrastano solo con azioni tempestive ed efficienti, là dove la gente percepisce crisi e insicurezza; e i partiti tradizionali non recuperano posizioni riconcorrendo gli xenofobi sul loro terreno, perché se la scelta è tra l’originale e un’imitazione gli elettori scelgono l’originale.

Così, la decisione del governo austriaco di ‘grande coalizione’, i social-democratici del premier Werner Feyman e i popolari, di scimmiottare l’estrema destra anti-immigrati erede, progettando barriere come i Paesi balcanici e dell’Europa dell’Est che vi sono avvezzi ri rivela perdente, oltre che sbagliata.

Il Partito della Liberta, Fpoe, la formazione fondata negli Anni Novanta da Jorg Haider, scomparso in un incidente nel 2008, ha stravinto il primo turno delle presidenziali. Per la prima volta dalla fine della Secondo Guerra Mondiale nessuno dei due partiti alternatisi al potere dal 1945, i popolari e i social-democratici, raggiunge il secondo turno.

Se l’internazionale euro-scettica continua a esultare, a destra – e lo si capisce, fra xenofobi -, ma pure a sinistra – e, sinceramente, non ha senso -, le forze politiche tradizionali sono sul chi vive: Matteo Renzi parla di “campanello d’allarme” e invita l’Ue a investire contro i populismi; ma campanelli ne sono già suonati molti negli ultimi anni e questo pare più un gong fragoroso.

Al ballottaggio del 22 maggio vanno il vincitore del primo turno Norbert Hofer, ingegnere, 45 anni,  che ha avuto il 36,4% dei voti, e il verde Alexander van der Bellen (20,4%), economista di 72 anni che tra il 1997 e il 2008 aveva guidato gli ecologisti austriaci, senza mai ottenere un risultato così positivo. Resta fuori la candidata indipendente Irmgard Griss, che pure sorprende tutti con il 18,5%.
I candidati dei due partiti tradizionali, il socialdemocratico Rudolf Hundstorfer e il popolare Andreas Khol, hanno racimolato poco più dell’11% ciascuno. Il cancelliere Feyman ne deduce che “il governo deve lavorare di più” e, magari, meglio. E resta da vedere se, a questo punto, l’alleanza tra perdenti non subirà incrinature.

"Questo è l'inizio di una nuova era politica", commenta il leader Fpoe Heinz-Christian Strache, che s’è tenuto fuori dalle presidenziali per potere guidare il partito alle politiche nel 2018 (i sondaggi, oggi, gli accreditano un terzo dei voti). Per Strache, "una cosa è ora chiara: l’ampia e massiccia insoddisfazione” popolare per l’azione del governo.

E lo stesso Hofer, definito "la faccia amichevole dell'Fpoe", uno che ama farsi vedere in pubblico con una pistola Glock (‘made in Austria’), ha già minacciato di licenziare il governo, se non riuscirà a fronteggiare gli arrivi dei migranti.

Ora, Hofer corre un po’: primo perché la carica di presidente in Austria è meramente simbolica, più o meno come in Italia, e, una volta eletto, non potrà certo fare il bello e il cattivo tempo; e secondo perché arriva in testa al ballottaggio, ma non ha ancora vinto, essendo possibile il formarsi alle urne d’una coalizione anti-xenofobi. Un po’ l’equivalente del ‘riflesso repubblicano’ che in Francia impedisce l’elezione a presidente d’un, o una, Le Pen.

L’immigrazione e il rapporto tra il Nord e il Sud dell’Unione europea, e anche tra l’Ovest e l’Est, essendo l’Austria sempre in posizione di cerniera, sono i temi della rottura tra forze al governo ed opinione pubblica, in un Paese che nel 2015 ha gestito 90 mila domande di asilo – sarebbe come se l’Italia ne avesse trattato mezzo milione -. Ma i primi atti del cancelliere Feyman dopo il voto fanno temere che la lezione dell’originale e della copia non sia stata compresa: il governo, che ha già sospeso l’applicazione degli accordi di Schengen e progettato una barriera al passo del Brennero, sul confine con l’Italia, s’appresta a inaugurarla mercoledì e a dare a un giro di vite ulteriore a tutte le frontiere.

