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venerdì 28 febbraio 2014

Elezioni europee 2014 – Tsipras dà una scossa all’Unione

Pubblicato da AffarInternazionali il 28/02/2014
Il Parlamento europeo dell’VIII legislatura sarà più polarizzato dell’attuale: i gruppi delle tre tradizionali maggiori famiglie politiche europee, liberali, popolari e socialisti, dovrebbero occupare i due terzi dei 751 seggi, mentre quasi tutto il terzo restante andrà a formazioni portatrici di visioni euro-critiche o euro-scettiche.
La corsa alla presidenza della Commissione europea, che vede in lizza candidati di ogni tendenza, personalizza il confronto e potrebbe contribuire a incoraggiare la partecipazione. E, in Italia, cresce il sostegno al leader greco di Syriza Alexis Tsipras, sul cui nome convergono europeisti delusi ed euro-scettici responsabili.
In questi giorni, la campagna per le Europee del 22 e 25 maggio ha epicentro a Roma. Il congresso del Partito socialista europeo formalizza la candidatura alla presidenza della Commissione del presidente uscente del Parlamento europeo Martin Schulz, tedesco, e l’adesione del Pd al Pse. E c’è  l’atto di nascita di Green Italia, costola italiana dei Verdi europei, che devono ancora designare il loro campione tra gli eurodeputati José Bové, francese, e Ska Keller, tedesca, selezionati con primarie online.
Il prossimo fine settimana, il Partito popolare europeo sceglierà il proprio candidato: quattro gli aspiranti alla ‘nomination’, il commissario europeo al Mercato interno Michel Barnier, francese, il premier lettone Valdis Dombrovskis, l’ex premier lussemburghese ed ex presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker e il premier finlandese Jyrki Katainen.
A quel punto, lo schieramento ai nastri di partenza sarà completo, perché i liberali hanno già scelto l’ex premier belga e leader federalista Guy Verhofstadt, mentre gli euro-scettici di destra, conservatori britannici o l’Alleanza coagulata intorno al Front National di Marine Le Pen, cui partecipa la Lega, non intendono presentare candidati.
La sorpresa del sorpasso socialista
Poll Watch 2014, un sondaggio voluto dal sito VoteWatch, in collaborazione con Burson-Marsteller e Europe Decides, vede i socialisti in testa (217 seggi contro i 208 attuali), seguiti dai popolari (200 seggi dai 265 attuali) nel nuovo Parlamento. A seguire, i non iscritti (92 seggi, in grandissima  parte euro-scettici ),  i liberali (70), la sinistra di Tsipras (56), i Verdi (44), i conservatori (42), gli attuali autonomisti (30).
L'Alleanza per la libertà otterrebbe 38 seggi: la soglia per formare un gruppo politico a Strasburgo è di almeno 25 eurodeputati provenienti da almeno sette Stati.
In Italia, il sondaggio indica il prevalere degli eletti S&D su quelli che fanno riferimento al Ppe: 22 contro 20 su 73 seggi. Ma, secondo Poll Watch 2014, ben 24 eurodeputati italiani vanno nella casella ‘non iscritti’: quelli del M5S, attualmente non rappresentato a Strasburgo. I sette restanti vengono dalla Lega e dalle altre formazioni politiche.  
Una ricetta contro il calo dell’affluenza
La corsa alla presidenza della Commissione e i dubbi sui rapporti di forza nel nuovo Parlamento sono potenziali antidoti contro un ennesimo calo dell’affluenza alle urne, che sarebbe per l’Unione una sconfitta peggiore di una larga affermazione di euro-critici ed euro-scettici.

Secondo una ricerca ufficiale, dal 1979 la partecipazione alle Europee nell'insieme degli Stati membri è diminuita di quasi 19 punti percentuali, passando dal 62% del 1979 al 43% del 2009. Escludendo i Paesi in cui vige l’obbligo di voto, nel 2009 le affluenze più elevate si sono registrate a Malta (78,8%), in Italia (65%) e in Danimarca (59,5%).
 
Ma l’Italia, che partiva da affluenze alle urne altissime,  è anche fra i quattro Paesi che hanno visto il maggiore decremento della partecipazione, con Grecia, Cipro e Lituania. C’è da sperare che competizione e polemiche riportino pure un briciolo di passione.

L’ ‘altra Europa’ di Tsipras

'L'altra Europa con Tsipras' è il nome scelto online da oltre 7mila elettori italiani per la lista civica che sostiene la candidatura del leader di Syriza alla presidenza della Commissione europea. Portato alla ribalta dalle ultime contrastate elezioni politiche greche, che hanno fatto del suo partito Syriza la seconda forza politica del Paese, Alexis Tsipras è un volto nuovo sulla scena europea: 40 anni, una militanza comunista, è stato scelto come candidato della Sinistra unita al congresso di Madrid, nel dicembre scorso, con oltre l’84% dei consensi.
In Italia, ‘L’altra Europa con Tsipras’ nasce da un appello lanciato da Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Paolo Flores d'Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli e Guido Viale. Ora, la lista vaglia  candidati e cerca firme per potersi presentare.
Con Tsipras, c’è pure Sel, sia pure con qualche distinguo: il congresso del partito punta su di lui, con una maggioranza dei due terzi, ma il presidente Nichi Vendola traccia una linea poco netta,  ''Con Tsipras ma non contro Schulz''. E, nel partito, c’è chi preferisce il candidato socialista, forse perché c’è la consapevolezza che il leader greco può essere una bandiera, ma non può spuntarla.

L’incognita dei dibattiti televisivi
  
A dare una spinta alla campagna, potrebbe essere lo svolgimento di dibattiti televisivi fra i candidati alla presidenza della Commissione. Ma nessuno dei progetti finora abbozzati s’è per il momento concretizzato. Se il liberale Verhofstadt ha già accettato l’invito del Cime per un dibattito a Roma, in Campidoglio, il 25 marzo, nell'anniversario della firma nel 1957 dei Trattati istitutivi delle allora Comunità europee, i suoi antagonisti devono pronunciarsi.

Altre potenziali sedi di dibattiti fra i candidati dei maggiori partiti sono Atene e Maastricht. Ma l’ipotesi più forte è quella di un confronto a Bruxelles il 9 maggio, giorno della Festa dell’Europa. Con la speranza che le televisioni dei 28 non snobbino poi l’appuntamento.

giovedì 27 febbraio 2014

Libertà d’informazione: l’Italia migliora, ma non brilla

Scritto per Media Duemila online il 26/02/2014

Finlandia, Olanda e Norvegia sono i Paesi al Mondo che meglio tutelano la libertà di stampa e d’informazione. L’Italia guadagna in un anno otto posizioni, ma non risale oltre il 49° posto. E l’andamento della libertà d’espressione nell’Ue, certo condizionato da anni di crisi economica, pare avallare l’opportunità di un’azione a tutela dell’indipendenza dei media, portata avanti tramite un’iniziativa popolare di legge europea.
L’ennesima classifica della libertà di stampa e d’informazione, valori di per sé difficili da misurare, può anche lasciarci relativamente indifferenti: uno può pensare che questi esercizi, che li faccia Freedom House o –come questo- Reporters sans frontières, contino poco o nulla, nonostante l’autorevolezza e la competenza delle fonti.
Ma il fatto che l’Italia vi si ritrovi –sempre- nelle posizioni di coda, almeno sull'insieme dei Paesi europei e occidentali, che sono il nostro bacino di riferimento, non ci consente di fare spallucce, specie noi giornalisti. Né il fatto di stare davanti a Grecia, Ungheria e Bulgaria, fra gli altri, nell’Ue, ci può consolare e tanto meno soddisfare.
Il rapporto, denominato World press freedom index, è stato realizzato tenendo conto dell’impatto sulla libertà di informazione di fattori quali la corruzione dei media, le legislazioni punitive o intimidatorie, le minacce ai giornalisti e la crisi economica, che induce un numero di testate crescente a venire a compromessi con sponsor industriali e politici –una considerazione che vale là dove esistono editori puri: da noi, la commistione degli interessi è una costante-.
Nella classifica, osserva su EurActiv Viola De Sando, l’Unione europea è divisa in due tronconi. Ci sono i Paesi scandinavi e del Nord Europa, che stanno tutti nei primi 25 posti, insieme ad esempio alla Nuova Zelanda, ma anche a Paesi che non è scontato trovare così in alto, Giamaica, Namibia e Costa Rica. E ci sono i mediterranei, i balcanici e i Paesi dell’Est, che stanno più giù.
In un anno, l’Ue ha perso –come media- diverse posizioni, per lo slittamento in classifica di vari stati membri. Irlanda, Cipro e Portogallo hanno perso ciascuno una posizione, collocandosi al 16o, 25o e 30o posto. La Gran Bretagna ne ha perse 4, al 33o posto, a causa della posizione assunta sul caso Snowden. La Francia ne ha perse 2, al 39o posto, a seguito delle polemiche sulla privacy e sulle libertà digitali.
I tonfi peggiori li hanno fatti l’Ungheria, da 56a a 64° per il pacchetto di misure contro la libertà d’informazione introdotto dal Governo Orban; la Grecia, da 84a a 99a, dopo la chiusura della tv di Stato e le minacce e le violenze subite dai giornalisti durante le manifestazioni di protesta; e la Bulgaria, scesa di 13 posizioni al 100o posto, dopo aver introdotto una legge che prevede il carcere per i giornalisti che contestano l’operato del governo.
A conti fatti, due soli Paesi Ue hanno fatto passi avanti: la Germania, salita dal 17o al 14o posto, e l’Italia, che di passi in avanti ne ha fatti ben otto, ma non va oltre il 49° posto..
Per i coordinatori dell’Ice Media Initiative - l'iniziativa dei cittadini europei per il pluralismo dei media -, il modo più efficace per garantire la libertà d’informazione in Italia sarebbe l’introduzione di una legislazione europea che assicuri la libertà e il pluralismo dei media in tutta l’Unione. Lo strumento che i cittadini europei hanno a disposizione per proporre questa normativa è l’Ice Media Initiative, aperta fino al 18 agosto alla raccolta firme. Se l’Ice raggiungerà un milione d’adesioni, la proposta sarà sottoposta alla Commissione europea, che dovrà decidere se avviare l’Iter legislativo. Chi vuole saperne di più, e magari firmare, può andare sul nuovo sito interattivo dell’Ice Media Initiative.

mercoledì 26 febbraio 2014

Italia/Ue: Renzi dalla Merkel col jobs act pronto

Scritto per EurActiv il 26/02/2014

Ridurre l’Irap del 30% o il cuneo fiscale di 10 miliardi di euro; pagare tutti i debiti della P.A; e andare dalla Merkel “con il jobs act già pronto”. Così Angela potrà esclamare: “Wunderbaar!, Magnifico!, Matteo: batti il cinque”. Salvo poi chiedere subito dopo: “E come lo paghi?, tutto ciò…”.

Per ora, il premier Renzi non lo sa; e pare non lo sappia neppure il ministro dell’Economia PierCarlo Padoan. Gira voce d’un progetto di modificare la tassazione delle rendite, ma è tutto molto vago (e controverso).

In visita a Treviso il presidente del Consiglio Matteo Renzi precisa -si fa per dire- le cose che ha in mente di fare per rilanciare la crescita e l’occupazione. Finora, i primi contatti con i partner europei e internazionali sono stati facili facili: congratulazioni e auguri, l’impegno a vedersi, fiducia e cordialità.

C’è stata, pure in commenti autorevoli, una tendenza a leggere, nei discorsi programmatici del nuovo premier, un’impostazione filo-europeista. A me, sembra azzardato basare questa impressione su una citazione di Altiero Spinelli, per altro abbastanza stereotipata, o sull’affermazione di palese buon senso che i conti in ordine non li dobbiamo tenere perché ce lo chiede l’Ue, ma perché è nell’interesse nostro e, soprattutto, dei nostri figli.

I fatti, invece, per quanto pochi finora essi siano, se confrontati con le parole –ma è anche logico: il governo s’è appena insediato-, forniscono indicazioni diverse. Così, l’assenza d’un ministro per gli Affari europei appare una grossa lacuna della compagine governativa, foriera di danni per l’Italia in sede negoziale Ue e nel recepimento di direttive e regolamenti comunitari, evitando o sanando procedure di infrazione.

E la scelta di compiere la prima missione internazionale in Tunisia, invece che a Bruxelles, appare una superficiale affermazione della vocazione mediterranea dell’Italia, che però ha senso se collocata in un contesto di forte radicamento europeo.

Poi, magari, si capisce che la missione a Tunisi, più che una scelta, è il rispetto d’impegni già presi. E, fra i sotto-segretari, salta fuori un drago agli Affari europei. Così le perplessità s’attenueranno… Se dovessero pure saltare fuori i soldi per cuneo e pagamenti, senza violare gli impegni comunitari, allora la Merkel batterà un cinque più convinto.

martedì 25 febbraio 2014

Visti dagli Altri: Renzi, la stampa estera aspetta i contenuti

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 25/02/2014
I giovani, le donne, la retorica della mano in tasca: la stampa estera riconosce al premier Renzi questi elementi di novità al suo debutto. Ma lì si ferma. The Guardian avverte: il cambio d’estetica da solo non basta, ci vogliono i contenuti. E aggiunge: "E’ presto per festeggiare". Ora, Matteo "deve dimostrare che i suoi cambiamenti non sono solo estetici, ma devono creare un’uguaglianza di genere reale e posti di lavoro reali".
A Renzi, la stampa estera non la fa facile, mentre il suo Governo ottiene la fiducia del Parlamento. Anzi, la Bbc gli vede davanti una montagna da scalare o, con gergo medico, "il grande compito di infondere nuova vita al paziente Italia". Non siamo i soli ad avere problemi nell'eurozona, è l'analisi del servizio pubblico radiotelevisivo britannico, ma ciò che ci rende diversi dagli altri è che la nostra crescita complessiva dal 2000 ad oggi è stata “più o meno pari a zero”.
E, allora, “da dove verranno i soldi?”, si chiede la Bbc, aggiungendo che, finché non ci sarà risposta a questa domanda, sarà difficile credere che il premier possa realizzare tutto quel che promette. Un’osservazione che ritorna, in francese, in spagnolo, in tedesco.
Il discorso di Renzi, lo Spiegel lo definisce “un’ardente e in gran parte improvvisata arringa”. E FT lo giudica “ricco di retorica e ambizioso”, ma segnato “da una mancanza di dettagli che ha deluso anche i partner della coalizione”. Le Monde vede –o immagina?- un “discorso filo-europeo”, come se citare Altiero Spinelli bastasse ad avere un’idea europea, durante il quale, tuttavia, il premier "non è entrato quasi per nulla nei dettagli del suo programma". Ma il curaro con Renzi Le Monde l’aveva usato nei giorni scorsi: “L’uomo che dedica più tempo a un post su Facebook che all’esame del bilancio” della sua città.
The Times trova curioso che Matteo bbia chiesto ai senatori di votare la loro abolizione, Les Echos ci va giù pesante: Renzi è “l'uomo che voleva governare a tutti i costi, l’ultima risorsa di una classe dirigente paralizzata dall'immobilismo, o un avventuriero divorato dall'ambizione”, con il rischio “di cadere nel neo-cesarismo di un Berlusconi di sinistra".
Tutti hanno colto la promessa di un cambiamento radicale, ma Time avverte che “i politici italiani promettono riforme, ma poi non cambia niente” e si chiede se “Renzi spezzerà lo schema”. Il WSJ chiosa l’impegno a pagare tutti gli arretrati della Pubblica Amministrazione: una mossa che darebbe una spinta al settore privato, ma che comporta tirare fuori 100 miliardi ed innalzare il debito. E Nouvel Obs assegna al “governo dell’ultima chance” la responsabilità di “evitare uno scenario come la Grecia”.

El Mundo, insensibile alla citazione della Cinquetti, coglie, invece, quella di Guardiola, “un leader che rompe gli schemi”, un maestro per Matteo. In un editoriale, e più seriamente, El Pais osserva che “l’impulso alla formidabile agenda riformista sarebbe dovuto venire dalle urne”: l’approvazione di una nuova legge elettorale sarebbe il momento adatto a convocare elezioni anticipate. E, invece, il nuovo premier comincia a lavorare nelle stesse condizioni del suo predecessore, dopo un colpo di palazzo.

Solo Le Figaro giudica “prudente” l’entrata in scena di Matteo. Chissà che cosa prometterà, quando la prudenza l’avrà abbandonato.

lunedì 24 febbraio 2014

Italia/Ue: fondi, un tesoro trascurato da 80 miliardi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/02/2014

Siamo sul fondo della classifica: stiamo provando a rimontare posizioni, ma restiamo in zona retrocessione. Fortuna che l’Ue è come l’Nba: una volta che ci sei dentro, ci resti, anche se le becchi da tutti. Dietro di noi, solo gli ultimi arrivati, Paesi come Bulgaria e Romania che sono nell’Unione dal 2007 appena. E, poi, ce la battiamo con i greci, gli ultimi cronici della classe europea.

La classifica è quella della capacità d’utilizzo dei fondi di coesione dell’Unione, soldi che devono contribuire allo sviluppo delle aree più arretrate o ad attenuare situazioni di disagio sociale. L’inefficienza dell’Italia non è una novità: già negli Anni Ottanta e Novanta, arrancavamo dietro Grecia, Portogallo e Spagna, altri grandi beneficiari dei fondi Ue regionale e sociale; poi, dopo l’allargamento a Est, le somme a noi destinate si sono ridotte, mentre non è migliorata la nostra capacità di usufruirne bene e tempestivamente.

A fine 2013, siamo riusciti con un forcing finale ad evitare la perdita di risorse: merito, soprattutto, di Fabrizio Barca, ministro della coesione nel Governo Monti e, poi, referente del suo successore Carlo Trigilia. Al 31 dicembre, tutti i 52 programmi operativi dei Fondi strutturali europei avevano così superato i target previsti da Bruxelles.