Usa 2016: repubblicani, Cruz e Kasich coalizzati contro Trump

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 26/04/2016 e poi rielaborato, con altri post, per Il Fatto Quotidiano del 27/04/2016

I due rivali superstiti di Donald Trump per la nomination repubblicana, Ted Cruz e John Kasich, decidono di coordinare le strategie elettorali per cercare di contrastare il magnate dell’immobiliare, largamente avanti nella corsa. In particolare, scrive la Bbc online, Cruz rinuncia a fare campagna nell’Oregon e nel New Mexico, mentre Kasich gli lascia campo libero in Indiana: scelte un po’ strane, perché l’Indiana è vicino all’Ohio dove Kasich è governatore e il New Mexico è confinante con il Texas, di cui Cruz è senatore.

La notizia arriva mentre si apprestano ad andare al voto cinque Stati della Costa Est, da Nord a Sud Connecticut, Rhode Island, Pennsylvania, Delaware e Maryland, sulla carta favorevoli a Trump, fra i repubblicani, e a Hillary Clinton – almeno la Pennsylvania, il più popoloso –, fra i democratici.

L'iniziativa di Cruz e Kasich non preoccupa Trump, che giudica i suoi rivali "assolutamente disperati" e "matematicamente morti". La prima cosa è probabilmente vera; la seconda no, perché, se il senatore e il governatore non sperano più di raggiungere la soglia di 1.237 delegati necessaria per garantirsi la nomination, neppure lo showman è certo di arrivarci. E allora i giochi potrebbero riaprirsi, alla convention di Cleveland a luglio.

I soldi dei Koch in bilico - La campagna continua a riservare sorprese e a testimoniare la diffidenza dei conservatori più tradizionali per una candidatura Trump: Charles Koch, miliardario da sempre sostenitore insieme al fratello David del partito repubblicano, ha lasciato intendere, in una intervista alla Abc, di essere aperto all'ipotesi di appoggiare Hillary Clinton, che come presidente potrebbe essere meglio dei repubblicani in lizza.

In particolare, Charles Koch ha definito "terrificante" il piano di Trump per bandire i musulmani dagli Usa, che "ricorda la Germania nazista"; ed è pure “spaventosa”, a suo avviso, la proposta di Cruz di bombardare a tappeto i territori controllati dal sedicente Stato islamico.

Contrariamente a quanto avvenuto altre volte, i fratelli Koch, che valgono 90 miliardi di dollari, grazie all'impero costruito su società legate all'industria del petrolio, non hanno finora contribuito con un dollaro quest’anno al partito repubblicano o ai suoi candidati.

Hillary ha tuttavia fatto sapere su Twitter di non essere interessata al sostegno di persone che negano il cambiamento climatico e tentano di rendere più difficile il voto alla gente: i Koch non sono citati in modo diretto, ma appare evidente l'allusione alla loro opposizione alle politiche anti cambiamento climatico e al loro appoggio all'adozione di regole più severe sui documenti elettorali.

Le voci sui vice: Fiorina per Cruz, Patrick (e molti altri) per Hillary – Continua la ridda di voci sulla scelta dei vice: Ted Cruz ha fatto la sua lista e in cima ci sarebbe Carly Fiorina, ex ad della Hp, fino a qualche settimana or sono l’unica donna in corsa per la nomination repubblicana. La notizia viene dalla campagna del senatore e suona soprattutto conferma che Cruz non intende farsi da parte e vuole arrivare alla convention.

Ad Hillary Clinton, che sta facendo la sua lista, viene invece attribuito ogni giorno un vice diverso: adesso, il NYT parla dell'ex governatore del Massachusetts, Deval Patrick, afroamericano, 59 anni, avvocato nel campo dei diritti civili. Patrick succedette nel 2007 a Mitt Romney e rimase in carica per due mandati fino al 2015: è stato il primo e finora unico governatore nero del Massachusetts.

Sempre secondo il NYT, nella rosa dei nomi di Hillary ci sono anche Tim Kaine, Sherrod Brown e Corey Booker, rispettivamente senatori di Virginia, Ohio e New Jersey, oltre ai ministri del Lavoro Thomas Perez e dell'edilizia residenziale Julian Castro, entrambi ispanici. Il giornale non cita invece Elisabeth Warren, senatrice del Massachusetts, data per favorita da altri media. (ANSA – gp)

lunedì 25 aprile 2016

Usa 2016: primarie, Hillary ha domani prima chance di mandare Sanders ko

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 25/04/2016

E’ la vigilia del primo round di queste primarie in cui, a cento giorni dal loro inizio, uno degli aspiranti alla nomination può assestare il colpo del ko: Hillary Clinton, se facesse suo domani, martedì 26 aprile, tutto il bottino dei delegati dei cinque Stato della Costa Est dove si vota, da Nord a Sud Connecticut, Rhode Island, Pennsylvania, Delaware, Maryland, supererebbe la soglia della maggioranza dei delegati necessaria – 2382 - per avere la garanzia della nomination democratica.