In totale, la spesa italiana aveva raggiunto il 52,7% delle risorse disponibili, a fronte di un obiettivo minimo del 48,5%. A fine 2012, la spesa era ferma al 37%. Lo indicano i dati aggiornati a fine 2013 e validati dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione economica e dal Ministero del Lavoro relativi alla spesa certificata, che misura lo stato d’attuazione della politica di coesione nell’insieme delle regioni italiane.

In primo luogo, capiamoci bene, prima di fregarci le mani per la soddisfazione: il dato significa che, al 31 dicembre, avevamo speso poco più della metà della somma messaci a disposizione nel periodo 2007/2013. Di quella somma, ci avanzano ancora ben oltre 10 miliardi di euro, cui vanno già aggiunti i 29 miliardi di euro previsti per il settennio 2014/2020: altro che ‘tesoretto’. A saperli usare bene e presto, lì c’è un’Isola del Tesoro, che il ministro degli Affari europei Enzo Moavero stimava, compreso il co-finanziamento nazionale, a circa 80 miliardi di euro in sette anni: di che innescare crescita e posti di lavoro.
Una forte accelerazione
A saperli spendere bene e presto, appunto. Nell’ultimo anno, c’è stata un’indubbia accelerazione, anche per lo spauracchio di perdere i fondi. Fra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2013, sono state certificate alla Commissione europea spese pari a circa 6,8 miliardi di euro. Il cambio di passo italiano è evidenziato anche dai dati del bilancio comunitario, con pagamenti all'Italia per oltre 5 miliardi di euro nei primi 11 mesi del 2013: siamo addirittura secondi nella classifica dei maggiori utilizzatori delle risorse comunitarie lo scorso anno - tenete a freno gli entusiasmi: molti avevano ormai da spendere solo le briciole, perché avevano fatto prima i loro compiti -.
Alla fine, la spesa certificata per l’Italia nel suo complesso ha superato del 4,2% il target nazionale. Le Regioni più sviluppate (Obiettivo Competitività) raggiungono il 62,2% della spesa certificata, quelle meno sviluppate (Obiettivo Convergenza) arrivano al 48,3%.
"Il positivo risultato –sostiene il Ministero- è stato reso possibile dalle incisive iniziative d’accelerazione che hanno coinvolto amministrazioni centrali e regionali e dalla riprogrammazione con la azioni previste nel Piano di Azione e Coesione che, riducendo il cofinanziamento a carico delle risorse nazionali, ha permesso di massimizzare l'utilizzo delle risorse comunitarie a disposizione".
Soddisfatto il ministro Trigilia, secondo cui "lo sforzo di accelerazione della spesa per evitare la perdita di fondi riceverà un ulteriore forte impulso dai provvedimenti di riprogrammazione delle politiche di coesione prese nel 2013". Non bisogna abbassare la guardia: la scadenza ultima per certificare a Bruxelles l’utilizzo delle risorse 2007-2013 è il 31 dicembre 2015. In due anni, cioè, dobbiamo riuscire a spendere quanto siamo riusciti a fare negli ultimi sette. Quel che resterà inutilizzato, andrà perduto.
Diversità regionali
Le situazioni sono molto diverse da Regione a Regione. L’analisi dei dati mostra che l’Italia non può ancora dormire sonni tranquilli. In molte casi, infatti, gli obiettivi sono stati centrati per il rotto della cuffia: è accaduto nel Lazio, in Campania, in Sardegna, nel Molise e pure in Liguria. In altri, si viaggia ben oltre gli obiettivi minimi imposti da Bruxelles.
Per capire quanto siano state brave le singole Regioni nello spendere il denaro disponibile, basta confrontare gli obiettivi di spesa con il livello effettivamente raggiunto a fine 2013. Partiamo dall’obiettivo Convergenza, relativo alle aree meno sviluppate. In Basilicata, il target del Fesr (fondo europeo di sviluppo regionale) era di 439 milioni di euro e ne sono stati spesi 445, solo sei più del minimo. In Campania, il target del Fes (Fondo sociale europeo) era di 435 milioni e la spesa è stata di 439 milioni.
Non vanno molto meglio alcune Regioni dell’obiettivo Competitività, quelle più sviluppate. L’ha scampata per un pelo l’Abruzzo per il Fes, superando la soglia minima di appena mezzo milione d’euro. Il Lazio è andato oltre l’obiettivo minimo per 1,5 milioni nel Fesr e per poco meno di due nel Fes. La Liguria è andata oltre il target del Fes di un milione esatto. Il Molise ha avuto uno scarto di appena 100mila euro per il Fesr.
Due piani operativi interregionali, Attrattori culturali ed Energie, sono stati rimessi in carreggiata quasi in extremis: il primo, che al precedente rilevamento appariva in condizioni disperate, ha superato il suo target di appena un decimo di punto, pari a soli 200mila euro; il secondo è andato oltre di meno di due milioni di euro.
Però, gli elementi positivi del monitoraggio di fine 2013 sono indubbiamente molti. Il primo è costituito dal fatto che neppure un euro è stato lasciato per strada, nonostante si potesse ben temere il contrario. Il secondo è rappresentato dall’ottima performance di alcune Regioni, sia dell’obiettivo Convergenza sia di quello Competitività, e di alcuni programmi nazionali, come quello Reti, che supera il target minimo di nove punti. Lato Regioni, la Calabria è andata oltre l’obiettivo minimo per il Fesr di sette punti, l’Emilia Romagna di 10 punti sui due fronti, il Trentino fa il botto e il record con un margine di 20 punti.
Uno strumento per capire come vanno le cose programma per programma e Regione per Regione è il portale Open Coesione, voluto da Barca quand’era ministro, con l’intento di favorire “un cambio di grammatica istituzionale”. E’ un balzo in avanti in termini di trasparenza e un modo per mettere l’Italia sulla strada della nuova politica di coesione europea 2014-2020. Fare meglio di quanto abbiamo finora fatto non è difficile, anche se sarà difficile battere i ‘campioni’ dell’Est dell’Ue, Polonia, Paesi Baltici, Slovenia, anche Slovacchia.

domenica 23 febbraio 2014

Italia/Ue: Governo Renzi, tweet spot, Affari europei e nodi al pettine

Scritto per EurActiv il 14/02/2014

Mentre il neo-premier Matteo Renzi lancia via twitter raffiche di slogan, contraddicendo il suo stesso  impegno –via twitter, “niente spot, ma concretezza”-, Bruxelles attende l’Italia alla prova dei fatti del rispetto degli impegni e s’interroga sulla struttura dell’Esecutivo, dove colpisce, in particolare, l’assenza di un ministro per gli Affari europei.

Che stupisce persino un europeista (molto) tiepido come il governatore della Lombardia, il leghista Roberto Maroni: “Mi sembra incomprensibile che sia stato cancellato quel ministero, anche perché tra pochi mesi ci sarà il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea".

Nel Governo Renzi, i volti già noti in sede europea e internazionale sono pochi. A parte il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, conosciuto e apprezzato, gli altri devono più o meno tutti costruirsi relazioni e credibilità nel nuovo ruolo.

E la mancanza di un ministro per gli Affari europei di provata esperienza, com’era Enzo Moavero Milanesi, con una passato da alto funzionario della Commissione europea e da giudice europeo, rischia di farsi sentire, in sede negoziale e sul fronte interno.

Moavero ha condotto tutta una serie di trattative delicate per gli interessi italiani, sul bilancio dell’Ue, sui margini di manovra per gli investimenti, sul ritorno della crescita fra le priorità dell’Unione, olte che su numerosi dossier specifici (brevetto europeo, made in, etichette a semaforo, etc).

Inoltre, il ministro per gli Affari europei segue l’iter delle cosiddette ‘leggi europee’, modificate proprio da Moavero, per ridurre il fardello delle procedure d’infrazione contro l’Italia per mancati o ritardati adempimenti comunitari. Nonostante i miglioramenti registrati negli ultimi due anni, l’Italia ne ha più di cento a carico e resta la peggiore allieva della classe europea, dovendo pagare multe salate, dell’ordine di centinaia di migliaia di euro al giorno per le proprie inadempienze.

E’ un lavoro che richiede conoscenza delle procedure e dei dossier e capacità negoziale, sui fronti interno ed europeo.

A Bruxelles, c’è curiosità per capire come il premier Renzi intende procedere. In attesa d’incontri che s’annunciano imminenti, ci sono state telefonate d’augurio dal premier belga Elio Di Rupo, di origini italiane, e dal presidente francese François Hollande, che ha invitato Renzi a Parigi e con cui potrebbe confermarsi l’asse Francia-Italia già esistente su crescita e lavoro. Congratulazioni sono pure arrivate dai presidenti Usa Barack Obama e russo Vladimir Putin, mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel non s’era ancora manifestata a metà domenica.