Nella giornata di domani, infatti, sono in palio 462 delegati democratici e 172 repubblicani –: Hillary parte da 1.948 e potrebbe superare i 2.400; mentre, fra i repubblicani, Donald Trump, che è a 845, se anche se li aggiudicasse tutti, non raggiungerebbe la soglia, che nel suo caso è 1.237.

Comunque, l’ipotesi che la Clinton raggiunga il traguardo domani sera è estremamente remota, essendo i candidati ripartiti proporzionalmente. Meno remota è invece la possibilità che il suo rivale Bernie Sanders consideri la corsa finita, non avendo più chances, proprio per via del proporzionale, di raggiungere e scavalcare Hillary.

L’ultimo Super-Martedì di queste primarie sarà il 7 giugno, quando si voterà in California, lo Stato più popoloso dell’Unione, che ha un ‘tesoretto’ di 564 delegati democratici e 172 repubblicani. A quel punto, i giochi per le convention saranno fatti: quella repubblicana a Cleveland, nell’Ohio, dal 18 al 21 luglio, e quella democratica a Filadelfia, in Pennsylvania, dal 25 al 28 luglio.

Se la corsa democratica è decisamente meno vivace che a New York, anche se Sanders ha chances di successo, ad esempio nel Connecticut e nel Rhode Island, quella repubblicana conosce un calo d’interesse perché il senatore del Texas Ted Cruz fatica a riprendersi dalla batosta newyorchese e non ha certo nel New England e sulla Costa Est le sue roccaforti.

Trump, comunque, gli sta addosso. I due riescono pure a litigare sui bagni per i transgender: Cruz critica Trump perché si oppone a una legge della North Carolina che impone ai transessuali di usare le toilettes corrispondenti al sesso indicato nel loro atto di nascita. Per il senatore, “Uomini adulti, e sconosciuti, non dovrebbero stare soli in una toilette con le ragazzine … E’ senso comune elementare”.

Per Trump, invece, tutti devono essere liberi di usare il bagno che vogliono, come accade nella sua Trump Tower a New York. Trump, che si esprimeva sulla Nbc, s’è anche detto contrario a creare toilettes ‘non gendered’, perché ciò sarebbe “in qualche modo discriminatorio” e, per di più, “incredibilmente costoso per le imprese e per il Paese”.

Al magnate dell’immobiliare, infine, non piace che l’effigie del presidente Andrew Jackson scompaia dalle banconote da 20 dollari, sostituita da quella di un’eroina della lotta contro la schiavitù Harriet Tubman: “La Tubman è fantastica, ma io vorrei che rimanesse l’effigie di Jackson, che ha una grande storia”. (fonti vv - gp)

Austria: presidenziali, xenofobi destra avanti, fanno festa i Salvini d'Europa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/04/2016 

L’internazionale xenofoba dell’Unione europea celebra il successo del suo candidato al primo turno delle presidenziali austriache, in una giornata segnata da tensioni al Brennero, dove i centri sociali italiani, che manifestano contro la chiusura della frontiera e l’erezione di una barriera, si scontrano con la polizia austriaca.

Fanno festa, quasi all’unisono, Salvini in Italia e la Le Pen in Francia, quelli che vogliono uscire dall’Ue in Gran Bretagna e Alternativa per la Germania, le destre anti-Islam in Belgio e Olanda: l’Europa che dimentica errori ed orrori d’un passato non remoto. L’Europa solidale, invece, riceve l’elogio che Obama fa alla Merkel, reduce da una missione in Turchia dove, secondo i suoi critici, ha però mostrato “una solidarietà a gettone”, mostrandosi vicina a Erdogan e non criticando il muro dell’Austria.

In Austria, quella di Norbert Hofer del Partito della Libertà, con quasi il 37% dei voti, potrà anche rivelarsi, al ballottaggio, una vittoria di Pirro. Ma il risultato odierno, il migliore mai registrato, è una sconfitta senza appello per i due maggiori partiti austriaci, il popolare e il socialdemocratico, i cui candidati Andreas Kohl e Rudolf Hundstorfer si attestano poco sopra l’11% e restano fuori dal secondo turno. A contendersi la seconda piazza utile per sfidare Hofer sono il verde Alexander van der Bellen (21% nelle proiezioni) e la candidata indipendente Irmgard Griss (19%): alla fine, la spunta il verde.

La campagna elettorale s’è giocata quasi esclusivamente su due temi: l’immigrazione e il rapporto tra Nord e Sud dell’Europa, come pure tra l’Europa centrale e quella orientale: su entrambi i fronti, l’Austria è in una posizione di snodo, tra gli inviti alla solidarietà che vengono, o almeno venivano, dalla Germania, la richiesta di condivisione dell’accoglienza che sale dal Sud e il no alla solidarietà che viene dall’Est.

L’Austria non è una repubblica presidenziale e, quindi, i risultati non avranno riflessi immediati sulla ‘grande coalizione’ tra popolari e socialdemocratici al governo. Le elezioni politiche sono previste nel 2018, ma i sondaggi, che attribuiscono alla destra xenofoba un terzo dei sondaggi, hanno già condizionato l’atteggiamento dell’Esecutivo sulla questione dei migranti.

La deriva di destra e xenofoba è nel dna austriaco, dai tempi di Haider, precursore dei leghismi e interprete d’uno spirito nazionalistico e isolazionista comunque presente nel Paese passato attraverso mezzo secolo di neutralità prima di approdare nell’Ue a comunismo ormai disgregato.

L’alternanza - e talora la coesistenza – al governo tra popolari e socialdemocratici ha caratterizzato l'Austria dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Oggi, formule e messaggi appaiono logori:  Hofer, Van der Bellen e Griss, che insieme fanno i tre quarti dei suffragi espressi, sono espressione di matrici culturali e ideologiche diverse da quelle cristiana e socialista.

Della tentazione del governo a cavalcare l’onda di destra, sono pure segno gli scontri tra dimostranti e polizia austriaca al valico di frontiera di Passo del Brennero durante la manifestazione indetta ieri dai centri sociali contro il ripristino dei controlli da parte dell'Austria. I manifestanti hanno iniziato la marcia dalla stazione ferroviaria in territorio italiano, hanno imboccato la statale verso il confine e hanno varcato la frontiera, sfilando con un salvagente e un canotto arancione –simboli dei drammi in mare- ed esibendo i passaporti color vinaccia. Una volta passata la frontiera, la polizia ha voluto respingere il corteo e ha fermato uno degli organizzatori della manifestazione, un attivista italiano.

domenica 24 aprile 2016

Usa 2016: Virginia, la Casa Bianca nelle mani di 200 mila ex detenuti

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 24/04/2016 

L’8 novembre, le elezioni presidenziali negli Stati Uniti potranno essere decise da qualche migliaio di pregiudicati cui il governatore della Virginia ha restituito il diritto di voto: Terry McAuliffe, ex presidente del partito democratico, molto vicino a Hillary Clinton, ha appena revocato una norma della Costituzione statale che risaliva alla Guerra Civile e ha restituito i diritti civili a oltre 200 mila ex detenuti, scavalcando il Parlamento statale a maggioranza repubblicana.

E i repubblicani hanno reagito ribadendo l’ opposizione al provvedimento, che sarebbe motivato, a loro avviso, da ragioni politiche: i detenuti nelle carceri della Virginia sono in stragrande maggioranza neri  e gli afro-americani, che tendenzialmente votano democratico, potrebbero avere un ruolo chiave in questo Stato, che tradizionalmente oscilla tra repubblicani e democratici.

L’illazione, raccolta e raccontata da Alessandra Baldini sull’ANSA, è che la Virginia potrebbe essere uno stato chiave l’8 novembre e potrebbe andare ai democratici proprio grazie i voti neri resi ora possibili dal governatore.

La decisione di McAuliffe, negli Anni Novanta tesoriere delle campagne elettorali di Bill Clinton, consente a un ex detenuto, che abbia scontato la sua pena e concluso il periodo di libertà vigilata, di registrarsi per il voto e di godere alcuni diritti civili, fra cui quelli elettorali.

La decisione di McAuliffe, che è stata preparata in gran segreto, è arrivata in una fase di polemiche in Virginia sulla razza, il sovraffollamento delle prigioni, il sistema giudiziario che penalizza i neri. La Virginia guidò la secessione del Sud durante la Guerra Civile e la sua capitale, Richmond, fu la capitale dei Confederati.