Una ridda di indicazioni economiche prelude alle prime mosse del nuovo governo. A Sidney, il G20 fissa un obiettivo non ambizioso di crescita mondiale al 2% e il governatore della Bce Mario Draghi definisce la ripresa della zona euro “modesta”, ma “meno fragile” che fino a qualche tempo fa.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, dove Padoan avvicenda Fabrizio Saccomanni, fa sapere che 20 miliardi sono destinati a ridurre nel 2014 lo stock dei debiti della Pubblica Amministrazione accumulati a fine 2012 (una boccata d’ossigeno per le aziende creditrici). Ma uno studio indica che la P.A. italiana è la meno efficiente dell’Ue, dopo quelle greca e maltese: le sue lacune costano 31 miliardi l’anno alle imprese, 7000 euro a ciascuna in media.

sabato 22 febbraio 2014

Italia/Ue: nell’anno dell’Europa, un governo senza Europa

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 22/02/2014

Ma dove vai?, se, proprio nell’anno europeo, il cavallo europeo non ce l’hai?. Matteo fa un governo (quasi) del tutto senza competenze europee. E Giorgio, che dall’inizio dell’anno ce la canta che questo è l’anno dello spartiacque per l’Unione, della svolta tra rigore e crescita, sacrifici e occupazione, glielo vidima, avallando di fatto l’equivoco su cui gioca Renzi -e in cui molti cascano, perché sono candidi o perché fa loro comodo- che mancanza d’esperienza sia sinonimo di rottura con il passato e garanzia di cambiamento (in meglio).
Non si tratta, qui, di fare l’elogio di chi c’era e non c’è più, anche se, a mio avviso, Emma Bonino ed Enzo Moavero sono stati, agli Esteri ed agli Affari europei, ministri competenti ed efficaci. E neppure si tratta di bocciare a priori chi c’è e prima non c’era: Federica Mogherini è, sempre a mio avviso, persona attenta e preparata, una risorsa positiva della politica estera italiana.
Ma il dato di fatto è che c’è molta meno Europa nel Governo Renzi che nel Governo Letta (e pure nel Governo Monti). E che, per di più, c’è un’Europa più leggera, a scorrere i nomi e i curriculum dei ministri. Fra cui non figura –e, nell’anno delle elezioni europee e, soprattutto, della presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue, è assenza pesante- un ministro per gli Affari europei.
Se la replica è “avremo un buon sotto-segretario agli Affari europei”, perché il problema ‘vero’ era che i ministri fossero 16 e non 17, peggio mi sento. Considerare gli Affari europei una dépendance degli Affari esteri è un sintomo di scarsa conoscenza di materia e problemi: la stessa Mogherini, quando divenne –due mesi or sono- responsabile degli Esteri e dell’Europa nella segreteria del Pd, espresse perplessità, perché –spiegò- la politica europea di un Paese Ue non è ‘roba’ da affari esteri, visto che ne discendono i due terzi della legislazione nazionale.
Certo, il “buon sotto-segretario agli Affari europei” potrà finire sotto tutela diretta di Palazzo Chigi. Ma pure in questo caso peggio mi sento: perché Renzi non ha né l’esperienza né la preparazione internazionale ed europea dei suoi predecessori, Enrico Letta e Mario Monti; e l’umiltà d’imparare non pare un tratto forte del nuovo premier.
Il ‘quasi’ fra parentesi all’inizio è funzione di Pier Carlo Padoan all’Economia, che può essere senz’altro equiparato a Fabrizio Saccomanni, per esperienza e per caratura economica internazionale ed europea: è stato direttore esecutivo per l’Italia all’Fmi a Washington e capo economista all’Ocse a Parigi. Ma anche qui nasce il sospetto d’un equivoco: il percorso di Padoan non ne fa di certo un uomo di rottura rispetto alle politiche economiche fin qui seguite dall’Ue, ma piuttosto di correzione di rotta. Sicuramente, oggi, all’Ecofin e all’Eurogruppo “stanno più sereni” che al Consiglio europeo o al Consiglio Affari generali.
Agli Esteri, la Mogherini, presidente della delegazione italiana nell’Assemblea atlantica, deve ancora acquisire la caratura internazionale ed europea della Bonino, che era stata, fra l’altro, commissario europeo dal 1995 al 1999 e poi ministro proprio degli Affari europei.
Padoan a parte, colpisce l’assenza dalla squadra di Renzi di un qualsiasi ‘volto noto’ europeo, come lo erano Moavero, alto funzionario e giudice Ue, o Mario Mauro, a lungo parlamentare europeo.
E’ vero: i nomi, le persone, contano, ma contano soprattutto i programmi. E bisogna vedere come si muoverà nell’Unione la squadra di Renzi, prima di darne un giudizio europeo. Ma le Istituzioni dell’Ue si preparano ad avere a che fare con interlocutori tutti nuovi, se non sconosciuti, in mesi chiave per l’integrazione e per l’Italia.

venerdì 21 febbraio 2014

Italia/Ue: Renzi, un governo meno europeo

Scritto per EurActiv il 21/02/2014

C’è meno Europa nel Governo Renzi che nel Governo Letta (e anche nel Governo Monti). E, soprattutto, c’è un’Europa più leggera, almeno a scorrere i nomi dei ministri. Fra cui non figura -e nell’anno della presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue è assenza pesante- un ministro per gli Affari europei.

All’Economia, Pier Carlo Padoan può essere senz’altro equiparato a Fabrizio Saccomanni, per esperienza e per caratura economica internazionale: è stato direttore esecutivo per l’Italia all’Fmi a Washington e capo economista all’Ocse a Parigi.

Agli Esteri, Federica Mogherini, presidente della delegazione italiana nell’Assemblea atlantica e, da poco, responsabile della politica estera ed europea nella segreteria del Pd, porta preparazione e competenza, ma deve ancora acquisire la caratura internazionale ed europea di Emma Bonino, che era stata, fra l’altro, commissario europeo dal 1995 al 1999 e poi ministro proprio degli Affari europei.

Colpisce l’assenza dalla squadra di Renzi di un vero e proprio specialista europeo, come lo era, ad esempio, Enzo Moavero Milanesi, funzionario e giudice Ue. E manca nel nuovo esecutivo un ministro con trascorsi politici europei, come era Mario Mauro, a lungo parlamentare europeo.

Per non parlare della minore esperienza internazionale del premier Renzi rispetto al suo predecessore, anzi ai suoi predecessori, Enrico Letta e Mario Monti.

Certo: i nomi, le persone, contano, ma contano pure e soprattutto i programmi. Bisogna vedere come si muoverà nell’Ue la squadra di Renzi, prima di darne un giudizio europeo. Le Istituzioni di Bruxelles avranno a che fare con interlocutori tutti nuovi, quando non sconosciuti, in mesi chiave per l’integrazione e per l’Italia.

giovedì 20 febbraio 2014

Ucraina: l'Ue pensa a sanzioni, ma vuole mantenere dialogo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/02/2014
Dopo avere temporeggiato per oltre due mesi, l’Unione europea, davanti al bagno di sangue che può divenire guerra civile, indurisce i toni contro il regime ucraino e brandisce la minaccia di sanzioni, partita da Polonia e Svezia. Le misure non dovrebbero, però, riguardare il presidente Ianukovich, per non rompere i ponti con il regime di Kiev e lasciare aperti i canali di negoziato.
Dopo il fallimento, a fine novembre, dei negoziati per un accordo di associazione tra Ue e Ucraina, osteggiato da Mosca, Bruxelles non ha lesinato gli sforzi perché Kiev scegliesse la via dell’Europa, denunciando la repressione del regime e le pressioni russe, ma lasciando pure trapelare l’imbarazzo di fronte alle componenti ultra-nazionaliste dell’opposizione ucraina.
L’accordo di novembre resta sul tavolo. Ma il gioco diplomatico non è, o almeno non è solo, tra Ue e Ucraina. Ci sono pure dentro Usa e Russia. Mosca denuncia l’ingerenza degli occidentali e tira fuori soldi per il regime amico; e il ministro degli esteri Lavrov si fa beffa degli europei che –dice- “hanno mediato abbastanza”, mentre a Kiev “è in atto un tentativo di colpo di Stato”. Washington intima a Ianukovich di ritirare le truppe anti-sommossa e pensa a sanzioni, facendosene meno scrupolo degli europei.
Oggi pomeriggio, i ministri degli Esteri dei 28 si riuniranno a Bruxelles per dare la risposta dell’Ue all’ondata di violenze che, tra martedì e mercoledì, hanno provocato la morte di decine di persone nella capitale ucraina. E non si hanno bilanci attendibili delle violenze altrove nel Paese. Il ritorno di fiamma della sommossa ha colto di sorpresa la diplomazia internazionale, a cominciare dall’Onu.
In una conferenza stampa congiunta all'Eliseo, il presidente francese Hollande e la cancelliera tedesca Merkel, sempre insieme nei momenti cruciali, avvertono: “Coloro che hanno commesso violenze in Ucraina, coloro che s’apprestano a commetterne altre saranno sanzionati”. Poi la Merkel chiama il presidente russo Putin: “Evitare l’escalation”, “l’Ue induca l’opposizione a trattare”.
Un consulto fra gli ambasciatori dei 28 a Bruxelles, preliminare alla riunione dei ministri, fa emergere sfumature di differenze sull'atteggiamento da tenere. Alcuni Paesi, fra cui Italia e Spagna, ma pure Grecia, Cipro e altri, frenano sulle sanzioni. E anche le diplomazie nordiche si rendono conto che misure contro il regime di Ianukovich potrebbero “spingerlo nelle braccia della Russia”, dove, però, sembra già essere.
Il presidente della Commissione Barroso s’attende “sanzioni mirate”. Il ministro degli Esteri italiano Bonino vuole pure colpire “le provocazioni dei gruppi estremisti e violenti” presenti nell'opposizione. L’ex cancelliere tedesco Schroeder critica l’Ue, passiva prima e decisionista ora, quando “le sanzioni sono inutili”.
A Bruxelles si evoca l’effetto delle sanzioni contro la Bielorussia: inasprimento della repressione e riavvicinamento tra Minsk e Mosca. Il ministro degli Esteri belga Reynders riconosce: “Non c’è l’unanimità, i vicini dell’Ucraina temono un giro di vite contro l’opposizione”.
E l’unanimità è necessaria, per decretare sanzioni comunitarie. Altrimenti, bisognerebbe procedere in ordine sparso. O limitarsi a una dichiarazione d’avvertimento alle autorità ucraine: parole, “violenze inaccettabili”, “bagno di sangue da evitare”, “rischio concreto di guerra civile alle porte dell’Ue”.
La carenza d’unità fra gli europei traspare da iniziative di buoni uffici apparentemente scoordinate: la responsabile della politica estera europea Ashton dà al ministro polacco Sikorski una missione di buoni uffici; ma Sikorski trova oggi a Kiev anche i ministri francese e tedesco Fabius e Steinmeier.
Se gli europei dovessero trovare un’intesa sulle sanzioni, queste potrebbero consistere nel blocco dei visti e nel congelamento dei beni dei responsabili della repressione e in un embargo sui materiali anti-sommossa, come i lacrimogeni. Le sanzioni sarebbero campana a morto d’un riavvicinamento tra Bruxelles e Kiev, testimoniato dalle ripetute missioni a Kiev nelle ultime settimane della Ashton e del commissario al vicinato Stefan Fule.

mercoledì 19 febbraio 2014

Elezioni europee: febbre d’Unione e l’emozione della pace

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano e, in altra versione, per EurActiv il 19/02/2014

Febbre d’Europa a Roma. Ieri, il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz s’è fatto campagna per la presidenza della Commissione europea, presentando in Campidoglio un suo libro; oggi, Alternativa Europea ha riproposto alla Sapienza la sua proposta di “Un sindaco per l’Europa”, con un coro di voci tra Lazio e Unione; e, domani, l’Ecfr presenta la sua pagella della politica estera europea, di cui abbiamo già parlato perché l’Italia vi fa, da un anno all’altro, un balzo in avanti.

A fare da colonna sonora a tutti questi eventi, l’Eurobarometro sull’atteggiamento degli Italiani verso l’Europa: un sondaggio che dà risultati più schizofrenici che mai, l’Unione piace di meno, ma molti, la maggioranza, ne vogliono di più.

A leggere l’agenda, uno potrebbe immaginarsi che le elezioni europee del 25 maggio già calamitino l’attenzione degli italiani, o almeno dei romani. Anche se non è così: c’è il dubbio che gli eventi Ue ci facciano da foglia di fico, mentre stiamo qui tutti a chiederci a chi telefonerà Giuseppe Cruciani questa sera (e fingendosi chi?), per fare saltare un altro ministro della squadra di Matteo Renzi che (ancora) non c’è.

Però, è indubbio che la corsa alla presidenza della Commissione, con i partiti europei che designano i loro campioni, aggiunge un po’ di pepe alla competizione elettorale del prossimo maggio, di per sé già meno scipita delle precedenti per quel dibattito sull’antitesi tra “l’Europa che c’è” e “l’Europa che vorremmo”, che è poi un modo ottimista di leggere l’antitesi tra chi vuole l’Unione e chi non la vuole.

L’Eurobarometro dice del disorientamento, e pure dell’attenzione, dell’opinione pubblica. La crisi ha fatto sentire, magari in negativo, il peso e la presenza dell’Europa, in passato molto meno avvertiti: così la maggioranza degli italiani non si sente cittadino dell’Ue, né si sente rappresentato dall’Ue; e, però, la maggioranza degli italiani è favorevole a restare nell’euro e vuole un ministro dell’economia europeo, una politica estera e di sicurezza comune. E se c’è un crollo della fiducia nelle istituzioni, quelle europee ne meritano, in Italia, tre volte di più di quelle nazionali; addirittura, la Bce, vituperata da quanti denunciano l’ ‘Europa delle banche’, conquista spazi di credito.

L’interesse per dare un’indicazione sul futuro presidente della Commissione europea, l’iniziativa per avvicinarlo ai cittadini quasi fosse un sindaco, sono segnali del desiderio di sentire l’Unione meno lontana, di darle un volto. Quale, tra quello tondo di Schulz, candidato socialista, quello ovale di Guy Verhofstadt, candidato liberale, e quello giovane di Alexis Tsipras, candidato della sinistra, in attesa che popolari e verdi designino i loro campioni, non lo decideranno, però, in ultima istanza, i cittadini: dopo di loro, la parola passerà al Consiglio europeo e al Parlamento europeo, sperando che ne rispettino la volontà.

Il dibattito in Campidoglio sul libro di Schulz, “Il gigante incatenato”, assaggi di biografia in salsa di campagna, è stato avvilito da un titolo trito e sbagliato (‘Tra rinnovamento e ripresa, quo vadis Europa?’). Ma la discussione, presente un ‘grande elettore’ di Schulz, il presidente Napolitano, è stata fertile di spunti. Per Ezio Mauro, direttore de ‘la Repubblica’, dell’Europa oggi “si percepisce il vincolo, ma non la legittimità del vincolo”. E ciò, per il sindaco Roma Ignazio Marino, a causa “dell’eccesso di burocrazia, del deficit di democrazia e dell’allargamento senza riforme”. Ma anche perché le nuove generazioni non hanno quella che il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero ha definito “l’emozione della pace”.

lunedì 17 febbraio 2014

Scorte: in Italia, l'hanno tanti; in Austria, solo due; e negli Usa ...

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/02/2014

Chi torna a casa dal lavoro, la sera, a Washington, sulla Massachusetts, la grande arteria che punta verso il Maryland, incrocia sempre le dita, nella speranza di evitare il ‘convoglio’ del vice-presidente degli Stati Uniti che rientra alla sua residenza, all’Osservatorio Navale, dalla Casa Bianca: la sua è la più lunga scorta al mondo, dopo quella del presidente, che, però, la sera di solito non esce. Più spesso, riceve.

La vettura blindata, del vice-presidente è preceduta da almeno due auto –Secret Service e polizia- ed è seguita da un’altra vettura del Secret Service, da un’ambulanza e da una o più auto della polizia. Se poi il vice-presidente si porta il lavoro a casa, con collaboratori e funzionari al seguito, la coda s’allunga.

Il ‘convoglio’ viaggia velocissimo, ma staffette di poliziotti in moto bloccano la circolazione in entrambe le direzioni un po’ prima del suo passaggio; e retroguardie, sempre in moto, danno il segnale di ripartenza, un po’ dopo il suo passaggio. E, sosta a parte, il traffico sulla Massachusetts s’intasa.

Il ‘convoglio’ del presidente è un po’ più lungo, perché, dietro l’auto del Secret Service che segue la sua, c’è pure quella del pool di giornalisti che lo accompagna ovunque egli vada. Ma incrociarlo è più raro.

Presidente e vice a parte, Washington non è città di scorte. Gli ospiti di Stato spesso alloggiano alla Blair House, quasi davanti alla Casa Bianca, nello stesso ‘blocco’ di Pennsylvania Avenue, un tratto, per di più, chiuso al traffico. Gli americani non sono generosi di scorte a ministri e politici; e, neppure, a giudici e dignitari. Quanto ai ‘paperoni’, se la vogliono se la pagano.

Però, le precauzioni variano a seconda dei momenti: subito dopo gli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001, ad esempio, le misure di sicurezza furono intensificate e le scorte aumentate.

In materia, l’Italia ha un primato quasi indiscusso, in Europa e in generale nell’Occidente. Secondo i dati disponibili, i Paesi meno inclini alle scorte in assoluto, nell’Ue, sono Austria e Danimarca, seguiti da Gran Bretagna e Francia. In Austria, un po’ un caso limite, i politici scortati sono solo due: il presidente della Repubblica e il cancelliere federale. Per il resto, chi vuole un servizio di protezione provvede a spese sue o del proprio partito, come fa Heinz-Christian Strache, leader della destra nazionalista.

Londra, Parigi, anche Berlino sono un po’ più prodighi di scorte di Vienna, ma comunque in misura non comparabile con l’Italia. La differenza maggiore tra l’Italia e i suoi partner europei è l’efficacia del meccanismo della revoca, che altrove funziona con una precisione e una puntualità quasi cronometrica (mentre da noi la scorta tende a essere per sempre).

Quando una personalità decade dalla funzione che comporta la scorta, decade –salvo pochissime eccezioni- pure la scorta. Madeleine Albright, segretario di Stato di Bill Clinton, raccontava che si rese conto di non essere più in carica quando salì in auto e l’auto non partì: niente più autista e niente più scorta. La vettura doveva guidarsela da sé e cavarsela nel traffico.