Solo due Stati in tutta l’Unione non impongono restrizioni di voto agli ex detenuti. La Virginia era, invece, era fra i quattro Stati, insieme a Florida, Kentucky e Iowa, che imponevano le più rigide. McAuliffe, naturalmente, smentisce di avere agito per motivi politici, ma piuttosto ideali. (ANSA – gp)

sabato 23 aprile 2016

Usa 2016: democratici, Sanders verso ritiro?, ipotesi ticket femminile

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Fomiche.net il 23/04/2016

Segnali di cedimento dalla campagna di Bernie Sanders, il senatore del Vermont che si definisce ‘socialista’ e che è stato rivale più tosto del previsto per Hillary Clinton: a Politico, Jeff Weaver, responsabile della campagna di Sanders, ha detto che il senatore “sosterrà il candidato democratico alla Casa Bianca, chiunque esso sia”.

La frase di Weaver assume un peso particolare e sa di rinuncia, anche perché viene pronunciata nell'imminenza del Martedì della East Coast: il 26, si vota in cinque Stati (da Nord a Sud, Connecticut, Rhode Island, Pennsylvania, Delaware, Maryland) e sono in palio 462 delegati democratici e 172 repubblicani.

Martedì, per la prima volta, Hillary Clinton ha la possibilità di raggiungere la sicurezza matematica della nomination democratica: se dovesse sommare ai suoi attuali 1.948 delegati tutto il bottino, supererebbe quota 2.383, la metà più uno dei delegati alla convention.

Ciò non avverrà, perché i delegati saranno ripartiti proporzionalmente, ma, se anche ne ottenesse solo la metà, Hillary sarebbe in vista del traguardo, che potrebbe raggiungere prima del 7 giugno, quando andrà alle urne la California con i suoi 546 delegati democratici (e 172 repubblicani).

A Politico, Weaver ha inoltre detto che Sanders “resterà nel Partito democratico, anche se dovesse perdere”. In realtà, sul sito del Congresso Sanders figura come indipendente, anzi come “il più longevo membro indipendente nella storia americana”.

Se il campo di Sanders pare apprestarsi a smobilitare, la Clinton sta invece pensando al suo vice, assicura John Podesta, capo della sua campagna. E non s’esclude un ticket tutto femminile, anche se l’opzione pare azzardata. Podesta spiega qual è la procedura: “iniziamo con un’ampia lista, poi restringiamo il campo; e sicuramente ci saranno donne prese in considerazione”. Hillary vuole, semplicemente, “la persona migliore”.

Sui media americani, circola il nome di Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts, ‘liberal’, che era attesa alle primarie l’anno scorso, ma non è mai scesa in campo e non s’è neppure schierata finora tra i due rivali democratici: un carattere forte, non proprio l’ideale per fare la ‘numero due’. (ANSA – gp)

Usa-Arabia Saudita: alleati scomodi, la sottile linea rossa tra affari e verità

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/04/2016

Sono forse le 28 pagine di maggior valore nella storia degli Stati Uniti. L’arte non c’entra: ci sono in ballo soldi veri, interessi concreti, 30 miliardi di dollari di commesse militari, 750 miliardi di investimenti sauditi negli Usa, un volume di scambi nel 2015 di oltre 40 miliardi di dollari,  più o meno in equilibrio (quasi 20 miliardi di esportazioni americane e 22 miliardi di esportazioni saudite). Senza contare l’intreccio di interessi finanziari che fanno da trama alle dietrologie sulle connivenze tra la famiglia Bush e la famiglia reale saudita.

I dati sono tutti approssimati alla cifra tonda. Ma danno un’idea di perché quelle 28 pagine che contengono informazioni sul coinvolgimento dei sauditi negli attacchi all’America dell’11 Settembre 2001 sono rimasti chiusi in una stanza del Campidoglio di Washington per 15 anni, senza mai essere resi pubblici.

E non è affatto detto che stiano per esserlo, nonostante la pressione crescente di senatori e deputati – loro, a quelle 28 pagine, hanno accesso, ma non possono divulgarle -. C’è la volontà dell’opposizione repubblicana d’imbarazzare l’Amministrazione democratica. Ma non è tutto qui: Hillary Clinton è favorevole a pubblicarle; Bernie Sanders pure, anche se precisa di non averle lette pur potendolo fare.

La questione è cresciuta di tono in parallelo con i passi avanti di una legge che permetterà, se sarà mai approvata, ai cittadini statunitensi di perseguire per danni un Paese straniero coinvolto in attacchi terroristici sul territorio americano o contro gli interessi americani: una legge su cui la Casa Bianca potrebbe porre il veto e che non piace neanche allo speaker della Camera, il repubblicano Paul Ryan. Il rischio boomerang è che cittadini stranieri si rivalgano poi sugli Stati Uniti per danni loro causati – e Washington non lesina missili, bombe e droni, con tutto il loro tragico corredo di ‘danni collaterali’ -.

Le 28 pagine hanno aleggiato, più pesanti di un macigno, oltre che più preziose che diamanti, sulla missione che il presidente Barack Obama, ora a Londra, ha appena compiuto a Riad e nel Golfo.

Le relazioni tra Stati Uniti e i tradizionali alleanti delle monarchie sunnite del Golfo non sono mai stati così turbolenti e contrastati. A Riad, dove ha incontrato re Salman, Obama voleva sanare il ‘vulnus’ dell’avere definito, in un’intervista, i sauditi degli alleati “scrocconi” – in buona compagnia, con mezza Europa -.

E le due parti volevano, ha detto ad Arab News il segretario del Consiglio di Cooperazione del Golfo Abdullatif Al-Zayani, “dimostrare l’inviolabilità delle relazioni tra gli Stati del Golfo e gli Usa e cementare la cooperazione”, sullo sfondo dell’accordo sul nucleare con l’Iran che lascia l’amaro in bocca ai sunniti e delle turbolenze nella Regione.

A leggere le dichiarazioni ufficiali, tutto bene, perché il collante dell’azione anti-terrorismo induce a fare finta di non vedere differenze e ambiguità: nei testi concordati, viene ribadito il massimo impegno contro la minaccia jihadista e c’è l’assicurazione che gli Stati uniti proteggeranno sempre i loro alleati.

Me le divergenze vi sono, sul coinvolgimento dell’Iran e dei suoi alleati contro il Califfato, sul futuro della Siria, sulla gestione del petrolio. Saleh Al-Khathllan, vice-presidente a Riad della Società nazionale per i diritti umani, sostiene che tutto il gran parlare del disaccordo tra sauditi e americani è un’esagerazione: i due Paesi, spiega, “hanno bisogno l’uno dell’altro”, perché “la sicurezza della Regione si regge sul sostegno americano” e perché “non si può combattere lo Stato islamico senza il supporto logistico dell’Arabia Saudita”.

Ma gli elementi di incomprensione che diventano diffidenza pesano. Il fallimento a Doha, all'inizio della settimana, del vertice sul petrolio tra i Paesi esportatori, attribuito a beghe per il potere fra principi sauditi, può lasciare relativamente indifferente l’America. Ma Obama ha l’obbligo di lanciare appelli per le riforme e mostrare corruccio per la situazione dei diritti umani in Arabia saudita.

Se il presidente si muove fra alleanze di cristallo, che possono incrinarsi al minimo urto, re Salman ha le sue preoccupazioni, interne e con i vicini, e ha strumenti per farle pesare, “se l’America si tira indietro” precisa Turki al Faisal, un membro della famiglia reale, ex ambasciatore a Washington. Riad può deviare verso Gran Bretagna e Francia commesse militari normalmente destinate agli Stati Uniti; e potrebbe disinvestire in America, temendo un congelamento dei suoi beni, anche se la mossa innescherebbe una crisi di sfiducia verso i capitali sauditi.

Alla fine, forse, non succederà nulla, perché Arabia Saudita e Stati Uniti “non possono andare avanti senza una partnership strategica”, dice Al-Zayani. Le 28 pagine resteranno segrete, la legge non passerà, Riad continuerà a comprare armi a Washington e i capitali rimarranno dove sono. Americani e sauditi condannati dall'intreccio di interessi a essere alleati, senza fidarsi gli uni degli altri.

venerdì 22 aprile 2016

Usa 2016: briciole d’Italia in campagna, Renzi anti-Trump, Sanders pro-sanità

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 22/04/2016 e integrato il 23/04/2016

Briciole d’Italia nella campagna elettorale negli Stati Uniti, dove si parla poco di Europa, e soltanto per chiedere che paghi di più per la sicurezza comune e la lotta al terrorismo, e meno dei singoli Paesi alleati. E, infatti, le briciole d’Italia ce le portano più gli italiani che i candidati.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi è a New York per sostenere la corsa dell’Italia a un seggio per due anni nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Prima di arrivare, Renzi, che a marzo ha già dato il suo endorsement a Hillary Clinton, ha lanciato una frecciata a Donald Trump dal Messico.

Parlando in un’Università, ha detto: “Anche in queste ore alcune campagna elettorali sono centrate sulla paura e sulla demagogia e voi ne sapete qualcosa. Qualcuno nella campagna americana sta immaginando di dipingere il vostro straordinario popolo con parole sbagliate e fuori luogo; immagina di potere continuare a costruire muri quando la nostra società ha bisogno di costruire ponti”.