Sulle abitudini nazionali, pesano tradizioni ed esperienza: incide l’impatto del terrorismo, o della criminalità organizzata –le ‘mafie’ nelle loro varie declinazioni sono quasi un prodotto d’esportazione italiano-. E Paesi come la Germania, e anche l’Italia, hanno sperimentato un terrorismo politico teso a colpire simboli dello Stato oltre che del capitalismo, mentre Gran Bretagna e Francia non l’hanno quasi conosciuto. E Parigi e Londra privilegiano meccanismi di protezione modulati in funzione del grado di allarme –il piano Vigipirate francese ne è un esempio-, piuttosto che forme stabili di protezione personale.

domenica 16 febbraio 2014

Italia/Ue: Letta/Renzi, la linea di separazione (o di congiunzione) europea

Scritto per EurActiv il 16/02/2014

La linea europea di congiunzione, o di separazione, tra il Governo Letta e il Governo Renzi passa per le riunioni di lunedì e martedì a Bruxelles dell’Eurogruppo e dell’Ecofin. E scambi di battute hanno già fornito un’anticipazione del confronto che si prepara tra Bruxelles e Roma.

Per l’Italia, all’Eurogruppo e all’Ecofin ci sarà il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni. Sempre a inizio settimana, a Bruxelles è in programma un Consiglio dei Ministri dell’Agricoltura: lì, l’Italia non sarà presente a livello politico. Da quando Nunzia De Girolamo s’è dimessa, nessuno s’è più occupato dell’agricoltura (ammesso che qualcuno se n’occupasse prima).

Dai colleghi europei, a parte saluti più o meno calorosi e attestazioni di stima, Saccomanni non deve attendersi ‘buone uscite’. Anche se volessero mandare segnali di apertura all’Italia (e non è detto che vogliano farlo, mentre il cambio della guardia in atto incrina la credibilità del Paese), i partner dell’Ue non faranno certo concessioni a un governo ‘morto’ e aspetteranno piuttosto di negoziarle con il nuovo governo.

Venerdì, fonti dell’Eurogruppo e dell’Ue avevano ricordato che l'Italia non ha ancora presentato alla Commissione europea documenti utili a ottenere il riconoscimento della clausola di flessibilità per gli investimenti, perdendo quindi, almeno per il momento, il diritto a usufruirne.

Con una nota, il Ministero dell'Economia aveva replicato che "la clausola, così com’è concepita, è di fatto priva d’utilità per l'Italia in quanto richiederebbe una manovra restrittiva pari alla flessibilità concessa, con effetti che sarebbero neutri o negativi sulla crescita nel breve periodo". Come dire che l’Italia non ci perde nulla.

Il programma di revisione della spesa -rilevava il Mef- "è stato comunque discusso con il presidente del Consiglio nel corso della settimana e il Governo sta preparando il materiale analitico necessario ad assumere decisioni eventualmente da comunicare alla Commissione. La Legge di Stabilità per il 2014 ha peraltro già programmato investimenti ritenuti indispensabili per la crescita dell'economia senza dover ricorrere alla ricordata clausola".

Dato un colpo al cerchio, cioè alla Commissione, Saccomanni ne ha però dato uno oggi alla ruota, cioè al Governo che verrà: "La polemica sul tetto del 3% è sterile", ha detto a SkyTg24, osservando  che "nessun paese ha obiettivamente proposto di cambiare il Fiscal Compact, che è un Trattato che l'Italia ha ratificato e che ha messo in Costituzione".

Per il ministro, “si può sempre provare, ma la situazione di partenza non è molto incoraggiante”. Piuttosto, “bisogna insistere perché l'Europa adotti tutti gli strumenti disponibili, tra bilancio e Bei, per dare un segnale forte di sostegno all'attività economica". L’Italia, ha aggiunto Saccomanni, "ha un alto debito: se noi sfondiamo il 3%, il debito tornerà a crescere. Quanto più facciamo disavanzo tanto più il debito va su”.

Venerdì, fonti Ue avevano notato che i termini per la presentazione dell’esito della spending review a Bruxelles scadevano a metà febbraio e che l'Italia, giudicando con una certa fiscalità, non li aveva rispettati.

La Commissione aveva già detto che i conti italiani non sono tali da consentire l'uso della clausola per gli investimenti nel 2014, lasciando tuttavia aperto uno spiraglio a condizione che Roma presentasse una dettagliata spending review entro metà febbraio. In assenza di ciò, la Commissione, presentando a fine febbraio le prossime previsioni economiche, ufficializzerà che la clausola per gli investimenti non sarà utilizzabile per il 2014.

Secondo le fonti, citate dall’Agi, la crisi di governo italiano non cambia il giudizio di Bruxelles sulle misure in corso di approvazione e in particolare sulla spending review: "Non abbiamo niente di nuovo da dire – aveva affermato Simon O’Connor, portavoce del vice-presidente dell’Esecutivo Olli Rehn -. Aspettiamo di conoscere i dettagli della spending review". E "quando il nuovo governo sarà pienamente operativo, potremo analizzarne la politica economica: non possiamo commentarla oggi".

I margini di manovra di politica economica a disposizione del governo italiano sono "trascurabili": aveva dal canto suo detto un alto funzionario dell'Eurogruppo. La questione non sarà, ovviamente, all'ordine del giorno della riunione di lunedì, ma "le sfide economiche vanno oltre i cambiamenti istituzionali e costituzionali" e "l'agenda delle riforme strutturali non cambia".

Il problema, aveva aggiunto la fonte, e' "come l'Italia potrà aumentare il suo tasso di crescita a breve e medio termine, senza mettere a rischio la stabilità finanziaria": infatti, "il margine di manovra è trascurabile", visto il livello del debito pubblico. Secondo il funzionario, allineato, su questo punto, con quanto oggi detto da Saccomanni, "nessun nuovo ministro dell'Economia o nessun nuovo governo può metterlo in discussione". Economicamente, l'Italia si trova, in una "situazione ancora difficile, solida in alcuni settori e molto colpita dalla concorrenza esterna in altre. Le sfide strutturali non sono una cosa che si risolve in uno e due anni".

venerdì 14 febbraio 2014

Visti dagli Altri: Renzi è Bruto, ma Letta non è Cesare

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 14/02/2014
Un Renzi Bruto che fa fuori un Letta piccolo Cesare, chè di paragonare l’Enrico al grande Giulio nessuno ci pensa. La stampa estera, che da giorni stava quasi alla finestra della politica italiana, aspettando che succedesse qualcosa di chiaro, se non di definitivo, oggi si pronuncia: Letta se ne va senza nenie né prefiche, ma Renzi non arriva sul carro del trionfo. Per lui, e per questo momento della politica italiana, gli stereotipi più gettonati sono quelli di Bruto, appunto, e di Machiavelli. E Tony Barber sul Financial Times mescola storia romana e tragedie shakespeariane parlando di “pugnalata al petto”.
Sul Times di Londra, che titola “un colpo di palazzo”, James Bone parla di un “coomplotto degno dell’antica Roma”: e si può perdonare Letta –aggiunge- se ha pensato “Et tu Brute?”.WSJ e NYT, alluni sono, preferiscono, invece, la formula “rivolta di partito”.

Su Twitter, un commentatore britannico esperto di affari italiani, Geoff Andrews, scrive, mentre raggiunge gli studi della Cncbc: “Porto con me una copia del Principe di Machiavelli per parlare della crisi politica italiana”. E Yannis Koutsomitis, che collabora con il World Service della Bbc, parla di “Matteo Brutus Renzi”.

El Pais, invece, descrive una “guerra fraticida” e trasforma Letta in un personaggio asserragliato all’Ok Corral. Per Le Monde, Renzi è “l’uomo che va di fretta”: un “ambizioso che mira al vertice dello Stato”. Sul Guardian, Matteo è “l'affabulatore telegenico che cita Tony Blair come modello”. Sul WSJ, è “il giovane leader di centrosinistra che elettrizza la politica italiana e promette di scuotere lo sclerotico sistema politico dell’Italia”. Molti ricordano che Renzi sta per diventare il più giovane premier dell’Italia repubblicana.

I punti fermi, un po’ per tutti, sono che “Renzi caccia Letta” da Palazzo Chigi –ma nessuno ha ben capito per fare che e con chi- e che le elezioni anticipate non sono sparite dai radar politici.

Renzi, osserva il Times, ha indignato la sinistra incontrando Berlusconi, ma promette ora di guidare un governo più  a sinistra di quello di Letta. Mentre per il FT l’omicidio pubblico di Letta da parte di Renzi, presentato come ‘Demolition Man’, il rottamatore, potrebbe ritorcersi contro di lui: se  questi sono i metodi che il sindaco di Firenze usa per spianarsi la strada, “è ragionevole supporre che prima o poi altri possano utilizzarli contro di lui”.

La Bbc segue la vicenda italiana sul sito in tempo reale, come molti altri media: Renzi “erediterà una coalizione scomoda e difficile da maneggiare”, nota l’analista David Willey. Ci s’interroga sulle reazioni dei potenziali alleati, ma anche delle opposizioni, Forza Italia e M5S; ed emergono patemi e dubbi e diffidenze  dei partner dell’Eurozona, che, nel giro di neppure 30 mesi, si saranno trovati di fronte quattro premier italiani, uno solo dei quali eletto: c’è l’attesa di riforme, ci sono perplessità sulla capacità e la volontà e la possibilità di Renzi di farle.

giovedì 13 febbraio 2014

La ragazzina di Cittadella, le colpe della rete, l'utopia di internet sicuro

Scritto per Media Duemila online il 12/02/2014

Il suicidio di una ragazzina di 14 anni, angariata sul web e incitata a uccidersi, è una notizia che dà drammatica attualità alla giornata dell’internet sicuro per l’infanzia celebrata martedì 11 febbraio. La vicenda di Cittadella è esplosa sui media proprio quel giorno: l'adolescente s’è lanciata nel vuoto domenica scorsa, dal tetto di un albergo abbandonato. I genitori, messi in allarme da un biglietto alla nonna, l’hanno trovata già senza vita.

La rete aveva esasperato i patimenti della sua età, anziché lenirli. Lasciata dal fidanzatino e turbata da messaggi del tipo "Fai schifo come persona", la ragazzina non ha più saputo porre freno agli impulsi autolesionistici –s’era già tagliata le vene dei polsi-. E l'ha fatta davvero finita.

Sotto accusa, il social network 'Ask.fm', cui la teenager era iscritta: un sito al centro di polemiche anche in Inghilterra per un suicidio analogo, su cui coetanei o presunti tali si facevano gioco del mal di vivere dell’adolescente, la spingevano oltre. "E' meglio se mi suicido?", chiedeva lei. E c’era chi la incitava a farlo, a suon di odio, insulti, disprezzo.

Quello dei ragazzini che si tolgono la vita, per conflitti familiari, mancanza di accudimento, sofferenze legate alla propria omosessualità, è un fenomeno in espansione. Un'indagine del Servizio prevenzione suicidio dell'Ospedale Sant'Andrea di Roma - Università La Sapienza indica che dal 1971 al 2008 ci sono stati in Italia 374 i suicidi di ‘under 14’, con qualche caso sotto i dieci anni. La rete, è chiaro, non è all'origine dei problemi, ma alcuni siti e alcuni ‘social media’, invece di contrastare il disagio, vi si accaniscono.

L’Italia è uno dei cento Paesi a celebrare da dieci anni la giornata dell’internet sicuro per l’infanzia –per la prima volta, quest’anno vi hanno aderito gli Stati Uniti-, nel segno dell’interrogativo: “Internet a misura di bambino: utopia oppure obiettivo concreto?”. Sostenuta dalla commissaria Ue per l'Agenda digitale Neelie Kroes, l'iniziativa è condivisa da tutti i 28 Paesi dell’Unione.

Il coinvolgimento statunitense e l'impegno di una trentina di colossi di Internet (la cosidetta "CEO Coalition"), come Google, Apple, Telecom Italia e molte altre aziende, a intercettare ed eliminare i contenuti pericolosi, rappresenta un passo avanti.

In Italia, il Centro per l'Internet sicuro, chiamato "Generazioni connesse", esiste dal novembre 2012: è coordinato dal ministero dell'Istruzione e ne fanno parte Save the Children, Telefono Azzurro, il Garante per i diritti per l'Infanzia, in collaborazione con la cooperativa sociale EDI e con il Movimento Difesa del Cittadino.

“Le ‘tagliole’ per ragazzi e adolescenti che frequentano i ‘social network’ sono dietro l'angolo –scrive su EurActiv.it Alessandra Flora-, come emerge dall'ultima preoccupante indagine” del centro di ricerca Ipsos per Save the Children, realizzata in occasione della giornata 2014. “Un tempo erano la strada o i mezzi pubblici i luoghi ove s’annidavano i pericoli maggiori per bambini e adolescenti, dovuti al contatto con lo sconosciuto”. Ora, l’insidia li raggiunge in casa, al computer. Progetti come il sito “Generazioni connesse”, rivolto a genitori ed educatori e ai ragazzi stessi, ma anche iniziative di sensibilizzazione nelle scuole, provano ad offrire una risposta, o almeno uno scudo.

mercoledì 12 febbraio 2014

Italia/Ue: 2014; anniversari, tra spartiacque e confluenza

Pubblicato da AffariInternazionali il 12/02/2014

L’anno europeo degli anniversari ‘pesanti’ era stato posto sotto l’egida di parole importanti, in vista delle elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo e della presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue, dal 1° luglio al 31 dicembre. Di anno spartiacque, aveva parlato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; di anno di svolta, il premier Enrico Letta e pure il presidente, intervenendo, il 4 febbraio, alla plenaria dell’Assemblea di Strasburgo. “Spartiacque” e “svolta”, per l’Unione, tra il rigore e la crescita, i sacrifici e l’occupazione.

A cento giorni dalle elezioni europee, la diplomazia italiana comincia a mettere dell’acqua nel vino, non sempre buono, della politica: così, lo “spartiacque” diventa “confluenza” –sperando che almeno sia quella al Ponte della Becca del Ticino della crescita nel Po del rigore, non quella d’un rigagnolo nel grande fiume-; e la “svolta” diventa “correzione di rotta”, perché “l’Ue è come una nave, che basta toccare il timone e vira di molto, ma molto lentamente”.

Realismo a fronte di retorica: nessuno s’illude che l’Unione europea, dopo le elezioni di maggio ed il rinnovo delle Istituzioni –la Commissione e i vertici del Consiglio-, abbandoni il rigore e punti senza vincoli di bilancio sulla crescita e l’occupazione; come tutti sanno che la presidenza italiana, stretta nelle scadenze istituzionali, non potrà davvero cambiare le cose. 

Elaborazioni intellettuali a margine delle intense celebrazioni dei trent'anni del Progetto Spinelli: l’approvazione, il 14 febbraio 1984, a larga maggioranza, nel Parlamento europeo, del progetto di Trattato per l’Unione europea è stata ricordata a Strasburgo dal presidente Napolitano; e viene pure celebrata a Roma, proprio il 14, con un evento promosso dal Cime, il cui presidente Virgilio Dastoli fu vicinissimo a Spinelli e visse tutta l’avventura del ‘Club del Coccodrillo’, dal nome del ristorante di Strasburgo dove gli eurodeputati europeisti si riunivano.

Quel progetto era un documento visionario, come lo era stato il Manifesto di Ventotene: allora, l’Europa era solo una somma di Comunità ancora alle prese con il problema britannico. Spinelli, nonostante le perplessità e le ostilità di molte forze, fu capace di anticipare e, in qualche misura, innescare l’evoluzione dalla Comunità all'Unione.

Oltre che i trent’anni del Progetto Spinelli, ricorrono, nel 2014, i sessant'anni dal fallimento senz'appello della Ced, la Comunità europea di difesa, che doveva nascere dopo la Ceca, ma che fu definitivamente affossata, il 30 agosto 1954, dal voto contrario dell’Assemblea nazionale francese; e, ancora, i cent’anni della Grande Guerra, il cui tragico ricordo dovrebbe contribuire a ravvivare e rinsaldare, nei cittadini europei, le ragioni dell’integrazione –data simbolo è il 28 giugno, il giorno dell’attentato di Sarajevo in cui furono uccisi il Gran Duca Ferdinando d’Austria e la moglie Sofia e che divenne il ‘casus belli’-.

A Strasburgo, la giornata europea a 360 gradi del presidente Napolitano era comincia da Spinelli e con Spinelli s’era chiusa. In mezzo, parole, applausi, polemiche. Della candidatura di Spinelli nelle liste del Pci alle prime elezioni europee a suffragio universale,  nel 1979, Napolitano era stato uno dei fautori, insieme a Giorgio Amendola.

Il presidente mancava da Strasburgo dal 2007. Ci è tornata alla fine di una legislatura di crisi, forse la più travagliata dell’Assemblea comunitaria. Guardando al voto di maggio e al semestre italiano, Napolitano porta un messaggio di discontinuità per l’Europa e un auspicio di continuità per l’Italia: discontinuità –appunto- tra rigore e crescita, tra conti in ordine e ai posti di lavoro; e continuità perché in Italia –dice- il governo non subirà contraccolpi dalle elezioni europee.

... di qui prosegue lungo falsariga post dello 05/02/2013 ...

Media: Usa, l'esodo delle grandi firme ai siti 'no profit'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/02/2014

Continua la diaspora delle grandi firme dal giornalismo più tradizionale e, anche negli Stati Uniti, più paludato, quella della carta stampata e delle testate per antonomasia ‘autorevoli’. Bill Keller, direttore del New York Times dal 2003 al 2011, attualmente editorialista, lascia il giornale dopo trent’anni.

Keller, 65 anni, vinse il Pulitzer nel 1988 per le corrispondenze da Mosca, dove raccontò la glasnost di Gorbaciov e, poi, le vicende che nel giro di tre anni portarono al crollo del Muro, al disfacimento dell’Impero sovietico e allo smembramento della stessa Urss.