Durante la missione a New York, poi, Renzi ha interferito a più riprese con la campagna elettorale. Intervistato su trump alla Cnn, ha detto: "Lo considero un uomo che investe molto nella politica della paura", citando le posizioni del magnate dell’immobiliare "sull'immigrazione, sui musulmani e anche sulle relazioni con gli europei". Il premier ha poi affermato di pensare che sia meglio per lui non entrare nelle questioni elettorali degli Stati Uniti, “ma – ha aggiunto - come membro del Pd ovviamente sostengo con forza Hillary Clinton perché penso sia capace di dare sicurezza e portare un messaggio di cooperazione per continuare le buone cose che ha fatto Obama".

Renzi ha pure avuto una telefonata con Hillary, che era in Pennsylvania a fare campagna, definita “molto cordiale". E ha quindi incontrato per un'ora e mezzo l'ex presidente Bill Clinton negli uffici della Clinton Foundation.

Neppure l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi gradisce l’accostamento a Trump. A chi gli suggeriva una somiglianza, ha risposto in un’intervista radiofonica “Mi sembra più un incrocio tra Salvini e Grillo. Ma ognuno è libero di fare i paragoni che vuole”. Alla domanda di Faared Zakaria della Cnn sul paragone tra Berlusconi e Trump che molti fanno in Usa, Renzi ha risposto notando che "ogni Paese ha una storia diversa" e aggiungendo in tono scherzoso: "La nostra esperienza con un miliardario premier è stata molto complicata...".

Chi s’ispira all’Italia, almeno per il sistema sanitario, è Bernie Sanders, il candidato democratico che si autodefinisce ‘socialista’ e che giusto una settimana fa era in Vaticano per un convegno sull’economia e la giustizia sociale. Alla vigilia delle primarie di New York, Sanders ha addirittura preso l’Italia “a modello” per un sistema dove, come in Francia, Germania, Gran Bretagna, la sanità “è un diritto di tutti, non un privilegio”. L’apprezzamento, molto generico, e che può essere esteso, in un confronto tra America ed Europa, alla pubblica istruzione e alla previdenza sociale, non implica un giudizio da parte di Sanders su come il sistema funziona, ma sui principi su cui si basa. (fonti vv – gp)

giovedì 21 aprile 2016

Usa 2016: primarie; dopo NY, strade in discesa per Hillary e Trump

Scritto per AffarInternazionali.it il 21/04/2016

Le primarie dello Stato di New York non ‘fanno la differenza’ perché il loro verdetto non è finale; ma ‘fanno una differenza’, in ambedue i campi. Fra i democratici, Hillary Clinton dà gli otto giorni a Bernie Sanders. Fra i repubblicani, anche i conservatori moderati si stanno assuefacendo all'idea che un miliardario stravagante e un populista come Donald Trump possa essere il loro candidato alla Casa Bianca, dopo avere accettato l’idea che fosse realmente  un aspirante alla nomination (e non solo una macchietta di cui scandalizzarsi, ma anche con cui divertirsi, nel pre-partita, salvo poi uscire di scena).

Resta da vedere se l’America nel suo insieme si abituerà all'idea di avere Trump come presidente. Ma questo è un altro capitolo di questa campagna, che si comincerà a scrivere dopo le convention, in estate, quando le eliminatorie di partito saranno finite e si preparerà la finale per il titolo, che si giocherà l’8 novembre.

Invece, l’idea che Hillary Clinton possa essere la candidata democratica e pure il futuro presidente è radicata nell'Unione da almeno otto anni. Per la ex first lady, ex senatrice, ex segretario di Stato, e pure ex aspirante alla nomination, la difficoltà è piuttosto convincere gli americani che questo non è un film già visto.

Con una vittoria sola, ma pesante, Hillary a New York recupera cogli interessi il filotto di sconfitte in 8 Stati dell’America bianca, dai Grandi Laghi alle Montagne Rocciose. Martedì 26 aprile, il voto in Pennsylvania e in altri quattro Stati della Costa Est – Connecticut, Rhode Island, Delaware, Maryland - potrebbero chiudere il discorso, se non matematicamente, almeno politicamente. Sanders accampa scuse per il tracollo a Brooklyn dov’è nato (“Non ci hanno fatto votare”, dice) e tradisce nervosismo adirandosi per una t-shirt che lo ritrae, lui ‘socialista’, accanto ai grandi leader del comunismo mondiale.