Più che dirigere, a Keller piace scrivere: nel 2011, lasciò a Jill Abramson, una donna, la direzione della Old Gray Lady, come il NYT è affettuosamente chiamato dai suoi lettori, e annunciò che sarebbe tornato a scrivere a tempo pieno.

E continuerà a scrivere anche ora, guidando e animando una nuova testata ‘no-profit’ che s’intitola ‘The Marshall Project’ e che intende occuparsi della criminalità e della giustizia negli Stati Uniti: una ‘start up’ di prestigio, sul modello di ‘ProPublica’, un sito dedicato alle "investigative news", fondato dall'ex direttore del Wall Street Journal Paul Steiger e divenuto nel 2011 il primo media online a vincere il Pulitzer.

E’ lo stesso modello cui s’ispira l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), che è una costola del Center for Public Integrity e che si autodefinisce “il miglior team transnazionale al mondo del giornalismo d’inchiesta”.

L’addio di Keller alla carta stampata segue quello di altri famosi giornalisti: negli Usa, li chiamano "brand journalists”, sono più che grandi firme, hanno nomi capaci di rendere da soli credibile un’iniziativa editoriale. Fra quelli che hanno lasciato testate prestigiose per mettersi in proprio, vi sono Glenn Greenwald, un ex di The Guardian, il filtro tra la talpa del Datagate Edward Snowden e il grande pubblico, passato a dirigere il nuovo sito anti-segreti finanziato dal fondatore di eBay Pierre Omidyar; Nate Silver, sempre del NYT; ed Ezra Klein, del Washington Post, che ha puntato su un nuovo progetto editoriale finanziato dal gruppo Vox.

L’obiettivo comune è cercare e creare alternative all’informazione tradizionale, ma anche a come viene fatta l'informazione online, una nuova frontiera del giornalismo il cui terreno va ancora scoperto ed esplorato. Molteplici le formule finora tentate: dai siti alla DrudgeReport, che danno risonanza a notizie altrui e le condiscono ogni tanto con una propria ‘chicca’, a forme di quotidiano online evolute, come l’Huffington Post; dai bloggers che nascono come aspiranti ‘opinion leaders’ e diventano ‘opinion makers’ –il prototipo: politico.com- alle start up da citizens journalists sempre alla ricerca di una faticosa legittimazione editoriale e imprenditoriale. Intanto, le testate tradizionali hanno superato la fase della banale trasposizione del prodotto cartaceo sul web e si sono attrezzate ai modi e ai tempi dell’informazione in divenire, che anticipa il prodotto cartaceo e lo batte per la tempestività delle notizie e la varietà degli argomenti;

Alcune iniziative nascono autonome (e, magari, diventano poi parte di progetti editoriali più vasti; o, muoiono). Altre partono già inserite in conglomerati dell’informazione. Altre, ora, scelgono la strada molto americana del ‘no profit’, fidando in sponsor disinteressati e munifici, magari attirati dalla credibilità e dal prestigio di grandi firme (e Steiger e Keller sono due ottimi ‘testimonial’). E, infine, anche nel panorama puritano americano, non mancano le ‘fabbriche di marchette’, cui noi siamo assuefatti.

Keller aveva avuto qualche problema con il NYT per una rubrica dedicata alla "buona morte". Ma non pare che la decisione sia frutto dello screzio: l’editorialista, che lascerà ai primi di marzo, è stato attirato da ‘The Marshall Project’, creato l'anno scorso da Neil Barsky, ex giornalista del WSJ, divenuto "money manager" a Wall Street.

Barsky e Keller vogliono aprire un dibattito sulla giustizia negli Usa. Il sito è tuttora in costruzione e dovrebbe debuttare a metà anno. Come per ProPublica, i fondi dovrebbero venire da fondazioni e donatori: budget previsto, 5 milioni di dollari l'anno, per uno staff di una trentina di persone.

martedì 11 febbraio 2014

Ue/Svizzera. larghe intese contro euro-scetticismo, mazzata finale

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/02/2014

C’è chi paventa che il referendum svizzero sia l’avanguardia della valanga euro-scettica che, con le elezioni di maggio, potrebbe abbattersi sull’Ue. E c’è chi lo spera. I primi cercano di tirare su dighe e ripari. I secondi preparano l’attacco alla diligenza dell’integrazione, tirata avanti a passo lento da vecchi ronzini.

Al Parlamento europeo, popolari e socialisti hanno avuto una bella pensata: contro l’euroscetticismo, mettere in campo le larghe intese. Una Santa Alleanza tra i due maggiori gruppi dell’Assemblea di Strasburgo, oggi e –si calcola- pure dopo il voto, per prendersi tutto, senza stare a spartire con terzi incomodi cariche e commissioni, attualmente suddivise con i liberali e le altre forze che “giocano il gioco” europeo.

A Bruxelles, ci si attende a maggio un testa a testa tra Ppe e Pse per il gruppo più numeroso, mentre si dà per scontato che i rapporti di forza fra i gruppi a seguire, liberali, Verdi, sinistra, conservatori, subiranno modifiche. E gli euro-scettici potrebbero diventare la terza forza, ma potrebbero lo stesso faticare a trovare una collocazione nell'aula, a causa delle regole per la formazione di un gruppo: ci vogliono almeno 25 deputati e di almeno sette Paesi diversi.

I funzionari agitano lo strumento del regolamento e puntano sul fatto che gli euro-scettici, di destra e di sinistra, non si metteranno mai insieme, anche se le loro reazioni corali al referendum elvetico fanno piuttosto pensare il contrario: i ‘confederati’ Marine Le Pen, Matteo Salvini e Geert Wilders fanno coro; e persino il britannico dell’Ukip Nigel Farage, che più che con loro potrebbe apparentarsi ad Alba Dorata, condivide il loro entusiasmo, “fantastico”.

L’impressione è che calcoli e considerazioni di eurodeputati ed eurocrati sottostimino l’impatto degli euro-scettici e sopravvalutino la portata delle pastoie burocratiche. E le larghe intese, trapiantate dai Parlamenti nazionali a quello europeo, paiono la ricetta giusta per allontanare ulteriormente i cittadini dall’Unione, deludendoli –e annoiandoli- con un ‘grande inciucio’.

Il giorno dopo il referendum che reintroduce in Svizzera  le quote sugli stranieri, Unione e Confederazione appaiono in rotta di collisione, anche se Berna frena –i tempi sono lunghi- e Bruxelles mitiga l’irritazione con l’ironia: “Il mercato unico non è un gruviera tutto buchi", dice Viviane Reding, vice-presidente della Commissione europea e responsabile della Giustizia.

E’ minacciata la libertà di circolazione delle persone nell’area di Schengen, di cui la Svizzera fa parte pur stando fuori dall’Unione: un principio che l’Ue non intende rimettere in discussione. L’Esecutivo di Bruxelles fa sapere che  “esaminerà le implicazioni del referendum in tutti i suoi aspetti” e osserva che, per il momento, gli accordi esistenti restano in vigore.

I Grandi dell’Ue vedono “grossi problemi”, proprio mentre Bruxelles e Berna negoziano su fisco e banche. Ne discutono i ministri degli Esteri dei 28: Emma Bonino è “preoccupata”. Gli eurodeputati sono caustici: il presidente dell’Assemblea Martin Schulz accusa gli svizzeri di volere trarre vantaggio dell’Unione senza pagarle dazio; e Hannes Swoboda, capogruppo socialista, parla di “un passo indietro”. Ma in Francia il partito dell’ex presidente Sarkozy cavalca il populismo.

E c’è rischio di un effetto domino: in Italia, la Lega, incurante del fatto che i frontalieri colpiti siano soprattutto i ‘suoi’ comaschi e varesini, agita l’idea d’un referendum. Pur se la situazione elvetica è diversissima dalla nostra: nel 2013, quasi 2 milioni di svizzeri erano stranieri, il 23,3% su 8 milioni di abitanti, quasi quattro volte la percentuale degli stranieri in Italia –meno del 7%-.

Risicato il risultato (il sì vince con il 50,3%, appena 19 mila voti), spaccata la Confederazione: 9 cantoni a favore, i tedeschi e il Canton Ticino; 8 contro, i francesi. La Svizzera italiana è la più radicale: 68% di sì. Gli italiani, del resto, sono gli stranieri più numerosi, 290 mila, oltre a 65mila frontalieri.

 L’iter: e ora che accade

Il risultato del referendum contro l’immigrazione di massa promosso dall’Udc, un partito di destra, conservatore, deve essere applicato entro tre anni: il governo elvetico deve preparare una legge d’attuazione e sottoporla al Parlamento. Sia i ministri che i deputati di Berna avevano espresso parere contrario all’iniziativa popolare. Entro il 2016, vanno cioè rinegoziati i trattati internazionali –sono sei quelli con l’Ue- che contrastano con il principio ora affermato secondo cui “la Svizzera gestisce autonomamente l’immigrazione degli stranieri”. I cittadini elvetici accettarono il principio della libera circolazione delle persone con un altro referendum, nel 2000. Ora, invece, vogliono limitare i permessi di dimora per stranieri attraverso “tetti massimi e contingenti annuali”, applicati a tutti, inclusi cittadini dell’Ue, frontalieri e richiedenti asilo.