Un’accettazione rassegnata - L’accettazione, certo non sempre entusiasta, anzi spesso rassegnata, se non insofferente, dell’idea di Trump candidato è, per i repubblicani, un corollario delle primarie di New York, che hanno dimostrato la sua forza (e anche la debolezza dei suoi rivali). E, intanto, perde credibilità l’ipotesi di ribaltare l’andamento delle primarie, un inverno e una primavera di voti in tutta l’Unione, con una sorta di ‘congiura di palazzo’ alla convention, tirando fuori dalla manica del partito un asso. Tanto più che assi ce ne sono pochi in giro, dopo che Mitt Romney e Paul Ryan, ammesso che lo siano, si sono sfilati. Ormai, s’è instillato il dubbio che la ‘matta’ Trump valga più di qualsiasi asso e possa sparigliare il gioco.

di qui in avanti testo tratto da vari pezzi di www.GpNewsUsa2016.eu ... vedi

http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3420

Usa 2016: repubblicani, l'America s'è assuefatta a Trump candidato

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 21/04/2016

L’America conservatrice si sta assuefacendo all’idea che un miliardario stravagante e un populista come Donald Trump possa essere il candidato repubblicano alla Casa Bianca, dopo avere accettato l’idea che potesse davvero essere un aspirante alla nomination (e non solo una macchietta di cui scandalizzarsi, ma anche con cui divertirsi, nel pre-partita, ma poi destinata a uscire di scena). Resta da vedere se l’America nel suo insieme si abituerà all’idea che Trump possa diventare il presidente degli Stati Uniti.

Ma questo è un altro capitolo di questa campagna, che si comincerà a scrivere dopo le convention, in estate, quando le eliminatorie di partito saranno finite e si preparerà la finale per il titolo, che si giocherà l’8 novembre.

Invece, l’idea che Hillary Clinton possa essere la candidata democratica e pure il futuro presidente è radicata nell’Unione da almeno otto anni. Per la ex first lady, ex senatrice, ex segretario di Stato, e pure ex aspirante alla nomination, la difficoltà è piuttosto convincere gli americani che questo non è un film già visto.

L’accettazione, certo non sempre entusiasta, spesso rassegnata, o insofferente, dell’idea di Trump candidato è un corollario dell’esito delle primarie di New York, che hanno dimostrato la sua forza (e anche la debolezza dei suoi rivali). Mentre perde credibilità l’ipotesi di ribaltare l’andamento delle primarie, un inverno e una primavera di voti ovunque nell’Unione, con una sorta di ‘congiura di palazzo’ alla convention, tirando fuori dalla manica del partito un asso più o meno vero. Anche perché di assi ce ne sono pochi in giro, dopo che Mitt Romney e Paul Ryan, ammesso che lo siano, si sono sfilati, ormai, s’è instillato il dubbio che la ‘matta’ che è Trump valga più di qualsiasi asso e possa sparigliare il gioco.

Intanto, la campagna è già altrove, dopo le primarie di New York: soprattutto in Pennsylvania, dove si vota martedì prossimo 26 aprile – è il giorno della Costa Est, con Connecticut, Rhode Island, Delaware e Maryland -. Trump e la Clinton partono favoriti in Pennsylvania, lo Stato più popoloso del lotto, ma devono lo stesso dribblare qualche difficoltà.

Il magnate dell’immobiliare, alle prese con l’ennesima polemica – s’è ora scoperto che la licenza d’uno dei suoi aerei non è in regola -, sta cercando di rendere più presidenziale la sua immagine, senza però tradire il suo pubblico: in un’intervista a Fortune, dà il suo ok ai tassi d’interesse bassi della Fed, ma ne boccia la responsabile Janet Yellen, di cui annuncia il siluramento – sempre che lui diventi presidente -.

Anche Hillary ha i suoi problemucci: ieri diversi manifestanti afroamericani sono stati scortati via da un suo comizio nel nord di Filadelfia, dopo avere gridato di non votare per lei che "sta uccidendo il popolo nero". Qualche tempo fa, sempre a Filadelfia, suo marito Bill, l’ex presidente, era stato affrontato da alcuni contestatori per la legge sul crimine varata quand’era alla Casa Bianca.

Ma Bernie Sanders, il rivale della Clinton, sta messo peggio: è indietro nei sondaggi; ha perso l’economista Jeffrey Sachs, l’uomo che gli aveva aperto le porte del Vaticano la scorsa settimana e che ora lo lascia per evitare conflitti d’interesse con il lavoro di consulente dell’Onu; e si irrita perché una maglietta lo associa, lui ‘socialista’, ai grandi leader del comunismo di tutti i tempi. (gp)